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6201.- Il terrorista tagiko catturato in Italia, segno che l’Isis è vicino

Un altro terrorista arrestato in Italia, a Fiumicino. È il tagiko Ilkhomi Sayrakhmonzoda, jihadista dell’Isis-K, il gruppo terrorista in continua espansione dall’Afghanistan. L’Italia è un punto di snodo.

 Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Souad Sbai, 10_04_2024Carabinieri a Fiumicino (Imago Economica)

Euro in contanti e una taglia sulla testa per terrorismo islamico: questo è quanto emerso quando un individuo, con un passaporto ucraino e sotto il falso nome di Timor Settarov, proveniente dall’Olanda e diretto a Roma, è stato arrestato all’aeroporto di Fiumicino. Un viaggio che ha scatenato una caccia serrata ai suoi contatti italiani e ha dato il via a un’indagine delicata. «Siamo molto curiosi di capire cosa era venuto a fare a Roma», hanno dichiarato gli investigatori della Digos di Roma, mentre si concentrano sul caso di Ilkhomi Sayrakhmonzoda, un tagiko di 32 anni definito “membro attivo dell’Isis”. L’uomo è stato fermato nella mattinata di lunedì mentre si apprestava a salire su un treno diretto verso la Capitale, con le manette che sono scattate grazie a una “red notice” dell’Interpol, richiesta dal Tagikistan. Questo perché Sayrakhmonzoda si era arruolato nelle fila dello Stato Islamico nel 2014 e aveva combattuto in Siria, con un precedente arresto anche in Belgio.

L’individuo, descritto come un uomo tagiko con capelli corti, barba, indossante jeans, maglietta bianca e sneakers, è atterrato a Fiumicino da Eindhoven, nei Paesi Bassi, alle 11:45, sotto falsa identità. Gli agenti hanno rilevato le sue impronte digitali e hanno scoperto la sua vera identità, conducendo poi ulteriori indagini. Nonostante i suoi movimenti siano stati monitorati all’aeroporto, Sayrakhmonzoda si era diretto da solo verso il treno che dall’aeroporto di Fiumicino arriva alla stazione ferroviaria di Roma Termini, ma è stato fermato e arrestato dagli agenti dell’antiterrorismo. Durante la perquisizione sono stati sequestrati il suo cellulare e circa duemila euro in contanti.

La nazionalità del detenuto, in un momento di elevata tensione a causa dei conflitti in corso, ha richiamato l’attenzione sul gruppo terroristico che ha colpito alla Crocus Hall di Mosca il 22 marzo scorso, un attentato rivendicato dall’Isis. Ma al momento la Polizia non ha mai menzionato quanto avvenuto in Russia. Non è chiaro quale Paese abbia emesso il mandato di arresto nei suoi confronti, ma gli investigatori hanno confermato che l’uomo ha utilizzato diverse identità false, originarie da Uzbekistan, Kirghizistan e Ucraina. Si sa inoltre che Sayrakhmonzoda è nato nel 1992 e si è arruolato come combattente straniero per lo Stato Islamico in Siria nel 2014.

Il Tagikistan è una delle nazioni che fornisce un numero consistente di militanti dell’Isis Khorasan (Isis-K), formazione che conterebbe su cellule dormienti anche in Europa. La strategia di “internazionalizzazione” dell’agenda dell’Isis-K – il cui obiettivo è la creazione di un califfato islamico nell’Asia centrale e meridionale – è stata perseguita con rinnovato vigore dal 2021. Ciò è in parte dovuto a un ambiente più permissivo in seguito al ritiro degli Stati Uniti e il successivo crollo del governo afghano. Questo processo di internazionalizzazione dell’agenda dell’Isis-K prevede che il gruppo prenda di mira direttamente i paesi della regione o la loro presenza in Afghanistan. Ad oggi, ciò ha visto gli interessi di Pakistan, India, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Russia presi di mira da attacchi terroristici. Per tale motivo il Governo tagiko ha intensificato gli sforzi antiterrorismo dalla presa del potere dei talebani in Afghanistan nell’agosto 2021, con il quale condivide un confine di 843 miglia. 

Il governo del Tagikistan afferma che il nord dell’Afghanistan è una fonte primaria di attività terroristica e ospita migliaia di estremisti violenti. Le preoccupazioni principali del Tagikistan riguardano l’Isis-K e Jamaat Ansarullah, che opera dall’Afghanistan e cerca di rovesciare il governo tagiko per fondare uno stato islamico.

Le preoccupazioni sul reclutamento di cittadini tagiki nell’Isis-K esistono da tempo, con il trattamento draconiano da parte dei talebani nei confronti delle minoranze afghane, compresi i tagiki, che probabilmente crea un inconsapevole vantaggio di reclutamento per il gruppo terroristico. La crescita notevole dell’Isis-K è stata preceduta solo da pochi anni di rischio di totale annientamento per il gruppo. Allo stesso tempo, la storia del movimento dello Stato Islamico è ricca di esempi di rinascite apparentemente improbabili, con azioni audaci al di là dei confini nazionali. Queste azioni non solo mirano a riconquistare roccaforti locali, ma anche ad espandere l’influenza del gruppo e a stabilire il controllo nelle province vicine e addirittura a livello transnazionale. Le operazioni esterne rappresentano un elemento cruciale attraverso il quale lo Stato Islamico realizza i suoi obiettivi strategici, sia durante fasi di crescita che di regressione, nel corso della sua campagna di insurrezione. Tra il 2022 e il 2023, sono emersi rapporti provenienti da diversi paesi dell’Unione Europea che dettagliano il coinvolgimento dell’Isis-K nelle comunità locali in Austria, Germania e Paesi Bassi per coordinare le operazioni estere. Questo si è verificato contemporaneamente all’esplosione della produzione mediatica dell’Isis-K, passando da meno di una manciata di lingue regionali prima del 2020 a oltre una dozzina di lingue dal 2020 in poi. Un avvenimento degno di nota è stato il lancio, nel gennaio 2022, della sua rivista di punta in lingua inglese, Voice of Khorasan. Questa rivista elogia frequentemente i martiri dei combattenti stranieri nelle operazioni attuali e passate e ha ora pubblicato numerosi articoli di presunti sostenitori italiani e canadesi dell’Isis-K, oltre a diffondere regolarmente commenti che incitano alla violenza in risposta ad eventi attuali, come i roghi del Corano in Svezia, con qualche limitato successo riportato in Turchia.

Dunque, le operazioni esterne dell’Isis-K si sono ampliate dalla sua formazione ufficiale nel 2015 fino a comprendere uno spettro completo di azioni attuali, dalle spedizioni locali alle operazioni coordinate e ispirate dall’estero. Contestualmente, le sue attività mediatiche si sono viste rapidamente espandere per contribuire ad amplificare e sostenere tali operazioni. Anche se alcuni analisti e funzionari potrebbero interpretare l’attuale pausa nelle operazioni complessive dell’Isis-K come un segno di debolezza, la chiara traiettoria ascendente e di espansione del gruppo nel tempo non può essere ignorata. Diversi cittadini tagiki sono stati arrestati perché in procinto di compiere attentati contro obiettivi degli Stati Uniti e della NATO in Germania nell’aprile 2020. Altri membri tagiki dell’Isis-K sono stati fermati dalle autorità tedesche e olandesi nel luglio 2023 come parte di un’operazione per sventare una rete dell’Isis-K che pianificava un attentato ed era intenta nella raccolta fondi.

Episodi che ci fanno tornare in Italia, all’aeroporto di Fiumicino. Perché l’Italia è stata e continua ad essere base e snodo strategico per terroristi. Roma non era dunque una tappa intermedia, ma la destinazione del tagiko affiliato allo Stato islamico. Non aveva infatti un altro biglietto aereo per ripartire. Sayrakhmonzoda era ‘”sconosciuto” alle banche dati delle Forze dell’ordine italiane, non ha dunque precedenti sul territorio nazionale. Ha però numerosi alias con nazionalità e date di nascita diverse, in particolare dell’Uzbekistan, del Kirghizistan e dell’Ucraina. Gli investigatori contano ora attraverso l’analisi del telefonino di risalire ad eventuali contatti italiani dell’uomo.

Già, perché il suo arrivo a Roma apre ad interrogativi inquietanti: programmava un’azione? Doveva reclutare qualcuno? C’era una rete che lo attendeva? Quei 2000 euro a cosa servivano? Non è la prima volta che viene arrestato un terrorista islamico “di passaggio” in Italia.

