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4016.- Gaza. Punto e a capo.

Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro.

Hamas-Israele, una tregua duratura?

di Maria Scopece, Start Magazine

israele hamas

Chi c’era e che cosa si è detto al webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano” organizzato dall’associazione Ricostruire di Stefano Parisi

Dopo 11 giorni di battaglia Israele e Palestina hanno siglato il cessate il fuoco. Il bilancio di questa ennesima puntata del conflitto tra israeliani e palestinesi è di 232 vittime palestinesi e 12 israeliane

Una tregua duratura?

“Potrà anche esserci una tregua ma non cambierà nulla. Hamas appena finiti i bombardamenti ricomincerà a scavare la sua metro, riprenderà a usare le fabbriche di missili e di razzi con istruttori iraniani e si preparerà al prossimo scontro”. A dirlo è il giornalista esperto di esteri, ed analista, Carlo Panella, nel corso del webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano”, organizzato dall’associazione “Ricostruire” di Stefano Parisi. All’appuntamento online hanno partecipato anche Marco Paganoni, Professore di Storia di Israele e direttore di Israele.net, Claudio Pagliara, corrispondente Rai da New York e già corrispondente Rai da Gerusalemme, e Angela Polacco, israeliana che vive a Gerusalemme dal 1985.

L’ostilità dell’opinione pubblica araba 

La conflittualità in Medioriente non di esaurisce alle schermaglie tra governi. “Nell’opinione pubblica araba c’è una grave ostilità nei confronti di Israele – ha aggiunto Panella -. Ciò che non è chiaro all’opinione pubblica occidentale è che l’opinione pubblica araba, a causa di una lettura letterale del corano, nega il diritto degli ebrei di avere uno stato in Palestina. Basta leggere lo statuto di Hamas”. In occidente ci sarebbe la convinzione sbagliata la contesa riguardi la terra ma non sarebbe così. “Il mondo islamico sostiene che Gerusalemme non è la città degli ebrei. Gli ebrei,  secondo gli islamici, non possono andare sulla spianata di al-Aqsa – continua Panella -. L’essenza di questo conflitto, e Hamas è chiarissima a dirlo, è che l’Islam è proprietario di Gerusalemme. Gli stati arabi, anche gli stati che hanno firmato gli accordi di Abramo, fronteggiano una marea montate che rifiuta il diritto degli ebrei di avere uno stato. Questo elemento rende così complesso l’evolversi dello scenario”. 

Hamas: “Vittoria della resistenza palestinese”

Hamas, alla dichiarazione del cessate il fuoco, ha dichiarato vittoria e migliaia di persone sono uscite in strada nei Territori Palestinesi. “Oggi la resistenza dichiara vittoria sui nemici”, ha detto Khalil al-Hayya, numero due di Hamas a Gaza. Per Ali Barakeh, della Jihad Islamica, la tregua è una sconfitta per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e una “vittoria per il popolo palestinese”.

Claudio Pagliara: “C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas”

“C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas, su chi c’è dietro”. La preoccupazione circa la poca informazione sull’opacità di Hamas è del corrispondente Rai da New York Claudio Pagliara: “Nel 2005 Ariel Sharon ordinò il ritiro di 8mila civili e di tutto l’esercito da Gaza. Consegna le chiavi della Striscia ai palestinesi senza contropartita. All’epoca c’era ancora l’autorità palestinese. In quei territori c’era Fatah contro cui Hamas si scontrò. Nel 2007 Hamas prende il potere sconfiggendo e uccidendo o leader di Fatah”. Secondo l’inviato Rai, un tempo inviato da Gerusalemme, alla natura violenta di Hamas va imputata la recrudescenza della violenza nei territori della Striscia di Gaza. “Questa storia va ripetuta perché se non si capisce la profonda divisione che si è creata nel campo palestinese non si capisce perché in meno di 15 anni abbiamo avuto quattro gravi conflitti a Gaza – continua Pagliara -. Gaza è finita nelle mani di un’organizzazione che non ha come scopo il benessere della popolazione palestinese ma vuole utilizzare tutte le risorse che riceve per costruire una base militare e colpire Israele che aveva consegnato la striscia di Gaza nelle mani dei palestinesi per farne altro. All’epoca c’erano 29 progetti internazionali per fare di Gaza la Svizzera del Medio Oriente. Tutto fallito perché le forze di Abu Mazen vengono sconfitte dagli integralisti islamici”. 

Il ruolo degli Stati Uniti d’America 

Gli Stati Uniti d’America giocano da sempre un ruolo cruciale nella gestione delle conflittualità dell’area. “L’amministrazione Trump aveva cercato di cambiare il paradigma dell’approccio alla questione – dice Marco Paganoni, professore di Storia di Israele e direttore di israele.net -. Aveva proposto un nuovo approccio che sottolineava che la parte palestinese che rifiuta il negoziato e rifiuta i compromessi ogni volta che vengono proposti, che continua a crescere intere generazioni di palestinesi nelle campagne contro Israele, che sfrutta agenzie internazionali con i suoi finanziamenti per continuare a fare l’insegnamento dell’odio e premiare i terroristi con pensioni e vitalizi. Va fatta pressione e va fatta lì, perché Israele il compromesso punta a farlo”. 

Il cambio di prospettiva dell’amministrazione Biden 

Il prof. Paganoni ritiene che dietro questa recrudescenza degli scontri ci sia una variazione nell’approccio americano alla questione. “Questo approccio aveva prodotto dei risultati ed ora è stato smontato – continua il prof. Paganoni -. L’amministrazione americana è tornata a dare gratuitamente credito ai leader palestinesi. Questo cambio di direzione credo che abbia giocato in maniera pesante nella decisione della tempistica della deflagrazione di questo conflitto. Israele stava facendo la pace con un pezzo importate del mondo arabo. Si stava per formare in Israele un governo con l’ingresso di una formazione araba islamica, continuava a colpire i progetti atomici iraniani, stava uscendo dalla pandemia in modo brillante. In questo quadro qualcuno non poteva stare con le mani in mano. Questo qualcuno non è solo Hamas ma soprattuto i suoi protettori”. 

La mano iraniana 

“La differenza con Trump non riguarda gli accordi di Abramo” – dice Pagliara -. Riguarda il dossier iraniano. Un dossier strategico, Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro. Queste azioni dell’amministrazione Trump hanno spinto molti paesi del golfo a fare accordi con Israele”. Anche per il corrispondente Rai gli scontri di questi giorni hanno a che fare con il cambio di indirizzo dell’amministrazione statunitense.  “Su questo terreno l’amministrazione Biden ha lasciato segnali diversi e si è mostrata, secondo alcuni, troppo disposta a tornare a un tavolo del dialogo ricevendo da Teheran dei sonori no – aggiunge Pagliara -. Dietro questa fiammata c’è in primo luogo la mano iraniana”.

3353.- Parliamo di ciò che gli alleati arabi di Israele hanno da perdere dai suoi accordi con gli Stati del Golfo

L’Egitto e la Giordania godono della propria quota di benefici dagli Emirati Arabi Uniti e trovarsi a giocare tutti insieme potrebbe diminuire il loro potere.

Un accordo e un affare storico

King Abdullah of Jordan at a conference with Egypt and Iraq in Amman, August 2020.
Re Abdullah di Giordania a una conferenza con l’Egitto e l’Iraq ad Amman, agosto 2020 Credito: AFPZvi Bar’el

Osama Saraya, un eminente giornalista egiziano, ha pubblicato mercoledì uno straordinario articolo su Al-Ahram in difesa degli accordi di pace firmati tra Israele e Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Scrive: “Il nuovo accordo è la schiena forte che proteggerà ciò che resta dei territori palestinesi e della Gerusalemme araba”.

