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4016.- Gaza. Punto e a capo.

Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro.

Hamas-Israele, una tregua duratura?

di Maria Scopece, Start Magazine

israele hamas

Chi c’era e che cosa si è detto al webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano” organizzato dall’associazione Ricostruire di Stefano Parisi

Dopo 11 giorni di battaglia Israele e Palestina hanno siglato il cessate il fuoco. Il bilancio di questa ennesima puntata del conflitto tra israeliani e palestinesi è di 232 vittime palestinesi e 12 israeliane

Una tregua duratura?

“Potrà anche esserci una tregua ma non cambierà nulla. Hamas appena finiti i bombardamenti ricomincerà a scavare la sua metro, riprenderà a usare le fabbriche di missili e di razzi con istruttori iraniani e si preparerà al prossimo scontro”. A dirlo è il giornalista esperto di esteri, ed analista, Carlo Panella, nel corso del webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano”, organizzato dall’associazione “Ricostruire” di Stefano Parisi. All’appuntamento online hanno partecipato anche Marco Paganoni, Professore di Storia di Israele e direttore di Israele.net, Claudio Pagliara, corrispondente Rai da New York e già corrispondente Rai da Gerusalemme, e Angela Polacco, israeliana che vive a Gerusalemme dal 1985.

L’ostilità dell’opinione pubblica araba 

La conflittualità in Medioriente non di esaurisce alle schermaglie tra governi. “Nell’opinione pubblica araba c’è una grave ostilità nei confronti di Israele – ha aggiunto Panella -. Ciò che non è chiaro all’opinione pubblica occidentale è che l’opinione pubblica araba, a causa di una lettura letterale del corano, nega il diritto degli ebrei di avere uno stato in Palestina. Basta leggere lo statuto di Hamas”. In occidente ci sarebbe la convinzione sbagliata la contesa riguardi la terra ma non sarebbe così. “Il mondo islamico sostiene che Gerusalemme non è la città degli ebrei. Gli ebrei,  secondo gli islamici, non possono andare sulla spianata di al-Aqsa – continua Panella -. L’essenza di questo conflitto, e Hamas è chiarissima a dirlo, è che l’Islam è proprietario di Gerusalemme. Gli stati arabi, anche gli stati che hanno firmato gli accordi di Abramo, fronteggiano una marea montate che rifiuta il diritto degli ebrei di avere uno stato. Questo elemento rende così complesso l’evolversi dello scenario”. 

Hamas: “Vittoria della resistenza palestinese”

Hamas, alla dichiarazione del cessate il fuoco, ha dichiarato vittoria e migliaia di persone sono uscite in strada nei Territori Palestinesi. “Oggi la resistenza dichiara vittoria sui nemici”, ha detto Khalil al-Hayya, numero due di Hamas a Gaza. Per Ali Barakeh, della Jihad Islamica, la tregua è una sconfitta per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e una “vittoria per il popolo palestinese”.

Claudio Pagliara: “C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas”

“C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas, su chi c’è dietro”. La preoccupazione circa la poca informazione sull’opacità di Hamas è del corrispondente Rai da New York Claudio Pagliara: “Nel 2005 Ariel Sharon ordinò il ritiro di 8mila civili e di tutto l’esercito da Gaza. Consegna le chiavi della Striscia ai palestinesi senza contropartita. All’epoca c’era ancora l’autorità palestinese. In quei territori c’era Fatah contro cui Hamas si scontrò. Nel 2007 Hamas prende il potere sconfiggendo e uccidendo o leader di Fatah”. Secondo l’inviato Rai, un tempo inviato da Gerusalemme, alla natura violenta di Hamas va imputata la recrudescenza della violenza nei territori della Striscia di Gaza. “Questa storia va ripetuta perché se non si capisce la profonda divisione che si è creata nel campo palestinese non si capisce perché in meno di 15 anni abbiamo avuto quattro gravi conflitti a Gaza – continua Pagliara -. Gaza è finita nelle mani di un’organizzazione che non ha come scopo il benessere della popolazione palestinese ma vuole utilizzare tutte le risorse che riceve per costruire una base militare e colpire Israele che aveva consegnato la striscia di Gaza nelle mani dei palestinesi per farne altro. All’epoca c’erano 29 progetti internazionali per fare di Gaza la Svizzera del Medio Oriente. Tutto fallito perché le forze di Abu Mazen vengono sconfitte dagli integralisti islamici”. 

