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5343.- Perché l’Italia deve investire sul Mediterraneo

Anche perché le rotte dell’Artico saranno presto in grado di bypassare il Mediterraneo e Suez.

Da Formiche.net. di Emanuele Rossi | 26/08/2022 – 

Perché l’Italia deve investire sul Mediterraneo

Conversazione con Matteo Bressan (Lumsa/Sioi/Ndcf) sull’importanza del Mediterraneo per l’Italia. In una fase sensibile per il nostro Paese, la proiezione nel bacino è cruciale per il ruolo internazionale dell’Italia. Tra distensioni e instabilità, cosa potrebbe – e dovrebbe – essere Roma nel Club Med

Il bacino geopolitico del Mediterraneo allargato – l’area vasta che da Gibilterra si allarga fino a Bab el Mandab – sta vivendo una nuova centralità legata anche a una serie di processi di distensione in atto tra gli attori principali. Si pensi per esempio al dialogo avviato in Iraq tra Iran e Arabia Saudita, alla formalizzazione della riapertura delle relazioni tra Israele e Turchia, alla fine dell’isolamento del Qatar nel Golfo, o ancora all’avvicinamento tattico tra Ankara ed Egitto.

Tuttavia all’interno di questo stesso bacino permangono punti di potenziale infiammabilità, situazioni di (in)stabilità precaria, (dis)equilibri da curare per evitare che diventino scaturigine per crisi profonde in grado di alterare il quadro generale. E, davanti al disimpegno statunitense frutto di una maggiore attenzione per l’Indo Pacifico, potrebbe aumentare la presenza della Cina, che ha già espresso le proprie attenzioni riguardo alle infrastrutture di gestione portuali dell’area e le proprie volontà di proiezione in ambiti come per esempio il Corno d’Africa. A maggior ragione se si considera che su questa area geostrategica – snodo centrale per i collegamenti tra Oriente e Occidente – potrebbero farsi sentire con forza i riflessi della guerra russa in Ucraina, anche in un futuro post-bellico, aggravando condizioni già in equilibrio precario.

Un esempio è la Libia: ancora senza governo, Tripoli ha vissuto una fase in cui la ricerca di stabilizzazione era guidata da quelle volontà di distensione regionale, che però è attualmente entrata in stallo. Quello che si sta producendo è il rischio di una nuova deriva violenta, che alteri il clima anche tra i player esterni, i quali avevano trovato una convergenza tattica manifestata nella creazione del governo di unità nazionale nel 2021.

“Le mancate elezioni libiche del 24 dicembre 2021 hanno evidenziato, anche alla luce del deterioramento delle condizioni politiche e di sicurezza del paese, quanto possa esser rischioso costruire processi di transizione politica quasi esclusivamente incentrati sulla celebrazione delle elezioni, sottovalutando quanto la transizione debba esser articolata in una serie di passaggi, quali l’adozione di una costituzione e una legge elettorale condivisa e, soprattutto, istituzioni in grado di svolgere le proprie funzioni”, spiega Matteo Bressan, docente di Sioi e Lumsa e analista della Nato Defense College Foundation.

L’esperienza afghana, quella irachena e, più recentemente, le violenze contro il Parlamento di Tobruk all’inizio del mese di luglio “sono un monito per la Comunità internazionale che non deve abbassare la guardia sulla crisi libica che ha un impatto determinante sulla sicurezza del Mediterraneo, in termini di presenza di attori esterni ostili, interruzioni di approvvigionamenti energetici, instabilità diffusa, terrorismo e flussi migratori che possono essere usati come uno strumento di guerra ibrida”, continua Bressan.

“Una regione, quella del Mediterraneo che come ricordato anche nello Strategic Compass, che ha un’importanza strategica per la nostra sicurezza e stabilità e, nella quale l’Unione Europea ‘è determinata’, e aggiungo obbligata, a intensificare gli sforzi”, aggiunge Bressan, che è anche direttore del Corso di formazione in intelligence, sicurezza e interesse nazionale della Lumsa.

La questione libica è importante non solo perché rischia di tornare a essere un bubbone esplosivo geograficamente al centro del Mediterraneo, ma anche perché si può collegare a un doppio quadro regionale. Da sud, la fascia del Sahel sta subendo forme di instabilità securitaria legate all’attecchimento di un terrorismo jihadista tossico connesso allo Stato islamico, che influenza i vari gruppi già presenti, convincendo questi che la guerriglia rappresenti la miglior difesa di fronte ai governi centrali. Questo si riflette sulla tenuta di alcuni Paesi, all’interno dei quali si sono già verificati episodi di colpi di stato e rovesciamento degli equilibri.

Ma la Libia ha un peso anche nel quadro nordafricano ovviamente, dove l’Egitto è in piena crisi economica (e dunque sociale), tale da attirare l’assistenza corposa dei partner del Golfo; la Tunisia è un Paese che sta vivendo una stagione di ritorno autoritario impantanato tra debito, inflazione e disoccupazione; Algeria e Marocco sono in un periodo di tensioni altissime a causa del Sahara Occidentale.

Se questo genere di contesti richiama al problema securitario – la possibilità di nuovi scontri armati, il tema delle migrazioni connesso, la diffusione del terrorismo, toccano direttamente l’Europa e l’Italia – la condizione algerina ricorda soprattutto al nostro Paese quanto delicata sia la questione della sicurezza energetica. Gli accordi siglati con Algeri dal governo Draghi hanno portato la nazione nordafricana in cima alla lista dei fornitori italiani post-sganciamento dalla Russia – ma questo genere di fornitori vivono condizioni non meno complesse (sia interne che esterne).

Sullo stesso argomento non possono poi essere dimenticate le dinamiche legate ai grandi reservoir energetici (egiziani, israeliani, ciprioti) scoperti nel Mediterraneo orientale, che è un quadrante ad altissimo potenziale (economico, commerciale, umano), ma che soffre di condizioni altamente critiche.

Il quadrante del Mediterraneo orientale è, anche alla luce delle recenti scoperte di Eni e Total, di fondamentale importanza per la sicurezza energetica del italiana e, secondo Bressan, “in questa direzione, va l’allargamento dell’area di operazione di Mare Sicuro, recentemente rinominata Mediterraneo Sicuro. Un’operazione che passando da 160.000 mila a 2.000.000 Km quadrati circa di area di operazione, consentirà alla Marina Militare, di garantire una strutturata presenza aeronavale, inclusi mezzi subacquei, in tutti i quadranti della regione compreso il Mediterraneo orientale in relazione all’esigenza di proteggere rilevanti interessi nazionali e contribuire alla stabilità internazionale, in cooperazione con la Nato, l’Unione Europea e le Nazioni Unite”.

Tra le varie criticità, c’è anche lo stato comatoso del Libano, da cui per altro Hezbollah minaccia guerra contro Israele se la questione dei confini marittimi (connessa ai giacimenti di quelle acque) non verrà risolta. O ancora, sempre nella stessa area la Turchia sembra ancora piuttosto interessata ad avere un ruolo nei giacimenti di Cipro, in competizione (intra-Nato) con la Grecia.

Con le navi turche tra quelle acque ricche di materie prime energetiche fossili – che con la guerra ucraina hanno ritrovato una centralità prima marginalizzata dalle volontà/necessità green – si muovono quelle russe. Nei giorni scorsi sulla stampa italiana hanno fatto molto clamore le notizie che sottolineavano la presenza di diverse unità navali del Cremlino nell’Adriatico, ma la Marina monitora costantemente certi movimenti, con cui da tempo Mosca mostra la propria bandiera in quelle rotte.

“Il dispiegamento navale russo nel Mediterraneo in concomitanza con l’avvio dell’offensiva contro l’Ucraina ha registrato il numero, senza precedenti, di ben 18 unità, più due sottomarini”, spiega il docente italiano. A fronte di questo trend, già avviato da Mosca nel 2013 con il ripristino di una task force navale permanente per il Mediterraneo e alla luce della sempre maggiore assertività in campo navale della Turchia, “il nostro Paese – continua – è chiamato a fare scelte coerenti per potenziare e adeguare al livello di ambizione il nostro strumento militare, compresa la capacità di land strike che altre marine, come quella dell’Algeria, già hanno. Il Mediterraneo allargato è l’area dove si concentrano i nostri interessi vitali ed è il quadrante dove sono dispiegate le nostre forze armate”.

Spostandosi verso nord-nordest in questa carrellata – che passa anche dall’impegno diretto in Medio Oriente, dove l’Italia è per esempio alla guida della Nato Mission in Iraq – non può inoltre mancare la questione balcanica. Come dimostrano le recenti movimentazioni di armamenti, la situazione tra Serbia e Kosovo è tutt’altro che risolta, e forse nemmeno acquietata. La potenzialità esplosiva di una crisi in quell’area che confina con l’Italia è per il nostro Paese un problema di primissimo piano sulla sfera internazionale, anche perché rischia l’innesco di un effetto domino all’interno del quale vari player rivali hanno mosso le proprie pedine.

“Bisogna evitare che la questione delle targhe, che oggi è una battaglia dal forte valore simbolico e politico tra Serbia e Kosovo, si trasformi in narrazione aggressiva con il rischio di sfociare in pericolosi atti di violenza e motivo di confronto tra potenze esterne”, aggiunge Bressan. “Il ruolo e l’imparzialità di KFOR, a lungo comandata da Generali italiani, così come la presenza dei nostri militari è stata fondamentale in questi anni per garantire un ambiente sicuro e protetto, così come la libertà di movimento per tutto il popolo del Kosovo. Il nostro Paese deve sostenere gli sforzi dell’Unione Europea, nell’ambito del dialogo Belgrado – Pristina e degli Stati Uniti, nella normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo per stabilizzare una regione, quella dei Balcani occidentali, che si pone come cerniera tra il Fianco Orientale e il Fianco Sud della NATO”.