L’articolo che traduciamo, si sviluppa in un discorso dal tono energico, che, forse, anzi ben riflette lo spirito del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi: “Siamo rimasti sbalorditi dalla condotta imprudente dei palestinesi che hanno lanciato la loro ostilità e si sono rivolti alla Lega araba, chiedendo una denuncia … I palestinesi si stanno posizionando contro gli interessi arabi e a favore dell’asse iraniano-turco, e stanno cercando di far rivivere ciò che è morto e scaduto. L’Autorità Palestinese è diventata un insieme di uffici a Beirut e Damasco. Ha dimenticato i crimini di Hamas e l’assassinio di palestinesi commesso dall’organizzazione … È stato piuttosto strano quando il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha visitato i campi profughi palestinesi in Libano e ha esaminato le loro armi, ben sapendo che si trattava di armi iraniane mentre ha minacciato [guerra] e quindi violato la sovranità del paese che soffre per la tragedia del porto di Beirut. “

Saraya, che era il caporedattore di Al-Ahram, quando nel 2011 scoppiarono le proteste della Primavera araba, spesso criticava i manifestanti e li chiamava teppisti e rivoltosi, ma subito dopo che Mubarak fu estromesso, fu tra i primi a sostenere la rivoluzione con il titolo “Il popolo ha rovesciato il regime”. Mantenere la linea del regime non è, perciò, qualcosa di nuovo per lui. L’ultimo pezzo di Saraya riflette un duplice dilemma: come dovrebbero relazionarsi gli intellettuali egiziani, e gli arabi in generale, agli accordi di pace, dato il loro “tradimento” dell’unità araba? E come dovrebbero rapportarsi d’ora in poi alla questione palestinese?

Da parte di associazioneeuropalibera, notiamo che la parola tradimento, da parte di Saraya, palesa il permanere di una visione conflittuale del futuro del Medio Oriente, addirittura superiore a quella evidentemente superata al momento da Netanyahu. Certamente, bisogna avere conto delle situazioni delle politiche interne e estere, di ciascun paese. Infatti:

In Egitto, Giordania e altri paesi arabi, questi due dilemmi sono intrecciati con il rapporto del regime in primo luogo con i media e in secondo luogo con gli stati del Golfo. L’Egitto è un potente alleato degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita. Ha beneficiato di miliardi di dollari di investimenti e depositi bancari da quando Sisi ha preso il potere nel 2013, dopo aver estromesso Mohammed Morsi dai Fratelli Musulmani. Gli Emirati Arabi Uniti hanno finanziato gran parte del Nuovo Cairo, la città che è diventata un simbolo di rinnovamento e sviluppo ma che assomiglia sempre più a un elefante bianco. Gli Emirati Arabi Uniti hanno anche contribuito a sviluppare progetti nel nord del Sinai come parte della campagna dell’Egitto contro i gruppi militanti lì. È anche coinvolto nella guerra egiziana contro il governo libico, e l’Egitto fa parte della coalizione saudita che combatte una guerra contro gli Houthi nello Yemen.

A sua volta, il regime egiziano deve sostenere la reputazione degli Emirati Arabi Uniti e sopprimere qualsiasi critica nei loro confronti. Tale interesse economico e militare ha la precedenza sul valore panarabo che richiede di salvare la Palestina dall’occupazione israeliana.

)Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, US President Donald Trump, Bahrain Foreign Minister Abdullatif al-Zayani, and UAE Foreign Minister Abdullah bin Zayed Al-Nahyan wave from the Truman Balcony at the White House after they participated in the signing of the Abraham Accords where the countries of Bahrain and the United Arab Emirates recognize Israel, in Washington, DC, September 15, 2020.

La situazione della Giordania è simile. L’anno scorso ha ricevuto una sovvenzione di 300 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per l’istruzione e la salute. Ha ricevuto circa 1,5 miliardi di dollari di sostegno negli ultimi anni, oltre al miliardo di dollari rimandato ogni anno dai giordani che lavorano negli Emirati Arabi Uniti. In Giordania, come in Egitto, agli accordi è stata data una copertura diretta senza alcun commento o analisi critica, secondo le istruzioni del ministro giordano dell’informazione e delle comunicazioni.

Un coraggioso nuovo Medio Oriente? I migliori esperti sembrano pessimisti riguardo agli importanti accordi Israele-Emirati Arabi Uniti-Bahrain. Gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno fatto esplodere il mito secondo cui i palestinesi sono il problema centrale del Medio Oriente. Gli stati del Golfo non accetteranno più un veto da Ramallah o Gaza per le loro relazioni con Israele e la difesa contro l’Iran.
Benjamin Netanyahu, UAE FM Abdullah bin Zayed Al-Nahyan e Bahrain FM Abdullatif al-Zayani prima della firma degli accordi di Abraham, la Casa Bianca a Washington, DC, 15 settembre 2020. Gli Stati arabi hanno bisogno dei palestinesi se vogliono una vera pace con Israele. Credito: Alex Brandon, AP.
I palestinesi vogliono Gerusalemme est come capitale di un futuro stato, ma Israele dice che la città non sarà mai più divisa.

Allo stesso tempo, i leader di entrambi questi paesi sono preoccupati per i nuovi accordi di pace. Fino ad ora, l’Egitto e la Giordania erano i “preferiti” di Washington e hanno ricevuto il sostegno diplomatico e un generoso sostegno finanziario. Egitto a causa di Camp David e Giordania a causa della sua stretta cooperazione in materia di sicurezza con Israele. Fatto ancora più importante, i loro rapporti speciali con Israele hanno dato consentito loro di influenzare la condotta di Gerusalemme in Cisgiordania e Gaza e sui luoghi santi che sono sotto il patrocinio ufficiale della Giordania.

Dunque, acque agitate

Gli analisti egiziani stanno ora speculando cautamente che man mano che più paesi si uniranno alla cerchia di amici di Israele, l’influenza dell’Egitto nei confronti di Israele e del Medio Oriente nel suo insieme diminuirà.

Questa paura è stata amplificata dalle notizie secondo cui gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto pressione sul Sudan per accelerare la sua normalizzazione con Israele. Secondo i resoconti dei media arabi, gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati a inviare al paese impoverito centinaia di milioni di dollari, mentre Israele ha promesso di aiutare il Sudan con lo sviluppo delle infrastrutture agricole. Fino ad ora, l’Egitto ha supervisionato l’asse arabo-sudanese come parte della sua disputa con l’Etiopia sulla costruzione della diga rinascimentale Grand Ethiopian e sulla divisione dell’acqua nei tre paesi. L’Egitto teme che il coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti in Sudan possa conferirgli lo status di mediatore e imporgli una politica che potrebbe danneggiare i suoi interessi.

Egyptian President Abdel-Fattah al-Sissi at Hosni Mubarak's funeral in Cairo, February 2020.
Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi al funerale di Hosni Mubarak al Cairo, febbraio 2020 Credito: Amr Abdallah Dalsh / Reuters

Poiché gli accordi di pace non possono essere criticati, i media si sono, invece, rivolti alla sfera delle “minacce e dei pericoli”. Lì, ad esempio, citano il memorandum d’intesa firmato tra la compagnia israeliana proprietaria del porto di Eilat (di proprietà di Shlomo Fogel) e la società di logistica degli Emirati DP World di Dubai. Il promemoria riguarda la cooperazione e la possibilità di convogliare merci dagli Emirati via Eilat, quindi i porti di Haifa e Ashdod. Menziona anche il piano della società degli Emirati di fare un’offerta per Israel Shipyards, che è in attesa di privatizzazione.

In Egitto, questi rapporti stanno già sollevando ondate di allarme per la possibile minaccia agli affari nel Canale di Suez. Alcuni anni fa l’Egitto ha lanciato un’allargamento del canale che è costato miliardi di dollari. Il presidente egiziano aveva promesso che l’espansione avrebbe aumentato il volume degli scambi e che grandi centri commerciali e progetti industriali sarebbero stati costruiti sulle rive del canale. Da allora, il trasporto marittimo nel canale è diminuito, le entrate sono crollate e i grandi progetti sono rimasti per lo più sulla carta. Che ne sarà di quel reddito se gli Emirati decidessero di bypassare il Canale di Suez? Non ci sono ancora stime concrete, ma c’è sicuramente paura.

Da parte sua, la Giordania teme che l’accordo con gli Emirati e successivamente con l’Arabia Saudita escluderebbe la Giordania dal suo status speciale di sponsor dei luoghi santi di Gerusalemme e trasformerebbe l’Arabia Saudita nel proprietario di tutti i luoghi santi dell’Islam.

