Archivio mensile:febbraio 2017

994 .-La vera storia dello sbarco in Sicilia

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La HMS Warspite apre il fuoco contro le coste siciliane poco prima degli sbarchi anfibi

Abbiamo già scritto di Biscari, della strage dei carabinieri e dei fanti prigionieri italiani, falciati con le braccia alzate dai mitra dei marines e dei fanti della 82ª divisione americana, arresisi dopo un molto onorevole combattimento. Il maiale che dette questi ordini si chiama George Patton, comandante della 7ª Armata, un generale che avrebbe dovuto sedere sui banchi di Norimberga, molto diverso da Eisenhower. In Sicilia, dove la mafia si incarica di ammazzare gli ufficiali delle batterie costiere la sera prima dello sbarco, accaddero molti fatti eroici, come lo sfilamento impavido, sotto il fuoco dei cannoni alleati delle divisioni mobili Aosta e Assietta che andavano a schierarsi davanti alle teste di sbarco e tanti altri. Il mito della Liberazione Viva la sincerità: ci invasero per “punirci” non per “liberarci”. Era giusto così: c’est la guerre, come dicono i francesi. Ovvero: Vae Victis. Il mito della “liberazione” fu costruito dopo la nostra capitolazione, per ragioni squisitamente politiche e di propaganda. Il contenuto vero della “liberazione” per gli Alleati fu sempre costituito dalla “punizione”, che si attuò finalmente nel durissimo Trattato di Pace del 1947. In totale tra morti, feriti, dispersi, prigionieri le perdite italiane assommarono a 130.000 uomini, quelle tedesche a 37.000 uomini; fra le perdite materiali 260 carri armati, 500 cannoni e un numero imprecisato di aerei. Gli alleati persero non meno di 8.000 uomini, fra morti e dispersi, 103 carri armati, 96 mezzi da sbarco e 274 aerei. Alle crude cifre dei morti e dei dispersi militari vanno aggiunte le stragi dei civili, la rovina delle città e delle campagne; i bombardamenti avevano distrutto acquedotti, centrali elettriche, strade ferrate , mancava quindi l’acqua, l’energia elettrica, i treni non viaggiavano, le campagne isterilivano, il bestiame moriva e le città erano sommerse da cumuli di macerie. I bombardamenti avevano distrutto 250.000 abitazioni, 15.000 vani rurali, migliaia di automezzi, strade, per non parlare del patrimonio zootecnico e di oliveti, vigneti, agrumeti e quant’altro. Francesca Donato, da grande italiana, ci riporta a quei giorni con questo scritto.

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Sulla spiaggia di Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia, divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia, cancella i ricordi, le immagini, i momenti”.

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A  Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”

Il recente episodio evoca in modo simbolico un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato da parte dei soldati alleati.
Le cose andarono molto diversamente. Ad esempio, è stato rimosso quasi del tutto il sacrificio della divisione “Livorno” che, insieme alla “Napoli” si fece massacrare mettendo forse a rischio l’intero sbarco alleato. In secundis, solo da qualche anno, si comincia a parlare delle collusioni tra Forze armate Usa e la mafia italoamericana di Lucky Luciano; il recente film di Pif “In guerra per amore” per quanto sotto le vesti di una commedia romantica, ha avuto il merito di portare finalmente al grande pubblico, in una veste “accettabile”, questo scottante tema. Se pressoché nulla si è divulgato del ruolo preciso che la mafia ebbe nel sabotare quasi un terzo del sistema difensivo italiano, ancor meno è filtrato, alla coscienza collettiva, sulle stragi dimenticate e impunite compiute dai militari americani su civili e prigionieri italiani. Cercheremo di sintetizzare il tutto con i dati provenienti dalla più qualificata e aggiornata letteratura storica dedicata al tema.

L’annichilimento della mafia e l’assalto al latifondo siciliano
Poco si può comprendere dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto. Nel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino (quindi era stato graziato). Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze.

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       Il traditore mafioso Calogero Vizzini. Gli ufficiali delle batterie costiere furono assassinati con un colpo sparato alle spalle la notte prima dello sbarco.

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Il gangster Lucky Luciano

I servizi segreti Usa si avvalgono di Lucky Luciano
Nel frattempo, come scrive Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti si creava il legame tra US Navy e mafia italoamericana. Fin dallo scoppio della guerra, nel ’39, gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi, importanza strategica e si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e italiane. Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano. Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza.

La collaborazione con la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa. I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden.

Del resto, anche l’avvocato di Lucky Luciano, Moses Poliakoff, ammise tranquillamente: “Nel 1942, il procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del Controspionaggio della US Navy intendeva chiedere a Luciano una “certa assistenza”. Mi chiesero se ero disposto a fare da intermediario”.

Le foto che svelano i mafiosi “embedded” nelle forze armate Usa
Un altro servigio reso da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia (operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss) il servizio segreto statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella Trinacria, fossero ostili al regime, non ultimi gli influenti membri del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia.

Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini, il quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis – e dei mafiosi – a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che, dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938. Lo ritroviamo in una fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano, mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero. Lo stesso vessillo è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto del 2010 – del tutto inedita – scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e strisce. La vicenda dell’emblema con la “L”, per quanto già nota a livello locale, non è mai stata presa sul serio a livello della storiografia nazionale. La foto che pubblichiamo fuga ogni dubbio: c’erano anche “loro” e, ancor oggi, qualcuno tiene a ricordarlo agli americani.

Come la mafia sabotò due divisioni del Regio esercito
Uno dei più efficaci provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” – quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani – il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli anglo-americani”. Le due divisioni schierate inizialmente, l’”Aosta” su Trapani e l'”Assietta” su Marsala, effettuarono, comunque, una manovra brillante e coraggiosa defilando sotto il fuoco navale per prendere posizione.

I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente – perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza (In Sicilia fu Desistenza) e, nel nord Italia, dimostrarono grande spirito combattivo. L’Anpi faccia tutti i convegni che crede, ma i testimoni hanno detto chiaro che i combattenti, anche quelli della Sicilia, del Regio Esercito e della Milizia, non erano animati da alcun furore politico.

Il guiderdone della mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot). Dopo aver lucrato con il mercato nero durante il conflitto, Cosa nostra comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto con il traffico di stupefacenti.

L’eroismo dimenticato della “Livorno“ e della “Napoli”
Al momento dello sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia.

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Il generale che ha disonorato l’esercito statunitense.

Patton ordina il reimbarco?
A quanto riferisce il generale Alberto Santoni in una pubblicazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, Patton fu colto dal timore e diramò ai suoi persino l’ordine di prepararsi a un possibile reimbarco. Per quanto la circostanza fu poi negata dall’interessato e dal Pentagono, il testo del radiomessaggio, intercettato dal comando italiano di Enna, “dovrebbe trovarsi – scrive Santoni – ancora negli archivi dell’Esercito”.

Dietro nostra richiesta, l’Ufficio storico dell’Esercito non ha ritrovato il documento citato, ma ha prodotto una importante nota del Comando della XVIII Brigata Costiera che riporta, alle ore 15.00: “E’ stato notato che i natanti (Usa) vanno e vengono dalla spiaggia di Gela, si ha l’impressione che il nemico riprenda rimbarco”. Come sottolineato dallo stesso Ufficio storico, però, il generale Emilio Faldella scrive, invece, di una intercettazione contemporanea relativa a una semplice richiesta di rinforzi da parte di Patton. L’episodio sembra, però, ancora riconfermato, nelle sue memorie, dal tenente della “Livorno” Aldo Sampietro che ricordava l’istante di speranza in cui vide “carri armati americani ripiegare verso la spiaggia per reimbarcarsi”. Anche Raffaele Cristani, un altro ufficiale reduce, riporta: “Fino a quel momento gli americani si erano sempre ritirati di fronte ai nostri battaglioni, tanto che ci fu un momento in cui sembrò che stessero per ritirarsi”.

Se è vero, come riportano varie fonti, che la Livorno stava per costringere gli americani alla ritirata nel settore di Gela, questo avrebbe potuto compromettere l’intera invasione. (Quanto alla terminologia, va osservato che gli stessi angloamericani si consideravano degli “invasori” come si legge nella Soldier’s Guide of Sicily, distribuita alle loro truppe).

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Nell’arco di terra tra Licata e Siracusa si riversarono 160.000 soldati

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La flotta d’invasione, Ben 96 mezzi da sbarco furono centrati dalle batterie costiere.

L’uragano di fuoco navale
Le truppe da sbarco di Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò, allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 381 mm che “aravano” letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli aerei americani della Tunisia e quelli inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera, infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”.

Fu una carneficina per i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi fischiavano sulla nostra testa”. In questo frangente gli statunitensi richiesero l’appoggio dell’incrociatore USS Savannah, che colpì duramente gli italiani con i suoi pezzi da 152 mm annientando definitivamente la “Livorno”; dopo poco si unirono anche il gemello USS Boise e diversi oltre agli obici da 105 mm, che i DUKW sbarcarono precipitosamente allo scopo di fornire la fanteria di armi capaci di minacciare i reparti corazzati del generale Conrath.

In totale, la “divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni, lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400 effettivi.
Anche nel settore inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe “Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi sul fiume Simeto.

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Campobello di Licata, CLXI gruppo, 11 luglio 1943 uno dei tre potentissimi semoventi italiani (M41 da 90/53 mm) perduti quel giorno. L’equipaggio viaggiava su un carro armato leggero L6/40 opportunamente modificato come portamunizioni. L’ultimo di 16 cannoni semoventi del 10º Reggimento controcarro fu distrutto mentre combatteva rimorchiato da un camion. Altri due avevano raggiunto Messina, vi furono catturati e portati ad Aberdeen, negli USA, dove uno è tuttora in mostra. Benché potente, non era un vero cacciacarri e sparava i normali perforanti della Marina.

Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che, pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese.

Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore – per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito (escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare.

Un noto cantastorie siciliano, Francesco Paparo di Paternò, in arte Cicciu Renzinu, ha scritto la ballata del caporalmaggiore Cesare Pellegrini, medaglia di bronzo alla memoria, che a Gela bloccò per diverso tempo i rangers con la sua mitragliatrice, abbattendone un certo numero, prima di essere ucciso a pugnalate sull’arma, e del già ricordato tenente dei carristi Angelo Navari, medaglia d’argento alla memoria, ambedue “tosti versigliesi” . Ma voglio rammentare, tra gli altri valorosi caduti, la camicia nera Francesco Faraci, di Gela, che, in un convulso combattimento notturno, mise in fuga assieme alla sua pattuglia i paracadutisti nemici ed il cui corpo fu ritrovato all’alba decapitato; il tenente catanese Filippo Lembo, del 490° battaglione costiero, ucciso a pugnalate dai rangers (che ne sfregiarono il volto) dopo aver esaurito le munizioni della sua pistola, avendo prima difeso con i suoi uomini le postazioni dei giardini comunali; il sottotenente Luigi Ignazio Adorno di Noto, del 374° battaglione costiero, medaglia d’oro alla memoria, che cadde con la pistola in pugno al comando con ventidue uomini del posto di blocco n. 418 sulla strada Avola-Noto, dopo che il suo plotone, quasi tutto distrutto, aveva inflitto sensibili perdite ai paracadutisti britannici che avevano circondato la posizione. Da ultimo, il capitano della Regia Aeronautica Franco Lucchini di Roma, medaglia d’oro alla memoria, che “scomparve nel rogo del suo Macchi 205 come un eroe mitico”, mentre attaccava, con altri cinque caccia, una formazione composta da centinaia di bombardieri e caccia nemici, sul cielo di Catania. “Del suo corpo fu ritrovata solo la mano sinistra fra i rottami del velivolo. Essa fu riconosciuta dalla fede che portava all’anulare”.

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La stragi sconosciute dei prigionieri italiani
Ai soldati che caddero prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti. Sono, purtroppo, diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali! » Molti subalterni lo presero alla lettera, come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton, solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco.

A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca, richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.

La battaglia delle divisioni costiere.

