La HMS Warspite apre il fuoco contro le coste siciliane poco prima degli sbarchi anfibi
Abbiamo già scritto di Biscari, della strage dei carabinieri e dei fanti prigionieri italiani, falciati con le braccia alzate dai mitra dei marines e dei fanti della 82ª divisione americana, arresisi dopo un molto onorevole combattimento. Il maiale che dette questi ordini si chiama George Patton, comandante della 7ª Armata, un generale che avrebbe dovuto sedere sui banchi di Norimberga, molto diverso da Eisenhower. In Sicilia, dove la mafia si incarica di ammazzare gli ufficiali delle batterie costiere la sera prima dello sbarco, accaddero molti fatti eroici, come lo sfilamento impavido, sotto il fuoco dei cannoni alleati delle divisioni mobili Aosta e Assietta che andavano a schierarsi davanti alle teste di sbarco e tanti altri. Il mito della Liberazione Viva la sincerità: ci invasero per “punirci” non per “liberarci”. Era giusto così: c’est la guerre, come dicono i francesi. Ovvero: Vae Victis. Il mito della “liberazione” fu costruito dopo la nostra capitolazione, per ragioni squisitamente politiche e di propaganda. Il contenuto vero della “liberazione” per gli Alleati fu sempre costituito dalla “punizione”, che si attuò finalmente nel durissimo Trattato di Pace del 1947. In totale tra morti, feriti, dispersi, prigionieri le perdite italiane assommarono a 130.000 uomini, quelle tedesche a 37.000 uomini; fra le perdite materiali 260 carri armati, 500 cannoni e un numero imprecisato di aerei. Gli alleati persero non meno di 8.000 uomini, fra morti e dispersi, 103 carri armati, 96 mezzi da sbarco e 274 aerei. Alle crude cifre dei morti e dei dispersi militari vanno aggiunte le stragi dei civili, la rovina delle città e delle campagne; i bombardamenti avevano distrutto acquedotti, centrali elettriche, strade ferrate , mancava quindi l’acqua, l’energia elettrica, i treni non viaggiavano, le campagne isterilivano, il bestiame moriva e le città erano sommerse da cumuli di macerie. I bombardamenti avevano distrutto 250.000 abitazioni, 15.000 vani rurali, migliaia di automezzi, strade, per non parlare del patrimonio zootecnico e di oliveti, vigneti, agrumeti e quant’altro. Francesca Donato, da grande italiana, ci riporta a quei giorni con questo scritto.
Sulla spiaggia di Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia, divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia, cancella i ricordi, le immagini, i momenti”.
A Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”
Il recente episodio evoca in modo simbolico un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato da parte dei soldati alleati.
Le cose andarono molto diversamente. Ad esempio, è stato rimosso quasi del tutto il sacrificio della divisione “Livorno” che, insieme alla “Napoli” si fece massacrare mettendo forse a rischio l’intero sbarco alleato. In secundis, solo da qualche anno, si comincia a parlare delle collusioni tra Forze armate Usa e la mafia italoamericana di Lucky Luciano; il recente film di Pif “In guerra per amore” per quanto sotto le vesti di una commedia romantica, ha avuto il merito di portare finalmente al grande pubblico, in una veste “accettabile”, questo scottante tema. Se pressoché nulla si è divulgato del ruolo preciso che la mafia ebbe nel sabotare quasi un terzo del sistema difensivo italiano, ancor meno è filtrato, alla coscienza collettiva, sulle stragi dimenticate e impunite compiute dai militari americani su civili e prigionieri italiani. Cercheremo di sintetizzare il tutto con i dati provenienti dalla più qualificata e aggiornata letteratura storica dedicata al tema.
L’annichilimento della mafia e l’assalto al latifondo siciliano
Poco si può comprendere dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto. Nel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino (quindi era stato graziato). Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze.
Il traditore mafioso Calogero Vizzini. Gli ufficiali delle batterie costiere furono assassinati con un colpo sparato alle spalle la notte prima dello sbarco.
Il gangster Lucky Luciano
I servizi segreti Usa si avvalgono di Lucky Luciano
Nel frattempo, come scrive Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti si creava il legame tra US Navy e mafia italoamericana. Fin dallo scoppio della guerra, nel ’39, gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi, importanza strategica e si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e italiane. Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano. Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza.