Il ruolo degli Stati Uniti d’America 

Gli Stati Uniti d’America giocano da sempre un ruolo cruciale nella gestione delle conflittualità dell’area. “L’amministrazione Trump aveva cercato di cambiare il paradigma dell’approccio alla questione – dice Marco Paganoni, professore di Storia di Israele e direttore di israele.net -. Aveva proposto un nuovo approccio che sottolineava che la parte palestinese che rifiuta il negoziato e rifiuta i compromessi ogni volta che vengono proposti, che continua a crescere intere generazioni di palestinesi nelle campagne contro Israele, che sfrutta agenzie internazionali con i suoi finanziamenti per continuare a fare l’insegnamento dell’odio e premiare i terroristi con pensioni e vitalizi. Va fatta pressione e va fatta lì, perché Israele il compromesso punta a farlo”. 

Il cambio di prospettiva dell’amministrazione Biden 

Il prof. Paganoni ritiene che dietro questa recrudescenza degli scontri ci sia una variazione nell’approccio americano alla questione. “Questo approccio aveva prodotto dei risultati ed ora è stato smontato – continua il prof. Paganoni -. L’amministrazione americana è tornata a dare gratuitamente credito ai leader palestinesi. Questo cambio di direzione credo che abbia giocato in maniera pesante nella decisione della tempistica della deflagrazione di questo conflitto. Israele stava facendo la pace con un pezzo importate del mondo arabo. Si stava per formare in Israele un governo con l’ingresso di una formazione araba islamica, continuava a colpire i progetti atomici iraniani, stava uscendo dalla pandemia in modo brillante. In questo quadro qualcuno non poteva stare con le mani in mano. Questo qualcuno non è solo Hamas ma soprattuto i suoi protettori”. 

La mano iraniana 

“La differenza con Trump non riguarda gli accordi di Abramo” – dice Pagliara -. Riguarda il dossier iraniano. Un dossier strategico, Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro. Queste azioni dell’amministrazione Trump hanno spinto molti paesi del golfo a fare accordi con Israele”. Anche per il corrispondente Rai gli scontri di questi giorni hanno a che fare con il cambio di indirizzo dell’amministrazione statunitense.  “Su questo terreno l’amministrazione Biden ha lasciato segnali diversi e si è mostrata, secondo alcuni, troppo disposta a tornare a un tavolo del dialogo ricevendo da Teheran dei sonori no – aggiunge Pagliara -. Dietro questa fiammata c’è in primo luogo la mano iraniana”.

4002.- Biden vende armi a Netanyahu. Fa il gioco di Hamas e cancella la pace di Trump.

Biden, e l’ “accordo del secolo”?

Israele-Gaza o Israele-Hamas? O, peggio! Hamas-Linkud? Linkud è il partito di Netanyahu. L’orrore fa salire Netanyahu, nei consensi, ma ad Hamas manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. All’insaputa di larga parte del Congresso, Biden vende armi a guida di precisione a Israele per 735 milioni di dollari e rafforza gli estremisti ebrei,  poco prima degli attacchi di Hamas sulla striscia di Gaza, in risposta alla feroce repressione di Israele a Gerusalemme contro la proteste per gli sfratti nel distretto di Sheikh Jarrah. Bandiere rosse levate per alcuni membri della Camera più aperti a mettere in discussione il sostegno della DC a Netanyahu, suggerendo che la vendita venga condizionata e utilizzata come leva. La vendita riguarda le munizioni ad attacco diretto congiunto (JDAMS) che trasformano le cosiddette bombe “stupide” in missili a guida di precisione. Israele ha già acquistato JDAMS in precedenza, spiegando la sua scelta: gli attacchi aerei a Gaza guidati con precisione negli appartamenti e sulle famiglie dei capi di Hamas aiutano a evitare la morte tra i civili.

Dove sono finiti gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi racchiusi nella “Peace to Prosperity”, nome ufficiale della proposta di pace di Trump per il Medio Oriente, benedetta come “accordo del secolo”. La road map del piano andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani; ma non a quelli elettorali di Netanyahu. Ma, allora, c’è un legame fra l’elezione di Biden e la rielezione di Netanyahu?

Dal punto di vista operativo, le 181 pagine della “Peace to Prosperity”presentavano chiaramente un doppio framework (politico ed economico), nel quale emergevano almeno quattro punti critici:

1.- Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città (in pratica l’area di Abu Dis) come loro capitale;

2.- I palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno;

3.- Vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”;

4.- È sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.

A questi elementi meramente politici si affiancavano le disposizioni economiche, che prevedevano, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove sarebbero stati investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. Nell’arco temporale di un quadriennio, gli israeliani si sarebbero impegnati, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. 