In definitiva, nel Mediterraneo diverse forme di tensione sobbollono, col rischio di sovrapposizioni visto la limita estensioni del bacino. Attori interni ed esterni muovono le proprie carte, nel tentativo di capitalizzare da quella tentata stabilizzazione tattica, ma con in mente l’opzione di trovare i propri interessi anche se essa dovesse saltare e caoticizzarsi. Ragion per cui per Roma è cruciale tenere massima l’attenzione su ogni singola evoluzione, adesso più che mai.

5210.- Svezia e Finlandia nella NATO: il via libera turco lo pagano curdi e dissidenti

L’ingresso di Svezia e Finlandia ha un valore strategico prioritario per la NATO perché consente a USA e UK di disporre di nuove basi NATO nel teatro operativo dell’Artico, sempre più conteso. L’Italia, invece, dovrebbe valorizzare la sua politica economica in Mediterraneo e nel Sahel, Erdogan permettendo.

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La Turchia ha infine revocato Il veto posto all’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia, che domani saranno formalmente invitate ad aderire all’alleanza. L’annuncio, il 28 giugno a Madrid, è giunto al termine di un vertice a quattro durato quasi tre ore e condotto dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha visto riuniti i presidenti turco, Recep Tayyip Erdogan e il finlandese Sauli Niinisto con il premier svedese Magdalena Andersson.

L’intesa soddisfa le condizioni che Erdogan aveva posto per rinunciare al diritto di veto che ogni membro della NATO ha a disposizione per dare IL via libera a Helsinki e Stoccolma. “La Turchia ha ottenuto ciò che voleva, risultati significativi nella lotta contro le organizzazioni terroristiche” ha riferito la presidenza turca.

Il documento di tre pagine (che pubblichiamo qui sotto), firmato dai tre ministri degli Esteri, vede nei punti principali Svezia e Finlandia impegnarsi a:

  • consegnare alla Turchia i militanti curdi ricercati,
  • cessare il sostegno politico, finanziario e umanitario ai movimenti curdi YPG e PYD, braccio militare e braccio politico dei curdi siriani ma anche al Movimento Gulem definito in Turchia “Fethullahist Terrorist Organisation”, accusato di aver tentato il golpe del 2016 contro Erdogan
  • conferma che i due paesi scandinavi condividono la definizione di “gruppo terroristico” per il PKK (Partito Kurdo dei Lavoratori attivo in Turchia e Nord Iraq)
  • revocare l’embargo alle esportazioni di armi in Turchia che era stato imposto nel 2019 proprio in risposta all’occupazione da parte delle truppe turche di una fascia consistente di territorio siriano lungo il confine settentrionale del paese arabo.
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Inoltre, Ankara è riuscita a strappare persino il supporto di Helsinki e Stoccolma a una eventuale cooperazione turca con la Difesa comune europea.

“L’ingresso di Finlandia e Svezia renderà l’alleanza più sicura e potente: dispongono di forze armate ben attrezzate, hanno tecnologia avanzata e istituzioni politiche stabili e ciò rafforzerà la Nato e ovviamente anche Svezia e Finlandia” ha dichiarato Stoltenberg pur senza sbilanciarsi sulle possibili tempistiche dell’adesione che, come recita un tweet del premier britannico Boris Johnson, “renderà la nostra brillante alleanza più forte e sicura”.

Di “potente boccata d’ossigeno” ha parlato un funzionario della Casa Bianca che si è affrettato a chiarire che Ankara non ha chiesto nulla agli Stati Uniti in cambio della rinuncia al veto nei confronti dei due nuovi membri.

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Impossibile però non notare che il via libera ufficiale alla vendita ad Ankara di 40 nuovi velivoli da combattimento F-16 della versione più recente e avanzata Viper (e all’aggiornamento a tale standard di 80 dei circa 200 F-16 più vecchi in dotazione alle forze aeree turche) è avvenuto  proprio nelle ultime ore con la conferma che la Casa Bianca sosterrà la richiesta di Ankara.

Il 29 giugno l’assistente del segretario alla Difesa, Celeste Wallander, ha espresso il sostegno di Washington per dotare Ankara di una forza aerea più moderna: “Le forti capacità di difesa turche contribuiscono a forti capacità di difesa della Nato. Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti sostiene pienamente i piani di modernizzazione della Turchia per la sua flotta di F-16”.

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Gli F-16V rappresentano la richiesta turca “di ripiego” dopo che l’acquisto del sistema di difesa aerea a lungi raggio russo S-400 ha indotto Washingt8n a negare la venduta già contrattualizzata di 100 velivoli da combattimento di 5a generazione F-35A.

La Turchia di Erdogan esce quindi ancora una volta vincitrice su tutta la linea da una complessa crisi internazionale confermando il suo ruolo centrale in tanti scacchieri di estrema rilevanza strategica.

Soprattutto oggi nella crisi determinata dalla guerra in Ucraina in cui la Turchia appare come è l’unico interlocutore in grado di imbastire negoziati tra i belligeranti, trattative sul trasporto di grano dai porti ucraini nel Mar Nero e di condizionare l’ampliamento dell’Alleanza Atlantica nel Nord dell’Europa.

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Erdogan sembrava aver dovuto rinunciare in queste settimane all’ennesima operazione militare contro i curdi in Siria, bloccata da veti incrociati giunti da Stati Uniti e Russia, già sufficientemente coinvolti nella guerra in Ucraina, ma ha incassato una vittoria senza precedenti.

In realtà poche ore dopo la firma dell’intesa a Madrid hanno preso il via intensi bombardamenti e raid turchi sulla Siria settentrionale che ieri sera avevano provocando almeno 11 morti , inclusi 2 civili e 9 miliziani fedeli al governo di Damasco mentre fonti turche riferiscono di 28 combattenti curdi uccisi.

Ieri il governo siriano, amico di Mosca, ha riconosciuto “l’indipendenza e la sovranità” delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, come ha reso noto l’agenzia stampa nazionale Sana citando una fonte ufficiale del ministero degli Esteri.

Erdogan, che contesta da sempre gli aiuti forniti anche da europei e Stati Uniti ai curdi siriani che combattono l’ISIS all’interno delle Forze Democratiche Siriane, movimento armato, addestrato e sostenuto dagli USA, ottiene quindi un grande successo politico e diplomatico incassando pure i ringraziamenti di tutti gli alleati per aver consentito l’ampliamento del fronte che riunisce le democrazie contro la Russia.

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Niente male per un presidente turco definito circa un anno or sono “un dittatore” da Mario Draghi, che con Mosca ha gestito diverse crisi, dalla Libia alla Siria al Nagorno-Karabakh e che con l’intesa raggiunta ridicolizza le posizioni filo-curde sostenute da molte nazioni europee.

Svezia e Finlandia si sono infatti impegnati a impedire qualsiasi forma di raccolta fondi a sostegno del PKK sul proprio suolo e “prenderanno in considerazione” la richiesta di estradizione presentata da Ankara nei confronti di 33 “terroristi”. Il ministro della giustizi turco Bekir Bozdag ha dichiarato che Ankara sta già preparando le richieste di estradizione per i 33 ricercati ma in realtà si tratta di 17 membri del PKK e di 16 sospetti affiliati alla rete FETO, ritenuta responsabile del tentato golpe in Turchia del 2016. Estradizioni che per venire autorizzate obbligheranno Svezia e Finlandia a cambiare le legislazioni in vigore.

Come spesso accade in queste circostanze, le ipocrisie si sprecano. “Nessun Paese alleato ha subito la brutalità del terrorismo come la Turchia” ha detto il Segretario generale Nato Jens Stoltenberg dimenticando l’ambiguità di Ankara nel consentire alle milizie dello Stato Islamico di assediare città curde come Kobane o di vendere sottocosto a commercianti turchi il petrolio estratto dai pozzi occupati dall’ISIS in Iraq e Siria.

Meglio lasciare da parte facili ma insostenibili moralismi. Diciamo che oggi la priorità per la NATO le dettano come sempre i due maggiori azionisti anglo-americani e l’ingresso di Svezia e Finlandia ha un valore strategico prioritario perché raddoppia la lunghezza della nuova Cortina di Ferro, il confine “caldo” degli stati membri europei e la Russia e consente di disporre di nuove basi NATO nel teatro operativo dell’Artico sempre più conteso.

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Semmai il successo di Ankara dimostra ancora una volta la debolezza politica, strategica e morale delle nazioni europee, incapaci di elaborare una politica autonoma nei confronti della Russia, di sviluppare una linea diplomatica indipendente per cercare di fermare il conflitto ucraino e costretti a umiliarsi rinunciando a principi consolidati e fino a ieri ritenuti inviolabili e intoccabili, come il diritto di asilo e le libertà politiche dei popoli oppressi, particolarmente “sacri” proprio nei paesi scandinavi.

Un imbarazzo evidente nelle parole del ministro degli Esteri svedese, Ann Linde: “Non tutti amano il testo dell’accordo, ma è appropriato e possiamo accettarlo”. Vedremo se sarà davvero così quando i parlamenti di Stoccolma ed Helsinki dovranno ratificare gli impegni presi a Madrid con la Turchia.

Oltre tutto se sui membri di PKK o YPG il termine “terrorista” può venire sdoganato in quanto movimenti dediti alla lotta armata contro Ankara, nel caso dei membri del Movimento Gulem (o FETO per i turchi) si tratterà di estradare dei semplici dissidenti politici che in Turchia rischiano la condanna a morte.

Inoltre i due paesi scandinavi che dei diritti umani hanno fatti finora un bastione della propria società e cultura politica, dovranno oggi violare un bel po’ di articoli delle convenzioni internazionali di cui si sono sempre eretti a paladini, che garantiscono il diritto all’asilo dei perseguitati politici.