La collaborazione con la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa. I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden.
Del resto, anche l’avvocato di Lucky Luciano, Moses Poliakoff, ammise tranquillamente: “Nel 1942, il procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del Controspionaggio della US Navy intendeva chiedere a Luciano una “certa assistenza”. Mi chiesero se ero disposto a fare da intermediario”.
Le foto che svelano i mafiosi “embedded” nelle forze armate Usa
Un altro servigio reso da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia (operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss) il servizio segreto statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella Trinacria, fossero ostili al regime, non ultimi gli influenti membri del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia.
Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini, il quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis – e dei mafiosi – a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che, dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938. Lo ritroviamo in una fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano, mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero. Lo stesso vessillo è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto del 2010 – del tutto inedita – scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e strisce. La vicenda dell’emblema con la “L”, per quanto già nota a livello locale, non è mai stata presa sul serio a livello della storiografia nazionale. La foto che pubblichiamo fuga ogni dubbio: c’erano anche “loro” e, ancor oggi, qualcuno tiene a ricordarlo agli americani.
Come la mafia sabotò due divisioni del Regio esercito
Uno dei più efficaci provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” – quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani – il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli anglo-americani”. Le due divisioni schierate inizialmente, l’”Aosta” su Trapani e l'”Assietta” su Marsala, effettuarono, comunque, una manovra brillante e coraggiosa defilando sotto il fuoco navale per prendere posizione.
I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente – perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza (In Sicilia fu Desistenza) e, nel nord Italia, dimostrarono grande spirito combattivo. L’Anpi faccia tutti i convegni che crede, ma i testimoni hanno detto chiaro che i combattenti, anche quelli della Sicilia, del Regio Esercito e della Milizia, non erano animati da alcun furore politico.
Il guiderdone della mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot). Dopo aver lucrato con il mercato nero durante il conflitto, Cosa nostra comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto con il traffico di stupefacenti.
L’eroismo dimenticato della “Livorno“ e della “Napoli”
Al momento dello sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia.
Il generale che ha disonorato l’esercito statunitense.
Patton ordina il reimbarco?
A quanto riferisce il generale Alberto Santoni in una pubblicazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, Patton fu colto dal timore e diramò ai suoi persino l’ordine di prepararsi a un possibile reimbarco. Per quanto la circostanza fu poi negata dall’interessato e dal Pentagono, il testo del radiomessaggio, intercettato dal comando italiano di Enna, “dovrebbe trovarsi – scrive Santoni – ancora negli archivi dell’Esercito”.
Dietro nostra richiesta, l’Ufficio storico dell’Esercito non ha ritrovato il documento citato, ma ha prodotto una importante nota del Comando della XVIII Brigata Costiera che riporta, alle ore 15.00: “E’ stato notato che i natanti (Usa) vanno e vengono dalla spiaggia di Gela, si ha l’impressione che il nemico riprenda rimbarco”. Come sottolineato dallo stesso Ufficio storico, però, il generale Emilio Faldella scrive, invece, di una intercettazione contemporanea relativa a una semplice richiesta di rinforzi da parte di Patton. L’episodio sembra, però, ancora riconfermato, nelle sue memorie, dal tenente della “Livorno” Aldo Sampietro che ricordava l’istante di speranza in cui vide “carri armati americani ripiegare verso la spiaggia per reimbarcarsi”. Anche Raffaele Cristani, un altro ufficiale reduce, riporta: “Fino a quel momento gli americani si erano sempre ritirati di fronte ai nostri battaglioni, tanto che ci fu un momento in cui sembrò che stessero per ritirarsi”.
Se è vero, come riportano varie fonti, che la Livorno stava per costringere gli americani alla ritirata nel settore di Gela, questo avrebbe potuto compromettere l’intera invasione. (Quanto alla terminologia, va osservato che gli stessi angloamericani si consideravano degli “invasori” come si legge nella Soldier’s Guide of Sicily, distribuita alle loro truppe).
Nell’arco di terra tra Licata e Siracusa si riversarono 160.000 soldati
La flotta d’invasione, Ben 96 mezzi da sbarco furono centrati dalle batterie costiere.