Evidentemente, l’impiego delle divisioni costiere fu concepito quando ancora non si aveva nozione della potenza di fuoco della quale erano capaci gli anglosassoni, fruendo sempre di una poderosa protezione aeronavale.

alfredo_guzzoni         La strategia del generale Alfredo Guzzoni, nostro valido comandante tenne conto dell’intuibile grande disparità delle forze, e della scarsità di valide forze di difesa (anche i tedeschi erano poco numerosi). Se non si voleva ritirarsi subito verso l’interno, fortificandosi sulle montagne, cedendo però di fatto la Sicilia occidentale al nemico, bisognava tentare di colpirlo subito dopo lo sbarco, mentre era nella delicata fase del dispiegamento. Non c’era scelta, anche se le antiquate artiglierie assegnate alle difese costiere avevano una gittata di soli 7 km (le navi nemiche sparavano da 15 km di distanza ed oltre) mentre le difese sulle spiagge erano incomplete. Erano minati tratti di spiaggia ma non le acque antistanti. I molti piccoli bunker costruiti, anche a regola d’arte e ben situati, non erano protetti tutt’intorno da filo spinato o altri strumenti per impedire al nemico di prenderli alle spalle, come poi effettivamente avvenne, sterminando i difensori con lanci di granate (anche al fosforo) attraverso le feritoie. Mancavano i materiali, dall’inizio dei bombardamenti in Sicilia non arrivava più niente. E tuttavia, nota lo storico militare Fabrizio Carloni, al quale si devono alcuni tra i rilievi appena riportati, a Gela la strategia di Guzzoni stava per riuscire. I rangers della 1ª divisione di fanteria americana (diventata poi famosa come “Grande Uno Rosso” o “Big Red One”) ci misero circa cinque ore di duri combattimenti ad impadronirsi di Gela, cittadina prospiciente la spiaggia, subendo perdite consistenti anche se mai dichiarate (alle 8,02 del mattino la stazione radio di Gela lanciò l’ultimo messaggio: “Siamo circondati”; l’ultimo cannone rimasto indenne sparò sul nemico fino all’inizio del pomeriggio e i suoi serventi caddero quasi tutti sul pezzo, come quelli del resto della batteria, nel frattempo distrutta). Allora: “I fanti costieri italiani si batterono bene a Gela e, se avessero potuto contare su un dispositivo difensivo meglio organizzato, avrebbero dato probabilmente modo alle riserve mobili alla mano e a quelle strategiche di ributtare gli americani a mare”. Affermazioni che colpiscono. Forse azzardate? Vediamo.

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Un carro leggero R35 (Renault del Gruppo Mobile E

La riserva mobile ossia il Gruppo Mobile E stanziato a Niscemi, località a circa 15 km in linea d’aria da Gela. Uno degli otto costituiti da Guzzoni, formato da 12 superati carri francesi R35 (Renault, preda di guerra, passatici dai tedeschi, tra i pochi disponibili per le ragioni spiegate sopra), da un gruppo anticarro da 47 mm., gruppi di artiglieria, fanteria, bersaglieri motociclisti, si mise in marcia alle 5,30 del mattino, due ore e quindici minuti dall’inizio dello sbarco, e “alle 7 era al passaggio a livello di Gela”. Ma era stato scoperto dai ricognitori nemici, abbattuti poi dai tedeschi, e investito dalle poderose bordate partite dalle navi, che l’avevano assottigliato e in parte disperso, nonché dal fuoco dei rangers ormai alla periferia di Gela, che aveva distrutto i piccoli semoventi. Dei cinque R35 che giunsero alla periferia di Gela senza la fanteria di appoggio dispersa dal fuoco delle navi, due vi si slanciarono dentro schiacciando i rudimentali sbarramenti stradali opposti in fretta dal nemico. La loro meta era la spiaggia. Pur lenti com’erano, seminarono il panico tra i soldati americani, privi di anticarro, che si rifugiavano nelle stradine laterali e nelle case, sparacchiano ai due carri anche da qualche tetto. Sembra che alcuni di loro, avvicinandosi il mezzo del tenente Navari al comando USA appena stabilito nell’albergo Trinacria, “si siano precipitati attraverso la discesa del Bastione verso la spiaggia gridando ai camerati incontrati via via per strada: ‘Come on, come on…Germans’”. Il primo carro fu immobilizzato alla fine dal colpo di un bazooka fatto venire velocemente su dalla spiaggia; l’altro si fermò per collasso del motore a 300 metri dalla spiaggia. L’unico superstite del primo, il carrista Antonio Ricci, fu preso prigioniero; l’unico superstite del secondo, il tenente Angelo Navari, fu falciato dagli americani mentre tentava di uscire dal carro, secondo alcuni testimoni con la pistola in pugno. Ora: se una migliore organizzazione difensiva (sicuramente alla nostra portata) avesse consentito ai fanti costieri di bloccare i rangers sulla spiaggia per quelle cinque ore, il gruppo mobile, anche dimezzato dal fuoco navale, avrebbe potuto investire i nemici con alcuni carri e semoventi direttamente sulla spiaggia, creando loro enormi problemi, ancora disorganizzati com’erano, senza carri armati e con pochissimi anticarro. E dietro il Gruppo mobile si stava già muovendo la riserva strategica cioè la Livorno. La tesi di Carloni non appare quindi azzardata.

A Gela c’era il 429° battaglione costiero, al comando del maggiore Rubellino. Durante la tempestosa notte del 9 luglio furono lanciati paracadutisti americani (della poi famosa 82ª divisione) nella piana circostante al fine di scompaginare le nostre difese. “Il vento soffia a 50 km/h e la contraerea italiana non concede requie [abbatté otto aerei e ne danneggiò venti], i piloti dei Dakota s’innervosiscono, non vedono l’ora di mollare la missione e sbagliano quasi tutte le zone di lancio. Nelle campagne siciliane piovono americani, dispersi in un’area di almeno 120 chilometri quadrati. I soldati delle divisioni costiere e i Carabinieri vanno a caccia di paracadutisti nella notte. L’intera operazione si frammenta in una serie di episodi isolati. Sul piano militare l’attacco è un fallimento […]. Le perdite sono elevate, sia in termini di vite umane che di prigionieri. A Scicli gli italiani catturano o mettono fuori combattimento più di cento paracadutisti “. Una parte dei paracadutisti si riorganizzò, mettendo a segno dei colpi di mano che crearono “una certa confusione tra i comandi italiani, ma è esagerato affermare che abbiano addirittura determinato un collasso delle difese [come sostiene la storiografia anglosassone]. Se lo scopo dei lanci è prevenire la possibilità di un contrattacco e impedire le comunicazioni tra le diverse linee di difesa, bisogna dire con chiarezza che nessuno di questi obiettivi viene raggiunto. Inoltre anche tra gli Alleati il caos è totale […] Altri lanci finiscono sui centri abitati dove a volte gli italiani si abbandonano a un feroce tiro a segno”. Alla “caccia al paracadutista” parteciparono anche volontari civili armati. Molti aerei furono abbattuti per errore dal “fuoco amico” della flotta.

Il 429° costiero, composto da circa 400 uomini, dovette alla fine ritirarsi a tre km. dall’abitato dopo duri combattimenti, lasciando sul campo quasi il cinquanta per cento degli effettivi: 17 ufficiali e 180 soldati. Le batterie costiere, pur con la loro limitata portata, spararono sempre sui mezzi da sbarco, per essere poi rapidamente distrutte (assieme alle fotoelettriche, che avevano inquadrato più volte la flotta nemica) dal micidiale fuoco di controbatteria delle navi nemiche. Alcuni mezzi da sbarco (96) furono affondati, pieni di soldati (15 per ogni mezzo). Dell’affondamento di uno, senza superstiti tranne il pilota, c’è la testimonianza diretta di un ex combattente americano. I reduci americani ricordavano la rete di traccianti azzurre delle mitragliatrici e il fuoco dei mortai che li investiva dalla riva. A Scoglitti ci furono duri combattimenti contro la 45ª divisione americana, fronteggiata dal 178° reggimento costiero. Pur rimasto quasi privo di artiglieria, combatté sino all’annientamento di diverse sue postazioni, assieme a Carabinieri e Guardia di Finanza. Nessuno si arrese. Nell’assalto al suo ultimo posto di blocco, gli americani perdettero circa trenta soldati. “Le perdite complessive americane durante la notte dello sbarco [comprese quelle dei paracadutisti] non sono mai state rese note. L’unico dato disponibile riguarda i caduti nella sola zona di L i c a t a dove peraltro i combattimenti furono meno cruenti rispetto a Gela e Scoglitti. A Licata caddero 173 americani, 123 italiani, 40 tedeschi”. A Licata, zona di sbarco della 3ª divisione di fanteria americana, la resistenza fu debole. Gli americani hanno reso noto i dati delle perdite solo dove la resistenza incontrata è stata fiacca.

Questo silenzio da parte americana (e britannica) impedisce una valutazione esatta delle prestazioni della nostra difesa costiera. Anche nella zona di sbarco britannica, diversi reparti delle divisioni costiere si batterono valorosamente, per non dire eroicamente, mentre altri si davano alla fuga o venivano inceneriti dal bombardamento aero-navale. “Quando la resistenza del caposaldo di Fontane Bianche fu finalmente schiantata, gli inglesi autorizzarono il cappellano militare degli italiani a seppellire i caduti. Il sacerdote contò sul terreno 105 morti britannici e 14 italiani. Fra questi ultimi c’era il comandante del settore sottotenente Bertolini”. I resti delle divisioni costiere e dei gruppi mobili parteciparono sino all’ultimo, con quello che restava delle quattro divisioni mobili italiane, alla battaglia difensiva finale nella piana di Catania, sostenuta per forza di cose principalmente dai tedeschi; battaglia che durò tre settimane, nella quale si distinsero tra gli altri i superstiti gruppi di artiglieria delle nostre divisioni mobili, e che si concluse con l’ordinata evacuazione in Calabria di tutto ciò che restava delle truppe dell’Asse, pur premute costantemente da terra e dall’aria : 39.569 soldati tedeschi, dei quali 4.444 feriti; 62.000 soldati italiani; circa 10.000 automezzi; 47 carri armati tedeschi; 136 cannoni; 18.000 tn. di munizioni, carburanti etc. e persino 12 muli.

Gli italo-tedeschi ad un passo dalla vittoria, a Gela. Il primo contrattacco, come si è detto, fu quello del Gruppo Mobile E, che doveva agire di concerto con la Hermann Goering, divisione di granatieri corazzati (l’equivalente dei nostri bersaglieri, che sono la fanteria motorizzata di accompagnamento dei carri armati) in fase di completamento, del tutto inesperta, dotata di un centinaio di carri, tra i quali sette Tigre. Per vari motivi, la divisione giunse in ritardo sulla scena.

Nella prima mattina del 10, gli italiani attaccarono allora da soli con il suddetto Gruppo Mobile. Fallito quest’attacco, si ebbe subito dopo il primo della Livorno, l’unica nostra divisione di fanteria che fosse motorizzata (bersaglieri), la nostra migliore unità; un battaglione della quale prima avanzò, poi dovette retrocedere sulle posizioni di partenza, investito dal fuoco delle navi. Alle due del pomeriggio apparve finalmente la Hermann Goering. Dopo un inizio stentato, i Tigre travolgono (alle 16) le posizioni americane, catturando un intero battaglione. Tra il mare e i Tedeschi c’è ora un solo battaglione americano, che appare subito in difficoltà. Ma il “contrattacco disperato” di una sua compagnia semina inaspettatamente il panico nella fanteria tedesca in appoggio ai carri, che si dà ad una fuga disordinata. Così la grande opportunità viene perduta per l’Asse. Fatale la mancanza di una riserva mobile, da gettare nella mischia nel momento decisivo; riserva che avrebbe potuto esser costituita dai 75 carri dell’altra divisione corazzata, la Sizilien, che Kesselring, contro il parere di Guzzoni, aveva voluto schierare più a Ovest, per coprire Palermo.

Il giorno dopo, l’11, si ebbe “la grande battaglia”, dalle 6.30 del mattino alle 7 del mattino successivo, con la “carica suicida” dei bersaglieri della Livorno (Carloni). La Livorno, per quanto continuamente bersagliata (unitamente ai tedeschi) dal cielo e dal mare, schierata su due colonne, con l’appoggio di artiglieria divisionale e mortai, travolse all’arma bianca le due successive linee di difesa apprestate dai rangers, catturando prigionieri “e molte armi automatiche abbandonate sul campo”, per attestarsi provata alle prime case di Gela, “a meno di 2 km. dalla spiaggia”. Contemporaneamente, andò all’attacco la Hermann Goering, anch’essa su due colonne. Una colonna, con 21 carri medi, mise in fuga un battaglione di fanteria americano, che ripiegò in disordine “verso la strada costiera”. L’altra colonna, invece, assunse un inspiegabile atteggiamento difensivo di fronte alla collinetta di Biazzo, presidiata da due battaglioni americani, segnando il passo (erano poco più di un migliaio di uomini, con una batteria da 75). Attaccando con decisione, avrebbe potuto sicuramente passare, aggirando così l’intera 45ª divisione USA, “con conseguenze disastrose per il nemico”. Nel frattempo, la prima colonna della Hermann Goering sfonda l’ultima linea americana e giunge a 1500 metri dalla spiaggia, che appare in quel tratto del tutto libera. “Contemporaneamente la Livorno combatte tra le prime case di Gela. Se solo ci fosse un reggimento di granatieri corazzati di riserva o se almeno arrivasse la colonna della Hermann Goering bloccata a Biazzo, la battaglia finirebbe in poche ore, con un’incredibile sconfitta americana. Ma non ci sono riserve, solo truppe stanche, che hanno subito ed inflitto perdite notevoli”.