Se andiamo con la mente alle cronache dello scorso febbraio ricordiamo Sagou Gouno Kassogue, un cittadino maliano di 32 anni, identificato come l’aggressore che ha ferito tre persone con un coltello alla Gare de Lyon di Parigi. È emerso che Kassogue è uno dei più di 180mila migranti che sono sbarcati in Italia nel 2016. Questo episodio si aggiunge a una serie di attacchi terroristici in Europa perpetrati da individui con legami precedenti con l’Italia. Abdesalem Lassoued, un tunisino di 45 anni, ha ucciso due turisti svedesi a Bruxelles lo scorso ottobre. Lassoued, dopo essere sbarcato in Sicilia, ha trascorso del tempo in Italia, tra Bologna e Genova. Lakhdar Benrabah, un algerino, ha aggredito tre poliziotti a Cannes nell’8 novembre 2021. Benrabah è arrivato in Sardegna, è stato poi trasferito a Napoli e ha ottenuto il permesso di soggiorno. Brahim Aoussaoui, anch’egli tunisino, ha ucciso tre persone nella basilica di Notre-Dame a Nizza il 29 ottobre 2020. Aoussaoui è arrivato a Lampedusa poco più di un mese prima, è stato poi trasferito a Bari, dove ha ricevuto un foglio di via con cui ha attraversato clandestinamente il confine.

Anis Amri, anche lui tunisino, ha perpetrato l’attentato di Berlino nel 2016, uccidendo 12 persone. Amri, prima di diventare un terrorista, è stato arrestato in Italia e poi si è spostato in Germania con un foglio di via. Nel 2016, l’algerino Khaled Babouri ha aggredito due poliziotte a Charleroi, in Belgio, e l’attentato è stato rivendicato dall’Isis. Babouri ha attraversato l’Italia prima dell’attacco. Mohamed Lahouaiej Bouhlel, anch’egli tunisino, ha lanciato un autocarro sul lungomare di Nizza nel 2016, uccidendo quasi 90 persone. Bouhlel si spostava spesso tra l’Italia e la Francia. Infine, Ahmed Hanachi, tunisino, ha accoltellato a morte due ragazze alla stazione Saint-Charles di Marsiglia il primo ottobre 2017, ed è stato sposato con un’italiana, vivendo ad Aprilia (Lt) presso i suoceri per un lungo periodo.

Questi casi evidenziano una serie di individui con legami con l’Italia coinvolti in attacchi terroristici in Europa. Lo scorso ottobre il Comitato di analisi strategica antiterrorismo aveva reso noto che negli ultimi otto anni 146 foreign fighters schedati e 711 soggetti pericolosi rimpatriati, di cui 53 solo nel 2023. Nel 2015 si contavano 87 foreign fighters che in qualche modo avevano avuto a che fare con l’Italia. Oggi conviene aggiornare i conti, per non pagarne presto di salati.

6181.- Lo Stato Islamico del Khorasan aveva colpito due giorni prima a Kandahar: 21 morti.

Ora che la matrice Isis-k dell’attentato di Mosca sembra essersi acclarata, che c’è notizia di un altro attentato fallito due settimane fa a una sinagoga di Mosca, ritroviamo lo Stato Islamico del Khorasan in Afghanistan, nell’attentato di Kandahar, il 21 di questo marzo.

Questa attività invita a riflettere sulla necessità di concludere i conflitti in corso, stabilizzare le aree a rischio e alzare i livelli di sicurezza. A questo riguardo, il conflitto Hamas – Israele, la sua ramificazione nel Mar Rosso, sono fonte di debolezza. Sopratutto, generano nuovi adepti per entità come l’Isis-k e l’Occidente deve decidere quale partita giocare. Anche Putin, se intende avvalersi della migliore condivisione delle informazioni, deve tirare le somme della sua operazione in Ucraina e valorizzare i collegamenti fra i servizi di intelligence della Federazione Russa a quelli degli USA e dei membri dell’Ue. Qualunque siano le decisioni dei governi, da parte italiana, può essere cruciale sostenere al massimo l’intelligence offensiva, che, allo stato, deve essere tanto esterna quanto interna. Chi deve, infatti, farà fronte al terrorismo internazionale, senza trascurare di riconoscere le sue ramificazioni endogene, mapperà i reclutatori prima che producano cellule operative. Ancora, sopratutto, rafforzandoci, eviteremo di essere la palestra delle loro scalate. 

AFGHANISTAN: Attentato a Kandahar, 21 morti 

AFGHANISTAN. L’anno nuovo è iniziato nel sangue. Attentati dell’Isis a raffica

Da Pagine Esteri, 22 marzo 2024 

Ancora violenza in Afghanistan. La mattina del 21 marzo, nella città di Kandahar, la seconda più grande del Paese, un’esplosione davanti alla banca centrale ha provocato la morte di almeno 21 persone. Il target dell’attacco sarebbe stato, secondo alcune fonti, un gruppo di talebani radunati davanti all’edificio, la New Kabul Bank, in attesa di riscuotere i salari. Le autorità talebane avrebbero riferito un numero di vittime ben inferiore rispetto a quello riportato ai corrispondenti internazionali dal personale dell’ospedale locale Mirwais, dove molti feriti nell’esplosione, almeno 50 in tutto, sono stati condotti.

Poche ore dopo, lo Stato Islamico del Khorasan ha rivendicato l’attacco. Sul canale Telegram della sua agenzia di stampa Amaq, il gruppo jihadista avrebbe dichiarato, infatti, che un combattente dell’Isis avrebbe “fatto detonare la sua cintura esplosiva vicino a un assembramento di milizie talebane”.

Il portavoce del ministero dell’interno del governo de facto talebano, Abdul Matin Qani, in una dichiarazione all’Associated France Press ha riferito che l’inchiesta sull’esplosione è ancora in corso e che i responsabili “saranno identificati e puniti”.

Karen Decker, incaricato degli Affari in Afghanistan per il governo degli Stati Uniti, ha condannato l’attentato e “tutti gli atti di terrore” in un post sul suo account X e ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime. “Gli afghani dovrebbero poter osservare il Ramadan in pace e senza paura”, ha scritto.

La città in cui si è verificato l’attentato, capoluogo dell’omonima provincia, è considerata il quartier generale dei talebani, nonché la terra in cui ha preso i natali il movimento.

Lì vive, ad esempio, il leader supremo Hibatullah Akhundzada, colui che per primo aveva ordinato il bando delle bambine afghane dall’istruzione scolastico oltre il sesto grado.

A differenza, pertanto, di molti attentati avvenuti nei mesi scorsi nel Paese, in cui un bersaglio frequente erano le minoranze etniche sciite, prima tra tutte quella hazara, il target di quest’ultimo attacco sembrerebbe essere direttamente la maggioranza sunnita attualmente al governo.

Diverse esplosioni si sono registrate nel Paese dall’11 marzo scorso, data di inizio del mese di Ramadan, ma poche di queste sono state confermate dalle autorità de facto afghane.

Nonostante la drastica riduzione degli attentati nel Paese dalla presa del potere da parte dei talebani nell’agosto del 2021, orgogliosamente rivendicata dal governo de facto, i gruppi armati, primo tra tutti lo Stato Islamico del Khorasan, sono ancora molto attivi, e dalla fine del 2023 il progressivo incremento degli episodi di violenza, principalmente a danno dei civili, sta tornando a minacciare esponenzialmente la sicurezza del paese. Di Valeria Cagnazzo,

            

6182.- Israele è l’avamposto dell’Occidente nel Mediterraneo Orientale.

C’è l’Iran al centro della politica americana nel Medio Oriente e alle spalle le due grandi potenze asiatiche, Cina e India, due per ora, che si fanno strada fra i Paesi arabi per sboccare in Mediterraneo. In Mar Rosso, gli Houthi godono dell’appoggio dell’Iran e sono contro Israele, contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Hanno di fronte l’Arabia Saudita. Ci troviamo in un momento decisivo senza uno stratega e, sul genocidio di Netanyahu, i governi arabi chiedono aiuto alla Cina.

Israele è il numero uno del Mediterraneo Orientale, l’avamposto dell’Occidente, è il “cavallo” per noi europei; ma Netanyahu guarda al suo orto, non guarda lontano, semina morte, odio e la sua guerra chiama l’antisemitismo e la vendetta. Combatte Hamas, stuzzica gli Hezbollah, ma, senza di essi, il suo potere vacillerebbe. Se così è, gli Stati Uniti devono porre un freno a Netanyahu. Gli Accordi di Abramo erano la strada giusta. Ma è l’Arabia Saudita il “re” per noi, per Israele, per il Medio Oriente e il 20–21 maggio Donald Trump incontrerà il re Salman e altri ufficiali sauditi a Riyadh. Dio voglia Donald, che tu sia il presidente e che “re” Mohammad bin Salman veda lontano. Se proseguirà la normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita, se ha le carte per ridefinire le dinamiche regionali in Medio Oriente, nel viaggio di Trump c’è molto di più di una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita: Anche la fine della guerra e la stabilità nel Mar Rosso e, perché no? in Libia. E non dimentichiamo che, nel 2018, proprio Trump, da presidente Usa, aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, contro il parere dell’Ue. Affermò che avrebbe negoziato un accordo più forte. Per Israele è importante che questo avvenga. La nostra domanda è, ora: “Saranno Riyadh e Teheran a ridefinire le dinamiche del Medio Oriente?”