L’uragano di fuoco navale
Le truppe da sbarco di Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò, allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 381 mm che “aravano” letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli aerei americani della Tunisia e quelli inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera, infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”.
Fu una carneficina per i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi fischiavano sulla nostra testa”. In questo frangente gli statunitensi richiesero l’appoggio dell’incrociatore USS Savannah, che colpì duramente gli italiani con i suoi pezzi da 152 mm annientando definitivamente la “Livorno”; dopo poco si unirono anche il gemello USS Boise e diversi oltre agli obici da 105 mm, che i DUKW sbarcarono precipitosamente allo scopo di fornire la fanteria di armi capaci di minacciare i reparti corazzati del generale Conrath.
In totale, la “divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni, lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400 effettivi.
Anche nel settore inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe “Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi sul fiume Simeto.
Campobello di Licata, CLXI gruppo, 11 luglio 1943 uno dei tre potentissimi semoventi italiani (M41 da 90/53 mm) perduti quel giorno. L’equipaggio viaggiava su un carro armato leggero L6/40 opportunamente modificato come portamunizioni. L’ultimo di 16 cannoni semoventi del 10º Reggimento controcarro fu distrutto mentre combatteva rimorchiato da un camion. Altri due avevano raggiunto Messina, vi furono catturati e portati ad Aberdeen, negli USA, dove uno è tuttora in mostra. Benché potente, non era un vero cacciacarri e sparava i normali perforanti della Marina.
Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che, pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese.
Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore – per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito (escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare.
Un noto cantastorie siciliano, Francesco Paparo di Paternò, in arte Cicciu Renzinu, ha scritto la ballata del caporalmaggiore Cesare Pellegrini, medaglia di bronzo alla memoria, che a Gela bloccò per diverso tempo i rangers con la sua mitragliatrice, abbattendone un certo numero, prima di essere ucciso a pugnalate sull’arma, e del già ricordato tenente dei carristi Angelo Navari, medaglia d’argento alla memoria, ambedue “tosti versigliesi” . Ma voglio rammentare, tra gli altri valorosi caduti, la camicia nera Francesco Faraci, di Gela, che, in un convulso combattimento notturno, mise in fuga assieme alla sua pattuglia i paracadutisti nemici ed il cui corpo fu ritrovato all’alba decapitato; il tenente catanese Filippo Lembo, del 490° battaglione costiero, ucciso a pugnalate dai rangers (che ne sfregiarono il volto) dopo aver esaurito le munizioni della sua pistola, avendo prima difeso con i suoi uomini le postazioni dei giardini comunali; il sottotenente Luigi Ignazio Adorno di Noto, del 374° battaglione costiero, medaglia d’oro alla memoria, che cadde con la pistola in pugno al comando con ventidue uomini del posto di blocco n. 418 sulla strada Avola-Noto, dopo che il suo plotone, quasi tutto distrutto, aveva inflitto sensibili perdite ai paracadutisti britannici che avevano circondato la posizione. Da ultimo, il capitano della Regia Aeronautica Franco Lucchini di Roma, medaglia d’oro alla memoria, che “scomparve nel rogo del suo Macchi 205 come un eroe mitico”, mentre attaccava, con altri cinque caccia, una formazione composta da centinaia di bombardieri e caccia nemici, sul cielo di Catania. “Del suo corpo fu ritrovata solo la mano sinistra fra i rottami del velivolo. Essa fu riconosciuta dalla fede che portava all’anulare”.
La stragi sconosciute dei prigionieri italiani
Ai soldati che caddero prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti. Sono, purtroppo, diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali! » Molti subalterni lo presero alla lettera, come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton, solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco.
A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca, richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.
La battaglia delle divisioni costiere.
Evidentemente, l’impiego delle divisioni costiere fu concepito quando ancora non si aveva nozione della potenza di fuoco della quale erano capaci gli anglosassoni, fruendo sempre di una poderosa protezione aeronavale.