A questo punto interviene in modo ancora più massiccio di prima (e forse decisivo) il bombardamento navale americano (3296 proiettili nell’arco della mattinata. Le forze dell’Asse subiscono ulteriori perdite e vengono letteralmente inchiodate al terreno, mentre gli americani sono asserragliati in Gela e tra le dune di parte della spiaggia. Verso mezzogiorno, la situazione si sblocca a favore di questi ultimi. Comincia a sopraggiungere da Licata la 3ª divisione corazzata USA al completo. Questa divisione era stata trattenuta per qualche ora dall’attacco di un gruppo tedesco e di una modesta forza italiana costituita da elementi della 207ª divisione costiera, da un battaglione di bersaglieri, da reparti della Aosta e della Assietta. La forza italiana si era battuta valorosamente, restando praticamente distrutta. Le truppe dell’Asse devono ora subire la massiccia controffensiva nemica e si ritirano ordinatamente, combattendo. La lotta cessa alle 7 del mattino successivo. Gli italiani ebbero alla fine circa duemila prigionieri. “La Livorno, riorganizzata in quattro gruppi tattici, continuerà a battersi con poco più di 2000 effettivi [rispetto agli 11.000 circa iniziali] fino alla fine della campagna di Sicilia”.

Elevate le perdite, da entrambe le parti. Enormi quelle italiane. “L’alba del 12 luglio illumina un campo di battaglia che non dovrebbe essere dimenticato: 2000 soldati e 214 ufficiali italiani giacciono senza vita, mescolati e confusi ai loro avversari americani, che tra morti, feriti e dispersi sommano 2300 vittime. Infine i tedeschi hanno perduto 600 soldati e 30 ufficiali, oltre a 10 carri completamente distrutti”.

Una sconfitta gloriosa, rimossa dal Politicamente Corretto ma conservata dalla tradizione popolare. Nonostante la mancanza di riserve e l’enorme superiorità materiale del nemico, la vittoria sarebbe stata possibile, se la seconda colonna della Hermann Goering fosse stata capace di farsi valere. Non sarebbero di certo mutate le sorti della Campagna ma una vittoria avrebbe avuto un notevole significato morale e avrebbe forse contribuito ad una soluzione meno traumatica (per il Paese) della crisi del regime fascista, ormai ineluttabile. In ogni caso, al di là delle vicende contingenti, conta proprio il significato morale di questa battaglia, che va ricordata come una “sconfitta gloriosa”, quale ce la tramandano ora i cantastorie siciliani, nelle loro ballate. Esse “testimoniano un approccio nazionale, popolare e non ideologico alla guerra perduta. Le cose sono poste in modo semplice: gli americani sbarcano, gli italiani difendono la loro patria. L’esito sfortunato si consuma nonostante il valore dei nostri soldati. Con fatalismo molto siciliano, s’imputa alla “sorte” avversa l’invasione statunitense dell’isola. Ci interessa questo punto di vista perché aiuta a comprendere lo stato d’animo dei combattenti italiani in Sicilia. La loro tenacia nel fronteggiare una situazione così difficile, il loro ardimento nell’affrontare la morte, avevano motivazioni altrettanto semplici: senso del dovere, patriottismo, determinazione nella difesa del suolo nazionale, volontà di mostrarsi all’altezza della generazione di Vittorio Veneto e del Piave […] Quasi tutti sono semplici richiamati alle armi, persone ragionevoli e responsabili, padri di famiglia che rappresentano l’unico sostegno per i loro cari […] Non c’è ombra di fanatismo o furore ideologico tra i ragazzi della Livorno o fra i carristi del Gruppo mobile. Persino tra le camicie nere della Milizia prevale un senso del dovere composto. Allo stesso modo i pochi “furbi” che tagliano la corda, abbandonando le posizioni, sono ripartiti equamente fra tutte le unità”

MA IN SICILIA COSA SUCCEDE?
LETTERA PIENA DI INTERROGATIVI DI MUSSOLINI

Questa nota fu inviata da Mussolini al capo dello stato maggiore generale il 14 luglio
quattro giorni dopo lo sbarco degli anglo-americani
(vedi Benito Mussolini: « Storia di un anno », Milano, 1944, cap. IV).

14 luglio 1943

SITUAZIONE

A quattro giorni di distanza dallo sbarco nemico in Sicilia, (9 e 10 luglio) ) considero la situazione sommamente delicata, inquietante, ma non ancora del tutto compromessa. Si tratta di fare un primo “punto” della situazione e stabilire che cosa si deve e vuol fare.
La situazione è inquietante

a) perchè dopo lo sbarco, la penetrazione in profondità è avvenuta con un ritmo più che veloce:
b) perchè il nemico dispone di una schiacciante superiorità aerea;
c) perchè dispone di truppe addestrate e specializzate (paracadutisti, aliantisti);
d) perchè ha quasi incontrastato il dominio del mare;
e) perchè i suoi Stati Maggiori dimostrano decisione ed elasticità nel condurre la campagna.

Prima di decidere il da farsi, è assolutamente necessario – per valutare uomini e cose – di conoscere quanto è accaduto. È assolutamente necessario perchè tutte le informazioni del nemico (il quale dice la verità quando vince) e persino passi ufficiali dell’alleato impongono un riesame di quanto è accaduto nelle prime giornate.
i°) Le divisioni costiere hanno resistito il tempo necessario – hanno dato, cioè, quello che si riteneva dovessero dare?

2°) La seconda linea, quella dei cosidetti capisaldi, ha resistito o è stata troppo rapidamente sommersa?
Il nemico accusa perdite del tutto insignificanti, mentre ben 12 mila prigionieri sono già caduti nelle sue mani.

3°) Si può sapere che cosa è accaduto a Siracusa, dove il nemico ha trovato intatte le attrezzature del porto e ad Augusta, dove non fu organizzata nessuna resistenza degna di questo nome e si ebbe l’inganno noto di una rioccupazione di una base che non era ancora stata occupata dal nemico?

4 °) La manovra delle tre divisioni Goering, Livorno, Napoli, fu condotta con la decisione indispensabile e un non meno indispensabile coordinamento?
Che cosa è accaduto della Napoli e della Livorno?

_5°) Dato che la direzione dell’attacco – logica – è lo stretto, si è predisposta una qualsiasi difesa del medesimo?

6°) Dato che la “penetrazione” è ormai avvenuta, ci sono mezzi e volontà per costituire almeno un « fronte » siciliano, verso il Tirreno, così come fu in altre epoche contemplato e studiato?

7°) Le due divisioni superstiti Assietta e Aosta, hanno ancora un compito verso ovest e sono in grado di assolverlo?

8°) Si è fatto e si vuol fare qualche cosa per reprimere il caos militare, che si sta aggiungendo al caos civile determinato dai bombardamenti in tutta l’isola?

9 °) Nel caso previsto e prevedibile di uno sbarco e di una penetrazione, esiste un piano?
10°) La irregolarità e la miseria dei collegamenti, ha dato luogo a notizie false che hanno determinato una profonda depressione nel paese.

11) Lo scadimento della disciplina formale e sostanziale delle truppe continua, con manifestazioni sempre più gravi, che rivelano la tendenza alla « capitolazione ».

Concludendo, la situazione può ancora essere dominata purché ci siano, oltre ai mezzi, un piano e la capacità di applicarlo. Il piano non può essere sinteticamente che questo:
a) resistere a qualunque costo a terra;
b) ostacolare i rifornimenti del nemico con l’impiego massiccio delle nostre forze di mare e del cielo.

Mussolini

993.- Attuazione della Costituzione economica Elenco delle priorità

Premessa.

La globalizzazione dei capitali, e la conseguente globalizzazione della povertà, insieme con la “gabbia” costituita dalle prescrizioni che ci vengono imposte dalla BCE, dalla Commissione (sempre più prona a tutelare gli interessi della Germania e a essere estremamente rigida nei nostri confronti) e dal Fondo monetario internazionale (espressione di enormi capitali “privati” di carattere mondiale), ci impongono di adottare in un primo momento “provvedimenti urgenti”, per arginare la crisi in atto che ogni giorno fa perdere colpi alla nostra economia nazionale, e poi “provvedimenti a carattere definitivo”, necessari per risolvere il problema nella sua interezza (mediante revisione dei Trattati europei, valutazione dell’uscita dall’euro, possibile costituzione di un “euromed” tra i Paesi di economie simili che si affacciano sul mediterraneo, ecc.).

E’ indubbio, comunque, che allo stato delle cose, l’adozione di provvedimenti urgenti può essere frutto solo di un’azione diretta dei cittadini effettuata sulla base dei poteri di “partecipazione” che ad essi assegna la vigente Costituzione repubblicana. Basti pensare che lo sfacelo economico nel quale ci troviamo è dovuto proprio a leggi che ci hanno propinato i “nostri rappresentanti politici” a partire dagli inizi degli anni novanta fino ad ora. Leggi che hanno tradito il popolo italiano per favorire gli interessi della grande finanza e delle multinazionali, come del resto suggerisce il pensiero neoliberista dominante.

Conviene allora ricordare che la “partecipazione popolare” può svolgersi, sia sul “piano legislativo” (proposta di legge popolare e referendum, artt. 72 e 75 Cost.); sia sul “piano amministrativo”, utilizzando quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione (a proposito dello svolgimento di attività di carattere generale da parte di cittadini singoli o associati secondo il principio di sussidiarietà) e la specifica disposizione di cui agli articoli 9 e 10 della legge n. 241 del 1990, secondo la quale “i portatori di interessi diffusi” devono essere ascoltati dal “responsabile del procedimento” concernente interessi generali e possono estrarre copia dei provvedimenti a tali interessi inerenti; e sia sul “piano giudiziario”, con l’esercizio dell’azione popolare, ai sensi del citato art. 118 Cost., ultimo comma.

E si deve sottolineare che fondamentale, a proposito della “partecipazione popolare”, è la recente sentenza della Corte costituzionale n. 275 del 2016, la quale ha sancito la prevalenza giuridica della tutela dei “diritti fondamentali” sul “pareggio di bilancio”, improvvidamente introdotto in Costituzione dal governo Monti. E che altrettanto fondamentale è il richiamo alla teoria cosiddetta dei “contro limiti”, in base alla quale la Corte costituzionale si è sempre dichiarata competente a “vietare” l’ingresso nell’ordinamento giuridico italiano di norme europee lesive di diritti fondamentali. Due orientamenti giurisprudenziali, dunque, indispensabili per l’attuazione piena dei principi fondamentali della nostra Costituzione repubblicana.

Tutto ciò premesso, le materie sulle quali intervenire urgentemente nei termini appena descritti dovrebbero essere le seguenti.

Primo punto

Vietare le “privatizzazioni di beni e servizi pubblici essenziali”, le cosiddette “delocalizzazioni” e le “svendite”.

Questi divieti si possono far valere, sia, ove ancora possibile, sul piano amministrativo, altrimenti, sul piano giudiziario, impugnando gli atti o i comportamenti della P.A. che operano questi trasferimenti di ricchezza da tutti i cittadini a singole persone fisiche o giuridiche. Si deve ricordare, infatti, che, mentre l’art. 41 Cost. afferma che “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, l’art. 42 della Cost. prevede che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (cioè dalla volontà suprema del Popolo) … “allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, e, infine, che l’art. 43 Cost. sancisce che “a fini di utilità sociale”, “determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fronti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, dovrebbero essere riservate “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”. Basti pensare che le “privatizzazioni”, le “delocalizzazioni” e le “svendite” pongono in primo piano l’interesse privato, e di conseguenza svuotano completamente di significato le sopra ricordate disposizioni costituzionali, tutte rivolte a tutelare primieramente l’interesse pubblico. Ed è da sottolineare che il disprezzo maggiore per l’interesse pubblico è avvenuto con la “privatizzazione” dei demani idrico, marittimo, minerario e culturale, di cui al decreto legislativo n. 85 del 2010 (il cosiddetto “federalismo demaniale”), in base al quale si stanno svendendo isole, montagne, tratti di costa, i fari, gli immobili dello Stato (e cioè dei cittadini) di interesse artistico e storico e così via dicendo. E si tenga presente a questo proposito che la “privatizzazione” spezza il legame tra bene (industria) e territorio, per cui il bene può circolare nel mondo come circola il suo titolare, producendo disoccupazione e miseria.