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Nazioni che rimproveravano l’Italia o la Grecia per la non sempre puntuale accoglienza di immigrati clandestini che avrebbero potuto chiedere asilo potranno oggi mandare a morte dissidenti turchi estradandoli ad Ankara nel nome del contrasto a Vladimir Putin? E noi tutti in Europa staremo a guardare in silenzio?

L’accordo patrocinato dalla NATO tra Turchia, Finlandia e Svezia umilia tutto l’Occidente tenuto conto del supporto morale, economico e militare fornito da tutto l’Occidente ai combattenti curdi in Iraq e Siria (nella foto a lato) affinché combattessero anche per noi le milizie dello Stato Islamico.

Ci siamo stracciati le vesti per i curdi assediati a Kobane, più o meno come facciamo oggi per i morti ucraini, ma giova ricordare (soprattutto a Kiev) che dai sud vietamiti ai curdi (“traditi” più volte negli ultimi 30 anni) fino agli afghani appena un anno or sono, USA e Occidente confermano l’abitudine di abbandonare gli alleati quando non servono più o appena mutano le priorità strategiche.

Infine non può sfuggire che l’accordo con la Turchia per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO è stato celebrato da molti leader dell’alleanza come un successo delle democrazie contro il regime di Mosca. Giusto per aggiungere qualche ulteriore tema di riflessione, su questo tema i paradossi si sprecano: una NATO che vuole ergersi a bastione della democrazia non dovrebbe avere al suo interno la Turchia, oppure potrebbe accogliervi anche la Russia.

Al tempo stesso non risultano esserci molti leader in Europa e in Occidente i cui successi elettorali e di consenso popolare siano paragonabili per rappresentatività a quelli di Putin ed Erdogan.

5113.- L’Unione europea è un suddito e ci tiene al palo, come sudditi, nell’Artico e in Mediterraneo.

Qui, parliamo degli stati bagnati dall’Artico, ma ricordiamo che la Cina è stata presente con le sue navi alle ultime esercitazioni svoltevi dalla marina russa e che fra una dozzina d’anni le rotte dell’Artico prenderanno il posto di quelle mediterranee, per Suez.

La fine della Lega Artica, Svezia e Finlandia nella Nato, le risorse energetiche e minerali, le rotte navali tra i ghiacci che si sciolgono: la guerra oggi è in Ucraina, ma domani sarà lì, perché è lì, nell’estremo nord, che si decide chi comanda il mondo.

Perché l’Artico sarà il teatro della prossima guerra tra Putin e l’Occidente

fanpage.it. Di Fulvio Scaglione

“La Russia non parteciperà alla trasformazione di questa organizzazione in un’altra piattaforma di attività sovversive e di narcisismo occidentale”. Con queste poche e sentite parole il Cremlino ha detto addio al Consiglio degli Stati del Baltico, l’organismo creato all’epoca dello scioglimento dell’Urss per coordinare le politiche dei Paesi che affacciano su quel mare. La Russia, come abbiamo già raccontato, presidia il Baltico con l’exclave di Kaliningrad (la già prussiana Königsberg fino al 4 luglio 1946, “il porto che non ghiaccia”. ndr), nel tempo trasformata in una vera piazzaforte dotata di missili atomici e di modernissime difese anti-nave. Se Svezia e Finlandia, come pare, entreranno a far parte della Nato, il Baltico, di fatto, diventerà un mare dominato dall’Alleanza Atlantica.

La decisione russa di uscire dal Consiglio – che peraltro aveva sospeso la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina, nonostante che Mosca avesse la presidenza dell’organizzazione fino al 2023 -, per quanto non fondamentale in sé, è una brutta notizia, soprattutto perché conferma che la guerra tra Mosca e Kiev (e, per interposta Ucraina, tra la Russia e l’Occidente) allarga costantemente il cerchio delle sue conseguenze. E sempre più si avvicina a una regione cruciale per gli equilibrii mondiali: l’Artico. Perché questo spazio si appresta a trasformarsi nello stesso senso del Mar Baltico: quando Svezia e Finlandia entreranno nella Nato, tutti i Paesi (Usa, Canada, Danimarca, Islanda, Norvegia e, appunto, Svezia e Finlandia) che affacciano sull’Artico saranno membri dell’Alleanza. Tutti tranne uno, il più artico di tutti: la Russia, che sul mare freddo ha 24 mila chilometri di coste, il 53% del totale. Anche tra i ghiacci, insomma, si preannuncia uno scontro “Russia contro tutti” pieno di incognite e di rischi.

La Russia è conscia da tempo del valore strategico delle sue coste artiche. Non a caso nel 2014 ha costituito la Flotta del Mare del Nord, basata sulla penisola di Kola e dotata di sottomarini con missili nucleari, aerei anti-sottomarino, portaerei e navi porta-missili. E se l’anno 2014 vi dice qualcosa, ebbene sì, avete ragione: la decisione di organizzare una flotta a presidio del Grande Nord fu presa subito dopo la prima crisi ucraina e la riannessione della Crimea, il che fa capire che i due fronti, nella visione globale del Cremlino, sono strettamente collegati. Discorso che vale anche per il suo opposto. L’arrivo in armi della Russia ha spinto la Nato a rafforzare la propria presenza militare, gli uni e gli altri hanno cominciato a svolgere esercitazioni militari sempre più frequenti e massicce, tensione e diffidenza sono cresciute di pari passo.

Tutti sanno che l’Artico è uno scrigno difficile da penetrare ma stracolmo di ricchezze. Secondo i geologi del Governo Usa, sotto i ghiacci e il permafrost riposano riserve enormi di gas e petrolio (qualche anno fa sempre gli americani le valutarono più o meno pari a quelle dell’intera Russia), di materiali preziosi o fondamentali per l’industria (nickel, zinco, ferro), persino di acqua potabile. Già oggi l’Artico è per la Russia è miniera fondamentale di alluminio, materiali ferrosi, fosfati. Qui ci sono riserve altrettanto importanti di acqua potabile. Qui, domani, potrebbero decidersi le sorti dello sviluppo delle energie alternative, soprattutto di quella eolica.

Ma lo sviluppo più recente, quello che ha risvolti politico-militari più importanti, non riguarda ciò che c’è sotto il mare, ma ciò che sta sopra. Ovvero i ghiacci che, a causa del cambiamento climatico, si consumano, si ritirano, diventano più sottili e ormai quasi permettono la navigazione. Anche in questo caso la Russia si è mossa con anticipo, tanto che oggi è l’unico Paese al mondo ad avere una flotta di rompighiaccio a propulsione atomica. E nel febbraio del 2021 ha cominciato a raccogliere i primi frutti: nel febbraio del 2021 la nave gasiera “Christophe de Margerie” (dal nome dell’ex amministratore delegato della Total, morto (ucciso. ndr) a Mosca nel 2014 in un incidente aereo), di proprietà dell’armatore russo Sovkomflot, ha navigato dal porto siberiano di Sabetta a quello cinese di Jiangsu senza essere preceduta da un rompighiaccio, percorrendo da sola 10 mila chilometri in 11 giorni, cioè quasi una settimana in meno della rotta “normale” attraverso il Canale di Suez.

Nave gasiera “Christophe de Margerie” . Ha una capacità di 172,600 metri cubi di LNG. Qui, nel Passaggio a Nord-Est.

Le più pessimistiche previsioni degli scienziati ipotizzano che la rotta artica (che gli esperti chiamano Northern Sea Route) possa diventare pienamente percorribile, causa appunto lo scioglimento dei ghiacci, intorno al 2035. È facile capire quale sconvolgimento ciò potrebbe portare negli equilibri commerciali planetari, e di quale vantaggio potrebbe godere un Paese come la Russia, cui benessere economico tanto dipende dalle esportazioni di gas e petrolio, con i rompighiaccio nucleari, la Flotta del Mare del Nord, le decine di migliaia di chilometri di costa artica e le decine di porti che la punteggiano.

Tanto più che, negli ultimi due decenni, e con la sola esclusione del gas, la tendenza generale, in Russia, è stata di diminuire le relazioni economiche con l’Ovest per aumentarle con l’Est, in particolare con la Cina. Cioè con un Paese che, pur non avendo affacci sull’Artico, dedica sempre più attenzione alla regione, per ragioni appunto legate alla sicurezza e ai commerci, ed è ovviamente in prima fila nel collaborare con la Russia, anche per sfruttare il saldo impianto che il Cremlino ha costruito lungo le sue coste del Nord.

Aveva ragione, dunque, chi diceva che la guerra in Ucraina cambia il mondo. Con un solo, fondamentale problema: nessuno, oggi, può prevedere fin dove il cambiamento arriverà e dove a un certo punto si fermerà.

5104.- Armi all’Ucraina: cosa dice davvero il governo

La sicurezza dell’Italia è a rischio, le 135 e forse più, testate nucleari USA pesano; gli interessi economici dell’Italia e degli italiani vengono lesi, un governo nominato che beffa la Costituzione, che dichiara un suo stato di emergenza di guerra, ma non la guerra; un Parlamento non più rappresentativo, tenuto in carica dallo stesso Presidente che ha rieletto per altri 7 anni; il segreto di Stato usato per violare la Costituzione, per gabellare i cittadini; decreti legge usati soltanto per sopprimere i sacri diritti in nome di panzane, come le cosiddette armi di difesa non letali (cucine da campo, ospedali da campo? che cosa?). Media senza più onore né etica. Solo chi non conta nulla, come chi scrive, può parlare.

Il vaso è colmo. La NATO non è più difensiva. È l’esercito privato di chi domina gli Stati Uniti, di chi non è all’altezza di controllare l’Occidente e lo amputa, perciò, bellicosamente. Nella competizione per l’Artico, la NATO sta aprendo nuovi fronti in Svezia e in Finlandia. È la NATO a dettare l’indirizzo della politica estera dell’Ue.