Ma anche prima, sarà interessante vedere come i fedeli palestinesi trattano gli ospiti del Golfo, e se questi ultimi sono soggetti alle stesse restrizioni che Israele impone ai fedeli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Un manifestante sventola una bandiera palestinese davanti alle forze israeliane durante una protesta contro il seminario del Bahrain per il piano di pace degli Stati Uniti in Cisgiordania, il 25 giugno 2019. Credito: Mohamad Torokman / Reuters

Segnali misti

“Il mondo arabo si trova in un buco nero, che inghiottirà gli stati arabi che si affrettano a normalizzare le relazioni con Israele”, afferma un articolo sul sito di Al-Khaleej Al-Jadeed pubblicato in Qatar. Tra gli stati elencati nell’articolo c’è la Siria, “che ha oppresso i suoi cittadini per decenni sotto la bandiera della resistenza e dell’ostilità al sionismo, ma ultimamente il regime ha inviato segnali che indicano che spera che salire a bordo del treno israeliano lo assolverebbe dai crimini orribili che ha commesso contro l’umanità, e che in cambio della normalizzazione con Israele avrebbe ottenuto la normalizzazione con il mondo “.

È difficile trovare segnali siriani di normalizzazione con Israele. L’unica portavoce ufficiale che ha fatto riferimento alla questione è stata Bouthaina Shaaban, consigliera del presidente Assad, che il mese scorso ha detto che “non ha capito cosa vedono gli Emirati Arabi Uniti nella normalizzazione con Israele”, poiché Israele ha violato tutti gli accordi che sono stati firmati. con esso.

Syrian President BasharAssad gestures while speaking to Russian Foreign Minister Sergey Lavrov during their talks in Damascus, September 7, 2020.
Il presidente siriano BasharAssad fa un gesto mentre parla al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov durante i colloqui a Damasco, 7 settembre 2020.

Le sue parole sono state interpretate come una debole risposta, soprattutto rispetto alla denuncia dei palestinesi, di Hezbollah, dell’Iran e di altri stati. Lo stesso Assad avrebbe dovuto emettere condanne molto più dure, ma il presidente siriano ha tenuto la bocca chiusa. Il motivo è che gli Emirati Arabi Uniti hanno riaperto la loro ambasciata a Damasco nel 2018 e hanno aperto la strada alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Siria e Stati arabi e al ritorno della Siria nella Lega araba.

È molto improbabile che Assad si imbarchi improvvisamente in un percorso di normalizzazione con Israele. È ancora più dubbio se troverà un partner in Israele, perché a differenza degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, la pace con la Siria ha un prezzo che Israele non pagherebbe mai.

Pensiamo alle alture siriane del Golan, occupate, alla loro acqua e al loro petrolio. Solo un accordo mediato da entrambi Trump e Putin potrebbe guadagnare un risultato. ndt

Gli accordi sollevano una questione importante riguardo al conflitto israelo-palestinese. Le clausole generali stabiliscono che le parti agiranno insieme per raggiungere una soluzione concordata al conflitto, che risponda ai “bisogni e alle aspirazioni legittime di entrambe le nazioni”, una soluzione che sia “giusta, globale, realistica e fattibile”. Non è noto se gli accordi dettagliati includano un’interpretazione concordata di questi termini e cosa significhi una “soluzione realistica”.

Emirati e Bahrein accettano l’attuale realtà degli insediamenti israeliani? Hanno in programma di creare un nuovo forum che includerà i palestinesi per attuare il piano di Trump? Gli Emirati sostituiranno il Qatar e la Turchia come “protettori” e finanziatori di Hamas, per completare la mossa per bloccare l’Iran?

La gioia israeliana per la “sconfitta” dei palestinesi potrebbe rivelarsi ancora una volta prematura. Gli stati del Golfo stanno dando a Israele ciò che Israele aveva accettato di dare ai palestinesi: la pace economica. Alla fine, Israele potrebbe essere costretto a pagare anche in valuta diplomatico-strategica.

3328.- Radici e risvolti dell’accordo Israele-Emirati

Sia come sia e Kamel dice il vero, sta di fatto che la politica della guerra permanente di Netanyahu non ha colto i suoi obbiettivi in tempo utile e stava destabilizzando tutto il Medio Oriente e tutto il Mediterraneo Orientale. Intollerabile. L’accordo del 13 agosto, più che un risultato, è una pietra fondante, un nuovo indirizzo per la supremazia israeliana, sapientemente colto da Trump.

Di Lorenzo Kamel, da Aspenia, 20 Agosto 2020

L’unilaterale annessione da parte delle autorità israeliane di una porzione della Cisgiordania violerebbe un principio cardine del diritto internazionale: pochi principi giuridici sono infatti più consolidati e condivisi a livello internazionale del divieto di acquisizione di un territorio mediante la forza. Ciononostante l’annuncio (13 agosto) della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (EAU) premia esplicitamente le autorità israeliane per la promessa di “congelare” un atto a cui si oppongono tutte le organizzazioni internazionali e la quasi totalità degli stati membri delle Nazioni Unite. Rappresenta in questo senso un pericoloso precedente, sia a livello regionale che internazionale.

Il municipio di Tel Aviv illuminato con i colori della bandiera degli Emirati Arabi per celebrare l’accordo

Ciò appare ancora più evidente se si considera che il territorio occupato palestinese rappresenta la sola area del mondo in cui milioni di individui vivono da oltre 50 anni privi sia di un loro stato che di una cittadinanza di un qualsivoglia Paese. Le “potenze occupanti” presenti nelle aree ad esempio abitate da curdi, tibetani, e numerosi altri popoli soggetti all’autorità di paesi esterni, mantengono sì i benefici connessi alle loro “occupazioni”, ma si sono quantomeno assunte delle responsabilità nei riguardi delle popolazioni assoggettate.

I palestinesi hanno il pieno diritto di fare luce sul – e contrastare il – “limbo legale” nel quale vivono da oltre mezzo secolo e di battersi per ottenere i loro diritti. La supposta sospensione dell’annessione non modificherà, né avrà un impatto, su alcuno degli aspetti menzionati.

Per quale motivo dunque le autorità israeliane hanno deciso di sospendere il processo di annessione? La ragione è meno complessa di quanto possa sembrare: l’amministrazione Netanyahu ha compreso che è più conveniente puntare sulle “annessioni soft” che i palestinesi hanno sperimentato negli ultimi decenni, piuttosto che “ufficializzare” le annessioni selettive paventate nei mesi scorsi.

Si noti che circa il 94% dei materiali prodotti annualmente nelle cave israeliane costruite in Cisgiordania (dunque in territorio palestinese) è trasportato in Israele: questa e numerose altre simili politiche, legate sia alle materie prime che alle persone, verranno mantenute tanto in presenza quanto in assenza della normalizzazione delle relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.

Una questione multi-dimensionale

Gli Emirati Arabi Uniti hanno una popolazione di meno di 1 milione di cittadini regolarmente registrati: ognuno di essi è soggetto a una ferrea censura legata alla libertà di espressione. Rappresentano il primo Paese arabo del Golfo Persico e il terzo Stato arabo – dopo l’Egitto (1979) e la Giordania (1994) – ad aver annunciato l’instaurazione di relazioni ufficiali con Israele.

Questo “storico accordo”, così come era già accaduto con l’“Accordo del secolo” annunciato lo scorso gennaio dall’amministrazione Trump, ha in realtà poco a che vedere con la Cisgiordania, o con qualsiasi altro aspetto legato al conflitto israelo-palestinese. Il vero obiettivo di entrambi gli accordi è rintracciabile nel processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi del Golfo Persico (Iran escluso).

Donald Trump, insieme a un gruppo di diplomatici tra cui l’ambasciatore USA in Israele David Friedman (secondo da destra), dedica un applauso nello Studio Ovale all’accordo tra Israele e Emirati (12 agosto 2020).

Per rimanere allo specifico caso delle relazioni tra Israele e gli Emirati, entrambi i paesi hanno molto da guadagnare dall’accordo.