 

Secondo punto

Altro capitolo strettamente legato a quanto si è appena detto è quello che attiene alla necessità del passaggio alla proprietà pubblica comunale dei “beni e dei terreni abbandonati”. Lo consente il citato art. 42 della Costituzione, il quale afferma, come si è appena visto, che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge …. allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, afferma cioè, senza ombra di dubbio, che “l’inadempimento della funzione sociale”, e a maggior ragione il perseguimento di fini antisociali (come è il licenziamento dei lavoratori) fa “venir meno” la tutela giuridica, e cioè la tutela e la garanzia del diritto di proprietà privata. Questa disposizione costituzionale, come è ovvio, contraddice il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di rivendica della proprietà privata disposta dal codice civile, ma nessuno può porre in dubbio che quest’ultimo principio, risalente al 1942, quando l’ordinamento giuridico italiano era dominato dallo Statuto albertino, deve ritenersi tacitamente abrogato proprio dalla citata disposizione dell’art. 42 Cost. Ora l’Italia è piena di industrie e capannoni abbandonati ed è mai possibile pensare che il popolo italiano deve portarsi sulle spalle queste rovine in ossequio di una disposizione di legge ordinaria superata da una precisa disposizione della vigente Costituzione? Questo recupero alla “proprietà pubblica” è in corso di attuazione da parte di due benemeriti Comuni, il Comune di Napoli e il Comune di S. Giorgio di Pesaro, mentre un folto gruppo di volontari sta lottando per attuare la medesima cosa nel Comune di Ciampino.

Terzo punto

Assolutamente importante è la “nazionalizzazione” delle banche e delle industrie che vengono salvate con danaro pubblico.

La storia dell’economia italiana dal 1990 in poi è una storia di “fallimenti” privati e di “salvataggi pubblici”: appare chiaro a chiunque che è urgente e indispensabile che i beni, sui quali, come dice Carl Schmitt, anche se privati, insiste sempre una “super-proprietà del popolo”, una volta che siano finiti in malora e salvati con il danaro del popolo, ritornino (si ricordi che la proprietà privata deriva da cessioni volute dal Popolo di parti della proprietà collettiva) nella proprietà di quest’ultimo per essere adibiti a fini di utilità sociale. Va da sé, poi, che occorre prevedere sanzioni severissime per i dipendenti e amministratori pubblici che violino i loro doveri. Una colpa imperdonabile pesa oggi su coloro che con il loro comportamento scorretto nell’esercizio di pubbliche funzioni e di pubblici servizi, hanno dato man forte al neoliberismo oggi imperante, agevolando la diffusione dell’idea secondo la quale “il privato” sarebbe meglio “del pubblico”, mentre si tratta di una pura “menzogna”, poiché affidare beni e servizi pubblici a privati, vuol dire che questi ultimi sono legittimati per legge a perseguire i loro personali interessi (hanno diritto al profitto), mentre, se fossero dipendenti pubblici l’obiettivo della loro azione dovrebbe essere soltanto il perseguimento di “interessi pubblici”, con la conseguenza di essere sottoposti a ben altre disposizioni di carattere civile, amministrativo, contabile e penale.

Va ricordato in questo quadro la urgente necessità di istituire una “banca pubblica”, che, sulle orme della KFW tedesca, aiuti le imprese in difficoltà sottraendole alla morte certa verso cui le sospinge la politica di austerity imposta all’Italia. Sarebbe sufficiente, a tal fine, trasformare la Cassa Depositi e Prestiti, da “Tesoreria del Governo”, in una banca commerciale. Mentre, d’altro canto, si dovrebbe immediatamente provvedere, quanto meno, a separare le banche commerciali dalle banche d’investimento.

Quarto punto

Difendersi dalle attività degli “speculatori finanziari”, i quali, come è noto, stanno facendo di nuovo salire lo spread tra i titoli commerciali tedeschi e quelli italiani, con valutazioni del tutto arbitrarie, che incidono peraltro pesantemente sulla tutela dei diritti fondamentali del Popolo Italiano.

A tal riguardo, è estremamente importante prevedere che non sia ammessa in Italia la “vendita allo scoperto” nelle transazioni finanziarie, come del resto avviene negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e che sia finalmente vietato l’istituto dell’anatocismo bancario. E’ evidente poi che si dovrebbe provvedere con urgenza ad una “revisione” del nostro debito pubblico, per depurarlo dagli effetti delle speculazioni finanziarie indotte dalle Agenzie di rating, le quali, come si è visto, agiscono per lo più in modo arbitrario e senza la valutazione dei dati economici effettivi.

 

Quinto punto

L’istituzione di un “Difensore del Popolo”, organo formato da volontari preparati in materie giuridiche ed economiche, che siano democraticamente eletti e che abbiano come fine essenziale quello di segnalare all’opinione pubblica l’emanazione di leggi incostituzionali e di aiutare anche le Associazioni e i Comitati ad agire sul piano giudiziario con “azioni popolari” dirette a portare dette leggi all’esame della Corte costituzionale.

Paolo Maddalena

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992 .-RUSSIA: La vera faccia dell’oppositore Aleksej Navalny

Nessuna Russia senza Putin.

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Nonostante si sia parlato molto del noto oppositore di Putin (leggi qui) la figura di Navalny è piuttosto controversa. Aleksej ha 40 anni, una famiglia modello e si differenzia dai soliti burocrati del Cremlino per essere un ribelle. È un grande oratore, bello ed ammirato dai giovani perché aspira alla presidenza, anche se il Cremlino cerca in tutti i modi di bloccargli la strada. Tuttavia molti rimangono scettici sulle sue capacità come politico e sulla sua personalità.

photoLiberale o nazionalista?

Portavoce della lotta contro la corruzione, rivelatasi un vero successo grazie alla creazione del RosPil, Navalny incarna il nuovo trend ideologico dei nazional-democratici, i Natsdem, pro-europeisti e democratici ma anche xenofobi, preoccupando diversi noti giornali (Lenta). In realtà, il suo esordio politico è avvenuto con l’adesione al partito liberale “Yabloko”, da cui è stato però espulso nel 2007 proprio a causa delle sue posizioni nazionaliste.

Engelina Tareyeva, membro di “Yabloko”, lo accusa di creare le proprie relazioni sulla base dell’etnicità delle persone e di voler riabilitare il nazionalismo, presentandolo a braccetto con la democrazia. Navalny si difende, affermando che il suo non è un nazionalismo etnico ma civico, e si proclama a favore dell’abolizione del federalismo, forma ereditata del passato imperiale e dalla successiva amministrazione sovietica, che in genere premia l’oligarchia.

Artem Lebedev, famoso web-designer figlio della scrittrice Tat’jana Tolstaja, considera Navalny un populista senza alcuna esperienza in politica. Un blogger brillante, ma pur sempre un politico che mira solo ai propri interessi, senza fare nulla di concreto. Non è un caso che Navalny abbia trovato una scusa per non partecipare a un dibattito televisivo con Lebedev.

Dal lato opposto, Aider Muzhdabayev, vice-direttore del canale ATR dei tatari di Crimea, sebbene ritenga Navalny un convinto nazionalista, apprezza la sua onestà: “Ad alcuni piace, ad altri no. Io lo apprezzo per la sua sincerità e condivido la sua campagna contro la corruzione”.

La questione Caucaso

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La famosa “Marcia russa” di Mosca nel 2011. Nel dicembre 2011 prende il via un movimento di dissenso che scuote il Paese per diversi mesi: all’indomani delle elezioni della Duma, la gente scende in strada, riempie le piazze, urla il proprio malcontento.
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Ricordiamolo: 
5 dicembre: ha luogo la prima manifestazione di protesta a Chistye prudy a Mosca. Fonti diverse riportano un numero che va da 2mila a 10mila manifestanti
Il 10 dicembre la protesta si trasferisce in Piazza Bolotnaya, il numero dei manifestanti è compreso tra i 25 e gli 80mila. I dimostranti chiedono lo svolgimento di nuove elezioni
24 dicembre: in Piazza Bolotnaya si contano almeno 120mila manifestanti
Le proteste del 2011-2012 prendono il nome dalla Piazza Bolotnaya, che è stata spesso sede di azioni di protesta. Analoghe proteste hanno avuto luogo anche in altre città della Russia. A scendere in piazza sono state persone di varie tendenze ideologiche, liberali, nazionalisti e di sinistra, e anche apolitiche.
Ma oggi di quel vento di cambiamento resta ben poco.

Le critiche a Navalny sono giunte soprattutto dopo la sua partecipazione a proteste con sfumature razziste, tra cui la famosa “Marcia russa” di Mosca nel 2011 e la campagna “Stop Feeding The Caucasus!“, che non è mancata di cenni islamofobici. Con questo slogan Navalny ha sottolineato di voler parlare della corruzione endemica nel Caucaso del Nord, chiedendo al Cremlino di smettere di inviare denaro a queste regioni. Sergej Aleksashenko, vice-ministro delle finanze sotto Eltsin, ha fatto notare al blogger come lo slogan più appropriato fosse “Stop Feeding The Regime” e riflettere piuttosto sulle politiche del Cremlino. Navalny ha poi più volte proposto l’introduzione di visti per i paesi dell’Asia Centrale. Lottare contro l’immigrazione clandestina e il crimine organizzato, e proteggere l’etnia russa all’estero sembrano essere le prerogative principali, assieme alla riduzione del numero degli immigrati e loro cernita sulla base delle capacità produttive.

Tra Siria e Ucraina

Navalny dichiara che la Russia in Siria sta combattendo sul fronte sbagliato. Dovrebbe allearsi alle forze USA, invece di aiutare il presidente Assad contro i ribelli.

Per quanto riguarda la Crimea, la sola via d’uscita è, a suo avviso, indire un nuovo referendum (non essendo il primo stato “normale”). Tuttavia è convinto che la questione non si chiuderà facilmente.

Il leader dei tatari di Crimea, Mustafa Cemilev, lo rimprovera di non conoscere il diritto internazionale, in quanto i referendum si svolgono sull’intero territorio e quindi è necessario innanzitutto restituire la Crimea all’Ucraina.

Se eletto, il blogger promette inoltre la piena applicazione degli accordi di Minsk.

Claudia Bettiol

991.-DALLA SIRIA: IL FRONTE DI AL-BAB, LA VIA PER RAQQA E LA QUARTA BATTAGLIA DI PALMIRA.

di Angelo Gambella

 

Schermata 2015-10-11 alle 19.43.54.pngLa caduta di al-Bab, nel nord della Siria, nelle mani dei combattenti di Scudo dell’Eufrate direttamente supportati sul terreno dalle forze speciali turche ha posto a diretto contatto le milizie pro-turche con l’esercito siriano che risaliva da sud.
Nella giornata di ieri si è assistito prima alla riconquista di Tadef, cittadina confinante con al-Bab, da parte delle forze armate siriane sui combattenti dell’Isis che erano rimasti sul posto, poi ad un contrattacco dei ribelli siriani intenzionati a loro volta ad entrare nella località. Gli scontri a fuoco sono stati particolarmente duri. Nonostante i proclami sull’ingresso dei militanti nella cittadina, in realtà Tadef risulta oggi chiaramente sotto il controllo dell’esercito siriano.
I governativi, rappresentati sul terreno dalle unità di élite denominate Forze Tigre, hanno proseguito la rapida offensiva nella regione catturando uno dopo l’altro i villaggi che li separavano dal congiungersi con le unità curdo-arabe denominate “Forze Democratiche Siriane”. Questa mattina con la liberazione del villaggio di Jub al-Khafi dall’Isis, l’esercito siriano ha raggiunto l’area curda sbarrando la strada a Scudo dell’Eufrate, evidenziando la vincente strategia di Suheil al-Hassan considerato ormai il miglior comandante militare del conflitto siriano.
L’operazione siriana segna la fine di qualsiasi possibilità per le milizie filo-turche di farsi strada da al-Bab verso Raqqa, la capitale del Califfato considerata fino a pochi giorni fa obiettivo rilevante da Erdogan e dal governo turco. La Turchia, che per raggiungere Raqqa dovrebbe farsi strada attraverso i territori curdi, consegue in ogni caso il successo nell’intento di evitare che a ricongiungersi fossero propri i curdi di Afrin (dell’ovest) e i curdi di Kobane (dell’est). Attraverso il primo consigliere di Erdogan, la Turchia ha ringraziato la Russia per il sostegno fornito nell’operazione ad al-Bab. Senza la cooperazione delle forze armate russe e la posizione personale di Putin, ha dichiarato Ilnur Cevik, i turchi non sarebbero riusciti a liberare la città.
A sud, intanto, le forze curdo-arabe proseguono l’offensiva su Raqqa e riescono a tagliare la strada tra Raqqa stessa e Deir Ezzor, mettendo ora seriamente in pericolo la capitale del Califfato, che risulta di fatto circondata su tre lati, con un ridotto entroterra e l’unico lato libero, quello occidentale, con una limitata possibilità di accesso all’altra sponda dell’Eufrate.
Intanto da Holliwood arriva la notizia dell’assegnazione del premio Oscar quale miglior corto al film sui “White Helmets”, i soccorritori delle aree controllate dai ribelli nella Siria. I caschi bianchi, considerati salvatori-eroi dalla narrativa più favorevole alla ribellione, sono avversati dagli attivisti più vicini al governo-regime tanto per i legami con le formazioni jihadiste della galassia di al-Qaeda che per taluni filmati diffusi come originali ma evidentemente artefatti.