La strategia del generale Alfredo Guzzoni, nostro valido comandante tenne conto dell’intuibile grande disparità delle forze, e della scarsità di valide forze di difesa (anche i tedeschi erano poco numerosi). Se non si voleva ritirarsi subito verso l’interno, fortificandosi sulle montagne, cedendo però di fatto la Sicilia occidentale al nemico, bisognava tentare di colpirlo subito dopo lo sbarco, mentre era nella delicata fase del dispiegamento. Non c’era scelta, anche se le antiquate artiglierie assegnate alle difese costiere avevano una gittata di soli 7 km (le navi nemiche sparavano da 15 km di distanza ed oltre) mentre le difese sulle spiagge erano incomplete. Erano minati tratti di spiaggia ma non le acque antistanti. I molti piccoli bunker costruiti, anche a regola d’arte e ben situati, non erano protetti tutt’intorno da filo spinato o altri strumenti per impedire al nemico di prenderli alle spalle, come poi effettivamente avvenne, sterminando i difensori con lanci di granate (anche al fosforo) attraverso le feritoie. Mancavano i materiali, dall’inizio dei bombardamenti in Sicilia non arrivava più niente. E tuttavia, nota lo storico militare Fabrizio Carloni, al quale si devono alcuni tra i rilievi appena riportati, a Gela la strategia di Guzzoni stava per riuscire. I rangers della 1ª divisione di fanteria americana (diventata poi famosa come “Grande Uno Rosso” o “Big Red One”) ci misero circa cinque ore di duri combattimenti ad impadronirsi di Gela, cittadina prospiciente la spiaggia, subendo perdite consistenti anche se mai dichiarate (alle 8,02 del mattino la stazione radio di Gela lanciò l’ultimo messaggio: “Siamo circondati”; l’ultimo cannone rimasto indenne sparò sul nemico fino all’inizio del pomeriggio e i suoi serventi caddero quasi tutti sul pezzo, come quelli del resto della batteria, nel frattempo distrutta). Allora: “I fanti costieri italiani si batterono bene a Gela e, se avessero potuto contare su un dispositivo difensivo meglio organizzato, avrebbero dato probabilmente modo alle riserve mobili alla mano e a quelle strategiche di ributtare gli americani a mare”. Affermazioni che colpiscono. Forse azzardate? Vediamo.
Un carro leggero R35 (Renault del Gruppo Mobile E
La riserva mobile ossia il Gruppo Mobile E stanziato a Niscemi, località a circa 15 km in linea d’aria da Gela. Uno degli otto costituiti da Guzzoni, formato da 12 superati carri francesi R35 (Renault, preda di guerra, passatici dai tedeschi, tra i pochi disponibili per le ragioni spiegate sopra), da un gruppo anticarro da 47 mm., gruppi di artiglieria, fanteria, bersaglieri motociclisti, si mise in marcia alle 5,30 del mattino, due ore e quindici minuti dall’inizio dello sbarco, e “alle 7 era al passaggio a livello di Gela”. Ma era stato scoperto dai ricognitori nemici, abbattuti poi dai tedeschi, e investito dalle poderose bordate partite dalle navi, che l’avevano assottigliato e in parte disperso, nonché dal fuoco dei rangers ormai alla periferia di Gela, che aveva distrutto i piccoli semoventi. Dei cinque R35 che giunsero alla periferia di Gela senza la fanteria di appoggio dispersa dal fuoco delle navi, due vi si slanciarono dentro schiacciando i rudimentali sbarramenti stradali opposti in fretta dal nemico. La loro meta era la spiaggia. Pur lenti com’erano, seminarono il panico tra i soldati americani, privi di anticarro, che si rifugiavano nelle stradine laterali e nelle case, sparacchiano ai due carri anche da qualche tetto. Sembra che alcuni di loro, avvicinandosi il mezzo del tenente Navari al comando USA appena stabilito nell’albergo Trinacria, “si siano precipitati attraverso la discesa del Bastione verso la spiaggia gridando ai camerati incontrati via via per strada: ‘Come on, come on…Germans’”. Il primo carro fu immobilizzato alla fine dal colpo di un bazooka fatto venire velocemente su dalla spiaggia; l’altro si fermò per collasso del motore a 300 metri dalla spiaggia. L’unico superstite del primo, il carrista Antonio Ricci, fu preso prigioniero; l’unico superstite del secondo, il tenente Angelo Navari, fu falciato dagli americani mentre tentava di uscire dal carro, secondo alcuni testimoni con la pistola in pugno. Ora: se una migliore organizzazione difensiva (sicuramente alla nostra portata) avesse consentito ai fanti costieri di bloccare i rangers sulla spiaggia per quelle cinque ore, il gruppo mobile, anche dimezzato dal fuoco navale, avrebbe potuto investire i nemici con alcuni carri e semoventi direttamente sulla spiaggia, creando loro enormi problemi, ancora disorganizzati com’erano, senza carri armati e con pochissimi anticarro. E dietro il Gruppo mobile si stava già muovendo la riserva strategica cioè la Livorno. La tesi di Carloni non appare quindi azzardata.