Israele deve dialogare con tutto il mondo arabo, ma anche l’Europa deve far sentire il suo peso. Può farlo? e, sopratutto, può farlo con la Germania alla fame, la Francia di Macron in crisi politica, una guerra in Mar Rosso e un’altra con la Russia? Non può farlo e non può contare sul sostegno degli Stati Uniti per l’economia, che hanno privata scientemente del gas e dei mercati russi. Non può contare su Biden per un cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza, ma il Mediterraneo ha bisogno di pace, non di Netanyahu, non di Biden e nemmeno di Erdoĝan: Pace!

Fonte Immagine: AP Photo/Vahid Salemi

L’America chiede a Netanyahu una conversione sulla via di Riad

Da Huffpost, di Janiki Cingoli, 16 Gennaio 2024

La missione di Blinken rilancia lo Stato palestinese, per coinvolgere gli arabi nella ricostruzione di Gaza. Il governo di destra si ribellerebbe alla soluzione a due Stati. Ma per Bibi è il costo politico per ottenere il premio della normalizzazione saudita che insegue da anni e del fronte unico contro l’Iran. E per la sua sopravvivenza politica, che oggi appare compromessa.

La missione che Antony Blinken, segretario di Stato americano, ha effettuato in Medio Oriente a inizio gennaio, la quarta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, è stata giudicata con scetticismo dalla maggior parte degli analisti internazionali. Tuttavia, David Ignatius, editorialista principe del Washington Post, dà una interpretazione differente. Egli sottolinea come l’esponente statunitense abbia rovesciato l’abituale itinerario delle sue missioni, che iniziava da Israele per poi continuare nelle maggiori capitali arabe.

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

4472.- Strategia NATO della tensione. Durerà per anni.

 Associazioneeuropalibera. Redazione. 28 ottobre 2021

In previsione di una possibile adesione dell’ucraina al Patto Atlantico, il ministro della difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer ha detto che la NATO è “preparata” e pronta ad attivare il suo arsenale nucleare contro la Russia se attacca un membro dell’alleanza militare. Premesso che non è nell’interesse dell’Occidente e meno che mai degli europei provocare una guerra con la Russia, financo nucleare, se questi sono gli intendimenti dell’atteso esercito europeo, a Bruxelles, c’è poco da parlare di pace, di sicurezza e di difesa. Da parte di Washington, il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha appena dichiarato a Bucarest che “Le attività destabilizzanti della Russia dentro e intorno alla regione del Mar Nero riflettono le sue ambizioni di riconquistare una posizione dominante nell’area e di impedire la realizzazione di un’Europa unita, libera e in pace”, ha detto Austin. in precedenza,

Segretario difesa Usa in Ucraina: stop all'aggressione russa
Kiev. Diritti d’autore  Gleb Garanich/Pool Photo via AP

A Kiev, sempre il segretario statunitense della Difesa Lloyd Austin in visita ufficiale, durante una conferenza stampa congiunta con il ministro della Difesa ucraino, Andrey Taran, questo 19 ottobre aveva affermato: Gli Stati Uniti continueranno a sostenere l’Ucraina nel garantire la sicurezza nella regione del Mar Nero. “Il sostegno degli Stati Uniti alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina è incrollabile, quindi, invitiamo nuovamente la Russia a porre fine alla sua occupazione della Crimea, a interrompere la guerra nell’Ucraina orientale, a porre fine alle sue attività destabilizzanti nel Mar Nero e lungo i confini dell’Ucraina e ai suoi persistenti attacchi informatici e alle altre attività maligne contro gli Stati Uniti e i suoi alleati e partner”. L’Unione europea ha rinnovato, a giugno, le misure restrittive già adottate contro la Russia.

Dall’annessione della Crimea in poi, la presenza Nato nel Mar Nero occidentale si è fatta più frequente e massiccia. Quest’anno l’esercitazione navale più vasta, intitolata Sea Breeze, con tutti i limiti imposti dalla Convenzione di Montreaux, ha coinvolto più di duemila militari e 27 vascelli provenienti da 12 Paesi Nato.

Benché in crescita, le operazioni dell’Alleanza Atlantica sono però condizionate dalla Convenzione di Montreaux del 1936, che limita sia la durata della permanenza nel Mar Nero delle navi di Paesi non rivieraschi,che il tonnellaggio complessivo, che non può eccedere le 30.000 tonnellate. Quindi, per esempio, le portaerei americane ne sono escluse. Inoltre, Turchia, Bulgaria e Romania hanno mostrato un grado di determinazione diverso nei confronti della Russia. Ricordiamoci che l’annessione della Crimea da parte della Federazione russa è avvenuta nel 2014 e che la base navale di Sebastopoli nel Mar Nero fu voluta dallo zar Pietro I “il Grande”.

Quindi, piuttosto, che di pace, parlerei di smanie di guerra e di destabilizzazione dell’Ordine mondiale.

Attualmente la Russia fa parte della C.S.I (Comunità degli Stati Indipendenti) con 15 repubbliche federative che formano l’ex Unione Sovietica: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina ed Uzbekistan. … I rapporti di interscambio transfrontaliero intercorrenti fra Russia e Ucraina non sarebbero molto dissimili da quelli correnti nell’Unione Sovietica, ma il controllo dello stretto di Kerch permette alla Russia di applicare delle sanzioni implicite sul commercio ucraino. Accogliere l’Ucraina nella NATO equivale a una dichiarazione di guerra contro la Federazione russa, se non altro perché le forze di difesa della Federazione Russa non avrebbero il tempo di contrastare e nemmeno di reagire ai missili della Nato lanciati, praticamente, da dietro il confine. Putin lo ha confermato, avvertendo l’Occidente che avere aperto la porta all’adesione dell’Ucraina al blocco militare della NATO, consentirebbe di posizionare missili “sotto il naso della Russia”. Siamo certi che Putin non lo permetterà. La sola difesa possibile per la Russia sarebbe l’attacco preventivo.

L’articolo 5 dell’Alleanza atlantica afferma che un “attacco armato” contro uno o piu’ alleati della Nato si considera come un attacco contro ogni componente della Nato e quindi ognuno di essi puo’, secondo il diritto all’autodifesa sancito dall’articolo 51 della carta dell’Onu, decidere le azioni che ritiene necessarie a “ristabilire e mantenere la sicurezza”, compreso “l’uso delle forze armate”. La Germania, come l’Italia ospita le testate nucleari americane, ma non è una potenza nucleare. Sarà per questo che, avendo per scusa la difesa comune dell’Unione, mira ad avere voce in capitolo sulle testate francesi. Un intervento della NATO in difesa dell’Ucraina potrebbe, teoricamente, portare a un conflitto nucleare, tutto a danno degli europei. Secondo il concetto strategico tedesco, le truppe della NATO combatterebbero contro le forze russe sia nella regione baltica, sia sul territorio ucraino che attraverso il Mar Nero. Sorge anche una domanda: E la Cina? In realtà, i piani di battaglia della NATO mirano a tenere alta la tensione senza spendimento di forze e si concentrano anche sulla guerra non convenzionale, compreso l’uso di armi nucleari, attacchi informatici e persino conflitti nello spazio. 