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Nella Siria centrale il fronte principale è rappresentato da Palmira: qui le forze siriane proseguono l’offensiva per riconquistare la “Sposa del Deserto”, ricaduta nelle mani dell’Isis lo scorso dicembre.
Importante novità nel conflitto siriano è la cooperazione a distanza, per quanto indiretta, tra le due coalizioni a guida russa e statunitense. Nelle ultime 48 ore infatti aerei della coalizione americana hanno bombardato carri armati e mezzi dell’Isis nei dintorni di Palmira, anche se non è dato sapere con precisione se gli strike sono avvenuti nei luoghi oggetto dell’offensiva siriana o più probabilmente su rifornimenti e posizioni tenute dall’Isis più ad est rispetto alla città.
L’azione siriana si sviluppa da ovest. Da questa direttrice, dopo aver riconquistato le aziende agricole, i militari siriani si sono lanciati nell’assalto del monte Hayyal che domina Palmira, raggiungendo la posizione più alta che guarda verso lo strategico “Triangolo di Palmira”. Questo luogo che connette la rete stradale siriana verso Homs, Deir Ezzor e il confine con la Giordania a sud, rappresenta l’uscita autostradale per Palmira e dunque l’ingresso nella città. La sede della scuola guida di Palmira è stata altresì conquistata nell’operazione.
Questa mattina agli elicotteri d’assalto russi e ai caccia siriani che hanno bersagliato le posizioni dell’Isis si è aggiunto un pesante fuoco di artiglieria diretto verso il Triangolo e la periferia meridionale di Palmira. Di fatto i siriani sono prossimi ai villaggi abbandonati di al-Dawa e al-Bayrath, alla Villa reale del Qatar, e alla Valle delle Tombe del sito archeologico. Per farla breve, i governativi hanno ormai raggiunto le posizioni che permisero loro di lanciare l’assalto a Palmira nella primavera del 2016.
Poco più a nord l’esercito siriano ha riconquistato le antiche cave dei palmireni ed iniziato l’assalto a monte Tar. Se questa montagna dovesse cadere nelle mani dei siriani, le unità islamiste a Palmira sarebbero in pericolo poiché i governativi potrebbero indirizzare il fuoco dalle alture verso la pianura e si troverebbero nelle migliori condizioni per coprire l’attacco a Palmira stessa da occidente, attraverso l’autostrada che costeggia l’area archeologica.
Fonti originarie di Palmira vicine all’opposizione siriana confermano l’intensa attività di artiglieria e missilistica in corso in questo momento verso la periferia occidentale della città vecchia.
La quarta battaglia di Palmira è ormai alle porte.

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Foto: Offensiva siriana su Tadmor (Palmira) autore: @A7_Mirza.

990.-Chi uccide gli ambasciatori?

Uno sguardo alla cronaca internazionale che deve far riflettere. Gli omicidi della CIA sono un nuovo attacco alla Russia; ma dove ci stanno portando?

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Andrej Karlov

Nel novembre 2015 veniva rinvenuto nella sua stanza d’albergo il fondatore di RussiaToday ed ex-consigliere speciale del Presidente Putin Mikhail Lesin, ucciso per trauma cranico contundente.

1-mikhail-lesin-rtMichail Jur’evič Lesin è stato un politico russo, consigliere del presidente Vladimir Putin e ministro della comunicazione dal 1999 al 2004.

Il 20 dicembre, a Mosca veniva rinvenuto il cadavere del diplomatico russo Pjotr Polshikov, poche ore dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo in Turchia, Andrej Karlov, per mano di un sicario di Gladio, Mevlut Mert Altintas. Accanto al cadavere di Polshikov furono trovati due bossoli vuoti di pistola, scoperti sotto il lavandino in bagno. Polshikov aveva lavorato nell’ambasciata russa in Bolivia.

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Pjotr Polshikov

Il 25 dicembre, scompariva sul Mar Nero un aereo di linea Tupolev Tu-154 con a bordo 92 passeggeri, tra cui più di 60 membri del Coro dell’Armata Rossa. Il Tupolev era scomparso sul Mar Nero poco dopo il rifornimento di carburante nell’aeroporto di Sochi. Il velivolo volava verso la base militare russa di Humaymim, vicino Lataqia, per partecipare alle festività con le truppe russe schierate in Siria. A bordo era presente anche la nota attivista umanitaria Elizaveta Glinka. Secondo una teoria, l’incidente era dovuto a dei corpi estranei penetrati in un motore.
Ai primi di gennaio 2016 veniva trovato morto nel bagno di casa l’ambasciatore russo in Grecia Andrej Malanin, deceduto per cause ignote, e lo stesso mese moriva l’ambasciatore della Russia in India Aleksandr Kadakin, morto improvvisamente per infarto. Kadakin aveva supervisionato per molti anni i rapporti tra India e Russia.

L’ambasciatore russo in Grecia Andrej Malanin e l’ambasciatore della Russia in India Aleksandr Kadakin. Entrambi uccisi. La vittoria in Siria è costata ai russi più ambasciatori che soldati.

Il 13 gennaio, veniva trovato morto, nella propria abitazione, il giornalista tedesco Udo Ulfkotte; le autorità tedesche evitavano una qualsiasi autopsia e ne cremavano subito il corpo. Nel 2014 Ulfkotte confessò di aver lavorato per la CIA e l’intelligence della NATO. Inoltre, secondo Ulfkotte, tutti i grandi media occidentali non sono altro che un ramo dei servizi segreti statunitensi. Il suo ultimo libro, Criminali senza limiti, ricostruisce i reati commessi dai migranti in Germania e la censura dei media tedeschi su tali crimini.

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Udo Ulfkotte
Quando fu annunciato che l’ambasciatore russo ad Ankara era morto in un attentato, una delle prime cose che venne in mente è come fosse possibile che succedesse a una figura importante? Immediatamente criticarono il servizio di protezione, perché nessuno sapeva la situazione in cui ciò è successo. In ogni caso, in quel giorno iniziai a cercare informazioni sullo stato dei servizi di protezione dei diplomatici russi in Turchia e sembra che le cose non siano come molti credono. Ciò che è emerso è che da più di 10 anni Ankara non consente la protezione armata dei diplomatici russi in Turchia. Questo compito dovrebbe essere dell’unità speciale ‘Zaslon‘ dell’SVR russo, ma ancora a più di 10 anni, non è autorizzata a svolgerla nel territorio turco. I commenti del funzionario intervistato in questo articolo non sbagliano. Zaslon non aveva il permesso di proteggere le spalle all’ambasciatore durante il discorso e anche che se era protetto da due membri dell’unità ai fianchi, questi non potevano rispondere a qualsiasi minaccia. Dopo l’omicidio, si è parlato di nuovo dell’arrivo della protezione armata russa per i diplomatici russi in Turchia, ma è sorprendente che con ciò che è accaduto con tale Paese, la rappresentanza diplomatica russa non avesse una migliore protezione.
15621721Erdogan con la famiglia della famosa Bana, l’ultima trovata della propaganda islamo-atlantista.
15672997     Il terrorista che interpreta il papà della “bambina di Aleppo” è membro del gruppo terroristico islamista qataib al-Safwa ad Aleppo dove sicuramente ha ucciso molte persone agli ordini di Ankara. La foto è anche chiaramente un messaggio su chi abbia armato la mano del poliziotto-terrorista che ha ucciso l’Ambasciatore Andrej Karlov.

Il 13 febbraio 2017, nell’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur veniva ucciso Kim Jong Nam, figlio di Kim Jong Il e fratello del leader nordcoreano Kim Jong Un. Furono accusati due donne e due uomini, ma a diffondere subito tale versione fu il canale televisivo via cavo Chosun (del quotidiano di propaganda sudcoreano Chosun Ilbo, notoriamente collegato all’intelligence statunitense). Si tratta della nota tecnica d’inquinamento per coprire la fuga dei veri assassini. Infatti, “Le dichiarazioni audaci fatte da spie e giornalisti della Corea del Sud, che hanno descritto i dettagli dell’assassinio prima che si avessero altre informazioni necessarie, vanno interpretate come un’indicazione del coinvolgimento di Seoul…”
Il 20 febbraio, Vitalij Ivanovic Churkin, rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite dal 2006, moriva improvvisamente a New York per attacco cardiaco, dopo esser stato trasportato al Columbia Presbyterian Hospital. Moriva il giorno prima del 65.mo compleanno.

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Vitalij Ivanovic Churkin

Questa scia di morte è una tecnica già vista, rivista, e controrivista; quindi oramai a Mosca non dovrebbero aver più dubbi su chi siano assassini e mandanti. Non potendo vincere le guerre, se non a Hollywood, dove anche i documentari sono pornografia imperialista e i premi Oscar e Nobel null’altro che la tariffa della prostituzione di un intero sistema, i sicari atlantisti si dedicano a ciò in cui eccellono, l’omicidio. Non per una strategia precisa, che non c’è, ma per pura vendetta; perchè per i vertici degli USA, i loro ‘tecnocrati’ e la massa sociale su cui si basano, si deve vincere sempre e comunque, e se non nella realtà almeno nell’immaginario autoindotto, uccidendo un singolo o un simbolo e pretendendo con ciò di aver ottenuto una vittoria autentica sul piano militare, politico o economico. Un impero alienante non può avere che capi e responsabili alienati.

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Ne abbiamo già parlato nel servizio del suo necrologio. Udo Ulfkotte, giornalista tedesco confessa come la CIA corrompa l’intera stampa mondiale per condizionare l’opinione pubblica e convincerla ad appoggiare le guerre. Alla luce dei fatti di Parigi e degli attacchi in Siria, questa testimonianza è quanto mai importante. In questa intervista, Ulfkotte evocava la possibilità che l’uccidessero.

989.-Turchia e Stato islamico: una cooperazione anti-cinese

Se lo “Stato islamico” riuscisse ad occupare rapidamente i territori controllati in Afghanistan e Pakistan dai taliban ed annetterli all’autoproclamato “califfato”, la minaccia della destabilizzazione sarebbe alle porte della Cina.

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La strategia confusa di Trump permette un’altra piroetta ad Erdogan

Gli ultimi mesi hanno dimostrato quanto profondamente la Turchia sia coinvolta con lo SIIL. La Turchia ha inscenato gli eventi dello “Stato islamico” per molto tempo, favorendone la attività non solo indirettamente o ufficiosamente. Tuttavia, una dichiarazione ufficiale avvenne nell’autunno 2015 ad Istanbul, che potrebbe essere vista come dichiarazione turca sullo “Stato islamico”. La dichiarazione fu fatta dal capo dell’Organizzazione nazionale dell’intelligence della Turchia Hakan Fidan, che di solito non fa apparizioni pubbliche. Fidan dichiarò: “Lo ‘Stato islamico’ è una realtà. Dobbiamo riconoscere che non possiamo debellare un’organizzazione così radicata e popolare, come lo “Stato islamico”. E perciò esorto i nostri partner occidentali a riconsiderare le precedenti nozioni sui rami politici dell’Islam e mettere da parte la loro mentalità cinica, e insieme annullare i piani di Vladimir Putin per sopprimere la rivoluzione islamica in Siria”. In base a ciò Hakan Fidan trasse la seguente conclusione: è necessario aprire un ufficio o un’ambasciata permanente dello SIIL ad Istanbul, “La Turchia ci crede fortemente”. La storia della dichiarazione del capo dell’Organizzazione nazionale dell’intelligence è curiosa. In primo luogo comparve sui media on-line il 18 ottobre 2015, ma non ebbe molta attenzione. La dichiarazione di Hakan Fidan divenne famosa quando fu ripubblicata sui siti web delle agenzie di stampa il 13 novembre, alla vigilia degli attacchi terroristici di Parigi, nella notte tra il 13 e il 14 novembre. Il caso volle che la Turchia esortasse l’occidente a riconoscere un quasi-Stato che, da parte sua, si rifiuta di riconoscere il diritto degli altri Stati ad esistere. In sostanza, era un appello ad accettare le richieste del terrorismo globale dello SIIL. La pretesa è ben chiara, il giuramento di fedeltà al nuovo califfato.