A Gela c’era il 429° battaglione costiero, al comando del maggiore Rubellino. Durante la tempestosa notte del 9 luglio furono lanciati paracadutisti americani (della poi famosa 82ª divisione) nella piana circostante al fine di scompaginare le nostre difese. “Il vento soffia a 50 km/h e la contraerea italiana non concede requie [abbatté otto aerei e ne danneggiò venti], i piloti dei Dakota s’innervosiscono, non vedono l’ora di mollare la missione e sbagliano quasi tutte le zone di lancio. Nelle campagne siciliane piovono americani, dispersi in un’area di almeno 120 chilometri quadrati. I soldati delle divisioni costiere e i Carabinieri vanno a caccia di paracadutisti nella notte. L’intera operazione si frammenta in una serie di episodi isolati. Sul piano militare l’attacco è un fallimento […]. Le perdite sono elevate, sia in termini di vite umane che di prigionieri. A Scicli gli italiani catturano o mettono fuori combattimento più di cento paracadutisti “. Una parte dei paracadutisti si riorganizzò, mettendo a segno dei colpi di mano che crearono “una certa confusione tra i comandi italiani, ma è esagerato affermare che abbiano addirittura determinato un collasso delle difese [come sostiene la storiografia anglosassone]. Se lo scopo dei lanci è prevenire la possibilità di un contrattacco e impedire le comunicazioni tra le diverse linee di difesa, bisogna dire con chiarezza che nessuno di questi obiettivi viene raggiunto. Inoltre anche tra gli Alleati il caos è totale […] Altri lanci finiscono sui centri abitati dove a volte gli italiani si abbandonano a un feroce tiro a segno”. Alla “caccia al paracadutista” parteciparono anche volontari civili armati. Molti aerei furono abbattuti per errore dal “fuoco amico” della flotta.
Il 429° costiero, composto da circa 400 uomini, dovette alla fine ritirarsi a tre km. dall’abitato dopo duri combattimenti, lasciando sul campo quasi il cinquanta per cento degli effettivi: 17 ufficiali e 180 soldati. Le batterie costiere, pur con la loro limitata portata, spararono sempre sui mezzi da sbarco, per essere poi rapidamente distrutte (assieme alle fotoelettriche, che avevano inquadrato più volte la flotta nemica) dal micidiale fuoco di controbatteria delle navi nemiche. Alcuni mezzi da sbarco (96) furono affondati, pieni di soldati (15 per ogni mezzo). Dell’affondamento di uno, senza superstiti tranne il pilota, c’è la testimonianza diretta di un ex combattente americano. I reduci americani ricordavano la rete di traccianti azzurre delle mitragliatrici e il fuoco dei mortai che li investiva dalla riva. A Scoglitti ci furono duri combattimenti contro la 45ª divisione americana, fronteggiata dal 178° reggimento costiero. Pur rimasto quasi privo di artiglieria, combatté sino all’annientamento di diverse sue postazioni, assieme a Carabinieri e Guardia di Finanza. Nessuno si arrese. Nell’assalto al suo ultimo posto di blocco, gli americani perdettero circa trenta soldati. “Le perdite complessive americane durante la notte dello sbarco [comprese quelle dei paracadutisti] non sono mai state rese note. L’unico dato disponibile riguarda i caduti nella sola zona di L i c a t a dove peraltro i combattimenti furono meno cruenti rispetto a Gela e Scoglitti. A Licata caddero 173 americani, 123 italiani, 40 tedeschi”. A Licata, zona di sbarco della 3ª divisione di fanteria americana, la resistenza fu debole. Gli americani hanno reso noto i dati delle perdite solo dove la resistenza incontrata è stata fiacca.