Tra Nato e Russia è alta tensione, ”in Europa situazione esplosiva”

AMDuemila 23 Giugno 2021

Putin e ministro Shoigu avvertono: “Speriamo che prevalga il buon senso”

Lo scorso 14 giugno, a Bruxelles, si è tenuto il vertice della Nato in cui si è espresso in maniera netta la volontà di trasformare il blocco da un’entità regionale in un’unione militare e politica globale il cui obiettivo primario è la deterrenza di Russia e Cina.
Per questo motivo la Russia torna ed esprimere la propria preoccupazione anche alla luce dell’incremento di presenza di militari della Nato vicino ai suoi confini, ma Mosca spera che l’alleanza prenderà in considerazione le sue iniziative sulla de-escalation delle tensioni. A ribadirlo è stato il leader massimo, il presidente russo Vladimir Putin, intervenendo con un video messaggio alla IX Conferenza di Mosca sulla sicurezza internazionale. “Naturalmente, non possiamo non essere preoccupati per il continuo aumento delle capacità militari e delle infrastrutture della Nato vicino ai confini russi, così come il fatto che l’alleanza si rifiuta di considerare in modo costruttivo le nostre proposte sulla de-escalation delle tensioni e la riduzione del rischio di incidenti imprevedibili”, ha detto il leader russo. Putin ha dunque sottolineato che Mosca “si aspetta che il buon senso e il desiderio di sviluppare relazioni costruttive con noi alla fine prevalgano”. 
Alla conferenza di Mosca è quindi intervenuto il ministro della difesa, Sergei Shoigu.
In particolare quest’ultimo ha commentato la decisione del vertice della Nato di aumentare il bilancio della difesa e di aggiornare il potenziale di deterrenza nucleare: “La decisione del vertice di aumentare i bilanci della difesa degli stati membri e di aggiornare il potenziale di deterrenza nucleare porterà ad anni di confronto militare in Europa”. “Nel complesso la situazione in Europa è esplosiva e richiede misure specifiche per la de-escalation. La parte russa ha proposto una serie di misure. Per esempio ha presentato una proposta per spostare le aree delle esercitazioni lontano dalla linea di contatto, ma il dialogo formale proposto da Bruxelles al Consiglio NATO-Russia non riduce le tensioni nelle relazioni bilaterali, soprattutto perché alcuni paesi europei sono interessati a un’escalation del conflitto con la Russia. La condotta dell’Ucraina, che ha provocato un’altra crisi nel Donbass poco prima del vertice di Bruxelles, potrebbe essere data come esempio”.
Altro tema affrontato è il dispiegamento di missili a medio raggio in Asia che rappresenterà una minaccia per le regioni orientali della Russia. Lo ha affermato il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, intervenendo alla conferenza di Mosca sulla sicurezza internazionale. “I Paesi della regione del Sud-est asiatico sono costretti a fare delle scelte che vanno verso la creazione di strutture simili alla Nato – ha aggiunto Shoigu – Come in Europa, nel Sud-est asiatico si stanno creando gruppi avanzati ad alta prontezza, vengono schierati squadroni aerei d’attacco e portaerei. Nelle esercitazioni navali, oltre agli Stati della regione, navi dei Paesi dell’Alleanza atlantica sono sempre più coinvolti, il che aumenta il pericolo di incidenti durante le attività militari”.
“Da un punto di vista militare – ha proseguito – la combinazione di una componente missilistica d’attacco con mezzi di difesa antimissilistica può modificare l’equilibrio delle forze non solo nella regione, ma in tutto il mondo. Se verrà presa una decisione sul dispiegamento di missili a medio raggio, allora questa situazione rappresenterà una minaccia per le regioni orientali della Russia”.
Infine si è parlato anche dell’Afghanistan e dell’ormai prossimo ritiro delle forze Nato dal Paese. Secondo il ministro russo, citato dalla Ria Novosti, “gli sviluppi in Afghanistan richiedono un’attenzione speciale sia dei paesi vicini che delle organizzazioni internazionali. Bisogna ammettere che, nei 20 anni trascorsi nel Paese, il significativo dispiegamento delle forze dell’alleanza occidentale non è stato in grado di ottenere risultati significativi nella stabilizzazione e nella formazione di strutture stabili dell’amministrazione statale”. Quindi ha concluso: “Dopo il ritiro delle forze Nato, è altamente probabile che possa riprendere una guerra civile, con tutte le sue conseguenze negative: ulteriore deterioramento della vita della popolazione, migrazioni di massa, diffusione dell’estremismo negli Stati vicini”.

Il ministro della Difesa tedesco ha sostenuto il “primo uso” dell’atomica contro la Russia

Maurizio Blondet  27 Ottobre 2021. Traduzione automatica da Zero Hedge

Annegret Kramp-Karrenbauer (scelta dalòlaMerkel…)  ha detto che la NATO è “preparata” e pronta ad attivare il suo arsenale nucleare contro la Russia se attacca un membro dell’alleanza militare. Sembra che stesse sostenendo una politica di “primo utilizzo” quando si tratta della Russia, al fine di dissuadere qualsiasi potenziale aggressione futura.

Ha detto in un’intervista all’inizio di questa settimana : “Dobbiamo chiarire molto alla Russia che alla fine – e questa è anche la dottrina deterrente – siamo pronti a usare tali mezzi in modo che abbiano un effetto deterrente in anticipo e nessuno viene l’idea, ad esempio, delle aree sopra gli Stati baltici o nel Mar Nero per attaccare i partner della NATO.”

“Questa è l’idea centrale della NATO, questa alleanza, e sarà adattata all’attuale comportamento della Russia. In particolare, assistiamo a violazioni dello spazio aereo sugli Stati baltici, ma anche a un aumento degli attacchi intorno al Mar Nero”, ha aggiunto.

I commenti sono stati fatti sulla scia del rapido deterioramento di questo mese nelle relazioni Russia-NATO. Dopo che la NATO ha espulso otto russi con l’accusa di essere spie dalla missione diplomatica russa al quartier generale della NATO, la scorsa settimana il Cremlino ha dichiarato che si sarebbe ritirato del tutto dalla missione diplomatica, interrompendo completamente i contatti . E più recentemente, come riportato da Reuters , ” giovedì i ministri della difesa della NATO hanno concordato un nuovo piano generale per difendersi da qualsiasi potenziale attacco russo su più fronti , riaffermando l’obiettivo principale dell’alleanza di dissuadere Mosca nonostante una crescente attenzione sulla Cina”.

I commenti del ministro della Difesa tedesco sono stati fatti in riferimento all’interruzione delle comunicazioni con la Russia e all’attuazione di questo cosiddetto piano generale.

Con le relazioni che si deteriorano, nonostante la cooperazione in corso su altri fronti chiave – in particolare il gasdotto Nord Stream 2 Russia-Germania, che è ancora in attesa dell’approvazione finale dai regolatori tedeschi prima di inviare gas naturale russo in Europa – un furioso ministero della Difesa russo ha  convocato il tedesco Addetto militare dell’ambasciata a Mosca per rendere conto delle parole di Kramp-Karrenbauer sugli attacchi nucleari.

Il ministero russo ha dichiarato lunedì in una dichiarazione che all’addetto militare di Berlino “è stato chiesto di comparire davanti alla direzione principale per la cooperazione militare”. La dichiarazione ha descritto che nell’incontro “è stata attirata l’attenzione sulle osservazioni fatte dal ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer sulla deterrenza nucleare contro la Russia ed è stata consegnata una nota diplomatica”.

Per quanto riguarda le osservazioni provocatorie sulle opzioni di deterrenza nucleare in Germania, anche alcuni angoli del parlamento tedesco hanno reagito con rabbia alle parole “irresponsabili”, con il capo dei socialdemocratici Rolf Mützenich che ha beffato: “È un mistero per me se il ministro abbia pensato anche a le armi nucleari ancora conservate in Germania”.

Ecco cosa ha detto Mützenich secondo i rapporti europei :

Mützenich è particolarmente noto per le sue opinioni pacifiste, avendo scritto la sua tesi di dottorato del 1991 sulle regioni libere dal nucleare e sostiene regolarmente di escludere lo stazionamento di armi nucleari statunitensi sul suolo tedesco.

“Per me è un mistero se il ministro abbia pensato anche alle armi nucleari ancora conservate in Germania”, ha detto Mützenich.

Resta inteso che ci sono circa 20 bombe nucleari di varie dimensioni in agguato sul suolo tedesco in una base aerea in Renania-Palatinato a causa della condivisione nucleare della NATO.

Ultimamente i funzionari tedeschi e altri nell’UE hanno espresso profonda frustrazione per essere troppo legati alla politica estera e all’avventurismo militare di Washington all’estero, in particolare dopo la fallita debacle afghana e l’incapacità della NATO di condurre un’evacuazione sicura ed efficiente dell’aeroporto di Kabul ad agosto.

4468.- L’occhio del Copasir

28 ottobre 2021

La ripresa del terrorismo parte dall’Afghanistan. Una breve premessa

I servizi di intelligence danno per certa una ripresa degli attentati jihadisti, a partire dall’Afghanistan, entro sei mesi. Sia Washington sia Mosca sono interessate a prevenire e contrastare questa ripresa, ma anche l’Europa. Potrebbe esserne la conferma l’incontro tenutosi il 23 settembre fra il Capo di Stato Maggiore congiunto degli Stati Uniti d’America generale Mark Milley e quello della Russia, generale Valery Gerasimov, ufficialmente, per discutere di come espandere i contatti militari bilaterali e incrementare la fiducia reciproca. I temi trattati sono rimasti riservati, ma l’incontro ha fatto seguito a un’offerta di cooperazione nel contrasto al terrorismo in Afghanistan, ipotizzata da parte di Putin, che riguarderebbe l’utilizzo delle basi militari russe in Asia Centrale, che potrebbero essere la base aerea di Kant, ad Est della capitale del Kirghizistan, Bishkek, nonché la nota base 201° in Tagikistan, la base più grande base di Mosca al di fuori del proprio territorio, dove mantiene una forza di circa 7.000 russi. Una proposta importante se si considera  che Mosca ha ripetutamente messo in guardia i Paesi Centro-Asiatici dal consentire l’uso delle loro basi militari agli USA. Opposizione ribadita da Putin, nel corso del primo vertice transatlantico, tenutosi lo scorso 16 giugno a Ginevra.