Conclusioni:

Benjamin Netanyahu mette sempre più in un angolo la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che dal 1967 la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi e il piano Trump andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani, ma è stato vanificato dall’elezione di Biden. È una conclusione e anche una domanda.

Ocasio e Sanders incalzano Biden: «Non possiamo avere la linea di Trump». Perché?

Bene fa l’Antidiplomatico a ricordare all’esercito di occupazione israeliano le parole dello scrittore uruguaiano Edoardo Galeano, scritte nel 2012:

L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato al mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili sono chiamate danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su dieci danni collaterali, tre sono bambini. E ci sono migliaia di mutilati, vittime della tecnologia dello smembramento umano, che l’industria militare sta testando con successo in questa operazione di pulizia etnica.”

Intervista a Tom Segev:

La parola a Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore del quotidiano Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze: “Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti … La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

CORRIERE DELLA SERA

Parlano le immagini:

Razzi, scontri e già 224 morti: cosa c’è dietro le nuove tensioni tra Israele e i palestinesi?
 Aerei israeliani e bombe americane hanno colpito l’abitazione di Yehiyeh Sinwar, il principale leader di Hamas. 

Israele-Gaza, Segev: «La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

Intervista a Tom Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore di Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze. «Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti»

di Lorenzo Cremonesi, il Corriere.

Nelle immagini dell’abitazione distrutta, abbiamo visto le macerie nelle stanze, i giocattoli dei più piccoli. Si tratta del bilancio più drammatico provocato da un singolo attacco nella Striscia dall’inizio dell’offensiva dell’esercito israeliano

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«Questa non è una terza intifada. O almeno non lo è ancora diventata e non credo lo sarà. Manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. Hamas da Gaza detta il ritmo del conflitto militare. Mi ha però molto colpito lo scontro interno ai confini di Israele del 1948 tra cittadini arabi ed ebrei. Non ce lo aspettavamo tanto violento». Tom Segev ci parla da Gerusalemme. Autore di alcune opere fondamentali sulla storia di Israele, per decenni commentatore per il quotidiano Ha’aretz, Segev insiste sull’unicità di questa nuova ondata di violenze.

Che cosa vede di nuovo?
«L’intensità dei disordini in località che sono al cuore dello Stato. Lod, la vecchia Lydda araba dove oggi si trova l’aeroporto internazionale: qui bande di ragazzini hanno bruciato tre sinagoghe. Come anche le aggressioni di Ramla, Acri e Giaffa, alle porte di Tel Aviv. Nel 1948 l’esercito israeliano aveva espulso praticamente tutta la vecchia comunità palestinese. Poi però una parte degli abitanti originari era tornata. Con i decenni erano diventati luoghi modello di coesistenza, pur se con grossi problemi di povertà e droga. Mi ha sinceramente sorpreso il saccheggio all’hotel di Acri, non lo ritenevo possibile. Sino a pochi mesi fa i nostri media raccontavano con entusiasmo del ruolo fondamentale giocato dai medici e dagli infermieri arabi negli ospedali mobilitati per l’emergenza Covid. Arabi nati e cresciuti tra noi, israeliani a tutti gli effetti. Avevamo scoperto che gran parte delle nostre farmacie era tenuta da farmacisti arabi. Però, attenzione, non credo si tratti di pogrom, o di “Notte dei Cristalli”, sono gravi violenze organizzate come abbiamo visto di recente in Francia o negli Stati Uniti».

Come lo spiega?
«Sono una minoranza. Ma aggressiva, ostile. La polizia non ha saputo contrastarla. A Lod, per esempio, il sindaco ha imposto il coprifuoco. Ma nessuno lo ha rispettato. Come pochi mesi fa, del resto, le forze dell’ordine non riuscivano a obbligare gli ebrei ortodossi ad indossare la mascherina e restare in casa. Abbiamo scoperto di essere un Paese poco governabile, quasi anarchico. Ne hanno approfittato anche gli estremisti ebrei».

In che modo?
«Gruppi legati alla destra nazionalista e religiosa hanno agito in modo coordinato per attaccare le zone arabe. Penso per esempio alla “Familia”, che è l’organizzazione violenta della tifoseria più fanatica e razzista della squadra di calcio del Betar Gerusalemme. Sono arrivati con gli autobus, centinaia di giovani decisi a vandalizzare, linciare, impaurire».

La chiamano terza intifada.
«No. Non credo sia corretto. Per ora domina lo scontro militare tra il nostro esercito e gli estremisti di Hamas. Quasi una guerra convenzionale, con missili, artiglierie e droni».