Questo silenzio da parte americana (e britannica) impedisce una valutazione esatta delle prestazioni della nostra difesa costiera. Anche nella zona di sbarco britannica, diversi reparti delle divisioni costiere si batterono valorosamente, per non dire eroicamente, mentre altri si davano alla fuga o venivano inceneriti dal bombardamento aero-navale. “Quando la resistenza del caposaldo di Fontane Bianche fu finalmente schiantata, gli inglesi autorizzarono il cappellano militare degli italiani a seppellire i caduti. Il sacerdote contò sul terreno 105 morti britannici e 14 italiani. Fra questi ultimi c’era il comandante del settore sottotenente Bertolini”. I resti delle divisioni costiere e dei gruppi mobili parteciparono sino all’ultimo, con quello che restava delle quattro divisioni mobili italiane, alla battaglia difensiva finale nella piana di Catania, sostenuta per forza di cose principalmente dai tedeschi; battaglia che durò tre settimane, nella quale si distinsero tra gli altri i superstiti gruppi di artiglieria delle nostre divisioni mobili, e che si concluse con l’ordinata evacuazione in Calabria di tutto ciò che restava delle truppe dell’Asse, pur premute costantemente da terra e dall’aria : 39.569 soldati tedeschi, dei quali 4.444 feriti; 62.000 soldati italiani; circa 10.000 automezzi; 47 carri armati tedeschi; 136 cannoni; 18.000 tn. di munizioni, carburanti etc. e persino 12 muli.
Gli italo-tedeschi ad un passo dalla vittoria, a Gela. Il primo contrattacco, come si è detto, fu quello del Gruppo Mobile E, che doveva agire di concerto con la Hermann Goering, divisione di granatieri corazzati (l’equivalente dei nostri bersaglieri, che sono la fanteria motorizzata di accompagnamento dei carri armati) in fase di completamento, del tutto inesperta, dotata di un centinaio di carri, tra i quali sette Tigre. Per vari motivi, la divisione giunse in ritardo sulla scena.
Nella prima mattina del 10, gli italiani attaccarono allora da soli con il suddetto Gruppo Mobile. Fallito quest’attacco, si ebbe subito dopo il primo della Livorno, l’unica nostra divisione di fanteria che fosse motorizzata (bersaglieri), la nostra migliore unità; un battaglione della quale prima avanzò, poi dovette retrocedere sulle posizioni di partenza, investito dal fuoco delle navi. Alle due del pomeriggio apparve finalmente la Hermann Goering. Dopo un inizio stentato, i Tigre travolgono (alle 16) le posizioni americane, catturando un intero battaglione. Tra il mare e i Tedeschi c’è ora un solo battaglione americano, che appare subito in difficoltà. Ma il “contrattacco disperato” di una sua compagnia semina inaspettatamente il panico nella fanteria tedesca in appoggio ai carri, che si dà ad una fuga disordinata. Così la grande opportunità viene perduta per l’Asse. Fatale la mancanza di una riserva mobile, da gettare nella mischia nel momento decisivo; riserva che avrebbe potuto esser costituita dai 75 carri dell’altra divisione corazzata, la Sizilien, che Kesselring, contro il parere di Guzzoni, aveva voluto schierare più a Ovest, per coprire Palermo.
Il giorno dopo, l’11, si ebbe “la grande battaglia”, dalle 6.30 del mattino alle 7 del mattino successivo, con la “carica suicida” dei bersaglieri della Livorno (Carloni). La Livorno, per quanto continuamente bersagliata (unitamente ai tedeschi) dal cielo e dal mare, schierata su due colonne, con l’appoggio di artiglieria divisionale e mortai, travolse all’arma bianca le due successive linee di difesa apprestate dai rangers, catturando prigionieri “e molte armi automatiche abbandonate sul campo”, per attestarsi provata alle prime case di Gela, “a meno di 2 km. dalla spiaggia”. Contemporaneamente, andò all’attacco la Hermann Goering, anch’essa su due colonne. Una colonna, con 21 carri medi, mise in fuga un battaglione di fanteria americano, che ripiegò in disordine “verso la strada costiera”. L’altra colonna, invece, assunse un inspiegabile atteggiamento difensivo di fronte alla collinetta di Biazzo, presidiata da due battaglioni americani, segnando il passo (erano poco più di un migliaio di uomini, con una batteria da 75). Attaccando con decisione, avrebbe potuto sicuramente passare, aggirando così l’intera 45ª divisione USA, “con conseguenze disastrose per il nemico”. Nel frattempo, la prima colonna della Hermann Goering sfonda l’ultima linea americana e giunge a 1500 metri dalla spiaggia, che appare in quel tratto del tutto libera. “Contemporaneamente la Livorno combatte tra le prime case di Gela. Se solo ci fosse un reggimento di granatieri corazzati di riserva o se almeno arrivasse la colonna della Hermann Goering bloccata a Biazzo, la battaglia finirebbe in poche ore, con un’incredibile sconfitta americana. Ma non ci sono riserve, solo truppe stanche, che hanno subito ed inflitto perdite notevoli”.