L’offerta o il suggerimento di Putin si pone anche come l’affermazione del Cremlino che la Russia è e rimane la “porta d’ingresso” all’Asia Centrale. Dopo il ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, Washington ha necessità di una base appoggio nella regione per “sostenere il governo afghano” di fronte all’emersione di nuove cellule terroristiche nel Paese. In tale quadro, il passo di Putin è la duplice risposta al tour diplomatico in Asia Centrale dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad, in maggio, con tappe a Tashkent, in Uzbekistan e a Dushanbe, in Tagikistan. Significa: senza il nostro assenso, di qui non si passa e, infatti, ieri 27 ottobre, la Russia ha esortato i Paesi dell’Asia Centrale, confinanti con l’Afghanistan, ad adottare misure per prevenire la presenza militare degli Stati Uniti e della NATO sul proprio territorio. Per gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione europea la necessità di controllare i flussi migratori” provenienti dall’Afghanistan travalica le reciproche contrapposizioni perché, inevitabilmente, i terroristi tenteranno di oltrepassare le frontiere passando per rifugiati”. Lo ha detto anche Lavrov.

Una legge sul jihadismo. La sveglia del Copasir al Parlamento

Di Stefano Vespa | 27/10/2021 – 

Una legge sul jihadismo. La sveglia del Copasir al Parlamento

Secondo il Copasir, il terrorismo jihadista resta un pericolo incombente ed è sempre più urgente una normativa nazionale sulla deradicalizzazione insieme con una migliore cooperazione europea. Per questo ha approvato la “Relazione al Parlamento su una più efficace azione di contrasto al fenomeno della radicalizzazione jihadista”

Il terrorismo jihadista resta un pericolo incombente ed è sempre più urgente una normativa nazionale sulla deradicalizzazione insieme con una migliore cooperazione europea. Per questo il Copasir, Comitato per la sicurezza della Repubblica, ha approvato la “Relazione al Parlamento su una più efficace azione di contrasto al fenomeno della radicalizzazione jihadista” anche grazie alle audizioni effettuate dopo il ritiro della Nato dall’Afghanistan. In una nota il presidente del Copasir, Adolfo Urso (FdI), spiega che sono state individuate “alcune possibili misure e linee di intervento volte ad accentuare l’efficacia dell’azione preventiva, accanto a quelle di natura repressiva già previste” oltre a sollecitare l’esame delle proposte di legge in materia presentate in Parlamento. Urso, su mandato del Comitato, chiederà ai presidenti di Senato e Camera di sensibilizzare le conferenze dei capigruppo per valutare come discutere questo documento così come la “Relazione sulla disciplina per l’utilizzo di contratti secretati, anche con riferimento al noleggio dei diversi sistemi di intercettazione”, approvata il 21 ottobre.

COME AGIRE

Il documento (relatori Enrico Borghi, Pd, e Federica Dieni, M5S) è un approfondimento dopo le audizioni dei ministri dell’Interno e della Giustizia, del capo della Polizia e del comandante dei Carabinieri, dei direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi. Non basta la repressione, serve “una pluralità di strumenti” e dunque, scrivono i relatori, “la prevenzione, la repressione e la cooperazione sono le aree in cui occorre agire con interventi efficaci, lungimiranti e integrati” allo scopo di “integrare i meccanismi micro (individuali) con quelli macro (sociali/culturali): solo in questo modo potranno essere messe in campo tecniche efficaci di prevenzione nella lotta al terrorismo”. Il rischio da evitare è che anche questa legislatura non produca una legge in merito: nonostante le emergenze sanitaria ed economica, le conferenze dei capigruppo potrebbero valutare una corsia preferenziale per i testi in discussione.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Anche l’omicidio del deputato inglese David Amess del 15 ottobre scorso ha avuto matrice terroristica e ogni rapporto evidenzia i rischi. Quello dell’Europol del 2020 riporta che l’anno scorso in territorio europeo ci sono stati 10 attacchi jihadisti con 12 morti e 47 feriti e dai 254 arresti emerge la giovane età media: l’87 per cento è composto da maschi di 31-32 anni. In Italia, che pure vive una situazione molto migliore di altri Stati per le scarse comunità islamiche e terze generazioni, tra il 1° agosto 2020 e il 31 luglio 2021 ci sono state 71 espulsioni per motivi di sicurezza. La relazione del Copasir, basandosi sull’ultimo rapporto del Viminale, cita 144 foreign fighters anche se è noto che la gran parte è morta e che solo una decina è sul nostro territorio costantemente monitorata.

IL RISCHIO CARCERI

La relazione spiega che su 60mila detenuti in Italia 20mila sono stranieri dei quali 13mila provengono da Paesi musulmani e 8mila si dichiarano islamici. Sono dati contenuti nel report “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia” a cura della European Foundation for Democracy e di Nomos Centro studi parlamentari. Invece, secondo il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria al 15 ottobre scorso erano 313 i detenuti sottoposti a monitoraggio suddivisi in base alla pericolosità: 142 di livello alto, 89 medio e 82 di livello basso. Gli algerini con il 27,1 per cento e i marocchini con il 25,8 sono i più rappresentati.

L’URGENZA DI UNA LEGGE

Si parla di deradicalizzazione da qualche anno ma la proposta Dambruoso-Manciulli nella scorsa legislatura non fu approvata. Oggi lo stesso tema delle misure di prevenzione della radicalizzazione di matrice jihadista è in discussione nella commissione Affari costituzionali della Camera insieme con la proposta dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fenomeni di estremismo violento o terroristico e di radicalizzazione jihadista. Alla Camera sono state presentate altre proposte attinenti in vario modo all’argomento mentre al Senato c’è un disegno di legge analogo a quello di Montecitorio sulla prevenzione, ma la discussione non è cominciata.

Nella relazione del Copasir si sottolinea che è “fondamentale comprendere il percorso attraverso cui le persone adottano credenze che giustificano la violenza e come traducano il pensiero in comportamenti violenti. Nel processo di radicalizzazione assumono rilievo diversi passaggi, come la mobilitazione potenziale – per cui soggetti con lo stesso insieme di credenze assumono ruoli diversi e compiono diversi tipi di azioni – e le reti di reclutamento”. Il rischio del lupo solitario fu ribadito nell’ultima relazione dei Servizi al Parlamento nella quale è scritto che la minaccia jihadista sull’Europa è caratterizzata da “tratti prevalentemente endogeni e destrutturati, tradottasi in attivazioni autonome ad opera di soggetti nella maggioranza dei casi privi di legami con gruppi terroristici, ma da questi influenzati o ispirati”. Web e carceri sono i principali “luoghi” di proselitismo.

LE NORME ATTUALI

Il decreto antiterrorismo del 2015 e la ratifica di convenzioni internazionali del 2016 sono punti fermi della legislazione italiana. A livello europeo, nello scorso maggio fu approvato il regolamento per il contrasto alla diffusione di contenuti terroristici online e la collaborazione con i gestori dei siti per rimuovere quei contenuti. L’Italia spicca inoltre per il Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, dove c’è un costante scambio di informazioni tra forze di polizia, intelligence e amministrazione penitenziaria. Sul fronte del recupero degli ex terroristi, invece, la relazione ricorda che questo tipo di programmi governativi è stato attivato in Occidente da pochi anni, al contrario di alcuni Paesi islamici. Comunque i Cve, Counter Violent Extremism, sono attivi in Gran Bretagna, Danimarca, Olanda, Svezia, Norvegia, Germania e Canada con l’obiettivo di recuperare gli islamici deradicalizzati e reintegrarli nella società.

LE PROPOSTE DEL COPASIR

Il Comitato segnala “l’esigenza urgente e non più dilazionabile di un intervento legislativo” per dotare l’Italia “di una disciplina idonea a contrastare in modo più incisivo il crescente fenomeno della radicalizzazione di matrice jihadista, quale nuova frontiera della minaccia terroristica”. “La deradicalizzazione entra, a pieno titolo, tra le politiche di antiterrorismo, rappresenta un vero e proprio strumento securitario di controllo e di riduzione della minaccia eversiva e del reclutamento di cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche”. Il campo di battaglia “cruciale” è il web senza dimenticare scuole, carceri, luoghi di aggregazione.