Annunciando di non voler procedere con le annessioni selettive di alcune parti della Cisgiordania (le più utili e ricche di risorse), le autorità israeliane possono continuare a sostenere che l’occupazione del territorio palestinese è temporanea, auto-assolvendosi in questo modo dall’obbligo legale di prendersi delle responsabilità in relazione ai palestinesi presenti in loco.

Quanto agli Emirati Arabi Uniti, – impegnati in prima linea nella guerra nello Yemen e con i quali già da alcuni anni Israele ha stipulato accordi legati alle armi e all’intelligence – il “processo di normalizzazione” consente al Paese di aumentare la propria influenza regionale. Negli ultimi anni Israele si è infatti trasformato in un fattore chiave tanto per gli Emirati quanto per altri paesi del Golfo, i quali utilizzano la “carta israeliana” per aumentare la propria influenza regionale,  limitare il ruolo di paesi come l’Iran e la Turchia e rafforzare le proprie relazioni con gli Stati Uniti.

Due ordini regionali

Questi aspetti non possono tuttavia essere pienamente compresi senza includere nell’equazione le due “agende” regionali e internazionali che si stanno confrontando per il controllo di larga parte del Medio Oriente e delle sue risorse naturali.

La prima delle due, tendenzialmente intra-regionale (a dispetto dell’appoggio a fasi alterne offerto da Mosca), punta a mantenere e a rafforzare l’asse che unisce Teheran, Baghdad, Damasco e Beirut. La seconda – appoggiata da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – mira invece a imporre un nuovo ordine regionale in larga parte influenzato dagli Stati Uniti e sostenuto da Israele.

È proprio questa seconda agenda quella che al momento sembrerebbe avere il sopravvento, come confermato dalle sanzioni imposte da Washington all’Iran e da numerose altre dinamiche strategiche registrate negli ultimi anni.

Si pensi ad esempio alla repentina elevazione (giugno 2017) di Mohammed bin Salman alla posizione di principe ereditario della corona saudita: una decisione che Washington ha prima accettato e poi sostenuto ponendo la condizione che Riad perseguisse nella regione politiche in linea con gli interessi degli Stati Uniti e di Israele. Altri esempi includono la decisione (giugno 2017) di alcuni Stati del Golfo e dell’Egitto di tagliare i legami con il Qatar, considerato ostile agli interessi sauditi ed emiratini nella regione, e più di recente il già citato “Accordo del secolo” imposto unilateralmente (giugno 2020) dall’amministrazione Trump nel contesto israelo-palestinese.

Due diritti, una pace

La leadership palestinese – dispotica, repressiva e non rappresentativa – appare ancora una volta spettatrice degli eventi che stanno determinando il presente e futuro del suo popolo. Le autorità israeliane, d’altra parte, mirano a massimizzare l’“annessione soft” di parte del territorio occupato palestinese. Per farlo, contano paradossalmente sul sostegno economico offerto dall’Unione Europea – considerata funzionale a tenere in vita l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in Cisgiordania – e del Qatar, utile a non far “sprofondare” la Striscia di Gaza al di sotto della soglia della vivibilità.

Truppe israeliane pattugliano la barriera di separazione con il territorio palestinese vicino Qalandiya, di fronte al murale in onore di Marwan Barghouti, tra i capi della I e della II Intifada

In un quadro così complesso e senza apparenti soluzioni, è probabile che nei mesi e negli anni a seguire assisteremo a un ulteriore aumento dei tentativi volti a promuovere una soluzione del conflitto basata esclusivamente sul rispetto dei diritti umani, nel contesto di un singolo stato binazionale.

Abbandonare o minare il principio di autodeterminazione del popolo palestinese è tuttavia rischioso. Come notato dall’imprenditore palestino-statunitense Sam Bahour, nel momento in cui la lotta si riduce esclusivamente a un tentativo volto a ottenere diritti civili, “il gioco è finito, anche se la lotta per raggiungere pieni diritti si protraesse per altri cento anni”. Qualsiasi approccio volto a sostenere il rispetto dei diritti umani e civili deve essere necessariamente legato anche all’affermazione del diritto all’autodeterminazione, tanto del popolo israeliano quanto di quello palestinese.

È lecito dunque chiedersi in quale direzione sono chiamati a investire le proprie energie quanti non hanno abbandonato l’idea che ci sia ancora spazio per l’affermazione di una modica quantità di giustizia.

Il riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese (includente la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza) da parte di tutti i paesi membri dell’Unione Europea (che è attualmente il principalepartner commerciale di Israele); l’implementazione di una più efficace politica di “differenziazione” tra Israele e il territorio occupato palestinese; l’imposizione di ferree sanzioni economiche e politiche nei riguardi di ogni attore, statale e non-statale, che si ponga in contrasto con il consenso internazionale: nessuna di queste politiche è di per sé in grado di portare all’affermazione di una pace sostenibile, ma ognuna di esse rappresenta un necessario passo in quella direzione.

L’alternativa è continuare a far finta che le annessioni selettive non proseguiranno e che milioni di esseri umani possano vivere per altri cinquant’anni senza diritti e senza un futuro: si tratterebbe dell’ennesimo assist in favore degli estremisti di tutte le parti in causa.

3188.- Cosa succede dopo il crollo della campagna occidentale di Haftar?

Da Mada Masr, 8 giugno 2020

Quattordici mesi dopo aver lanciato un assalto alla capitale libica di Tripoli, il maresciallo dell’esercito nazionale libico Khalifa Haftar è salito su un podio sabato al Cairo accanto al presidente Abdel Fattah al-Sisi e alla portavoce dei rappresentanti della Camera libica Aguila Saleh per annunciare che avrebbe accettare un cessate il fuoco sponsorizzato dall’Egitto e un’iniziativa per riavviare i colloqui politici nel conflitto di fazioni.

L’iniziativa del Cairo consiste in un cessate il fuoco militare e una proposta per un rinnovato processo politico che è emersa da un incontro di sabato tra Saleh, Haftar e diversi ambasciatori occidentali e arabi al Cairo. A seguito dell’incontro tra Haftar e Saleh, l’iniziativa del Cairo è stata portata a Sisi per l’approvazione, secondo un funzionario egiziano.

L’iniziativa, di cui Mada Masr ha esaminato una copia, sottolinea l’integrità e l’unità della Libia, l’impegno nei colloqui politici avviato e supervisionato dalle Nazioni Unite e avviato dalla conferenza di Berlino a gennaio, e un emendamento alla lunga controversia Articolo 8 dell’Accordo politico libico del 2015 che ha formato il governo di accordo nazionale, relativo alla supervisione di quest’ultimo sul futuro capo delle forze armate libiche.

L’iniziativa recentemente annunciata segna una nuova direzione nella gestione della crisi in Libia, dove Mosca, insieme al Cairo, ha iniziato a formulare un piano per compensare l’influenza di Haftar a seguito del crollo dell’offensiva occidentale dell’LNA.

Haftar, che è stato un alleato dell’Egitto, mercoledì è arrivato al Cairo in uno sforzo disperato per richiedere assistenza militare per combattere il GNA per il controllo territoriale nella Libia occidentale con il pretesto di combattere “gruppi terroristici sostenuti dalla Turchia”, secondo un altro funzionario egiziano informato sulla richiesta del maresciallo di campo, mentre il suo patchwork militare di ex ufficiali delle forze armate libiche, mercenari stranieri, milizie locali e islamisti era alle calcagna di Tripoli.

Tuttavia, il pubblico uno-a-uno che Haftar ha cercato con Sisi non si è mai materializzato, dato ciò che il funzionario egiziano descrive come una “frustrazione” di lunga data con Haftar nelle sale al Cairo, che aveva osservato l’assalto dell’LNA a Tripoli nell’aprile 2019 con il sostegno di Francia, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Russia con scetticismo fin dall’inizio. Invece, Haftar ha incontrato alti funzionari egiziani, secondo un secondo ufficiale egiziano.

La stessa mattina, le forze allineate con il governo dell’Accordo nazionale – l’organismo politico che Haftar ha ripetutamente tentato di estromettere – hanno preso il controllo del resto del sud di Tripoli, spingendo le frontiere alla periferia di Tarhouna, l’ultima tenuta dell’esercito nazionale libico dal suo territorio un tempo espansivo nella Libia occidentale.