La popolazione russa, sottoposta a atti di guerra in Ucraina, da 8 anni, è stata fatta passare, da partner commerciale essenziale a nemico in un giorno, senza averci mai aggredito. 300 miliardi di dollari della Federazione Russa, depositati nelle banche occidentali: soffiati! Il nuovissimo gasdotto North Stream 2, costato 15 miliardi ai russi, era in pressione, pronto: abbandonato! L’energia dagli USA costerà il triplo, ma è democratica e ben venga. Armi biologiche, laboratori segreti, esercitazioni NATO alle porte della Russia, in Ucraina, erano legittime. Vladimir Putin pensava di rimettere sul binario gli accordi di Minsk e, invece, ha trovato ad attenderlo tutto l’armamentario e tutta l’organizzazione della NATO. 25.000 russi hanno dato la vita, ma sono russi!

In questa competizione per il controllo dell’economia mondiale da parte degli Stati Uniti, gli italiani vengono sviati a dissertare di concessioni sulla Costituzione, di Alleanza Atlantica e, stranamente, non dell’ONU. Mentre il governo cianfrasuglia affari non nostri, la povertà avanza sulle tavole degli italiani e i nostri soldati, in armi, anche vecchie, ma armi, sono alle frontiere della Federazione Russa. La verità: L’apparato dello Stato è stato concupito. Non abbiamo più un Parlamento rappresentativo, una Costituzione valida, a partire dal suo art. 1, un governo che sia espressione politica del popolo. Siamo culturalmente deboli. Non abbiamo un futuro.

Armi all’Ucraina: cosa dice davvero il decreto del governo

di Redazione Zuppa di Porro, 12 Maggio 2022,

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di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Il Parlamento italiano ha convertito in legge il decreto-legge n. 14 del 25 febbraio 2022, denominato “Disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina”. La legge di conversione è la numero 28/2022 ed è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13 aprile 2022. Decreto-legge e successiva legge di conversione prevedono la partecipazione del nostro personale militare al potenziamento di dispositivi Nato sul fianco Est dell’Alleanza. Il Parlamento ha autorizzato dunque l’invio di mezzi ed equipaggiamento militari di protezione, a titolo gratuito, a mero scopo difensivo.

Non abbiamo conoscenze militari, ma osserviamo che nella legge di conversione all’art. 2 si parla espressamente dell’invio di mezzi militari di difesa “non letali”, anche se all’art. 2 bis la legge prevede che con uno o più decreti il Ministro della difesa – di concerto col Ministro degli esteri – definiscano “l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari” sarebbe contraddittorio ritenere che il 2 bisautorizzi quanto viene escluso dall’art. 2. Su tali decreti e sulla situazione generale, sempre ai sensi dell’art. 2 bis, il ministro della Difesa e quello degli Esteri devono informare le Camere almeno con cadenza trimestrale. Il tutto, per ora, fino al 31 dicembre 2022, data in cui scade (salvo proroghe) il nuovo stato di emergenza dichiarato dal governo per la crisi in Ucraina. Questa la situazione: potevamo prendere queste decisioni sulla base della nostra Costituzione?

Cosa dice l’art. 11 della Costituzione

L’art. 11 della Costituzione afferma che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Pertanto, non sono ammesse guerre di “aggressione” contro altri popoli ma esclusivamente guerre “difensive” per il nostro popolo. La guerra, insomma, a rigore è ammessa dalla nostra Costituzione solo se siamo attaccati militarmente da un altro Stato.

Ma l’art. 11 dice anche: l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le limitazioni di sovranità cui fa riferimento il secondo periodo della disposizione costituzionale devono rispettare il principio secondo cui “l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli […], nel rispetto dei valori internazionali”. Questa l’interpretazione offerta dalla relazione del presidente della sottocommissione all’Assemblea costituente, Meuccio Ruini, al progetto di redazione dell’art. 11 agli inizi del 1947: ripudio della guerralimitazioni di sovranità verso organizzazioni internazionali solo in condizioni di reciprocità e solo per fare la pace; mai guerre di aggressione. Il succo delle intenzioni dei Costituenti fu questo.

Onu e Nato

Quali sono queste organizzazioni internazionali nei confronti delle quali l’Italia è disposta a “limitare” la propria sovranità per garantire – in condizioni di parità con gli altri Stati – “la pace e la giustizia fra le Nazioni”? Nei verbali dell’Assemblea costituente – compresi quelli di fine 1947 quando la disposizione costituzionale venne approvata dall’Aula in via definitiva – si parla esclusivamente dell’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite), fondata nel 1945 al posto della precedente Società delle Nazioni. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – l’organo direttivo che adotta gli interventi militari – è composto di 15 membri, di cui 5 permanenti e con diritto di veto (Stati Uniti d’America, Francia, Cina, Regno Unito e Unione Sovietica), pertanto – nel caso in questione – considerato che la Federazione Russa conserva ancora il diritto di veto all’interno del Consiglio, non si può parlare di un intervento militare a sostegno dell’Ucraina da parte dell’Onu.

La Nato, invece, che in questa situazione è quella che chiede l’invio delle armi, è costituita da un  trattato firmato a Washington nel 1949 che istituisce un’organizzazione internazionale (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) per la collaborazione nel settore della difesa nei confronti dei medesimi Paesi che ne fanno parte, con a capo gli Stati Uniti d’America. Si tratta della cosiddetta “Alleanza Atlantica” che si contrapponeva al successivo Patto di Varsavia del 1955 tra i Paesi che facevano capo all’Unione Sovietica.

È evidente, dunque, che le “limitazioni di sovranità”, per ragioni temporali, non potevano riferirsi anche alla Nato in quanto organizzazione internazionale successiva all’approvazione della nostra Costituzione. Tuttavia, avendo l’Italia sottoscritto quel Trattato nel 1949, ne accetta i relativi obblighi e impegni internazionali; pertanto, eventuali partecipazioni militari al fianco della Nato rientrano nelle “limitazioni di sovranità” di cui all’art. 11. Ma per fare che cosa? Entro quali limiti? Con quali finalità?

Il trattato Nato prevede operazioni a scopo difensivo in caso di attacco esterno nei confronti dei Paesi aderenti o dei territori facenti parte dell’Alleanza Atlantica, ma nella situazione in esame l’Ucraina non fa parte né della Nato né dell’Unione europea. L’Ucraina ha fatto parte dell’Unione Sovietica fino al 25 dicembre 1991, poi è diventata Stato indipendente a causa della caduta dell’URSS. Sta di fatto che la regione ucraina del Donbass, per la quale Putin ha scatenato il conflitto, si trova geograficamente a ridosso della Russia, e la sua popolazione è di lingua russa e subisce una persecuzione quasi decennale da parte del potere centrale ucraino.

L’intervento russo in Ucraina ha spinto la Nato – sotto l’egida degli Stati Uniti d’America – a chiedere ai Paesi che ne fanno parte di inviare armi all’Ucraina, ma si noti senza neppure entrare nel territorio ucraino, perché la Nato stessa non può intervenire in Ucraina, o meglio un suo diretto coinvolgimento sarebbe un atto di guerra nei confronti della Russia. Ma per quale motivo dovevamo accettare questa richiesta dal momento che l’Ucraina non fa parte dell’Alleanza? Per difendere i confini di uno Stato che opprime al suo interno una minoranza di lingua russa (che nel Donbass peraltro è maggioranza) e che non vuole più essere sottomessa? Chi è l’aggressore e l’aggredito nel Donbass? Siamo intervenuti negli ultimi otto anni in difesa della minoranza di lingua russa perseguitata nel Donbass dal potere centrale ucraino? Chi vuole oggi veramente la prosecuzione del conflitto in Ucraina e perché?

Solo armi di difesa “non letali”?

E ora la domanda più inquietante: basta quel decreto-legge convertito in legge dal Parlamento per autorizzare il governo a fare quello che vuole? Pare proprio di no, anche perché quella legge di conversione (art. 2) consente di inviare in linea di principio solo armi di difesa “non letali”, con relativo obbligo da parte dei ministri della difesa e degli esteri di informare le Camere – almeno con cadenza trimestrale – sulle armi da inviare e sulla situazione generale (art. 2 bis). Abbiamo al momento inviato solo questo tipo di armi difensive? Oggi non lo sappiamo perché il ministro della Difesa, per il momento, ha secretato questa informazione. Forse ce lo dirà tra tre mesi, chissà.

Certo è che se sul campo di battaglia si trovassero resti di nostre armi non previste dalla legge di conversione sarebbe un atto gravissimo in quanto il governo avrebbe violato non una legge dello Stato e l’art. 11 della Costituzione. A questo punto sarebbe il caso che il premier Draghi riferisse al più presto in Parlamento, sia in ordine all’incontro avuto con il presidente USA Biden in questi giorni, sia su che tipo di armi stiamo inviando all’Ucraina. La riservatezza per ragioni militari sarebbe giustificata solo se il Paese fosse investito direttamente nel conflitto, non se il conflitto – cui peraltro siamo (ancora) estranei – si svolge tra due Stati che non appartengono né alla Nato né all’Unione europea. Le Camere non servono soltanto a ratificare le decisioni del governo, come peraltro è accaduto negli ultimi due anni con l’emergenza sanitaria; ad esse spetta anche – e soprattutto – il potere di controllo e di indirizzo politico cui il governo deve attenersi.