Inoltre, il Copasir propone di inserire nel Codice penale un articolo per punire anche la semplice detenzione di materiale di propaganda che oggi non comporta nessuna sanzione mentre potrebbe essere preso a modello l’articolo 600 quater sulla detenzione di materiale pedopornografico. L’obiettivo dev’essere quello di “intervenire tempestivamente sui soggetti radicalizzati” anche se non hanno ancora commesso un reato.

Allo scopo di migliorare la collaborazione europea, oltre ai contributi che gli Stati membri dell’Ue inviano al Centro di intelligence e situazione dell’Europol (Eu Intcen), il Copasir ricorda che tra poco la Commissione europea produrrà “un Codice di cooperazione di polizia” che, oltre a migliorare appunto la cooperazione, “prevede la creazione di una rete di operatori, tra cui Europol, che investighino a livello finanziario al fine di colpire i flussi che finanziano il terrorismo”. In Italia, è necessario invece mettere a sistema singole iniziative di prevenzione giudiziaria considerate per ora “una delle strategie possibili” di prevenzione.

IL COMITATO VUOLE ASCOLTARE DRAGHI

Nella sua nota il presidente Urso sottolinea l’auspicio del Comitato di poter ascoltare il presidente del Consiglio sull’esito del G20 a presidenza italiana “che si avvia alla conclusione e che è stato caratterizzato, tra i diversi temi trattati, dall’esame di questioni di politica internazionale, sicurezza e difesa”. Infine, la prossima settimana sarà ascoltato il sottosegretario Franco Gabrielli anche nell’ambito dell’esame della Relazione semestrale sull’attività dei servizi di intelligence per il primo semestre del 2021.

4430.- Terza telefonata Draghi-Putin in tre mesi. Al centro Afghanistan e G20

Putin guarda diritto e Draghi vede lontano. La Russia è, comunque, Occidente e l’Afghanistan è sempre sulla Via della Seta. Draghi e Putin sono d’accordo sul ruolo dell’Onu per l’emergenza afghana e proprio sotto le bandiere dell’Onu, Xi potrebbe inviarvi i propri soldati, senza coinvolgere direttamente la Cina: lo impedirebbero le esperienze russe e americane. Per una somma di circostanze, l’Italia e la Russia sono in Mediterraneo e in Asia Centrale. Si gioca su più tavoli.

Di Federica De Vincentis | 19/10/2021 – Formiche net-Esteri

Terza telefonata Draghi-Putin in tre mesi. Al centro Afghanistan e G20

Dopo quelli di agosto e settembre, nuovo colloquio tra i due leader. Mancano pochi giorni al vertice di Roma: il presidente russo ha annunciato che parteciperà in videoconferenza. Ecco i temi in cima all’agenda

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha avuto stamattina una conversazione telefonica con il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin. Al centro dei colloqui vi sono stati gli ultimi sviluppi della crisi afghana, i lavori preparatori del prossimo vertice G20 e le relazioni bilaterali. Ne dà notizia Palazzo Chigi.

Il Cremlino ha comunicato che il presidente Putin “ha apprezzato molto il lavoro svolto dalla presidenza italiana del G20 e ha
annunciato la sua disponibilità a partecipare in videoconferenza al vertice” dei leader previsto a Roma il 30-31 ottobre.

È la terza telefonata tra i due leader in soli tre mesi. La prima è del 19 agosto scorso, a quattro giorni dalla caduta di Kabul nelle mani dei Talebani. Al centro sempre l’Afghanistan, con la volontà italiana di organizzare una riunione G20 ad hoc, tenutasi la scorsa settimana. In quell’occasione Mosca ha inviato un viceministro. Pesa, come osservato su Formiche.net, il fatto che la Russia, come la Cina, ha avviato un percorso (indipendente) di contatto diretto con i Talebani.

La seconda telefonata è datata 22 settembre. In cima all’agenda ancora l’Afghanistan e la preparazione del vertice G20 di fine ottobre. Il comunicato del Cremlino spiegava che i due leader “hanno sottolineato l’importanza di stabilire un dialogo intra-afghano che tenga conto degli interessi di tutti i gruppi della popolazione”. “Particolare attenzione è stata data al tema della ricostruzione post-conflitto in Afghanistan, anche in relazione alle attività del G20, che l’Italia presiede quest’anno”, proseguiva il comunicato. “In questo contesto, sono stati discussi i problemi del prossimo vertice del G20”. La nota di Mosca spiegava che il presidente russo ha parlato delle recenti riunioni dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva e dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (che coinvolge otto Paesi tra cui Russia, Cina, India e Iran).

Il G20 si riunirà il 30 e 31 ottobre a Roma sotto la presidenza italiana

I rappresentanti dei Paesi fondatori del Trattato di Shangai, diventati sei nel 2001 con l’inclusione dell’Uzbekistan, dando vita così al Gruppo dei Sei, impegnato per i buoni rapporti tra stati confinanti e per una cooperazione amichevole. Il rilancio dell’economia italiana passa attraverso l’Asia Centrale e la cooperazione con il gruppo. C’è pane per il G20.

Russia, Cina sono entrambe membri del gruppo dei sei e, insieme al Pakistan, intendono prestare assistenza umanitaria ed economica urgente all’Afghanistan e hanno espresso un interesse comune a garantire la sicurezza contro il terrorismo e il fondamentalismo. Mentre si va riscrivendo la Geopolitica, l’Italia gioca su due tavoli.

4363.- USA – Russia. Draghi al G20 è sulla strada giusta

Per Washington aprire alla cooperazione con la Russia avrebbe un significato di carattere strategico. Sebbene venga stabilita su un dossier limitato, significherà aprire la strada al Nuovo Occidente e tagliare fuori la Cina.

Correndo avanti: Dagli Urali, agli Urali. Dall’Alaska, all’Alaska! Svegliati Europa!

“Gli Usa non escludono di usare le basi russe per intervenire in Afghanistan”

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 28/09/2021

Gli Usa non escludono di usare le basi russe per intervenire in Afghanistan

Secondo il Wall Street Journal, russi e americani si parlano per pianificare la gestione condivisa delle attività anti-terrorismo legate al ritorno dei Talebani. L’idea sarebbe partita da Putin nel bilaterale con Biden a Ginevra. È la cooperazione che l’Italia eleva a discussione del G20Washington e Mosca stanno parlando della possibilità di usare in maniera congiunta basi russe in Asia Centrale per monitorare e combattere le forze terroristiche che potrebbero rafforzarsi sotto l’amministrazione talebana in Afghanistan. Lo scoop l’ha fatto il Wall Street Journal, che è venuto a conoscenza di una conversazione aperta dal capo dello Stato maggiore congiunto, il generale Mark Milley, con il capo delle Forze armate russe, Valery Gerasimov.

Usa-Russia: incontro definito “costruttivo” nella località di Vantaa, in Finlandia dei capi di Stato maggiore. Foto © Charles E. Burden

Sarebbe stato l’americano a sondare il terreno su indicazione del Consiglio di sicurezza nazionale, dunque della Casa Bianca, che voleva andare a vedere se non fosse un bluff l’offerta lanciata da Vladimir Putin durante il meeting del 16 giugno con Joe Biden — ai tempi non c’era una contingenza specifica, sebbene la caduta afghana fosse già all’orizzonte, ma il russo aveva messo sul piatto l’idea di ospitare gli americani nelle proprie basi per attività di anti-terrorismo congiunte. Per ora, gli Stati Uniti usano basi nella regione del Golfo, tra cui quelle in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti. I droni e gli altri aerei devono volare da diverse centinaia di chilometri di distanza per coprire il teatro afghano, limitando la quantità di tempo in cui possono soffermarsi su potenziali obiettivi e la rapidità di azione. Per questo i funzionari statunitensi hanno anche guardato all’Asia centrale per basare droni e altri aerei. Anche se si è ritirata dal paese, Washington intende mantenere una capacità di azione (veloce, efficace, precisa) contro le forze terroristiche. In gergo tecnico il Pentagono le chiama attività “over-the-horizon”, e sono fondamentali per contrastare la costante (crescente?) minaccia di gruppi come al Qaeda o lo Stato islamico, ancora attivi nell’area.Si tratta di una realtà considerata come prioritaria anche dalla Russia, che teme dinamiche di instabilità securitaria in quella che è una sua sfera di influenza storica, l’Asia Centrale. La destabilizzazione regionale è un problema comune dunque; uno di quelli a riflesso quasi globale che Russia e Stati Uniti individuano come terreno di contatto in cui agire insieme? D’intralcio potrebbero esserci questioni tecniche soprattutto a Washington, che Milley e il segretario alla Difesa Lloyd Austin potrebbero affrontare in questi giorni in audizione al Congresso, visto che dopo l’aggressione all’Ucraina i legislatori hanno votato una legge che impedisce cooperazioni militari russo-americane finché i primi continueranno a occupare la Crimea — ossia per sempre, e per questo il Pentagono si è garantito di prevedere una serie di eccezioni pragmatiche.Al di là della sfera tecnica (burocratico-legislativa o militare) il peso politico di un eventuale accordo è piuttosto importante. L’eventuale cooperazione tra Usa e Russia segue la traiettoria che l’Italia sta cercando di tracciare riguardo alla crisi afghana, ossia quella del multilateralismo globale. Roma intende elevare la questione in sede G20, che presiede, attraverso un meeting speciale che includerebbe molte delle forze più direttamente (o più indirettamente) interessate a quanto succede e succedere attorno all’Afghanistan. Contemporaneamente, per Washington la cooperazione con la Russia, sebbene su un dossier limitato, significherebbe tagliare fuori la Cina; ossia avrebbe un significato di carattere strategico molto più importante del contesto tattico. Con tutti i rischi del caso: si ricorderà che tempo fa erano uscite informazioni su collegamenti tra Talebani e intelligence militare russa per danneggiare le forze americane in Afghanistan, per esempio.