Chi vince?
«Per ora Hamas. Un fatto molto grave, sono fondamentalisti pericolosissimi, terroristi che sparano sulle città in nome della guerra santa. Usano gli aiuti che giungono dall’estero per costruire armi. Sono riusciti a imporsi come i difensori di Gerusalemme di fronte al mondo islamico e della causa palestinese. Ci hanno obbligati a chiudere il nostro aeroporto più importante e di fatto stanno paralizzando la vita civile. Però, rimane un evento limitato a poche minoranze di fanatici combattenti. Non è una rivolta generalizzata».

Le conseguenze politiche?
«Benjamin Netanyahu resta al potere, o comunque pare più forte di prima. Ci aveva fatto credere che si potevano annettere i territori occupati nel 1967 senza troppi problemi e ora ne paghiamo le conseguenze. Però, la sua politica di dividere i palestinesi a scapito dei moderati dell’Olp di Abu Mazen e beneficio invece dei fanatici di Hamas, alla fine per lui paga. Nonostante sia sotto processo per corruzione e politicamente molto debole, Netanyahu adesso fa leva sulla necessità dell’unità nazionale nell’emergenza. La grande novità sarebbe stata la partecipazione dei quattro deputati del Partito Arabo Unito guidato dal super-pragmatico Mansour Abbas nella coalizione di centro-destra assieme ai partiti di Yair Lapid e Naftali Bennett. Sarebbe stata l’unica coalizione alternativa al Likud di Netanyahu. Ma adesso non è più possibile».

4001.- Guerra a Gaza, test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da Trump a Biden: Israele e Iran lanciano il sasso e Gaza risponde. Test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da La nuova Bussola Quotidiana, 16 maggio 2021

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. L’Iran, armando Hamas, sta facendo saltare l’equilibrio. 

Scontri a Lod

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. In politica interna, le liste dei partiti arabi avevano guadagnato consenso e dimostrato di voler partecipare, eventualmente, a coalizioni di governo. La Lista Araba Unita, di Mansour Abbas, con un programma islamista, era considerato addirittura uno degli aghi della bilancia per la formazione della prossima coalizione di governo, dopo il risultato non decisivo delle ultime elezioni parlamentari del 2021. All’estero, lo scenario di contrapposizione fra mondo arabo e Israele era radicalmente mutato dal 2020, dopo la firma degli Accordi di Abramo, la normalizzazione delle relazioni fra lo Stato ebraico e quattro Stati arabi islamici: Emirati Arabi Uniti, Oman, Sudan e Marocco. Con i morti palestinesi a Gaza che hanno raggiunto quota 145, come stanno reagendo gli arabi?

Gli ultimi sviluppi non fanno presagire una fine imminente del conflitto, anche se è meno probabile di quanto si pensasse un attacco di terra israeliano contro Gaza. Nonostante la presenza di tre brigate dell’esercito al confine con il territorio controllato da Hamas (la 7^ brigata corazzata, la brigata paracadutisti e la brigata Golani di fanteria), finora l’azione si è limitata a bombardamenti aerei e di artiglieria. Venerdì, Israele ha fatto circolare, forse deliberatamente, notizie di un imminente attacco di terra, inducendo le milizie di Hamas a prendere posizione nei tunnel usati per il combattimento urbano, ma qui sono stati bersagliati dall’aviazione che li aveva individuati. Ieri, sabato 15, la giornata è stata funestata dal bombardamento del palazzo al Jala, sede degli uffici di corrispondenza di Al Jazeera e di Associated Press. L’episodio non ha mancato di suscitare un’ondata di sdegno di tutti i media internazionali, anche se l’attacco è avvenuto dopo un ampio preavviso che ha risparmiato vittime civili. Secondo Israele, lo stesso palazzo al Jala era usato da Hamas come base. I bombardamenti israeliani non sono comunque riusciti, almeno finora, a fermare l’incessante pioggia di razzi lanciata da Hamas contro obiettivi israeliani: 2400 dall’inizio della settimana, sparati in raffiche fitte al punto di saturare Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano. Obiettivi anche lontani da Gaza, come Tel Aviv, sono stati colpiti anche nella giornata di ieri. Oltre a gravi distruzioni di proprietà, gli israeliani hanno finora subito 11 morti e 140 feriti.

Più lungo e sanguinoso è il conflitto, più fragile diventa la tenuta dei rapporti con gli arabi. In particolar modo sta saltando l’equilibrio con gli arabi cittadini di Israele, con pogrom anti-ebraici (termine impiegato per la prima volta nella dichiarazione del presidente Reuven Rivlin) a Lod, Acri e Haifa. A Lod (nota per l’aeroporto Ben Gurion), dove si sono verificati i primi episodi gravi, un ebreo aggredito a colpi di pietre e mazze da arabi si è difeso con la pistola e ha ucciso uno dei suoi aggressori. I funerali dell’uomo sono diventato l’inizio dell’insurrezione: negozi e locali pubblici, auto e case private degli ebrei sono stati attaccati e +dati alle fiamme. Anche tre sinagoghe sono state incendiate.