4395.- Tutte le vere sfide della Nato

L’analisi che proponiamo potrebbe essere intitolata alle vere sfide dell’Europa (esattamente, non di questa Unione europea) e della NATO, sfide che chiedono una visione geopolitica coraggiosa proiettata verso gli sviluppi già presenti non solo nell’IndoPacifico, nell’Artico e nel Mediterraneo, ma anche nell’Asia Centrale, se vogliamo dare un senso alla cooperazione instauratasi fra Stati Uniti d’America e Russia per l’Afghanistan, sotto la voce lotta al terrorismo e alla costituzione della Flotta Russa dell’Artico, chiara dimostrazione di come il Cremlino intenda controllare il quadrante in cui anche Pechino vuol veicolare le rotte commerciali globali e nell’Artico ci sono gli Stati Uniti e l’Europa. A questo riguardo, l’Europa è in ritardo per quella trasformazione in Stato, nella forma istituzionale che sarà, ma che è essenziale per bilanciare nell’Atlantico lo spostamento degli Stati Uniti verso l’IndoPacifico e per fare da ponte con la Russia, che è e deve far parte del mondo occidentale. C’è spazio anche per l’Europa e il Mediterraneo allargato, intendendosi quel lago dell’Europa Meridionale, che, in una ottica di complementarità solidale, la unisce e non la separa dall’Africa Bianca e dal Sahel, venendo a costituire l’unica vera risposta possibile al problema migratorio.

Nato

di Alessandro Marrone, Start Magazine

 Il nuovo Concetto Strategico non è la sola partita importante che si gioca adesso in ambito Nato. L’analisi di Alessandro Marrone, responsabile del Programma Difesa dello IAI, tratta da Affari Internazionali

Nel dibattito su difesa europea e Nato le parole hanno a volte un peso, ed effetti non voluti, anche considerati i negoziati in vista, la delicatezza dei temi, le implicazioni per gli interessi nazionali e le sfide per la sicurezza euro-atlantica.

I problemi dell’Europa della difesa riguardano la frammentazione su base nazionale degli investimenti europei nel settore, specie tra i 21 Paesi membri di entrambi Nato e Ue. Altro problema non nuovo riguarda le capacità militari europee per un conflitto ad alta intensità, ed in particolare la loro qualità e prontezza operativa.

Dall’invasione russa della Crimea, complice la dura spinta dell’amministrazione Trump e lo slancio Ue con la Pesco, la Permanent Structured Cooperation ed European Defence Fund, i Paesi europei hanno ripreso ad investire di più sulle rispettive Forze armate, ed in alcuni casi a farlo cooperando tra loro. La situazione oggi è leggermente migliore di sette anni fa, ma ancora insoddisfacente quanto ai vecchi problemi e preoccupante rispetto alle nuove sfide.

I NUOVI SCENARI PER USA ED EUROPA

La prima nuova sfida, resa drammaticamente evidente dalla pessima fine dell’impegno militare occidentale a Kabul, è la determinazione americana a disimpegnarsi militarmente dall’ampia area che va dal Marocco all’Afghanistan, costi quel che costi. Per quanto Washington manterrà una certa influenza in Medio Oriente tramite l’azione diplomatica, l’intelligence e le forniture di sistemi d’arma ai Paesi partner, se gli europei vorranno agire militarmente nel loro vicinato meridionale – tramite azioni a scopo di deterrenza e de-escalation, costruzione di capacità dei partner locali, interventi di gestione delle crisi, contrasto al terrorismo o stabilizzazione – dovranno farlo sostanzialmente da soli. Per questo devono quindi dotarsi sia degli equipaggiamenti necessari sia della volontà politica di usarli insieme in ambito Ue, Nato o di coalizioni ad hoc.

La seconda nuova sfida, alzando lo sguardo al medio periodo, è che nell’Indo-Pacifico diventa sempre meno remoto un confronto militare che potrebbe sfociare in conflitto tra Cina e Stati Uniti. Questa ipotesi è entrata negli scenari contemplati dal Pentagono per la strutturazione futura delle proprie Forze armate, specie quelle navali e aeree, e nel dibattito interno all’establishment statunitense. Il rafforzamento politico-militare degli Usa nel Pacifico, anche tramite accordi bilaterali o mini-laterali come Aukus o il Quad, serve a contenere l’influenza cinese serrando i ranghi degli alleati nella regione, nella speranza che questo nuovo “containment” sia sufficiente a salvaguardare interessi e posizioni occidentali nel confronto a tutto campo con Pechino.

Tale impegno strategico di Washington, e ancor di più un’eventuale escalation militare nell’Indo-Pacifico, a partire da Taiwan, è probabile distolga forze statunitensi dal teatro europeo, aprendo una finestra di opportunità che un tattico bravo e propenso al rischio come Putin potrebbe cogliere. Ciò impone agli europei di fare sin da ora di più e di meglio per la propria difesa collettiva in ambito Nato, con un importante ruolo Ue a supporto, ad esempio, delle infrastrutture critiche per la mobilità militare in Europa.

È in tale quadro che bisogna realisticamente calare la riflessione (e comunicazione) strategica sul futuro di Nato e Ue, in particolare in vista del nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza e dello Strategic Compass dell’Unione. La bozza del primo verrà discussa dagli alleati a primavera 2022, per approvare il documento nel vertice Nato previsto a Madrid a giugno. Il secondo dovrebbe essere adottato dall’Ue prima delle elezioni presidenziali in Francia il prossimo aprile. In mezzo, entro il 2021 dovrebbe concretizzarsi una dichiarazione congiunta Nato-Ue che rilanci la convergenza e il partenariato strategico tra i due attori.

DOSARE LE PAROLE CHE PESANO

Nei prossimi mesi sarà dunque importante alimentare il dibattito europeo e transatlantico con un approccio propositivo, costruttivo, coerente e tempestivo, specialmente da parte di Paesi come Italia e Germania che hanno mantenuto negli anni la linea più bilanciata e utile per gli interessi nazionali e dell’Europa: una prospettiva pragmaticamente ambiziosa in cui Nato e Ue sono partner essenziali e si sostengono a vicenda, e l’integrazione delle capacità militari nell’Unione rafforza il pilastro europeo dell’Alleanza. In questa visione, un più elevato livello di autonomia strategica europea è necessario per un rapporto transatlantico più solido e duraturo di fronte ai “rivali sistemici” – termine usato nei documenti sia Ue sia Nato – russo e cinese.

I vecchi problemi e le nuove sfide da affrontare sono di portata tale che non ci si può permettere affermazioni infondate e corrosive, dalle inesistenti “pugnalate alle spalle” per una commessa industriale persa agli allarmi che la difesa europea indebolisca l’Alleanza Atlantica. Dosare le parole, specialmente dai vertici Nato e Ue, è particolarmente importante viste le diverse sensibilità nazionali che devono trovare una sintesi, la bravura con cui i rivali sistemici strumentalizzano le divisioni più o meno reali in campo occidentale, e la frustrazione che segue aspettative eccessive del tipo “esercito europeo”.

LA PARTITA DEL NUOVO SEGRETARIO GENERALE NATO

l nuovo Concetto Strategico non è la sola partita importante che si gioca adesso in ambito Nato. Il norvegese Jens Stoltenberg è quasi alla fine del suo secondo mandato come segretario generale, seguendo quello del danese Anders Fogh Rasmussen, dell’olandese Jaap de Hoop Sheffer, e del britannico George Robertson. Sono 22 anni che il vertice politico della Nato non viene dall’Europa mediterranea – dai tempi dello spagnolo Xavier Solana. E l’ultimo segretario generale italiano risale agli anni ’60 del secolo scorso.

Come diceva Pietro Nenni, le idee camminano sulle gambe degli uomini. Un successore di Stoltenberg che provenga da un Paese membro di entrambi Nato e Ue, e a favore di una partnership strategica tra le due, darebbe certamente più sostanza e attuazione all’unica prospettiva davvero win-win per Europa e Nord America.

3887.- Dal canale di Suez all’Artico, l’occasione per Italia e Ue. Scrive Di Stasio (M5S)

Abbiamo inteso riportare questo articolo perché contiene un auspicio, a dir poco, suicida per l’Italia e per i paesi del Mediterraneo, che illumina sulla qualità della politica estera del partito che ha il dicastero. La completa apertura delle rotte artiche è inevitabile e vedrà mettere in secondo piano le rotte mediterranee, oltre a consolidare l’alleanza russo-cinese. Nei prossimi decenni, la progressiva riduzione della superficie ghiacciata del Polo Artico aprirà, prima o poi, percorsi navigabili completamente nuovi, come, ad esempio, la rotta marittima tra Russia e America. Le prevedibili conseguenze economiche e geostrategiche non saranno favorevoli per l’Italia e chiamano la nostra politica estera a bilanciarle, intessendo relazioni più strette con tutti i paesi del Mediterraneo, sopratutto, ma non solo in campo economico. Per intenderci, una Comunità economica Mediterranea di stampo romano. In attesa che questo futuro trovi accoglimento, è da sperare che l’auspicio dell’on. grillino Iolanda Di Stasio non si realizzi così presto.

Dal canale di Suez all’Artico, l’occasione per Italia e Ue.

Di Iolanda Di Stasio | 28/03/2021 – Formiche

Dal canale di Suez all’Artico, l’occasione per Italia e Ue. Scrive Di Stasio (M5S)

L’incidente del canale di Suez dovrebbe spingerci a lavorare congiuntamente a una nuova dimensione multilaterale dell’Artico. Dalle minacce militari alla governance scientifica, serve un coordinamento internazionale, e l’Europa può fare la sua parte. Il commento di Iolanda Di Stasio, deputata del Movimento Cinque Stelle

L’incidente avvenuto all’interno del Canale di Suez, con la nave cargo Ever Given incagliata trasversalmente all’interno dell’istmo artificiale ha causato, e continuerà a causare, miliardi di dollari in danni al commercio mondiale e all’economia tutta.

Si è stimato che ogni giorno di blocco del Canale costi 9,6 miliardi di dollari al giorno, tra ritardi e costo del carburante. Vi sono infatti grandi problemi legati alla tipologia di merci che attraversano il passaggio marittimo quotidianamente, dal petrolio ai cereali, creando delle discontinuità serie in termini di fornitura di merci alle volte di importanza strategica.