4342.- Un altro perché l’Europa deve farsi Stato, potenza e seconda gamba della NATO.

Cosa (non) dice il rapporto dell’Fbi sull’Arabia Saudita e gli attentatori dell’11 settembre

Rapporto Fbi

di Giuseppe Gagliano, Start Magazine.

Cosa dice il rapporto dell’Fbi, declassato con un ordine esecutivo di Biden, sugli attacchi terroristici dell’11 settembre. Il punto di Giuseppe Gagliano

Con un ordine esecutivo del presidente Joe Biden, sabato scorso l’FBI ha declassificato un rapporto dell’FBI – il ventesimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre – che mostrava che c’erano legami tra ex rappresentanti del governo saudita e i dirottatori.

Sebbene il rapporto di 16 pagine, datato 4 aprile 2016, sia stato censurato, contiene importanti dettagli su un’indagine dell’FBI sul sostegno fornito da un funzionario consolare saudita e un sospetto agente dell’intelligence saudita a Los Angeles ad almeno due dei uomini che hanno dirottato aerei di linea commerciali l’11 settembre 2001.

Intitolato ENCORE Investigation Update, Review and Analysis, il rapporto dell’FBI esamina i collegamenti e le testimonianze dei testimoni riguardanti l’attività del sospetto agente dell’intelligence Omar al-Bayoumi e afferma che era profondamente coinvolto nel fornire “assistenza di viaggio, alloggio e finanziamento” per aiutare i due dirottatori, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar.

Il rapporto afferma che quello che era stato precedentemente descritto nel rapporto ufficiale della Commissione sull’11 settembre del 2004 come un “incontro casuale” tra al-Bayoumi e i due futuri dirottatori era in realtà un appuntamento prestabilito e ben orchestrato in un ristorante.

Il documento dell’Operazione Encore, nome in codice dell’indagine dell’FBI, dice anche che il diplomatico saudita e funzionario per gli affari islamici Fahad al-Thumairy aveva “incaricato” un associato di aiutare al-Hazmi e al-Mihdhar quando erano arrivati a Los Angeles e avevano detto che gli uomini erano “due persone molto significative”.

Al-Hazmi e Al-Mihdhar erano due dei cinque terroristi che hanno dirottato il volo 77 dell’American Airlines dall’aeroporto internazionale di Washington Dulles all’aeroporto internazionale di Los Angeles e hanno fatto volare il Boeing 757 sul Pentagono, uccidendo tutti i 64 a bordo e altre 125 persone nell’edificio.

Il foro causato nel Pentagono dal Boeing 757. Alcune foto mostrano chiaramente come i danni alla base del Pentagono si estendano per circa 35 metri (un 757 è largo 38 metri.

Il report dell’FBI è il primo di quelli che dovrebbero essere rilasciati in risposta all’ordine esecutivo del 3 settembre firmato dal presidente Biden sulla “declassificazione di alcuni documenti relativi agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001”. L’ordine di Biden affermava: “Le informazioni raccolte e generate nell’indagine del governo degli Stati Uniti sugli attacchi terroristici dell’11 settembre dovrebbero ora essere divulgate, tranne quando le ragioni più forti possibili consigliano diversamente”.

Questo è il primo riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti che esisteva una relazione tra individui legati al governo dell’Arabia Saudita e gli attentati avvenuti vent’anni fa, attacchi che sono diventati la base per crimini di guerra internazionali contro l’Afghanistan e l’Iraq, consegne a siti neri, torture e detenzione a tempo indeterminato a Guantanamo Bay, nonché un attacco a numerosi diritti fondamentali contenuti nella Costituzione degli Stati Uniti. È significativo che un documento dell’FBI stia ora confermando ciò che è ampiamente noto dal 2001.

I familiari delle persone uccise l’11 settembre hanno risposto al documento dell’FBI con dichiarazioni schiette. Brett Eagleson, il cui padre è morto al World Trade Center, ha dichiarato: “Oggi segna il momento in cui i sauditi non possono fare affidamento sul fatto che il governo degli Stati Uniti nasconda la verità sull’11 settembre”. Terry Strada del gruppo 9/11 Families United ha dichiarato: “Ora i segreti dei sauditi sono stati svelati, ed è ormai tempo che il Regno riconosca il ruolo dei suoi funzionari nell’uccidere migliaia di persone sul suolo americano”.

Jim Kreindler, che rappresenta le famiglie che fanno causa all’Arabia Saudita, ha affermato che il rapporto convalida il loro caso. “Questo documento, insieme alle prove pubbliche raccolte fino ad oggi, fornisce un modello di come al-Qaeda ha operato all’interno degli Stati Uniti con il sostegno attivo e consapevole del governo saudita”.

Una dichiarazione dell’ambasciata saudita afferma: “Non è mai emersa alcuna prova che indichi che il governo saudita o i suoi funzionari fossero a conoscenza dell’attacco terroristico o fossero in qualche modo coinvolti nella sua pianificazione o esecuzione. Qualsiasi accusa che l’Arabia Saudita sia complice negli attacchi dell’11 settembre è categoricamente falsa”.

Le amministrazioni di George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump hanno tutte bloccato l’accesso pubblico a qualsiasi documento dell’FBI riguardante il coinvolgimento dell’Arabia Saudita con al-Qaeda sulla base del rischio di “un danno significativo alla sicurezza nazionale” degli Stati Uniti. Tuttavia, l’esistenza dell’operazione Encore, che risale al 2007, è stata rivelata in un rapporto investigativo basato in gran parte su fonti anonime statunitensi pubblicate da ProPublica nel gennaio 2020.

Le rivelazioni contenute nel documento declassificato sollevano molte altre domande sul ruolo dell’Arabia Saudita e delle agenzie di intelligence statunitensi negli eventi dell’11 settembre.Infatti non solo i sauditi al-Thumairy e al-Bayoumi hanno facilitato i due dirottatori dell’11 settembre in California, ma sia al-Hazmi che al-Mihdhar vivevano nella casa del principale Informatore dell’FBI nella comunità musulmana di San Diego.

La connessione saudita è così delicata non solo perché coinvolge il principale alleato degli USA nel mondo arabo, ma perché gli intimi legami tra le agenzie di intelligence saudite e statunitensi sollevano interrogativi preoccupanti su come sia stato possibile che nessuno nella CIA, nell’FBI o in altri le agenzie fossero a conoscenza dei piani dei dirottatori, anche se molti di loro erano stati sotto sorveglianza da parte della CIA ed erano nelle liste di controllo dell’FBI mentre entravano e si spostavano liberamente negli Stati Uniti. Insomma accanto al fallimento della guerra in Afghanistan questi documenti rivelano l’incredibile debolezza degli Stati Uniti proprio nel settore dell’intelligence dimostrando per l’ennesima volta come l’America sia un gigante dai piedi di argilla e come l’Europa debba incominciare a provvedere in modo autonomo alla propria difesa svincolandosi da un alleato debole e inaffidabile.

4327.- La CIA ha usato e userà l’ISIS per interferire in Afghanistan.