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Cosa significa la partecipazione diretta della Turchia nella vita del promesso “Stato islamico” per il mondo islamico e i suoi vicini (Russia compresa)? Questa domanda diventa più importante oggi, dopo che migliaia di rifugiati sono stati trasportati, non senza la partecipazione della Turchia, dal Medio Oriente all’Europa; dopo l’incidente con l’aereo russo che bombardava lo SIIL, abbattuto dalla Turchia; dopo le ampie affermazioni dei funzionari turchi. A questo proposito va ricordato un altro aspetto importante della politica mediorientale. La caduta del regime di Mubaraq in Egitto e la distruzione dello Stato gheddafino in Libia, all’inizio della “primavera araba”, quasi fecero crollare i legami economici di questi Paesi con la Cina, la cui presenza economica era in rapida crescita. In questo modo, è comprensibile come gli eventi della “primavera araba” abbiano creato una barriera all’espansione economica cinese in Medio Oriente e Africa, che minacciava gli Stati Uniti. In altre parole, la “primavera araba” era anche uno strumento efficace nelle mani degli Stati Uniti nella competizione globale con la Repubblica Popolare Cinese. Ora, studiando i collegamenti tra Turchia e SIIL, è necessario discutere cosa significhi l’espansione dello “Stato islamico” per la Cina.
Nell’autunno 2015, i media riferirono che le agenzie d’intelligence turche preparavano i terroristi uiguri cinesi. Si potrebbe pensare che il motivo qui siano i tradizionalmente forti legami tra i popoli turchi, oltre alla Turchia interessata a rafforzare l’influenza sulla parte orientale del mondo turcofono, il Turkestan. Tutto questo, naturalmente, è vero. Ma non è tutto. Si tratta anche dei gruppi uiguri addestrati e armati nelle fila dello SIIL. Vi sono sempre più prove della presenza di tali gruppi in Siria. Pertanto, lo SIIL è un nuovo strumento, migliorato dalla “primavera araba”, per destabilizzare il principale concorrente degli Stati Uniti, la Cina. Se lo “Stato islamico” riuscisse a catturare rapidamente i territori controllati dai taliban in Afghanistan e Pakistan e annetterli al loro autoproclamato “califfato”, la minaccia della destabilizzazione sarebbe alle porte della Cina. Le capacità dell’organizzazione califista che vi comparirebbe, con la prospettiva di raggiungere gli uiguri, renderebbero tale destabilizzazione inevitabile. Tuttavia, lo SIIL non è riuscito ad avanzare rapidamente nella zona afghano-pakistana. Ricordiamo cosa scrisse il quotidiano Daily Beast nell’ottobre 2015 con un articolo intitolato “Un’alleanza talebano-russa contro lo SIIL?” Il giornale scrisse che i rappresentanti dei taliban andarono in Cina più volte per discutere il problema degli uiguri del Xinjiang che vivono nel sud dell’Afghanistan. The Daily Beast citò uno dei rappresentanti dei taliban: “Gli abbiamo detto che (degli uiguri) sono in Afghanistan, e che gli abbiamo impedito di compiere attività anti-cinesi”. Gli esperti insistono sul fatto che il Pakistan (le cui agenzie d’intelligence hanno giocato un ruolo decisivo nella creazione dei taliban) passano dagli Stati Uniti alla Cina. Dato che le prospettive di cedere le aree pashtun, proprie e afghani, allo “Stato islamico”, che non si fermerebbe, sono inaccettabili per il Pakistan. Questo è ciò che, ovviamente, ha causato la svolta del Pakistan verso la Cina. E questa volta è stata così drastica che le conseguenze creano una nuova minaccia agli Stati Uniti con l’espansione dell’influenza della Cina.
Durante il Forum sulla Sicurezza di Xiangshan, dell’ottobre 2015, il ministro della Difesa, Acqua ed Energia pakistano, Khawaja Muhammad Asif, annunciò la messa al bando dei terroristi uiguri del “Movimento islamico del Turkestan Orientale” dicendo: “Credo fossero pochi nelle zone tribali, e che siano stati tutti cacciati o eliminati. Non ce ne sono più”. Asif aggiunse che il Pakistan è pronto a combattere contro il “Movimento islamico del Turkestan Orientale”, perché non è solo nell’interesse della Cina, ma anche del Pakistan. Successivamente, nella prima metà di novembre 2015, il giornale cinese China Daily annunciava che la compagnia statale cinese China Overseas Port riceveva dal governo pakistano 152 ettari di terreno nel porto di Gwadar, in affitto per 43 anni (!). Forse è giunto il momento di ammettere che la Cina ha quasi raggiunto il Mare Arabico attraverso la regione d’importanza strategica pakistana del Baluchistan (dove si trova Gwadar) e che il progetto di ampliamento dello SIIL ad oriente non è riuscito ad evitarlo? E’ ovvio che la lotta degli Stati Uniti contro la Cina continuerà in questo senso, motivo per cui la Cina si affretta a consolidare i risultati raggiunti e a creare una propria zona economica nei pressi dello Stretto di Hormuz. China Daily ha scritto: “Nell’ambito dell’accordo, la società cinese di Hong Kong sarà incaricata del Porto di Gwadar, il terzo più grande porto del Pakistan”. C’è un dettaglio degno di nota in questa storia: Gwadar è considerata la punta meridionale del grande corridoio economico cino-pakistano. Questo corridoio inizia nella regione autonoma uigura dello Xinjiang nella Repubblica Popolare Cinese. Ciò significa che la necessità di destabilizzare la Cina diventa ancor più acuta per i suoi concorrenti.

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Dato che il Pakistan e i taliban rifiutano di radicalizzare i cinesi uiguri (più di 9 milioni dei quali vivono in Cina), questo ruolo va a, da un lato, alla Turchia come patrona degli uiguri, e dell’altro allo SIIL, in quanto islamista ultra-radicale. Poi, se il corridoio afgano-pakistano per rifornire i gruppi radicali in Cina viene bloccato, per il momento, significa che ne serve un altro. Quale? Ovviamente, il mondo turco, dalla Turchia ai Paesi turcofoni dell’Asia centrale e gli uiguri cinesi. E’ più che probabile che la regione del Volga e il Caucaso del Nord dovranno fare parte del corridoio che serve a Turchia e SIIL per collegarsi agli uiguri. I media cinesi lo sottolinearono alla fine del 2014. A quell’epoca il sito web Want China Times pubblicò un articolo intitolato “I separatisti del ‘Turkestan orientale’ vengono addestrati dallo SIIL e sognano di tornare in Cina“. Il sito riprendeva i dati pubblicati dal media cinese Global Times. Secondo questi dati, i radicali uiguri fuggivano dal Paese per unirsi allo SIIL, addestrarsi e combattere in Iraq e Siria. I loro obiettivi soono avere un ampio riconoscimento dai gruppi terroristici internazionali, stabilire dei canali di contatto ed acquisire esperienza nei combattimenti reali prima di esportare le loro conoscenze in Cina. Global Times riferiva, citando esperti cinesi, che uiguri dello Xinjiang entravano nello SIIL in Siria e Iraq, o nelle sue divisioni nei Paesi del Sud-Est asiatici. Inoltre, la pubblicazione informava che, dato che la comunità internazionale aveva lanciato la campagna anti-terroristica, lo SIIL ora evitava il reclutamento di nuovi membri secondo la propria “base”, preferendo separarli inviandoli in piccole cellule in Siria, Turchia, Indonesia e Kirghizistan.
Il problema uiguro complicò i rapporti turco-cinesi nell’estate 2015. Tutto iniziò in Thailandia. Le autorità decisero di espellere oltre 100 uiguri in Cina. Nella notte tra l’8 e il 9 luglio, gli uiguri turchi attaccarono l’ambasciata cinese a Istanbul, per protestare contro questa decisione. In risposta, le autorità della Thailandia cambiarono posizione e dichiararono che gli emigranti uiguri non sarebbero stati deportati in Cina senza le prove dei loro crimini. Invece… furono deportati direttamente in Turchia! Non fu una decisione nuova, deportazioni di uiguri in Turchia già si erano avute. 60mila uiguri vivono in Turchia. Ciò significa che non si parla di singoli casi di espulsione, ma di concentrazione consistente di gruppi uiguri dai vari Paesi asiatici in Turchia. A luglio il sito arabo al-Qanun citò Tong Bichan, alto funzionario del Ministero di Pubblica Sicurezza cinese, dire: “I diplomatici turchi nel sud-est asiatico hanno dato carte d’identità turche ai cittadini uiguri della provincia dello Xinjiang, inviandoli in Turchia a prepararsi alla guerra contro il governo siriano a fianco dello SIIL“. Infine, solo di recente la risorsa propagandistica dello “Stato islamico” ha registrato una canzone in lingua cinese. La canzone contiene l’appello a svegliarsi diretta ai fratelli musulmani cinesi. Tali appelli fanno parte della campagna anti-cinese lanciata dallo SIIL. Un altro video dei califisti mostra un 80enne predicatore musulmano dello Xinjiang esortare i compatrioti musulmani ad unirsi allo SIIL. Il video mostra poi una classe di ragazzi uiguri, di cui uno promette di alzare la bandiera dello SIIL nel Turkestan. Tutto questo porta alla conclusione che tra gli obiettivi che lo SIIL cerca di raggiungere in cooperazione con la Turchia, vi è l’avvio della “Primavera cinese” in termini piuttosto chiari. Tale obiettivo richiede “collaboratori” presenti nei territori vicini alla Cina, in primo luogo negli Stati turcofoni dell’Asia centrale. Ad esempio, il Kirghizistan, a questo proposito, chiaramente dovrebbe diventare il luogo di concentramento e addestramento dei gruppi radicali.
La grande riformulazione del Medio Oriente cerca di volgersi ad est, in direzione della Cina. Il che significa che nuove gravi fasi di tale guerra non sono lontane.

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Ruben Kruglov. Traduzione di Alessandro Lattanzio

988.- NON MORIREMO DI PD !

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Se dev’essere Merkel il nostro capo, ebbene, che sia. Agli italiani sembra che si possa fare di tutto, fuorché rispettarne la Costituzione. Per chi detesta le rivoluzioni, l’alternativa è andarsene. “Tutti a Berlino” è la guida indispensabile per prepararsi alla Deutsche Vita nella capitale tedesca. In questa rubrica i due autori, Gabriella di Cagno e Simone Buttazzi, proporranno alcuni utilissimi estratti in esclusiva per Il Mitte. Il manuale (lo potete acquistare qui) vi spiegherà come affrontare e risolvere i nodi cruciali della vita a Berlino, dalla registrazione anagrafica alla ricerca della casa, dall’assistenza sanitaria alle prospettive di lavoro, dall’accesso al welfare fino al conseguimento della cittadinanza. Indirizzi, modulistica, consigli pratici: il tutto a portata di agile consultazione.

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Diventare tedeschi: la procedura di naturalizzazione

A partire dal 22 dicembre 2002, in seguito a un accordo fra Italia e Germania, è venuto meno il requisito della perdita della cittadinanza originaria in caso di naturalizzazione. I cittadini italiani possono quindi fare richiesta di «doppia» cittadinanza. Questo significa che, in ottemperanza alla legislazione locale, dopo aver trascorso otto anni in Germania si può diventare anche tedeschi. La differenza è simbolica solo fino a un certo punto. Diventare tedeschi, da semplici berlinesi che si era, porta con sé un’intera gamma di diritti come quello di voto attivo e passivo in occasione di tutte le tornate elettorali, oltre alla possibilità di accesso a qualsiasi ruolo di ordine pubblico-statale. Il tutto senza perdere i diritti connessi alla cittadinanza italiana.

A norma di legge, il diritto all’acquisizione della cittadinanza tedesca mantenendo quella italiana sussiste in presenza dei seguenti requisiti: 1) risiedere regolarmente in Germania da almeno otto anni; 2) riconoscersi nell’ordinamento libero e democratico della Costituzione tedesca; 3) non svolgere attività contrarie ai princìpi garantiti dalla Costituzione; 4) essere in grado di sostenere se stessi e i familiari aventi diritto al sostegno senza dover ricorrere ai sussidi previsti dal Sozialgesetzbuch; 5) non aver subito condanne penali (con eccezione di reati lievi); 6) dimostrare una sufficiente conoscenza della lingua tedesca.

Innanzitutto va detto che non devono per forza passare gli otto anni previsti dalla legge. In casi di «particolare integrazione» ne bastano sei. Si tratta di un’informazione pressoché confidenziale che l’ufficio competente (l’Einbürgerungsamt, o Staatsangehörigkeitsbehörde) è autorizzato a comunicare aggiungendo che i criteri di selezione saranno più pignoli. I tempi sono ancor più brevi nel caso in cui si sia sposati (o si sia stipulata un’unione civile) con una persona avente cittadinanza tedesca. In tal caso, al momento di richiedere la cittadinanza il legame deve essere ancora valido secondo il diritto tedesco, i partner devono essersi uniti da almeno due anni e chi dei due fa richiesta deve essere residente in Germania da almeno tre anni. La richiesta di cittadinanza può riguardare anche i figli minorenni della coppia ed essere burocraticamente espletata mediante la compilazione di un unico modulo. La mera appartenenza a un nucleo famigliare con uno dei due coniugi tedesco è condizione necessaria ma non sufficiente: il partner deve dimostrare una buona conoscenza della lingua e della cultura generale tedesca e riconoscersi nei princìpi democratici contenuti nel Grundgesetz, la Costituzione della Bundesrepublik Deutschland scritta nel 1949 e che gli ex Länder della DDR hanno riconosciuto nel 1990, in vista della riunificazione.