La vittoria del GNA non fu incoronata a 180 km a nord-ovest di Tarhouna a Tripoli, dove si trova il governo, ma in Turchia, la cui fornitura di truppe siriane etnicamente turche sul terreno e attrezzature militari cambiò le sorti della guerra a favore del GNA. Fu in Turchia che Fayez al-Sarraj, il capo dell’autorità esecutiva della GNA, è partito giovedì mattina presto per incontrare il presidente turco Tayyip Erdogan per celebrare la sua vittoria.

“Abbiamo liberato completamente Tripoli e dintorni. In realtà, questo successo è la vittoria di tutti noi ”, ha detto Sarraj da un podio ad Ankara con Erdogan seduto nelle vicinanze.

Erdogan ha usato la conferenza stampa per annunciare che la Turchia e la Libia avrebbero portato avanti l’esplorazione e le trivellazioni petrolifere nel Mar Mediterraneo orientale, una clausola del protocollo di intesa delle due parti firmate a novembre che ha esteso la zona economica esclusiva della Turchia alle coste libiche.

Venerdì mattina, le forze allineate al GNA hanno preso il controllo completo di Tarhouna dopo che le forze di Haftar hanno orchestrato un completo ritiro ad est il giorno prima, secondo un ex ufficiale delle forze armate libiche di Bani Walid, che è ben informato della situazione all’interno di Tarhouna. L’offensiva occidentale di Haftar, lanciata con l’assalto a Tripoli nell’aprile 2019, era completamente crollata in meno di due settimane e ne ha visto la scena finale dispiegarsi dal Cairo. Da allora il GNA ha annunciato che si mobiliterà per riprendere Jufrah nella Libia centrale e Sirte nella mezzaluna del petrolio.

La relativa facilità con cui è stato preso Tarhouna e il ritiro orchestrato dall’LNA non sembrava essere nelle carte nemmeno dopo la caduta della base aerea strategica di Wattiyah a metà maggio, quando l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti stavano già prendendo accordi per l’uscita di Haftar dal suo ruolo al centro dell’arena libica.

Un terzo e un quarto funzionario egiziano hanno detto a Mada Masr a maggio che qualsiasi cooperazione di sicurezza con il generale assediato sarebbe strettamente per gli interessi di sicurezza nazionale dell’Egitto. L’Egitto, hanno chiarito i funzionari, era intenzionato a prevenire un vuoto di potere nella parte orientale del paese, soprattutto date le preoccupazioni di sicurezza del Cairo sul confine occidentale poroso che condivide con la Libia.

A tal fine, la politica egiziana si concentrava su due obiettivi militari: impedire la caduta di Tarhouna continuando a fornire all’LNA informazioni di ricognizione militare e tenere le milizie lontane dall’est della Libia.

Ma al Cairo, c’era anche la consapevolezza che non era più al posto di guida. Oltre all’influenza della Turchia in Occidente, la Russia è emersa come il più importante sponsor straniero in Cirenaica, secondo Jalel Harchaoui, analista libico presso l’Istituto Clingendael a L’Aia.

“Gli aerei da guerra di fabbricazione russa apparsi il mese scorso a Jufrah, insieme ai quasi 3.000 mercenari russi ancora di stanza in Libia, sono semplicemente fondamentali per le fazioni anti-GNA a est”, afferma Harchaoui. “Quest’ultimo non può sopravvivere senza l’aiuto militare della Russia. All’interno del teatro libico, gli stati del Golfo e l’Egitto non sono in grado di fermare la Turchia. Questa situazione dà alla Russia un’enorme influenza, che Mosca ha tutte le intenzioni di usare ora nel regno politico “.

Un quinto funzionario egiziano disse a Mada Masr che all’epoca le speculazioni su un potenziale accordo tra Turchia e Russia significarono che il Cairo doveva aspettare per vedere quali saranno le sue prossime mosse. Secondo il quarto funzionario egiziano, negli ultimi giorni sono in corso comunicazioni tra Russia e Turchia, da una parte, e Turchia e Stati Uniti, dall’altra. Mentre il funzionario comprende che esiste un accordo tra Turchia e Russia sul fatto che le forze che combattono con il GNA non si sposteranno nella parte orientale del paese, l’Egitto ha anche raggiunto gli Stati Uniti per cercare di assicurare che esiste una linea che ha vinto essere attraversato.

“Ci saranno negoziati politici con l’Oriente, ma dobbiamo prendere Sirte e Juffra”, ha detto a Bloomberg il ministro degli Interni GNA Fathi Bashagha, suggerendo domenica che non ci saranno progressi più a est dopo che queste città saranno state catturate. “Dobbiamo impedire alla Russia di fondare basi a Sirte e Juffra”.

Domenica sera, Sarraj ha implicitamente respinto il cessate il fuoco del lunedì mattina proposto dall’iniziativa del Cairo quando ha chiamato il capo della sala operativa di Sirte-Jufrah, esortandolo a continuare l’offensiva per prendere le due città.

Consapevole dell’importanza della Russia nei negoziati, l’Egitto ha avviato una raffica di contatti diplomatici con i funzionari di Mosca nell’ultima settimana.

Martedì, il vice ministro degli Esteri e il rappresentante presidenziale speciale per il Medio Oriente e l’Africa Mikhail Bogdanov e l’ambasciatore egiziano in Russia, Ihab Nasr, si sono incontrati per discutere degli sviluppi in Libia.

E mercoledì il ministro degli Esteri Sameh Shoukry ha telefonato al ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Secondo il comunicato stampa del ministero degli Esteri russo, i funzionari “hanno ribadito le loro posizioni comuni sulla mancanza di alternative a una soluzione politica in Libia e hanno sottolineato la necessità della cessazione delle ostilità e della ripresa di colloqui significativi tra le parti libiche in conflitto . In tale contesto, i ministri hanno sostenuto un programma per superare la crisi in Libia, proposto dal presidente della Camera dei rappresentanti libica Aguila Saleh. Questo programma potrebbe diventare la base del dialogo intra-libico nel promuovere lo sviluppo del processo di Berlino. “

Secondo i resoconti di funzionari libici ed egiziani che hanno parlato con Mada Masr nelle ultime due settimane, la forma iniziale del “programma per superare la crisi in Libia” da parte della Russia e dell’Egitto sta iniziando a prendere forma.

Un pilastro chiave dei piani dell’Egitto e della Russia è una tabella di marcia politica presentata da Saleh, il capo della Camera dei rappresentanti con sede a Tobruk, che una volta era un forte sostenitore di Haftar ma ora sta lottando per un interesse più ampio nella scena politica e lo è muovendosi contro il generale. La tabella di marcia di Saleh è servita come base per l’iniziativa del Cairo.

La tabella di marcia di Saleh, incentrata sulla ristrutturazione e sull’elezione di un nuovo consiglio presidenziale di tre membri provenienti da ciascuna delle regioni storiche della Libia, che formerebbe un nuovo governo, è la componente più visibile di questo piano.

Tuttavia, “per tutti i sostenitori di Haftar, è stata presa la decisione che il generale di campo non è un forte leader politico e militare. Ma Haftar non verrà mandato fuori dalla porta prima di Sarraj. Haftar e Sarraj dovranno uscire insieme ”, afferma il quarto funzionario egiziano.

“Se i turchi trovassero necessario chiedere a Sarraj di ritirarsi come parte di un accordo politico che avrebbe portato via Haftar, allora lo avrebbero fatto e Sarraj non se ne sarebbe preoccupato”, dice una fonte politica libica vicino a Haftar.

Haftar non verrà immediatamente rimosso completamente dal quadro, ma rimarrà indefinitamente al Cairo sotto stretto monitoraggio mentre sta conducendo un piano per formare una struttura politica per l’est, secondo un ufficiale di alto rango LNA vicino al feldmaresciallo. Il terzo funzionario egiziano afferma che Haftar rimarrà al Cairo per almeno alcune settimane prima che dovrà trovare un posto dove andare in pensione.