Anche ad Acri, già capitale crociata e meta turistica nota in tutto il mondo, sono stati attaccati e distrutti negozi e ristoranti di proprietà ebraica. Distrutto anche il popolare ristorante Uri Buri, che impiega personale sia ebreo che arabo. Un cittadino ebreo, nel corso degli scontri di martedì, è stato trascinato fuori dalla sua auto e picchiato, tuttora è ricoverato in condizioni critiche. Altri incidenti simili si sono verificati anche a Tiberiade, in Galilea e Haifa, solitamente indicata come esempio di convivenza pacifica fra le varie comunità che compongono la popolazione israeliana (ebrei, arabi, drusi, circassi, oltre alla minoranza religiosa Bahai che a Haifa ha la sua sede centrale). Venerdì le strade della città portuale sono state invece percorse da bande di arabi che urlavano Allahu Akhbar e “morte agli ebrei”, oltre a ronde di estremisti ebrei che cantavano “morte agli arabi”. Gli estremisti di destra ebrei sono entrati in azione anche a Gerusalemme, dove un arabo è stato pugnalato e soprattutto a Bat Yam dove un ristorante e una gelateria arabi sono stati distrutti e un insegnante 37enne arabo, estratto dalla sua auto, è stato aggredito.

Se l’equilibrio interno fra ebrei e arabi è messo in pericolo, quello esterno, fra Israele e i suoi nuovi partner della regione si sta dimostrando invece più solido del previsto. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno condannato né l’azione di polizia di Israele sulla spianata delle moschee, né gli scontri che ne sono seguiti a Gerusalemme, limitandosi a delle dichiarazioni vaghe in cui invitano le autorità dello Stato ebraico a rispettare la sacralità dei luoghi musulmani. Sul conflitto a Gaza, poi, i media di Stato emiratini sono stranamente silenti. Ieri gli Emirati hanno anche chiesto a Hamas di interrompere il lancio di razzi, pena il ritiro degli investimenti a Gaza. La prudenza, nelle reazioni e nelle dichiarazioni, caratterizza anche il comportamento tenuto dagli altri partner degli Accordi di Abramo.

Al di fuori del mondo arabo, l’Iran è la principale potenza regionale che sta sostenendo materialmente Hamas: la maggior parte dei razzi lanciati dal partito armato palestinese vengono dall’Iran, oltre a quelli fabbricati in loco. E poco importa, nella strategia di Teheran, che il movimento armato palestinese, contrariamente a Hezbollah e agli Houthi, sia radicale sunnita e parte della galassia dei Fratelli Musulmani. Tre razzi sono stati lanciati dal Libano contro il Nord di Israele, anche se Hezbollah nega ogni responsabilità. Erdogan, dalla Turchia, sta cavalcando il conflitto. E’ di ieri il suo appello agli arabi per “difendere Gerusalemme”, anche se formalmente la posizione della Turchia è quella di una richiesta di de-escalation e dialogo. Gli Usa, che per bocca del presidente Biden hanno riaffermato il diritto di Israele a difendersi, hanno inviato il loro mediatore in Medio Oriente (Hady Amr) approdato ieri a Tel Aviv. Resta però il forte sospetto, soprattutto in Israele e nei Paesi arabi sunniti, che lo sdoganamento dell’Iran da parte della nuova amministrazione Biden (oltre che la sua ostentata ostilità nei confronti dell’Arabia Saudita e del governo Netanyahu) sia una delle cause principali del conflitto. Teheran sta mettendo alla prova la pazienza dell’interlocutore statunitense su molti fronti: dopo l’offensiva nello Yemen e gli annunci della ripresa del programma nucleare, la guerra a Gaza è l’ultimo test in ordine di tempo.

L’Egitto ha riaperto il valico di Rafah per lo sgombero dei feriti

L’Egitto, venerdì 15 maggio, ha aperto, con un giorno di anticipo e “a tempo indeterminato” il valico di Rafah, sul proprio confine terrestre con Gaza, e ha inviato dieci ambulanze all’enclave palestinese per evacuare e curare nei propri ospedali palestinesi feriti nei bombardamenti israeliani. La riapertura era prevista sabato, dopo la fine della festa musulmana di Eid.