La procedura di Einbürgerung può richiedere fino a sei mesi, visto che coinvolge molti uffici e richiede numerose verifiche. Ecco i documenti da consegnare all’ufficio competente insieme all’Antrag: 1) il certificato di nascita (internazionale, ovvero con le voci tradotte); 2) una fototessera; 3) fotocopia della carta d’identità e dell’Anmeldebestätigung; 4) il Lebenslauf (CV) in formato tabellare-europeo; 5) il Vordruck A40 rilasciato dal Finanzamt, che certifica l’assenza di debiti e il regolare pagamento delle tasse; 6) un contratto di lavoro dipendente in corso o, in caso di attività autonoma, una conferma del commercialista circa la media degli introiti mensili; 7) eventuali documenti ufficiali relativi all’avvio di un’attività in proprio; 8) il contratto d’affitto o, nel caso in cui si possieda casa, il Grundbucheintrag, un documento che indichi l’ammontare del Wohngeld; 9) l’ultimo Steuerbescheid, vale a dire la dichiarazione dei redditi già vagliata dal Finanzamt. L’intera procedura costa 255 euro, di cui 191 da bonificare alla consegna del formulario. Costano inoltre circa 25 euro cadauno il test di lingua (evitabile se si dimostra di aver studiato in Germania) e quello di cultura generale.

Una volta convocati alla fine della lunga trafila di Einbürgerung, vi spiegheranno quali sono le limitazioni di questa forma di cittadinanza (nessun accesso ai servizi consolari tedeschi in Italia… comprensibile), firmerete un documento nel quale dichiarate che nei sei mesi intercorsi tra l’inoltro della domanda e il suo accoglimento, per quello che ne sapete voi, non avete commesso reati di sorta, vi faranno controllare i dati sull’attestato e infine vi daranno un foglietto con una formula da pronunciare ad alta voce. È il feierliches Bekenntnis come da paragrafo 16 comma 2 della Legge sulla Cittadinanza, la dichiarazione solenne di rispettare la Costituzione e le leggi della Repubblica Federale Tedesca e di non fare nulla per arrecarle danno. La formula magica per diventare, oltre che italiani, tedeschi. Sempre più europei.

La rubrica Tutti a Berlino è sulle pagine digitali del Mitte, ma da fine settembre 2014 sarà disponibile la nuova edizione ampliata e aggiornata del vademecum Quodlibet, con la prefazione di Angelo Bolaffi (Cuore tedesco). Vi aspetta in libreria!

 

987.- Siria: le complesse implicazioni politiche della battaglia di Al-Bab

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Finché Erdogan non deciderà di buttarsi tra le braccia di Mosca, tutte le opzioni sono ancora sul tavolo. Aggiungo: Finché Trump, Erdogan, Putin e Netanhiau non troveranno una prospettiva comune (Ad Ankara, il 1° dicembre, è arrivato il primo ambasciatore Israeliano in Turchia dal 2010).  È Vladimir Putin, il vincitore, l’intermediario tra Turchia e Siria. Intanto, ieri l’altro, Al-Bab, la roccaforte dell’Isis nel nord della Siria, è stata liberata dai ribelli siriani sostenuti dalla Turchia. “Annunciamo che Al-Bab è completamente liberata”, ha detto il comandante di una delle brigate “ribelli” sostenute da MacCain e Erdogan.

 

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Per decenni, molti siriani non hanno quasi mai sentito parlare di Al-Bab, villaggio arabo a prevalenza sunnita a 40 km a nord-est di Aleppo. Nessun capo di Stato l’aveva mai visitata dalla caduta dell’Impero Ottomano, dopo la Prima Guerra Mondiale. Gli storiografi raccontano come la città venne presa ai Romani dal secondo califfo musulmano Omar ibn al-Khattab nel VII sec. e di come essa sia importante per gli sciiti in quanto ospita la tomba del fratello del quarto califfo, Ali ibn Abi Talib, genero del Profeta.

Ma oggi, Al-Bab è solo un obiettivo strategico per le potenze immischiate nel labirinto della guerra siriana, al centro degli intrighi politici che hanno a lungo dettato il corso del conflitto che ormai dura da quasi sei anni.

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Nel 2013, a due anni dall’inizio della guerra, Al-Bab fu invasa da Daesh (ISIS). Dal novembre 2016, l’esercito turco è avanzato gradualmente verso la città con lo scopo dichiarato di liberarla dai miliziani del sedicente Stato Islamico. Lo scorso 11 febbraio, un portavoce del governo turco ha detto che l’esercito si sarebbe fermato una volta ripresa Al-Bab e che non aveva alcuna intenzione di proseguire verso Raqqa, la “capitale” siriana di Daesh. Ma il presidente turco Erdogan ha immediatamente smentito la dichiarazione, ribattendo: “Ci deve essere un malinteso: non ci fermeremo ad Al-Bab. Dopo sarà la volta di Manbij e Raqqa”.

Anche Manbij, a ovest del fiume Eufrate, era sotto il controllo di Daesh, fino a quando le milizie curde non l’hanno liberata lo scorso agosto. Edorgan spera di espellerle e includere la città nella sua ambiziosa zona di sicurezza in Siria.

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La Siria dopo aver resistito per anni all’esercito israeliano, è finita sulle direttrici degli oleodotti, nella contesa fra le mire dello Stato Islamico e del Califfo Erdogan e fra le rivendicazioni dei curdi. Ma la Russia non vuole americani sui confini.

Quando l’esercito turco ha lanciato l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, il 24 agosto 2016, ha iniziato dalla città frontaliera di Jarabulus, scacciando i miliziani di Daesh. L’operazione aveva 3 obiettivi dichiarati: il primo, era evitare il crearsi di un collegamento tra i cantoni curdi di Afrin e Kobane, che avrebbe dato vita a un Kurdistan siriano; il secondo, era quello di liberare 5.000 km² di territorio dal controllo di Daesh; il terzo, era creare una zona sicura per trasferire i 2,5 milioni di rifugiati siriani che vivono in Turchia dal 2011. Oltre ad Al-Bab, la zona di sicurezza includerebbe Manbij, Azaz e Raqqa.

A prima vista, le operazioni turche sembravano perfettamente coordinate con Mosca, la quale non ha fatto o detto nulla per scoraggiare l’avanzata delle forze di Ankara. Tuttavia, se la Russia approva il progetto turco, perché anche il governo siriano sta avanzando verso Al-Bab? Si tratta di una manovra diversiva in vista di un attacco a sorpresa altrove, magari su Raqqa? Oppure è un segno delle divergenze tra Russia e Turchia su chi controlla cosa nella Siria settentrionale?

Da parte sua, il neo-presidente americano Trump ha più volte espresso l’intenzione di stabilire una no-fly zone in Siria per tamponare il flusso di rifugiati, parole che suonano come musica alle orecchie di Erdogan. Realizzare questa zona di sicurezza sarebbe molto costoso e richiederebbe l’impiego di forze terrestri e aree. Sebbene gli americani non vogliano lasciarsi coinvolgere in tale impresa, i turchi si offrirebbero volentieri.

Il 9 febbraio scorso, però, aerei da guerra russi hanno bombardato una postazione turca ad Al-Bab, provocando la morte di 4 soldati. L’esercito turco ha dichiarato che si è trattato di un “incidente”, ma Mosca non ha porto le sue scuse ufficiali, al contrario di Erdogan dopo l’abbattimento del jet turco nel novembre 2015. I russi hanno invece incolpato i turchi dell’incidente, dichiarando che avevano fornito le coordinate errate.

Un giorno e mezzo dopo “l’incidente”, Erdogan ha parlato al telefono con Trump per 45 minuti, cercando il suo sostegno per avanzare verso Raqqa prima che la città venga invasa dalle Forze Democratiche Siriane (milizia a guida turca appoggiata dagli USA) o dall’esercito siriano regolare. Erdogan impedirebbe volentieri alle forze curde di aggiudicarsi l’onore della liberazione di Raqqa, considerata il trofeo della guerra contro Daesh.

Tuttavia, Trump non smetterà di appoggiare i curdi siriani, i quali, all’inizio di febbraio, hanno richiesto all’esercito statunitense armi anticarro, rilevatori di mine e altri equipaggiamenti per aiutarli a completare la loro avanzata su Raqqa. Probabilmente, la cosa dà i brividi a Erdogan, che sta disperatamente cercando di convincere il presidente USA ad abbandonare il progetto. Un progetto, tra l’altro, che andrebbe a toccare un nervo scoperto per i russi, che vogliono che Trump capisca che è Mosca ad avere il controllo in Siria, e non Washington.

Sami Moubayed. Sami è un giornalista siriano, fondatore del progetto online The Damascus History Foundation.

L’affievolirsi dei toni della Turchia nei confronti di Damasco dimostra che la Russia tiene a bada i due Stati in conflitto.

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Quando lo scorso 24 novembre, l’esercito turco riferì che un attacco aereo da parte delle forze governative siriane aveva provocato la morte di 3 soldati turchi e il ferimento di altri 10 nei pressi di Al-Bab, città frontaliera della Siria occidentale, fu la prima volta in cui la Turchia incolpò il governo di Assad per la morte di soldati turchi su territorio siriano sin dall’inizio della campagna militare or sono sei mesi fa.

L’assenza di ribelli siriani tra i soldati presi di mira e i continui attacchi sulla stessa posizione avevano poi suscitato altre domande: quale motivo si celava dietro gli attacchi? Come avrebbero influenzato l’andamento del conflitto? E soprattutto, i soldati turchi erano stati presi di mira deliberatamente?

L’offensiva turca, mascherata da una coalizione di gruppi ribelli siriani supportati dalle truppe turche, è stata lanciata lo scorso 24 agosto per riprendere il controllo della città frontaliera di Jarablus dalle mani di Daesh (ISIS), nonché per smorzare gli animi delle forze curdo-siriane, considerate da Ankara una minaccia a causa della loro affiliazione con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fuorilegge in Turchia. L’offensiva dovette essere preceduta da un riavvicinamento con la Russia dopo 8 mesi di tensioni causate dall’abbattimento di un jet russo alla fine del 2015. Tale riavvicinamento scatenò speculazioni su un accordo segreto tra Ankara e Mosca riguardo alla Siria e l’assenza di attacchi militari tra la Turchia e il regime siriano – nonostante l’ostilità reciproca – dette adito a queste speculazioni. Tuttavia, proprio questo presunto accordo turco-russo è stato anche considerato come uno dei motivi dell’attacco aereo del 24 novembre.

Sono varie le potenziali motivazioni, sia individuali che collettive, che potrebbero spiegare l’attacco alle forze turche. Potrebbe essere stato un avvertimento per tenere lontana Ankara da Al-Bab. È inoltre opinione condivisa tra alcuni che la Russia – nonostante approvi l’operazione turca – non permetterà ai gruppi ribelli sostenuti dalla Turchia di riprendere la città frontaliera perché Mosca temeva – a ragione –  che Ankara e i suoi alleati ribelli siriani sarebbero stati, poi, in grado di minare l’operazione del governo ad Aleppo.

Il sabotaggio della nuova cooperazione tra Turchia e Russia, che costituisce una minaccia a lungo termine per il presidente siriano Bashar al-Assad, potrebbe essere stato un altro motivo. “Assad e l’Iran, sebbene per ragioni diverse, non sono entrambi contenti del ripristino delle relazioni turco-russe”, dichiarò una fonte diplomatica rimasta anonima. “Assad teme che tale cooperazione potrebbe portare, nel lungo termine, ad un aggiustamento politico che lo costringerebbe a condividere il potere con l’opposizione. Da parte sua, l’Iran teme, a sua volta, che i due paesi condividano un interesse nel limitare la sua influenza sulla Siria e quindi potrebbe aver cospirato per sabotare le rinnovate relazioni bilaterali”, concludeva la fonte.

Inoltre, l’attacco è accaduto – guarda caso – proprio un anno dopo l’abbattimento del Sukoi russo da parte della Turchia nello spazio aereo siriano, suggerendo che si sia trattato di un atto di vendetta. Quanti si trovano d’accordo con questa tesi sostengono che, anche se la Russia non ne è la diretta responsabile, ha il controllo delle operazioni aeree e il regime siriano non avrebbe mai osato portare un simile attacco senza il permesso di Mosca.

L’attacco, infine, aveva fatto temere un’escalation del conflitto, di per sé già abbastanza complesso. Tuttavia, se si analizzano bene le reazioni che sono seguite all’incidente, tale probabilità era molto remota. Inizialmente, la Turchia si era rifiutata di ritirare le sue forze dalla Siria e aveva posto due jet in standby su allarme. Le tensioni aumentarono quando il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, dichiarò che per la prima volta il suo paese interveniva in Siria per “porre fine al governo del crudele Assad e alla sua politica di terrore”: un linguaggio forte, provocatorio, ma abbandonato quasi subito da Erdogan in favore di toni più diplomatici nei confronti del regime siriano, considerando – appunto – che nel frattempo il leader turco era impegnato in negoziati con il presidente russo Vladimir Putin.