Durante la visita di Saleh al Cairo lo scorso fine settimana, funzionari egiziani di alto rango lo hanno impressionato del fatto che avrebbe dovuto essere meno duro su Haftar, secondo il terzo funzionario egiziano, che aggiunge che, mentre il Cairo aveva sostenuto l’iniziativa di Saleh, i funzionari egiziani di alto rango hanno informato Saleh che ci dovrebbero essere “emendamenti”, senza specificare quali sarebbero tali “emendamenti”.

Un funzionario occidentale informato che ha parlato con Mada Masr a condizione di anonimato ha riconosciuto che il Regno Unito era in trattative con Saleh ma ha sollevato dubbi sul fatto che il parlamentare potesse facilitare una riconciliazione politica da solo.

Il secondo funzionario egiziano, che ha parlato con Mada Masr prima della visita di Saleh al Cairo lo scorso fine settimana, ha concordato con questo sentimento, affermando che Saleh non può essere un’alternativa a Haftar. “È troppo vecchio, non abbastanza anti-islamista”, ha detto il funzionario. “Con Haftar che lascia il quadro, il problema è ora come possiamo assicurarci che gli islamisti non dominino la Libia”.

Anche la Russia e l’Egitto stanno prendendo in considerazione la possibilità di ricorrere a un’altra componente chiave del tessuto politico libico per facilitare una struttura politica a margine di Haftar: la rete di sostenitori dell’ex sovrano Muammar Gheddafi.

Al fine di mettere insieme un blocco anti-islamista, afferma la fonte politica libica vicino ad Haftar, l’Egitto dovrà dipendere da ex figure del regime, molti dei quali vivono in Egitto e hanno forti legami con il governo egiziano. Il quarto funzionario egiziano riconosce che l’Egitto è aperto ad alcune ex figure del regime, anche se non è chiaro se possano assumere un ruolo guida.

In assenza di Haftar, i compiti di dirigere l’LNA saranno condivisi con un generale di spicco nell’est, secondo la seconda fonte di LNA e il terzo ufficiale egiziano. Tuttavia, non sembra esserci un accordo su chi prenderà il controllo dell’esercito orientale. Secondo la fonte dell’LNA, il maggiore generale Faraj Bughalia, un sostenitore del precedente regime, è uno dei nomi presi in considerazione per questa posizione, per paura di disimpegnare elementi del Gheddafi fedeli ad Haftar e alla Russia. Il funzionario egiziano afferma, tuttavia, che vengono presi in considerazione anche Abdel Razeq al-Nathuri, capo dello staff di Haftar, e Saqr Geroushi, il capo dell’aeronautica militare dell’LNA.

Haftar sta anche reclutando attivamente membri dell’ex regime per far parte della struttura politica orientale a seguito del crollo della sua campagna occidentale, secondo l’alto funzionario dell’LNA vicino a Haftar e una ex fonte del regime che ha parlato con Mada Masr.

Questo calcolo per l’Egitto sarebbe compatibile con il gioco a lungo termine della Russia su figure dell’ex regime. Mentre i mercenari schierati dalla Russia legati al presidente Vladimir Putin hanno aiutato l’LNA a riprendersi dalla battuta d’arresto della metà del 2019, la Russia ha costantemente mantenuto i contatti con più giocatori in Libia, inclusi i Gheddafisti. In precedenza avevano cercato di facilitare il contatto con il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, secondo un rapporto di Bloomberg a marzo.

“Un aspetto che conosciamo con certezza sul pensiero della Russia in Libia è il suo impegno a ripristinare politici, tecnocrati e ufficiali militari noti per la loro lealtà a Muammar Gheddafi”, afferma Harchaoui. “Queste correnti sono state più o meno trascurate da tutti gli altri diseredatori stranieri dal 2011. Ma l’Egitto le ha ospitate”.

Per Harchaoui, una svolta verso le reti di Gheddafi sarebbe un gradito contrappeso o addirittura una sostituzione del marchio politico altamente personalizzato di Haftar per la Russia.

“Il Cremlino è profondamente impegnato a garantire che Haftar eserciti sempre meno potere. Haft ha troppo stravagante per essere un cliente affidabile. Mosca è sempre stata profondamente scettica sulla decisione del maresciallo del 2019 di lanciare un assalto frontale a Tripoli. Assumendo una quantità eccessiva di rischio nell’ovest, Haftar fece sì che l’unica architettura di sicurezza ad est rischiasse il collasso. Gli Emirati Arabi Uniti hanno abbracciato l’avventura bellicosa di Haftar nell’aprile 2019, ma alla Russia non piace questo tipo di ingordigia super costosa. I russi sono realisti “, afferma Harchaoui. “Rafforzando i Gheddafisti e sfruttando le loro competenze, mentre negoziando continuamente con le fazioni pro-Haftar, il GNA e la Turchia, la Russia sa che può rafforzare la sua influenza nella Libia orientale in un modo unico e duraturo”.

“La Russia prevede di includere membri del precedente regime nel processo politico”, afferma un diplomatico straniero con base in Medio Oriente che ha familiarità con la gestione di Mosca del fascicolo libico. “Alcuni di loro hanno buone idee e possono far parte del futuro generale della Libia. La Russia ha parlato con loro come hanno parlato con tutti “.

La Russia sta anche dando uno spettacolo per farsi strada con il GNA. Il vicepresidente del Consiglio presidenziale del GNA Ahmed Maiteeq ha visitato Mosca a giovedì. Alla fine dell’incontro con i funzionari del ministero degli Esteri e della Difesa russo, Maiteeq ha detto ai giornalisti che il GNA ha piena fiducia che la Russia sarà un partner importante nella stabilità della Libia.

Il comunicato stampa del ministero degli Esteri russo sull’incontro con Maiteeq ha posto l’accento sul rilascio del GNA “il più presto possibile e senza condizioni preliminari” dei cittadini russi Maxim Shugaley e Samer Sueifan che sono stati arrestati a Tripoli nel maggio 2019 e accusati di gestire un troll russo fattoria che mira a influenzare le elezioni in Libia, il più presto possibile e senza condizioni preliminari.

“I cittadini russi che rimangono in prigione a Tripoli rappresentano il principale ostacolo al progresso della cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra i due paesi”, si legge nella nota.

Secondo il diplomatico straniero con base in Medio Oriente che ha familiarità con la politica della Libia in Russia, Mosca è fiduciosa che Sueifan e Shugaley saranno rilasciati presto, poiché i contatti della Russia con il GNA sono stati ampliati e ci sono colloqui paralleli con i funzionari turchi.

Il coordinamento in atto dell’Egitto con la Russia scuote le tradizionali alleanze che hanno dominato le dimensioni internazionali del conflitto libico. Ciò non significa che l’Egitto rinuncerà ai suoi legami esistenti, tuttavia.

“Ciò che è straordinario qui è quanto il calcolo dell’Egitto sia simile a quello della Russia in questo momento. In teoria, si potrebbe supporre che il Cairo imiti Abu Dhabi, che è stato il suo principale benefattore dal 2013. Ma non è affatto quello che sta succedendo da quando la Turchia è intervenuta apertamente in Libia “, afferma Harchaoui. “In Cirenaica, il Cairo ha a cuore l’effettiva stabilità in senso convenzionale e si sta dimostrando molto meno assolutista di Mohamed bin Zayed sul fascicolo libico. Questo non vuol dire affatto che gli Emirati Arabi Uniti siano fuori dal comune. I droni da combattimento degli Emirati Arabi Uniti hanno ancora effettuato attacchi aerei in Libia negli ultimi giorni. Inoltre, Abu Dhabi è un colosso finanziario sia a Mosca che al Cairo cercherà di soddisfare e soddisfare. Ma, ora che l’offensiva di Tripoli di Haftar è stata schiacciata, la sopravvivenza dell’LNA e di altre istituzioni in Cirenaica dipende davvero dall’impegno di Egitto e Russia. Gli Emirati Arabi Uniti, che potrebbero usare una pausa tattica, potrebbero dover accettare quella dinamica per ora. “

“Nel frattempo, la cooperazione russa ed egiziana per installare una nuova struttura di potere dovrà affrontare molte sfide.