A questo punto interviene in modo ancora più massiccio di prima (e forse decisivo) il bombardamento navale americano (3296 proiettili nell’arco della mattinata. Le forze dell’Asse subiscono ulteriori perdite e vengono letteralmente inchiodate al terreno, mentre gli americani sono asserragliati in Gela e tra le dune di parte della spiaggia. Verso mezzogiorno, la situazione si sblocca a favore di questi ultimi. Comincia a sopraggiungere da Licata la 3ª divisione corazzata USA al completo. Questa divisione era stata trattenuta per qualche ora dall’attacco di un gruppo tedesco e di una modesta forza italiana costituita da elementi della 207ª divisione costiera, da un battaglione di bersaglieri, da reparti della Aosta e della Assietta. La forza italiana si era battuta valorosamente, restando praticamente distrutta. Le truppe dell’Asse devono ora subire la massiccia controffensiva nemica e si ritirano ordinatamente, combattendo. La lotta cessa alle 7 del mattino successivo. Gli italiani ebbero alla fine circa duemila prigionieri. “La Livorno, riorganizzata in quattro gruppi tattici, continuerà a battersi con poco più di 2000 effettivi [rispetto agli 11.000 circa iniziali] fino alla fine della campagna di Sicilia”.
Elevate le perdite, da entrambe le parti. Enormi quelle italiane. “L’alba del 12 luglio illumina un campo di battaglia che non dovrebbe essere dimenticato: 2000 soldati e 214 ufficiali italiani giacciono senza vita, mescolati e confusi ai loro avversari americani, che tra morti, feriti e dispersi sommano 2300 vittime. Infine i tedeschi hanno perduto 600 soldati e 30 ufficiali, oltre a 10 carri completamente distrutti”.
Una sconfitta gloriosa, rimossa dal Politicamente Corretto ma conservata dalla tradizione popolare. Nonostante la mancanza di riserve e l’enorme superiorità materiale del nemico, la vittoria sarebbe stata possibile, se la seconda colonna della Hermann Goering fosse stata capace di farsi valere. Non sarebbero di certo mutate le sorti della Campagna ma una vittoria avrebbe avuto un notevole significato morale e avrebbe forse contribuito ad una soluzione meno traumatica (per il Paese) della crisi del regime fascista, ormai ineluttabile. In ogni caso, al di là delle vicende contingenti, conta proprio il significato morale di questa battaglia, che va ricordata come una “sconfitta gloriosa”, quale ce la tramandano ora i cantastorie siciliani, nelle loro ballate. Esse “testimoniano un approccio nazionale, popolare e non ideologico alla guerra perduta. Le cose sono poste in modo semplice: gli americani sbarcano, gli italiani difendono la loro patria. L’esito sfortunato si consuma nonostante il valore dei nostri soldati. Con fatalismo molto siciliano, s’imputa alla “sorte” avversa l’invasione statunitense dell’isola. Ci interessa questo punto di vista perché aiuta a comprendere lo stato d’animo dei combattenti italiani in Sicilia. La loro tenacia nel fronteggiare una situazione così difficile, il loro ardimento nell’affrontare la morte, avevano motivazioni altrettanto semplici: senso del dovere, patriottismo, determinazione nella difesa del suolo nazionale, volontà di mostrarsi all’altezza della generazione di Vittorio Veneto e del Piave […] Quasi tutti sono semplici richiamati alle armi, persone ragionevoli e responsabili, padri di famiglia che rappresentano l’unico sostegno per i loro cari […] Non c’è ombra di fanatismo o furore ideologico tra i ragazzi della Livorno o fra i carristi del Gruppo mobile. Persino tra le camicie nere della Milizia prevale un senso del dovere composto. Allo stesso modo i pochi “furbi” che tagliano la corda, abbandonando le posizioni, sono ripartiti equamente fra tutte le unità”
MA IN SICILIA COSA SUCCEDE?