Il mercato delle commodities ha già reagito con un’impennata dei prezzi del petrolio, e non leggere saranno le ripercussioni su tutto il sistema economico mondiale, oltre che sull’Egitto, che perderà una considerevole fetta di introiti a causa del mancato versamento delle royalties di passaggio delle navi container.

Il Canale costituisce un essenziale crocevia del commercio mondiale, con circa il 7% del traffico marittimo totale e il 12% di tutte le merci che viaggiano via nave ogni anno. Al pari di una controversia politica o militare, il blocco del Canale che collega l’Oceano Indiano al Mar Mediterraneo è un’eventualità sì, rara, ma non nuova nel panorama internazionale.

Più volte il passaggio era stato bloccato, a causa delle diverse crisi politiche e militari, e le due Guerre Mondiali, rendendo sempre più strategico il controllo del punto. A nulla, in queste assurde circostanze, pare essere servito l’allargamento in più punti del Canale annunciato dal presidente Al Sisi e avvenuto nel 2015, che ha raddoppiato la larghezza del passaggio in più punti, ma solo per pochi chilometri.

Già molte compagnie si stanno attrezzando per fare dietrofront e percorrere la tratta di circumnavigazione dell’Africa, doppiando il Capo di Buona Speranza, come si era esclusivamente fatto fino al 1869, o come occasionalmente avvenuto anche lo scorso anno. Una delle maggiori problematiche venute alla luce riguarda le serie minacce di attacchi da parte di pirati lungo la tratta di circumnavigazione del continente africano, e dunque tutte le forze militari presenti saranno allertate e impegnate in un continuo controllo delle coste lungo tutto il percorso.

Viene dunque da chiedersi se non sia giunto il momento di accelerare sullo sfruttamento di nuovi, convenienti percorsi, che possano essere una valida e competitiva alternativa al Canale di Suez. Più volte, numerosi esperti, hanno parlato della possibilità di sfruttare la rotta dei Mari del Nord, che attraversa l’Oceano Artico, e che si compone essenzialmente di due rotte, il passaggio di Nord-Est e quello di Nord-Ovest.

La rotta prevede l’attraversamento del Mar Glaciale Artico, così che le navi container che fanno la spola tra la Cina, gli Stati Uniti e l’Europa possano trovare una nuova via, a tratti più breve ed economicamente conveniente. Tale percorso, inoltre, potrebbe favorire lo sviluppo economico di aree del Pianeta scarsamente abitate ed economicamente poco sfruttate, in alcuni periodi dell’anno, a causa della presenza di ghiacciai.

È da tempo che la centralità delle terre polari, e dell’Artico in particolare, è divenuto tema rilevante nelle agende politiche internazionali. È necessario, in virtù di una prospettiva multilaterale e di maggiore equilibrio tra Paesi, rivalutare la possibilità di nuove alternative a quelle esistenti. Il costo di attraversamento del Canale di Suez si aggira tra i 100mila e i 500mila dollari per nave, che oggi le compagnie spedizioniere ritengono sostenibile per via del risparmio in termini di carburante.

Perché non lavorare congiuntamente ad una nuova dimensione multilaterale dell’Artico? Oltre alla cooperazione sulla ricerca scientifica, fondamentale per la salvaguardia ambientale della Terra, è opportuno avviare un dialogo internazionale con al centro la governance dell’Artico, al fine di preservarlo dalle minacce militari, dallo sfruttamento minerario incondizionato e pianificare uno sviluppo economico che possa essere beneficio per le popolazioni che vivono quei territori, ma che possa costituire un vantaggio per tutti, in un’ottica di proficua cooperazione internazionale multisettoriale.

3769.- La competizione nell’Artico va di pari passo con la sglaciazione.

La notizia e le nostre riflessioni.

“GLI USA MINACCIANO RUSSIA E CINA  SCHIERANDO BOMBARDIERI B-1 IN NORVEGIA”

da Rassegna Stampa Ue

“Biden : “linea più dura ed efficace” nei confronti del Cremlino, è destinata a crescere ulteriormente la tensione tra Stati Uniti e Russia dopo che Washington ha deciso di schierare i suoi bombardieri B-1 in Norvegia, in una zona molto sensibile per l’influenza di Mosca nei Paesi baltici e nell’Artico.

È la prima volta che Washington opta per un’azione del genere, una mossa che, oltre a difendere gli alleati nell’area, come riporta la Cnn, ha l’obiettivo di far capire a Vladimir Putin che l’esercito americano opererà nella regione artica perché ritenuta strategicamente importante. Citando più funzionari della difesa, la tv americana riferisce che quattro bombardieri B-1 della US Air Force e circa 200 membri del personale della Dyess Air Force in Texas saranno spostati nella base aerea di Orland e che nelle prossime tre settimane inizieranno le missioni nel Circolo Polare Artico e nello spazio aereo internazionale al largo della Russia nordoccidentale.”

Le nostre riflessioni e l’”Operazione Drago Bianco”

Prima di tutto, quell’”oltre a difendere gli alleati nell’area“, va visto nella sua realtà geostrategica.

Gli assetti strategici dei russi

Da una parte, per gli europei, ospitare assetti strategici come i B-1 o missili a media gittata a ridosso delle frontiere russe, significa essere il primo obiettivo delle Forze missilistiche strategiche russe, la Raketnye vojska strategičeskogo naznačenija. Ciò, a ragione del brevissimo tempo d’intervento lasciato agli intercettori russi; quindi, non parliamo di difesa degli alleati della NATO, ma, se mai, di sacrificio, a vantaggio dello Strategic Air Command americano, che scadrebbe a obiettivo numero due dei russi. Aggiungiamo che questa è la migliore risposta del Pentagono ai missili balistici ipersonici, praticamente, non intercettabili o, meglio, invulnerabili ad ogni sistema d’arma di difesa aerea e missilistica fisso, come sono quelli attualmente disponibili in ambito USA e NATO. Queste armi russe, al pari dei missili da crociera ipersonici, sono da ritenere destabilizzanti per l’equilibrio strategico delle forze nucleari ed ecco che, in attesa di sistemi per la guerra ipersonica, la contromisura può essere la riformulazione della graduatoria degli obiettivi.

Le Forze Missilistiche Strategiche russe, sono una branca delle Forze Armate e sono state formate il 3 agosto 2015, unificando l’Aeronautica militare con le Forze di difesa aerospaziale, il Comando spaziale e le Forze missilistiche strategiche, che hanno il controllo dei missili balistici. Parliamo di oltre 500 missili e circa 1.900 testate.

I test di volo del missile da crociera a propulsione nucleare Burevestnik /KY30/SSC-X-9 Skyfall si svolgono dal sito di Pankovo, nell’arcipelago di Novaya Zemlya. Il missile utilizza un piccolo reattore nucleare per alimentare il suo sistema di propulsione, conferendogli una portata teoricamente illimitata e volando a bassa quota. Come ha dichiarato Putin, nessun altro paese possiede un sistema d’arma simile.

Oceano artico Polo Nord del Circolo polare Artico. arcipelago di Novaya Zemlya.

La competizione per le risorse dell’Artico

Siamo partiti dal rischiaramento di quattro bombardieri nucleari in Norvegia; da un’altra parte, la sglaciazione dell’Artico e le sue ricchezze vedono elevarsi il livello della competizione internazionale. La Cina ha dichiarato di auto-definirsi una potenza “quasi-artica”, definendo l’Artico “Il suo frigorifero”, installandosi in Groenlandia e gli Stati Uniti devono dire: “Ci siamo”.

Siamo con Selvatici quando sostiene che:

…dove gli Stati Uniti arretrano, la Cina avanza. Dove l’Europa balbetta, la Cina avanza. Dove vi sono Paesi sottoposti ad embargo dall’Occidente, questi si rivolgono volentieri alla Cina. I vuoti lasciati dagli Stati Uniti e dall’Europa, a meno d’improbabili repentine e convincenti inversioni di rotta, verranno riempiti dalla Cina: dovremo incominciare ad abituarci a questo nuovo scenario”.

Sotto quelle acque si stimano immensi, e mai sfruttati, giacimenti di materie prime tra cui gas e petrolio. Le stime dell’US Geological Survey parlano di un 22% di tutte le riserve mondiali di combustibili fossili e del trenta percento di risorse naturali dell’intero pianeta. In particolare, si parla di quelle “terre rare” indispensabili per la fabbricazione di tutto quanto abbia a che fare con l’economia digitale. Fino ad ora, i giacimenti conosciuti di queste materie si trovavano principalmente in Cina, cosa che ne aveva fatto in sostanza un soggetto monopolista.
E’ naturale dunque che tutti i Paesi, a cominciare da quelli che vantano coste sull’Artico, abbiano cominciato a posizionarsi nei punti strategici utili allo sfruttamento delle possibilità offerte dalle nuove condizioni. Il 30 novembre 2017, dopo due anni di negoziati, le nove Nazioni (più l’Unione Europea) dotate delle maggiori marine mercantili del mondo hanno sottoscritto un accordo per impedire la pesca commerciale in quelle acque. Tale intesa mira a proteggere la fauna marina che si prevede aumentare nella zona proprio a causa dell’incremento delle temperature medie. Dopo i primi sedici anni quell’accordo sarà rinnovato automaticamente ogni 5 anni, a meno che uno degli stati firmatari non ponga obiezioni.
Su tutte le altre forme di sfruttamento delle risorse dell’area non esiste, però, nessuna intesa e ciascuno sta procedendo come meglio crede.
I paesi che si affacciano con la maggiore superficie costiera verso il Polo Nord sono il Canada e la Russia (6mila km di coste nella sola Russia) che hanno da tempo rivendicato la loro sovranità sulle acque in corrispondenza dei passaggi di Nord-ovest (sopra il Canada verso l’Europa) e di Nord-est (sopra la Russia, da oriente a occidente). Tuttavia, anche la Norvegia (con le isole Svalbard), la Groenlandia e gli Stati Uniti (con l’Alaska) hanno voce in capitolo e ciò ha portato nel 1996 a creare un Consiglio dell’Artico, un organo puramente politico e consultivo, che ha subito coinvolto anche la Finlandia, l’Islanda e la Svezia. Dal 2013 sono stati ammessi quali “membri osservatori permanenti” pure la Corea del Sud, il Giappone, l’India, l’Italia (grazie alla Base Artica Dirigibile Italia e alla Torre Amundsen – Nobile Climate Change, stanziate da molti anni sulle Isole Svalbard) e la Cina.