Da un lato, secondo il primo ufficiale dell’LNA, il declino di Haftar ha aperto spazio al movimento federalista nell’est per guadagnare slancio e giudicare l’opinione pubblica. L’enfasi dell’iniziativa del Cairo sull’integrità della Libia sembra essere un rimprovero diretto ai timori di disintegrazione.

Ma la questione più grande riguarda il modo in cui le relazioni della Russia con la Turchia si incentreranno sulla politica relativa alle concessioni energetiche nel Mediterraneo orientale per l’Egitto.

Mentre Turchia e Russia hanno sostenuto le parti opposte del conflitto libico, hanno anche mostrato la volontà di cooperare in Libia, come hanno fatto in Siria.

Nonostante ci sia la possibilità di un impegno militare diretto tra le due parti, un ex ufficiale della marina turca dice a Mada Masr: “Abbiamo importanti legami economici. Collaboriamo nel settore energetico. Abbiamo una cooperazione in materia di sicurezza. Esiste una cooperazione nel settore della difesa. La Russia non lascerà andare tutto questo per Haftar. “
All’inizio di gennaio, le due parti hanno tenuto colloqui e hanno costretto tutte le parti in guerra ad aderire a un cessate il fuoco, con la Russia che esercitava pressioni ritirando le truppe Wagner dalle linee di fronte.

All’epoca, un funzionario egiziano espresse la preoccupazione che l’accordo potesse segnalare che la Russia aveva dato il via libera all’accordo di demarcazione delle frontiere marittime tra la Turchia e il GNA che avrebbe esteso la zona economica esclusiva della Turchia alle coste della Libia sulla base del fatto che ostacolerebbe i lavori sul gasdotto EastMed, la cui costruzione avrebbe influenzato negativamente il controllo della Russia sulla fornitura di gas all’Europa.

Il GNA e la Turchia hanno firmato un accordo sui confini marittimi nel Mar Mediterraneo a novembre insieme all’accordo che ha ampliato la sicurezza e la cooperazione militare che si sarebbero rivelati fondamentali nella capacità del GNA di respingere l’avanzata di Haftar. L’accordo ha esteso la ZEE marittima turca alle coste della Libia, attraversando diverse aree in cui Ankara è coinvolta in controversie sull’esplorazione energetica con altri paesi.

All’epoca, l’Egitto respinse l’accordo come “illegale”, e la Grecia, che è un avversario della Turchia a causa delle tensioni storiche a Cipro, ha affermato che un accordo del genere sarebbe geograficamente assurdo perché ignorava la presenza dell’isola greca di Creta tra le coste di Turchia e Libia.

Mappa della proposta pipeline EastMed Per gentile concessione: Consiglio europeo per le relazioni estere.

Mentre l’Egitto ha condannato esternamente l’accordo di novembre 2019 tra Turchia e GNA, i funzionari del ministero degli Esteri e del GIS stavano facendo pressioni sulla presidenza per una tranquilla accettazione dell’accordo, poiché avrebbe garantito all’Egitto una considerevole concessione marittima (vedi mappa sotto) in questi trattative marittime bloccate, secondo il terzo funzionario egiziano. Tuttavia, questa raccomandazione non è stata accolta dall’autorità esecutiva.

“Nei criteri che la Turchia utilizza per la delimitazione delle ZEE, l’Egitto avrà diritto a un enorme aumento nella sua ZEE, grande quasi quanto il territorio della Serbia”, dice a Mada Masr un ex diplomatico turco di alto rango.

Mappa delle richieste concorrenti della ZEE nel Mediterraneo

Tuttavia, l’aumento nella ZEE egiziana deve anche competere con il più ampio contesto politico nel Mediterraneo orientale, poiché sia la Turchia che l’Egitto si contendono il ruolo di centro energetico.

“I conflitti geopolitici stanno spingendo l’Egitto e la Turchia a competere tra loro per diventare l’hub del gas del Mediterraneo orientale”, afferma Walid Khadduri, un esperto di petrolio e gas. “La Turchia sta espandendo la sua influenza militare a livello regionale, al fine di mettere le mani sulle riserve di petrolio nelle aree che occupa militarmente, polarizzando ulteriormente una questione di idrocarburi in una polarizzazione geopolitica”.

L’Egitto ha investito un significativo capitale politico nel garantire un accordo di importazione con Israele che sarebbe un primo passo per trasformarsi in un hub energetico regionale. In base all’accordo, l’Egitto ha iniziato a importare gas naturale liquefatto da Israele che l’Egitto avrebbe poi esportato attraverso le sue attuali strutture di spedizione di GNL.

Erdogan sta già cercando di rafforzare la sua offerta di espellere l’Egitto da una posizione di supremazia anche al di fuori del campo di esplorazione al largo della costa libica. Secondo un diplomatico europeo, la Turchia ha discusso con l’Italia, rivale della Francia per influenza in Libia, su un accordo sul gas che utilizza il gasdotto Greenstream dell’ENI nella Libia occidentale.

Ciò minaccerebbe il piano dichiarato dell’Egitto di utilizzare le condotte dell’ENI in Libia. Secondo Khadduri, dopo la scoperta del mega giacimento di gas Zohr, l’Egitto dichiarò l’intenzione di “esportare gas in Europa attraverso un gasdotto che sarebbe passato da Zohr ai giacimenti di gas libici gestiti da ENI, che gestisce anche Zohr, e collegherebbe i campi offshore libici con una linea di gas offshore verso l’Italia “.

Quando il presidente francese Emmanuel Macron e al Sisi hanno parlato il 30 maggio, hanno affrontato l’espansione turca nel Mediterraneo, concordando sul fatto che la Turchia non dovrebbe essere in grado di controllare da sola la questione libica del gas, ha detto a Mada Masr un funzionario egiziano. Era un sentimento espresso anche dopo la caduta di Wattiyah, secondo il terzo funzionario egiziano, quando oltre la sicurezza delle frontiere, la preoccupazione dell’Egitto impediva alle forze GNA e alle truppe turche di raggiungere la mezzaluna petrolifera.

Traduzione libera di Mario Donnini

In tutto questo, la Farnesina dov’era?

3155.- Netanyahu sta pianificando l’annessione della Cisgiordania.

Sulla base del suo accordo con Gantz, Netanyahu sarà in grado di iniziare i piani di annessione della Cisgiordania il 1 ° luglio. Gli Stati Uniti richiederanno a Israele di attuare anche le parti meno favorevoli del piano di Medio Oriente di Trump, e quali sono le conseguenze e cosa significa per i palestinesi?

Cosa significa esattamente “annessione” ?

In generale, il termine “annessione” o “applicazione della sovranità” è una dichiarazione secondo cui i territori definiti come occupati dal diritto internazionale diventano parte integrante del territorio dello stato che lo annette, soprattutto in termini di legge, giurisdizione e amministrazione applicabili a loro. Questo sostituisce la regola militare (“occupazione belligerante”, per dargli il titolo ufficiale) che si applica in base al diritto internazionale ai territori occupati

Golan. Israeli tanks are seen near the Israel-Syria border. 

Questo di solito si riferisce a un passo unilaterale compiuto dalla potenza occupante, non a un passo raggiunto attraverso negoziati e accordi di pace con la parte occupata. Ad esempio, è così che lo Stato di Israele ha annesso le alture del Golan e Gerusalemme est, attraverso mosse unilaterali accompagnate da decisioni del governo e dalla legislazione della Knesset.

La stragrande maggioranza della comunità internazionale non ha mai riconosciuto queste mosse, fino a quando l’attuale amministrazione degli Stati Uniti guidata dal presidente Donald Trump ha cambiato la politica americana sulla questione e ha riconosciuto la sovranità israeliana sia sul Golan che su Gerusalemme. Tuttavia, Trump ha sottolineato che questo riconoscimento non preclude future negoziazioni sul destino di questi territori.

Ora Netanyahu vuole dichiarare – con il sostegno degli Stati Uniti – la sovranità israeliana su tutti gli insediamenti ebraici stabiliti in Cisgiordania dal 1967, compresa la Valle del Giordano. Ha dichiarato la sua intenzione di farlo diverse volte nelle ultime tre campagne elettorali. Inizialmente, si concentrò sull’annessione della Valle del Giordano, ma in seguito iniziò a promettere l’annessione di tutti gli insediamenti in Cisgiordania, in conformità con il piano Trump Mideast pubblicato alla fine di gennaio.