Ricordate le foto del fu’ senatore John McCain alla Casa Bianca con Al-Qaeda ? Bonazzi ce le ripropone. ISIS e Al-Qaeda/Al-Nusra, costituivano la “Legione Straniera” della Casa Bianca. Dietro ai recenti attentati terroristici in Afghanistan vi sono ampi retroscena …

Scritto il  pubblicato in geopolitica e opinioni

For this photo we thanks alghad.com

Dietro ai recenti attentati terroristici in Afghanistan vi sono ampi retroscena che oggi andremo a riepilogare. Nel corso degli anni, diversi rapporti dell’Afghan Analyst Network (AAN) sullo Stato Islamico nella provincia del Khorāsān mostrano che questo inizialmente era composto da islamisti provenienti dal Pakistan. Un rapporto del 2016 spiega che i combattenti dell’ISIS del Khorāsān, erano estremisti pakistani stabilitisi nei distretti sudorientali di Nangarhar, una provincia dell’Afghanistan e sulle montagne dello Spin Ghar, sul lato pakistano della Linea Durand. Prima di unirsi all’ISIS, questi militanti operavano in maggioranza nella sigla Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) e quasi tutti giunsero a Nangarhar dal 2010. Il governo del Pakistan sostiene che il TTP sia sostenuto dal RAW, l’agenzia di intelligence esterna dell’India, che spera di usarli contro il Pakistan. Sembra inoltre che anche il governo “democratico occidentalista” afghano, prima della sua fuga corteggiasse questi estremisti.

L’ex membro democratico del Congresso e veterana di guerra Maggiore Tulsi Gabbard

Nel tempo, l’NDS, cioè i servizi segreti afghani riuscirono a stringere accordi con il Tehrik-e-Taliban Pakistan, permettendo a questi islamisti di spostarsi liberamente nel Khorāsān usufruendo degli ospedali pubblici. In conversazioni confidenziali con l’Afghan Analyst Network, alcuni funzionari del precedente governo “democratico occidentale” confermarono che vi erano relazioni tra militanti del Tehrik-e-Taliban Pakistan e l’NDS. Anche gli ‘anziani’ tribali (carica politica tradizionale) e politici di Jalalabad dichiararono di tutelare gli islamisti TTP pachistani, come rappresaglia al sostegno fornito dal Pakistan ai talebani afghani che oggi hanno preso il potere nel paese. L’NDS afghana era ovviamente controllata dalla CIA, che negli anni ’90 aveva addestrato Amrullah Saleh, ex capo dell’intelligence dell’Alleanza del Nord anti-talebana. Dopo che nel 2001 gli Stati Uniti rovesciarono l’allora governo talebano, Saleh divenne capo dell’NDS. All’epoca gli Stati Uniti affermavano di combattere lo Stato Islamico in Iraq e Siria, ma era una menzogna, perché ISIS e Al-Qaeda/Al-Nusra, costituivano la loro “Legione Straniera” in Medio Oriente come denunciò anche dall’allora membro del Congresso e veterana di guerra signora Tulsi Gabbard.

Il fu’ senatore John McCain portò il sostegno della Casa Bianca ad Al-Qaeda e al futuro califfo Al-Baghdadi con l’obbiettivo di annettere Siria e Iraq al blocco occidentale, operazione fortunatamente fallita grazie all’intervento decisivo della Russia: fermo immagine CNN 

Dopo l’intervento decisivo della Russia in Siria, man mano che l’ISIS perdeva terreno, secondo molti rapporti comprovati, i membri di spicco dell’organizzazione vennero estratti da Iraq e Siria con elicotteri americani non contrassegnati e trasferiti a Nangarhar in Afghanistan dove si unirono ai militanti dell’ISIS-k. Esiste un lungo elenco di funzionari governativi di Iraq, Siria e Iran che accusarono gli Stati Uniti di sostenere l’ISIS, come anche il governo russo. Assieme a tali denunce vi sono quelle di vari media e dell’organizzazione libanese Hezbollah che combatte i terroristi in Siria al fianco dell’Esercito Regolare. Altri rapporti sono giunti anche da un gruppo militare riconosciuto dallo stato iracheno e dai Guardiani della Rivoluzione iraniani che combattono l’ISIS in Iraq e il cui comandante, generale Sardar Qasem Soleimanivenne assassinato dagli USA per ritorsione nel 2020. Infine, anche l’ex presidente afghano Hamid Karzai, definì il gruppo: “uno strumento degli Stati Uniti”.

L’Afghanistan sotto l’occidente

Le ex forze speciali NDS: foto Twitter

Facciamo ora un passo indietro, al periodo di occupazione occidentale dell’Afghanistan. Negli anni la CIA aveva sviluppato e formato altri estremisti per fermare l’avanzata dei talebani, l’NDS organizzandola in 4 battaglioni e la Khost Protection Force (KPF). Queste due formazioni erano nei fatti squadroni della morte controllati dalla CIA che li supportava con gli elicotteri. Nel 2018 la CIA era impegnata nel programma ANSOF (precedentemente Omega), per uccidere o catturare i leader talebani. A metà del 2019, la ONG Human Rights Watch denunciava: “le forze d’attacco afghane sostenute dalla CIA hanno commesso gravi abusi, alcuni dei quali equiparati a crimini di guerra. Queste forze hanno ucciso illegalmente civili in raid notturni, fatto sparire con la forza detenuti e attaccato strutture sanitarie. Le vittime civili di questi raid sono aumentate drammaticamente”.

Dopo la presa di Kabul da parte dei talebani, divenne chiaro che la CIA avrebbe perso il controllo di gran parte della sua principale fonte di finanziamento occulto basato sul traffico internazionale di droga dall’Afghanistan. Come sappiamo, durante la ritirata occidentale la CIA ha poi affidato alle forze NDS afghane la protezione dell’aeroporto internazionale garantendo loro che i circa 600 di loro presenti all’aeroporto, sarebbero stati evacuati. Alcuni membri di questa unità afghana, dapprima causarono un incidente sparando per errore a soldati tedeschi, un caso di “fuoco amico” che i media occidentali si affrettarono a insabbiare. Invece la CIA ha ha spostato nel Panjshir le unità dell’altro reparto, il KPF per creare una “Nuova Alleanza del Nord” con Amrullah Saleh e Ahmad Massoud. Un dato importante da sottolineare è che lungo la Valle del Panjshir passa l’unica strada degna di questo nome, che in futuro collegherà la Cina e l’Afghanistan attraverso il Corridoio di Wakhan nel progetto Nuova Via Della Seta:una coincidenza?

La vittoria talebana

Nei giorni scorsi,  un attentatore suicida dell’ISIS ha attaccato l’aeroporto di Kabul dove molte persone attendevano di essere evacuate dall’Afghanistan. Nell’esplosione e nelle fasi successive rimasero uccisi oltre 150 civili, 28 militari talebani e 13 soldati statunitensi. Come abbiamo appreso dai telegiornali, l’attacco terroristico ero stato ampiamente preannunciato, è quindi difficile capire perché gli Stati Uniti, pur preavvisati, non abbiano intensificato le misure di sicurezza. Triste a dirsi, ma come accade spesso in circostanze simili, la maggior parte delle vittime non le causò l’attentatore, ma i militari presenti nell’aeroporto che reagirono istintivamente. In situazioni di grande pericolo capitano incidenti come quello avvenuto all’aeroporto di Kabul e in guerra sono tristemente famosi gli episodi di “fuoco amico”: è triste, ma capita anche questo.

Anche i medici legali, dopo aver visitato i corpi delle vittime, hanno confermato che la maggior parte delle vittime “aveva ferite da arma da fuoco sparati dall’alto”, quindi dalle torrette di guardia presidiate dai militari. Mentre molti media occidentali cercano d’insabbiare notizie come queste, va reso merito al New York Times che ha scritto: “ Per la prima volta, i funzionari del Pentagono hanno pubblicamente riconosciuto la possibilità che alcune persone uccise fuori dall’aeroporto giovedì possano essere state colpite da membri del servizio statunitense dopo l’attentato suicida”. Una nota di demerito va invece al Washington Postche s’è inventato: “Diversi uomini armati hanno poi aperto il fuoco su civili e militari. Una branca locale dello Stato Islamico ha rivendicato l’attentato”.

Ora il futuro dell’Afghanistan, dipende da come i talebani riusciranno a far rialzare un paese saccheggiato e senza risorse, se non quelle delle sue miniere. L’unica chance per i talebani sarà quella di non chiudersi al mondo, però dovranno schierarsi da uno dei due lati della scacchiera. Dal canto suo, con il ritorno al potere dei talebani, in Afghanistan la CIA agirà utilizzando gli squadroni della morte del KPF, per contrastare gli interessi di Cina e Russia, paesi che andranno a colmare il vuoto lasciato dall’occidente. Considerato che il mainstream occidentale definisce già gli islamisti del Panjshir “ribelli”, possiamo immaginare già da ora come ci verranno presentati i nuovi tagliagole.

Col. Luciano Bonazzi, Orizzonti Geopolitici

Le fonti dell’analisi sono inserite nel testo, altri articoli sull’Afghanistan QUI