La via polare a Nord-est. L’“Operazione Drago Bianco”.

La Cina, in particolare, ha dichiarato di auto-definirsi una potenza “quasi-artica” e ha diffuso un libro bianco che riporta la propria intenzione di considerare quella zona come il proprio “frigorifero del futuro”. Nel volume ha anche annunciato l’intenzione di realizzare una “Via Polare della Seta”. Il progetto ha assunto il nome di “Operazione Drago Bianco”.

Con grande smacco degli Stati Uni d’America (e della Danimarca, cui in teoria il territorio della Groenlandia apparterrebbe) i cinesi hanno allacciato rapporti molto stretti con la Groenlandia. I vertici Inuit di quest’isola sono sempre ricevuti a Pechino in pompa magna, come fossero capi di Stato, e i cinesi si sono impegnati a investire 15 miliardi di euro in cinque anni aprendo miniere di zinco e ferro, costruendo tre aeroporti e una grande base “scientifica”. Se non ci fosse stata una stizzita reazione americana, nel 2017 stavano per acquistare una dismessa base militare danese. Ciò che invece son riusciti a comprare attraverso la propria Shenghe Resources Holding Ltd di Shanghai è la società australiana Greenland Minerals and Energy. Tale impresa possedeva e gestiva il più grande giacimento di uranio e terre rare al mondo, situato nel sud dell’isola. Il fatto è che la Cina agisce nell’artico esattamente come ha fatto e sta facendo in Africa: sfruttamento delle risorse in cambio di finanziamenti per infrastrutture che, se non ripagate quando e come dovuto, diventeranno proprietà cinese. Anche sulle Svalbard, nel nord dell’Islanda e in Canada, Pechino ha realizzato a basi permanenti a scopo ufficialmente “scientifico”.

Più del 93% dell’aumento delle temperature causato (dicono) dalle attività antropiche è stato assorbito dagli oceani. Come che sia, lo scorso ottobre, l’Oceano Artico non era ancora ghiacciato. Lo circondano le estreme regioni settentrionali di Europa, Asia e America. Perciò, l’impatto che avrebbe l’apertura delle rotte artiche sulla navigazione commerciale, metterebbe, per la prima volta in secondo piano, il Mediterraneo.

2481.- “Gli Incendi in Alaska e Siberia sono solo l’inizio: i mutamenti dell’Artico cambieranno il mondo”

Uno sguardo sul nuovo mondo, anzi nuovissimo, che, ancora una volta, vede la Cina partire in vantaggio. Non è solo questione di nuove rotte commerciali marittime, di gas e petrolio. Anche se nell’Artide si stima sia conservato un quarto delle riserve di petrolio e gas naturale del mondo, sono ben altri gli interessi di Pechino. L’Artico è una miniera di materie rare, l’oro del futuro. la Cina, con il finanziamento dei progetti della regione sta costruendo una leadership mondiale, anche in casa nostra. Solo gli Usa si confrontano con le mire espansionistiche della Cina. Un’ennesima dimostrazione dell’insufficienza politica dell’Unione europea.

Mike Pompeo alla viglia dell’ultimo vertice che ha riunito in Finlandia il Consiglio Artico, ha detto: “Vogliamo che l’Oceano Artico diventi un altro Mar cinese meridionale?”. Il Consiglio Artico è il forum intergovernativo che promuove il coordinamento e l’interazione tra gli Stati che si affacciano sul Polo Nord. Sebbene disti 1.450 chilometridall’Artide, la Repubblica popolare è membro osservatore del Consiglio Artico dal 2013 oltre ad essere uno dei Paesi più attivi nella regione con quasi 90 miliardi di dollari investiti tra il 2012 e il 2017. Comparando le acque che bagnano la regione artica al tratto di mare scosso da rivendicazioni territoriali tra Pechino e Paesi vicini, il segretario di Stato americano ha dirottato l’attenzione sulla “competizione tra potenze globali” che minaccia la stabilità del quadrante. Per Pompeo, l’aggressività di Cina e Russia impone un maggiore presenzialismo americano nell’area in qualità di “gendarme”. Tanto più che le pretesi cinesi si baserebbero sull’erronea rivendicazione di un ruolo all’interno di una comunità che prevede unicamente “stati artici e stati non artici”. L’alleanza fra Cina e Russia fa paura, ma è la politica della finanza sionista-americana a spingere la Russia fuori dall’Occidente. Poco potrebbe fare una Europa veramente unita politicamente. Sarà la fine delle rotte mediterranee e di Suez. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.


La  Northern Sea Route, è decisamente più breve: 14.000 chilometri (8.700 miglia) in 35 giorni di navigazione, in media, diciamo pure artica, contro 20.000 chilometri (12.400 miglia), in 48 giorni, della rotta tradizionale via canale di Suez, . Sono cifre che non lasciano dubbi e che motivano la blindatura della rotta polare da parte della Russia. Mosca, rievocando coerenti toni da Guerra Fredda, ha infatti ha deciso di tenere pesantemente sotto controllo le regioni artiche, dove da anni ormai sta rinforzando le sue strutture civili e militari, introducendo nuove regole per controllare l’accesso alla Northern Sea Route, ovvero quel passaggio a nord-est che la Russia vede sempre di più come il suo asso nella manica da giocarsi nel poker geopolitico delle rotte commerciali.



“Gli Incendi in Alaska e Siberia sono solo l’inizio: i mutamenti dell’Artico cambieranno il mondo”

Incendi «senza precedenti» in Siberia e Alaska, a nord del circolo polare artico 
Alcuni roghi sono così estesi da coprire una superficie pari a quella di 100mila campi da calcio. Secondo una stima prudente, la quantità di anidride carbonica che hanno immesso nell’atmosfera è pari a quella prodotta dalla Svezia in un anno
In questo 2019, più caldo di sempre, i fumi prodotti dagli incendi artici possono essere visti addirittura dallo spazio. Scrivono Andrea Semenzato e Bruno Di Marcello, su Blasting News: “I danni subiti in Groenlandia, Siberia ed Alaska
L’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), il servizio di monitoraggio meteorologico e climatico delle Nazioni Unite, ha definito questi gravi incendi artici “senza precedenti”. I più grandi di questi incendi, che si ritiene siano stati causati da fulmini, si sono verificati a Irkutsk, Krasnoyarsk e in Buriazia e i venti che trasportano fumo hanno fatto anche precipitare la qualità dell’aria a Novosibirsk, la più grande città della Siberia. La fiammata di Sisimiut in Groenlandia, durata più giorni, rilevata per la prima volta il 10 luglio, è avvenuta in un tratto insolitamente caldo e secco in cui la fusione della vasta calotta glaciale della Groenlandia è iniziata un mese prima del solito. In Alaska, invece, sono stati segnalati fino a 400 incendi.
Il climatologo Rick Thomas ha stimato la superficie totale bruciata dell’Alaska a 2,06 milioni di acri e Mark Parrington, scienziato senior del Climate Change Service e Atmosphere Monitoring Service per il programma europeo di osservazione della Terra Copernicus, ha descritto l’estensione del fumo generato da questi incendi artici come “impressionante” e ha pubblicato l’immagine di un anello di fuoco e fumo che vedete, in gran parte della regione. 

Era quasi la Luna, l’Artico. Un altro pianeta rispetto alla grande storia dell’umanità. Invece ora si trova al centro di trasformazioni epocali. Dallo spazio appare sempre meno bianco e sempre più blu; un nuovo mare sta emergendo come un’Atlantide d’acqua, perché il riscaldamento nel Grande Nord è doppio rispetto al resto della Terra. Ma lo scioglimento dei ghiacci perenni ha scatenato la contesa per la conquista dell’unica area del mondo ancora non sfruttata e che nasconde risorse pari al valore dell’intera economia Usa. Si aprono strategiche rotte mercantili, ampie e pescose regioni marittime, ciclopiche infrastrutture per le estrazioni. Una spietata corsa neocoloniale ai danni degli inuit.
Marzio G. Mian è uno dei pochi giornalisti internazionali ad aver esplorato sul campo il Nuovo Artico.
Dalla Groenlandia all’Alaska, dal Mare di Barents allo Stretto di Bering, questo viaggio-inchiesta racconta in presa diretta la battaglia per la conquista dell’ultima delle ultime frontiere. La Cina punta con ogni mezzo a espandere nel Grande Nord le sue ambizioni globali; gli Stati Uniti, ma anche la Norvegia, fronteggiano il pericoloso disegno neo imperiale di Vladimir Putin che considera l’Artico il mare nostrum della Russia e dispiega spie, basi e testate nucleari: un conflitto appare qui oggi più realistico che ai tempi della Guerra fredda, scrive Mian. Nel Grande Gioco del Ventunesimo secolo incombe su tutte una domanda: di chi è il Polo Nord?
Lo trovate su Amaszon.