LETTERA PIENA DI INTERROGATIVI DI MUSSOLINI
Questa nota fu inviata da Mussolini al capo dello stato maggiore generale il 14 luglio
quattro giorni dopo lo sbarco degli anglo-americani
(vedi Benito Mussolini: « Storia di un anno », Milano, 1944, cap. IV).
14 luglio 1943
SITUAZIONE
A quattro giorni di distanza dallo sbarco nemico in Sicilia, (9 e 10 luglio) ) considero la situazione sommamente delicata, inquietante, ma non ancora del tutto compromessa. Si tratta di fare un primo “punto” della situazione e stabilire che cosa si deve e vuol fare.
La situazione è inquietante
a) perchè dopo lo sbarco, la penetrazione in profondità è avvenuta con un ritmo più che veloce:
b) perchè il nemico dispone di una schiacciante superiorità aerea;
c) perchè dispone di truppe addestrate e specializzate (paracadutisti, aliantisti);
d) perchè ha quasi incontrastato il dominio del mare;
e) perchè i suoi Stati Maggiori dimostrano decisione ed elasticità nel condurre la campagna.
Prima di decidere il da farsi, è assolutamente necessario – per valutare uomini e cose – di conoscere quanto è accaduto. È assolutamente necessario perchè tutte le informazioni del nemico (il quale dice la verità quando vince) e persino passi ufficiali dell’alleato impongono un riesame di quanto è accaduto nelle prime giornate.
i°) Le divisioni costiere hanno resistito il tempo necessario – hanno dato, cioè, quello che si riteneva dovessero dare?
2°) La seconda linea, quella dei cosidetti capisaldi, ha resistito o è stata troppo rapidamente sommersa?
Il nemico accusa perdite del tutto insignificanti, mentre ben 12 mila prigionieri sono già caduti nelle sue mani.
3°) Si può sapere che cosa è accaduto a Siracusa, dove il nemico ha trovato intatte le attrezzature del porto e ad Augusta, dove non fu organizzata nessuna resistenza degna di questo nome e si ebbe l’inganno noto di una rioccupazione di una base che non era ancora stata occupata dal nemico?
4 °) La manovra delle tre divisioni Goering, Livorno, Napoli, fu condotta con la decisione indispensabile e un non meno indispensabile coordinamento?
Che cosa è accaduto della Napoli e della Livorno?
_5°) Dato che la direzione dell’attacco – logica – è lo stretto, si è predisposta una qualsiasi difesa del medesimo?
6°) Dato che la “penetrazione” è ormai avvenuta, ci sono mezzi e volontà per costituire almeno un « fronte » siciliano, verso il Tirreno, così come fu in altre epoche contemplato e studiato?
7°) Le due divisioni superstiti Assietta e Aosta, hanno ancora un compito verso ovest e sono in grado di assolverlo?
8°) Si è fatto e si vuol fare qualche cosa per reprimere il caos militare, che si sta aggiungendo al caos civile determinato dai bombardamenti in tutta l’isola?
9 °) Nel caso previsto e prevedibile di uno sbarco e di una penetrazione, esiste un piano?
10°) La irregolarità e la miseria dei collegamenti, ha dato luogo a notizie false che hanno determinato una profonda depressione nel paese.
11) Lo scadimento della disciplina formale e sostanziale delle truppe continua, con manifestazioni sempre più gravi, che rivelano la tendenza alla « capitolazione ».
Concludendo, la situazione può ancora essere dominata purché ci siano, oltre ai mezzi, un piano e la capacità di applicarlo. Il piano non può essere sinteticamente che questo:
a) resistere a qualunque costo a terra;
b) ostacolare i rifornimenti del nemico con l’impiego massiccio delle nostre forze di mare e del cielo.
Mussolini