Tre giorni dopo il commento sul “crudele Assad”, Erdogan corresse il tiro e disse che l’obiettivo dell’offensiva turca in Siria non era il paese in particolare, ma le organizzazioni terroristiche. Lo stesso giorno, il ministero degli Esteri turco rettificò una sua dichiarazione che dimostrava che la Russia confermava la responsabilità del regime siriano nell’attacco: la nuova dichiarazione sosteneva che la controparte russa aveva affermato che né Mosca né Damasco erano responsabili per l’attacco e che c’era stato un problema di traduzione che aveva fatto capire il contrario.

Inoltre, girava voce, ma solo una voce, che la Turchia stesse promuovendo dei negoziati ad Ankara tra la Russia e i ribelli siriani per porre fine alle ostilità ad Aleppo, il che potrebbe spiegare il suo repentino cambio di direzione e indicare che l’incidente era stato superato. Ma se la Turchia avesse davvero promosso un accordo, questo avrebbe migliorato le sue relazioni con la Russia, assicurandole un ruolo politico molto più attivo nel conflitto siriano. Un obiettivo improbabile perché, a sua volta avrebbe rafforzato ancor di più la posizione di Mosca, ma, marginalizzando gli USA, si sarebbe risolto in una vittoria di Pirro.

Da tutta questa ricostruzione deduciamo che il graduale scemare dell’escalation di parole sul regime siriano da parte della Turchia abbia dimostrato che le relazioni turco-russe fossero e sono forti, il che, se rese e rende remota la possibilità di uno scontro miliare tra Ankara e Damasco, tuttavia, ci dimostra, infine, che il tentativo turco di riprendere Al-Bab aveva il permesso e il sostegno di Mosca. E’ Putin, il vincitore, che dirige l’orchestra fra Erdogan e Assad.

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Ad Ankara è arrivato il primo ambasciatore Israeliano in Turchia dal 2010

Commento tratto da scritti di Haid Haid, un opinionista siriano e ricercatore presso la Chatham House.

986.-Legge elettorale. Le motivazioni della sentenza della Consulta.

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Ritorniamo sulle motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale. Anzitutto il problema affrontato dalla Corte resta quello della scelta fra rappresentatività e governabilità e, come ebbi il caso di chiedere (inutilmente) al Presidente Grossi “Non è che l’insufficiente disciplina dei partiti, data dall’art. 49 Costituzione, c’entra qualcosa?” Infatti, è il ballottaggio, che così come configurato dall’Italicum – scrive la Consulta -, rischia di “comprimere eccessivamente il carattere rappresentativo dell’assemblea elettiva e l’eguaglianza del voto”. E ancora: “Una lista può accedere al turno di ballottaggio anche avendo conseguito, al primo turno, un consenso esiguo, e ciononostante ottenere il premio, vedendo più che raddoppiati i seggi che avrebbe conseguito sulla base dei voti ottenuti al primo turno”. Da tali disposizioni dunque si produce “un effetto distorsivo” analogo a quello individuato dalla Consulta nella sentenza contro il Porcellum. E siamo sempre lì. Perché è la rappresentatività dei partiti che è in crisi e lo dimostra l’assenteismo. Sostengo che se i cittadini possono partecipare alla politica attraverso i partiti, con metodo democratico, i partiti devono essere disciplinati in modo puntuale, secondo i principi della trasparenza e dell’alternanza, perché la frase “con metodo democratico” non dice abbastanza. E si vede. In altre parole, i candidati dei partiti, una volta eletti, devono legiferare secondo la volontà del popolo sovrano, cioè, non secondo un mandato imperativo di diritto privato o similare, ma rispecchiando un collegamento stabile con l’elettorato. Questo significa anche che quattro governi imposti, senza andare al voto, non sono governi legittimi. trovo, perciò, censurabile che la Corte Costituzionale si applichi sulla legge elettorale e non anche sull’effetto da essa prodotto di inibire lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, sia pure anch’esso votato dal Parlamento illegittimo. Sono diversi i punti in cui è mancata l’intermediazione dei partiti tra società e Stato; senza poi, scandire, neanche sommariamente, i fatti delittuosi o delinquenziali cui hanno dato luogo in questi anni. Certamente la situazione della rappresentanza è mutata relativamente alla progressiva affermazione, avvenuta soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dei partiti politici (e per alcuni aspetti dei sindacati), che si sono imposti sul Parlamento come luoghi in cui si concentrano le aspirazioni politiche dei cittadini, e quindi sono divenuti il luogo reale della rappresentanza. I cittadini, attraverso le elezioni, in misura forse più palese nei sistemi proporzionali, ma in realtà anche nelle varie forme di maggioritario, non scelgono primariamente una certa persona, bensì il candidato di un certo partito. Ecco che a dominare i meccanismi della partecipazione politica nei paesi democratici sono stati per lo più i sistemi di partito, al punto che difficilmente possiamo immaginare una democrazia senza partiti. Ma il pluralismo della democrazia non ha trovato espressione sufficiente nelle segreterie dei partiti, che sono divenuti , prima, cerchi di potere e, poi, centri di affari, fino a venire fagocitati essi stessi e a identificarsi in uno strumento di quel mondo. A questo ha contribuito la “massimizzazione del profitto” anteposta “alla realizzazione e alla dignità della persona” come espressione del diritto al lavoro” e della sua funzione di ascensore sociale, santificata dalla Costituzione. Qui, l’ascensore non è più il lavoro che non c’è, ma le congreghe della politica. Penso che abbiamo affrontato una guerra civile – e quanti morti – per affermare la democrazia, per scoprire, poi, che non fa per noi.

Tornando alle motivazioni della sentenza, per la Corte costituzionale “ben può il legislatore innestare un premio di maggioranza in un sistema elettorale ispirato al criterio del riparto proporzionale di seggi, purché tale meccanismo premiale non sia foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa”. In questo caso, però, la Corte ravvisa una “lesione” della Costituzione per le “concrete modalità dell’attribuzione del premio attraverso il turno di ballottaggio” laddove “prefigura stringenti condizioni che rendono inevitabile la conquista della maggioranza assoluta dei voti validamente espressi da parte della lista vincente”.

Sulla soglia di sbarramento introdotta con l’Italicum la corte Costituzionale dice invece che “non è irragionevolmente elevata” e “non determina di per sé, una sproporzionata distorsione della rappresentatività dell’organo elettivo”. La Corte evidenzia che “non può’ essere la compresenza di premio e soglia, nelle specifiche forme ed entità concretamente previste dalla legge elettorale, a giustificare una pronuncia di illegittimità del premio: ben vero che qualsiasi soglia di sbarramento comporta un’artificiale alterazione della rappresentatività di un organo elettivo, che in astratto potrebbe aggravare la distorsione pure indotta dal premio”.

Per la Consulta inoltre sono necessarie “maggioranze parlamentari omogenee” in quanto la Costituzione, “se non impone al legislatore di introdurre, per i due rami del Parlamento, sistemi elettorali identici, tuttavia esige che, al fine di non compromettere il corretto funzionamento della forma di governo parlamentare, i sistemi adottati, pur se differenti, non lo devono ostacolare”.

“Ballottaggio Italicum sacrifica la rappresentatività”. E ancora: “Garantire maggioranze parlamentari omogenee”

985.-Sciogliere le Camere: Napolitano ha tradito e Mattarella tradisce la Costituzione. E pensare che si governa al servizio e per il bene dei cittadini.

Leggo da Stefano Alì: Sciogliere le Camere? Non si può se c’è una maggioranza? FALSO!

Sciogliere le Camere. Cosa dice la Costituzione

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Non si possono sciogliere le Camere. I “neo costituzionalisti” del bastaunsi hanno riscoperto la Costituzione. Adesso hanno saputo che l’art. 92 non prevede che i governi vengano eletti. È un passo avanti, ma non si impegnano.
È evidente che il Partito Democratico (sopratutto) ritiene che “democratico” sia chi ha tale parola scritta nella denominazione del partito. Ne ho già scritto (PD un partito democratico? Solo perché si definisce tale?), ma è il caso di rinfrescare la memoria.

Adesso, dopo 70 anni, si parla di Costituzione. La madre della democrazia. La madre anche di tutti i poteri democratici di una democrazia, ma pare che i sostenitori del PD, ripeto, i sostenitori non abbiano ben capito di che si tratta.

Alla dichiarazione «Governo non eletto. Con Gentiloni siamo a quattro consecutivi» rispondono convinti (da manualetto delle risposte pronte, ovviamente) che l’articolo 92 della Costituzione non prevede che i Governi vengano eletti. I Primi Ministri vengono incaricati dal Presidente della Repubblica, obiettano. E la lista dei ministri viene predisposta dal Presidente del Consiglio incaricato, aggiungo io.

Allora dove sta l’errore?

L’errore sta proprio nel manualetto delle “risposte pronte”.

Facciamo un breve riepilogo.

La pronuncia della Corte Costituzionale 1/2014

E’ stato già scritto della pronuncia della Corte Costituzionale 1/2014, ma siccome i “democratici” conoscono la Costituzione solo attraverso i “manualetti delle risposte pronte”, proviamo ad approfondire.

L’articolo 88 della Costituzione prevede che:

Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.
Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura
Teniamo presente che il Presidente della Repubblica è il “garante della Costituzione” e rappresenta l’unità della Repubblica. Alcuni «può» significano «deve» se ne ricorrono le condizioni.

Ora, la pronuncia della Corte Costituzionale possiamo leggerla come vogliamo (anche se, in realtà, poco spazio è lasciato alla libera interpretazione), ma non c’è dubbio alcuno sul fatto che:

in definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione.
Le Camere possono continuare a fare come nulla fosse? Sia! Anche se non tutti concordano (e neppure io e l’ho pure scritto).

Il “Garante della Costituzione e lo “scioglimento delle Camere”

Ma le Camere possono fare come nulla fosse? Che ci sta a fare il «Garante della Costituzione»?

Ci viene in soccorso l’art. 88 della Costituzione e la “dottrina costituzionale”

Nelle intenzioni del costituente il Presidente ha come compito fondamentale di garantire per quanto possibile la costante armonia tra elettori ed eletti. Il potere di scioglimento restituisce rappresentatività ai rappresentanti.
Questo punto è incontroverso in dottrina. Non solo Dominedò, Barile e decine e decine di testi di diritto Costituzionale, ma qualunque semplice manualetto da pochi Euro conferma il principio.

Ora ripeto: Siamo tutti d’accordo sul fatto che la Corte Costituzionale ha denunciato che è “ferita” «la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione»?

Se siamo d’accordo, le Camere potranno pure fare quel che vogliono, ma il “Garante della Costituzione” – il Presidente della Repubblica – che fa?

Napolitano ha fatto come nulla fosse, fissato com’è che sventrare la Costituzione (sulla quale, pure, ha giurato e della quale avrebbe dovuto essere il “garante”) sia un bene per gli italiani.

E Mattarella?

Mattarella ha fatto di peggio.

  1. Ha riconosciuto e accettato la sua elezione alla Presidenza della Repubblica da parte di un Parlamento che si sarebbe dovuto sciogliere da tempo;
  2. Ha promulgato una legge elettorale che inibisce una delle funzioni fondamentali del Capo dello Stato: sciogliere le Camere;
  3. Adesso sostiene che non si può votare perché l’Italicum non prevede l’elezione del Senato. Verissimo, ma non se ne è accorto, quando l’ha firmata e promulgata?
    Può esistere una legge ordinaria che impedisca l’esercizio di un potere che la Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica?

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Abbiamo atteso la pronuncia della Corte Costituzionale fino alle 17 del 25 gennaio, ma Mattarella non si era accorto che l’Italicum, impedendo lo scioglimento delle Camere, inibiva una delle funzioni fondamentali del Presidente della Repubblica? Che faceva? Dormiva? Che Presidente è?

Il comunicato della Consulta non fu il macigno che attendevo: “La Corte ha respinto le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura generale dello Stato. Ha inoltre ritenuto inammissibile la richiesta delle parti di sollevare di fronte a se stessa la questione sulla costituzionalità del procedimento di formazione della legge elettorale, ed è quindi passata all’esame delle singole questioni sollevate dai giudici”. Così, si legge nella nota integrale diffusa dagli alti giudici. Praticamente, tutto è rimasto nella paccottiglia della cosiddetta riforma di Maria Elena Boschi.

Certo, è rimasta sempre la questione della omogeneità dei due sistemi elettorali di Camera e Senato, chiesta a più riprese dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Questa però è una questione politica, che – a mio parere – serve a prolungare la vita del Parlamento illegittimo. Quella giuridica si è esaurita, per me, ascoltando il Presidente della Consulta Paolo Grossi a Padova, alla Scuola di Cultura Costituzionale. Dice che si libererà quando lascerà la carica.