Parla Marzio Mian, esperto della regione artica, tra nuove tratte, ecosistemi in pericolo e shock geopolitici: “Tutta la regione è soggetta a una trasformazione travolgente. Quello che fa più impressione è lo scioglimento del permafrost, che potrebbe far saltare davvero qualsiasi immaginario”

La strada si accorcia, purtroppo, però, non per tutti. Il surriscaldamento globale scioglie i ghiacci dell’Artico dando vita a un nuovo mare, nuove rotte e inediti scenari. È partita la “gara polare”, la “febbre bianca” o come in molti lo definiscono il secondo allunaggio. Tra loro c’è anche Marzio Mian, giornalista, fondatore della società no profit The Arctic Times Project e autore del libro, edito in Germania, Spagna, Sud America e Italia, Artico. La battaglia per il Grande Nord (Neri Pozza, 2017) “Dal punto di vista politico ed economico è chiaro che quando tu hai un nuovo mondo, come fu l’America ai tempi di Colombo, con un nuovo mare e nuovi spazi, l’interesse è enorme. Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto)”.

Russia e Cina su tutti, poi Usa e infine Europa, utero in affitto di questo embrione bellico. Le grandi potenze si muovono sulle ombre della colonizzazione, attratte dalle risorse petrolifere, l’apertura di nuove vie commerciali, flussi di pesca sconosciuti e tanta spazio climaticamente vivibile da occupare. Senza pensar troppo all’ambiente. “Tutta la regione artica nel suo insieme è soggetta a una trasformazione travolgente da ogni punto di vista. Sapevamo che il riscaldamento dell’oceano Artico è doppio rispetto al resto del pianeta, però è chiaro che quella che viene definitiva una spirale irreversibile ha assunto un’accelerazione che gli scienziati stessi non riescono a seguire e a interpretare”.

Mike Pompeo alla viglia dell’ultimo vertice del Consiglio Artico, il forum che promuove il coordinamento tra gli Stati che si affacciano sul Polo Nord, critico nei confronti di Pechino. Il governo cinese ha investito quasi 90 miliardi di dollari nella regione in 5 anni. Non è solo questione di idrocarburi: lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo un passaggio marittimo potenzialmente più breve del 40% rispetto al percorso attraverso il Canale di Suez

Temperature mai viste e incendi devastanti stanno distruggendo Alaska e Siberia. Cosa sta realmente succedendo?
Non solo in Alaska e in Siberia, tutta la regione artica nel suo insieme è soggetta a una trasformazione travolgente da ogni punto di vista. Sapevamo che il riscaldamento dell’Oceano Artico è doppio rispetto al resto del pianeta, però è chiaro che quella che viene definitiva una spirale irreversibile ha assunto un’accelerazione che gli scienziati stessi non riescono a seguire e a interpretare rispetto ai propri canoni di studio, in quanto sovvertiti. Mi occupo di artico sul campo da 10-12 anni ormai, e ho assistito a vari fasi nelle quali, comunque, è sempre stato difficile fare previsioni.

Quindi è solo l’inizio?
Assolutamente. Quello che fa più impressione è lo scioglimento del permafrost di cui la regione artica è composta in gran parte. Questo potrebbe far saltare davvero qualsiasi immaginario, creando migrazioni climatiche e deportazioni di intere popolazioni.

Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto). Soprattutto a fronte di una gestione di questi territori quasi da far west, in quanto, in primis, mappati solo per il 15 per centoMarzio Mian

Il cambiamento di questo ecosistema come si traduce per il resto del mondo?
È chiaro che l’Artico è l’aria condizionata del pianeta. Nel momento in cui viene a mancare, saltano dinamiche millenarie e si alterano i sistemi metereologici, per cui abbiamo queste ondate di calore, queste precipitazioni mai viste, questa tropicalizzazione dei territori. Tutto ciò, per i prossimi anni, si presta a una lettura facile: nel momento in cui il pianeta sarà sovrappopolato, con sempre più necessita di risorse, come il combustibile fossile, il Grande Nord del mondo, poco popolato, che detiene il 40% delle riserve fossili del pianeta, progressivamente sempre più abitabile dal punto di vista climatico, sarà di conseguenza il nostro destino. Già avviene questo, senza usare il futuro: la progettazione di nuovi aeroporti, nuove città, nuovi porti e le previsioni delle grandi banche e dei grandi fondi in vista di una secondo “allunaggio”.

Andiamo incontro alla scoperta di un nuovo pianeta?
Dal punto di vista politico ed economico è chiaro che quando tu hai un nuovo mondo, come fu l’America ai tempi di Colombo, con un nuovo mare e nuovi spazi, l’interesse è enorme. Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto). Soprattutto a fronte di una gestione di questi territori quasi da far west, in quanto, in primis, mappati solo per il 15 per cento.

In termini politici, l’apertura di queste nuove tratte rischia di offuscare il crocevia Europa?
Assolutamente sì. L’Europa, che già ha un ruolo infinitamente marginale rispetto a quello della Cina, che non è un Paese artico ma lo è di fatto sotto molti punti di vista, mercantile, economico, diplomatico – per Pechino l’Artico è una priorità -, nonostante l’affaccio con la Scandinavia e in particolare con la Groenlandia, attraverso al Danimarca, sotto un punto di vista di studio scientifico e di progetti, è esclusa dal gioco. Per fare un esempio, la connessione tra Kirkenes e l’Europa è già in mano alla Cina: la ferrovia che verrà costruita a breve tra la città norvegese e quella finlandese di Rovaniemi, per il traporto merci e di container dall’artico verso il Centro Europa, è finanziata dalla Cina. Il tunnel tra la Finlandia e l’Estonia, era un progetto europeo adesso di Pechino. In altre parole, l’Europa sarà tagliata fuori dal commercio nella sua stessa pancia: praticamente le merci partiranno da Shanghai e arriveranno nel Vecchio Continente senza che questo tocchi palla.

L’attore più attivo, nonostante ciò, è la Cina. Questa sta adottando delle manovre che neanche in Africa: quello delle materie prime in cambio di infrastrutture è una manovra quasi passataMarzio Mian

Siamo di fronte a un’egemonia cinese…
Come se non bastasse, l’Europa non ha voce in capitolo su una regione fondamentale nello scacchiere, ovvero la Groenlandia. I legami tra il governo inuit e quello cinese allarmano l’Europa: ma quest’ultima è completamente in ritardo, non avendo avviato alcuna trattativa simile. Gli unici che si stanno dando da fare sotto l’aspetto geopolitico sono gli Stati Uniti.

Nel risiko planetario, quale potenza è in vantaggio?
La potenza geografica storica è la Russia. Pian piano ha spostato negli anni il suo baricentro geopolitico sempre più a nord, collocando risorse militari che adesso formano arsenali pazzeschi. La Russia, tuttavia, potrebbe cercare un’alleanza (anche se al momento è più prigioniera) con la Cina, in quanto costretta a rivolgersi a Pechino per un prestito a fronte delle salate sanzioni Ue. Gli Stati Uniti non sono mai stati una potenza artica, non ci hanno mai creduto nonostante l’Alaska: con Trump e Pompeo, però, c’è stato un risveglio muscolare, con minacce e accuse rivolte alla Cina e promesse di azioni perentorie. L’attore più attivo, nonostante ciò, è la Cina. Questa sta adottando delle manovre che neanche in Africa: quello delle materie prime in cambio di infrastrutture è una manovra quasi passata. In Groenlandia, nonostante l’Europa per un giuoco di forze non abbia mai interferito con gli affari di Pechino, su un territorio che per il 90% è ancora del Regno di Danimarca la Cina si muove liberamente, senza trovare ostacoli e portando a termine i suoi interessi. Lanciando perfino provocazioni, con l’invito al governo inuit di stabilire sul territorio cinese un’ambasciata permanente. Se provocazione si può chiamare: in quanto l’Europa è ferma e gli Stati Uniti non riescono a decidersi.

Non voglio fare la Cassandra, ma da tutto questo, in un mare che non ha mai conosciuto la guerra, potrebbero sortire uno scenario con dei conflittiMarzio Mian

Questa febbre “bianca”, in particolare per quella che saranno le nuove prospettive di pesca, avrà bisogno di leggi e regolamenti. A che punto siamo? 
Sono stato recentemente con la Guardia costiera norvegese e parlando con il comandante il quadro che è emerso è a dir poco spaventoso. Quello della pesca è per loro il secondo petrolio. Il merluzzo per esempio si sta spostando verso acque ignote: non si conosce la sua destinazione e se vada incontro a un suicidio. Nondimeno, loro stessi hanno notificato come perfino il pesce sia origine di conflitti: esso si sposta determinando impoverimento o arricchimenti.
L’altra cosa è il turismo. C’è questo boom delle navi da crociera a latitudini incredibile: il comandante ha ricordato quando in un giorno, attorno alle isole Svalbard, c’erano ben 19 navi, una con a bordo 9mila passeggeri. Alcune situazioni sono anche per loro nuove: i fondali spesso sulle carte sono segnalati di 50 o 100 metri, quando in realtà sono profondi 20. Cosa potrebbero fare in caso di incidente? Assolutamente nulla, tra tempi di percorrenza e temperature letali delle acque. A fronte di una corsa inarrestabile, il legislatore fatica a stare al passo e, pertanto, è una situazione da far west. Tutti gli accordi sono diventati anacronistici, la stessa legge del mare è superata, non tenendo conto delle nuove acque.

Come cambieranno le fattezze mondiali a margine di una battaglia per il Grande Nord?
L’uomo è uguale a se stesso: coglie le opportunità che gli si presentano, a volte forzando le situazioni. L’homo sapiens non ha fatto altro che occupare nuovi territori, e con un’occasione del genere, unica nella storia dell’umanità, con una fetta di mondo tutta da occupare, l’umanità non si farà scappare l’affare. La tecnologia sta investendo in questo nuovo mondo, le assicurazioni della navi spacca ghiaccio investono nel futuro: in quanto unica regione al mondo dove i verbi si declinano al futuro. Non capita da nessuna altra parte. Non voglio fare la Cassandra, ma da tutto questo, in un mare che non ha mai conosciuto la guerra, potrebbero sortire uno scenario con dei conflitti.