Israel’s annexation plans

Quali aree possono essere annesse nell’ambito del piano Trump?

Sulla carta, il piano Trump si basa sulla soluzione a due stati e delinea un futuro lontano in cui ci sarà uno stato palestinese accanto allo Stato di Israele. Ma in termini di territorio su cui questo stato palestinese sarebbe stabilito, propone il territorio più limitato e non contiguo mai offerto ai palestinesi dalla comunità internazionale. Il principio guida dell’amministrazione, secondo Trump, è che “nessun palestinese o israeliano verrà sradicato dalle loro case”. Di conseguenza, la mappa che accompagna il piano consente a Israele di annettere tutti gli insediamenti esistenti, oltre alle aree circostanti e alle strade di accesso.

Prossimamente ci occuperemo di questi temi:

  1. Una piccola clausola negli accordi della coalizione di Netanyahu rivela la verità sull’annessione israeliana
  2. L’UE discute delle sanzioni contro l’annessione israeliana che non richiedono consenso

Secondo l’amministrazione statunitense, Israele avrebbe annesso circa il 30 percento della Cisgiordania. Tuttavia, sulla base delle mappe presentate da Netanyahu e dall’amministrazione, gli esperti stimano che in realtà si tratterebbe del 20 percento. Questo si aggiunge allo “scambio di territori e popolazioni” che appare nel piano nell’area del Negev e della Galilea, noto come Il Triangolo. Tuttavia, non è chiaro se questi rimarranno nel piano dopo essere stati così ampiamente condannati a gennaio.

È importante ricordare che una mappa finale e dettagliata non è ancora stata pubblicata. L’amministrazione ha istituito un comitato israelo-americano congiunto, che ha lavorato sin dal rilascio del piano per tracciare confini più precisi. Secondo alti funzionari degli Stati Uniti, quella mappa è quasi pronta.

Inoltre, prima della pubblicazione del piano Trump, lo scorso anno il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato che gli Stati Uniti non definiscono più gli insediamenti come una violazione del diritto internazionale e che Israele è libero di definire il loro status giuridico e gli Stati Uniti lo riconoscerebbero.

L’annessione è condizionata all’accettazione da parte di Israele dell’intero piano, compreso uno stato palestinese?

Secondo il piano Trump stesso e alti funzionari statunitensi, tra cui Pompeo, l’annessione israeliana dipende dall’accettazione dell’intero piano, in particolare dal suo accordo di condurre negoziati diretti con i palestinesi per almeno quattro anni. Durante questo periodo, a Israele viene chiesto di congelare tutte le costruzioni e le demolizioni nel territorio destinato allo stato palestinese, nonché possibilmente in altre aree. Il piano include anche l’istituzione di una capitale palestinese nei quartieri di Gerusalemme est e il rilascio di prigionieri palestinesi.

Tutte queste clausole si oppongono con veemenza alla leadership dei coloni, che vede il piano come un compromesso significativo sulla sua visione del “Grande Israele”. Sta deliberando se sostenere l’annessione nella speranza che il resto non giunga mai a buon fine. Il piano include anche un lungo elenco di condizioni che i palestinesi dovranno soddisfare. Come ha affermato l’ambasciatore americano David Friedman, ci sarebbe solo uno stato palestinese “quando i palestinesi diventassero canadesi”.

Tuttavia, mentre l’amministrazione degli Stati Uniti ha ripetutamente sottolineato che Israele deve accettare l’intero piano per poter procedere all’annessione, il comitato che stabilisce i confini per l’annessione ha già svolto molto lavoro. In altre parole, vedendo la questione dal lato pratico, sia Israele che gli Stati Uniti si stanno preparando a realizzare un’annessione unilaterale. L’argomento è che, dal momento che questi territori saranno comunque israeliani in futuro secondo il piano di Trump e che i palestinesi non sono interessati ai negoziati, non vi è alcun impedimento ad anticipare l’annessione dei territori.

U.S. President Donald Trump and Prime Minister Benjamin Netanyahu delivering joint remarks on the Trump Middle East peace plan proposal in the White House, Washington, January 28, 2020.

Tuttavia, l’amministrazione si è espressa con voci contrastanti su questo tema. Il genero di Trump e consulente senior, Jared Kushner, che ha guidato la squadra che ha formulato il piano, tende a diffondere messaggi tranquillizzanti al mondo arabo e, cioè, che il piano è un pezzo unico. Contemporaneamente, Friedman pubblica messaggi rassicuranti alla destra israeliana secondo cui l’annessione può avvenire separatamente.

Quando accadrà?

Di recente gli americani hanno dichiarato di essere pronti acciocché l’annessione avvenga “entro poche settimane”. In base all’accordo di coalizione tra Likud e Kahol Lavan, il 1 ° luglio – che significa tra un mese – Netanyahu sarà in grado di “portare l’accordo raggiunto con gli Stati Uniti sulla questione dell’applicazione della sovranità a un dibattito nel gabinetto di sicurezza e nel pieno gabinetto e per l’approvazione del gabinetto e / o della Knesset. ” Lunedì, Netanyahu ha detto a una riunione della fazione Knesset di Likud, in risposta a una domanda di MK, che “la data obiettivo per iniziare l’annessione è il 1 luglio e non intendiamo cambiarla”. Ha aggiunto che “questa è un’opportunità da non perdere.”

D’altro canto, in tutti gli accordi di coalizione, la sostanza dell’accordo esatto da sottoporre all’approvazione del gabinetto è deliberatamente vaga. I partner della coalizione sono totalmente subordinati a qualsiasi accordo raggiunto da Netanyahu con l’amministrazione degli Stati Uniti, sia che si tratti dell’annessione, del ritardo dell’annessione o dell’annessione parziale o graduale. In altre parole, non è ancora chiaro come Netanyahu abbia intenzione di presentare e attuare il processo.

A Palestinian demonstrator holding a poster decrying U.S. President Donald Trump in the Jordan Valley, West Bank, February 25, 2020.

Quali potrebbero essere le conseguenze dell’annessionedella Cisgiordania?

Dal 1967, Israele ha intrapreso molte azioni in Cisgiordania che si possono considerare come un’ “annessione strisciante” o “annessione di fatto” – ad esempio l’espansione di insediamenti e avamposti e il loro collegamento con Israele mediante infrastrutture, insieme a restrizioni e demolizioni delle costruzioni palestinesi nell’area C (il 60 percento della Cisgiordania sotto il controllo militare israeliano). La mossa in discussione fornirebbe un quadro giuridico per la realtà sul campo, rendendola “de jure”, ma la amplificherebbe anche.

Innanzitutto, sarebbe possibile sostituire l’amministrazione militare con la legge e l’amministrazione israeliane. In linea di principio, oggi l’esercito è la massima autorità legale nei territori occupati, rispondendo al Ministero della Difesa. Ciò è in parte fatto attraverso le leggi che esistevano nell’area prima dell’occupazione israeliana. Tuttavia, come parte della stessa “annessione strisciante”, la legge israeliana si applica sostanzialmente già ai coloni stessi (ma non ai palestinesi che vivono nelle stesse aree). È possibile che l’annessione israeliana fornisca una base legale per la situazione esistente, in cui esistono sistemi legali separati per israeliani e palestinesi, ma potrebbe anche includere l’applicazione della legge israeliana in molte aree in cui vivono attualmente i palestinesi. Il loro numero dipenderà dalla mappa finale.

Quest’ultimo scenario solleva alcune difficili domande sullo status di questi palestinesi. Israele concederebbe loro la cittadinanza? Potrebbero esserci conseguenze anche per i proprietari palestinesi di terre annesse, che potrebbero perdere la proprietà privata. Secondo Shaul Arieli, si tratterebbe del 23 percento della terra annessa.

Un altro problema è costituito dalla Legge di base sui referendum, in base alla quale la consegna di terreni soggetti alla legge israeliana richiederebbe la maggioranza della Knesset di 80 legislatori o un referendum pubblico. Fino ad ora, la Cisgiordania non era inclusa in quella legge poiché la legge israeliana non si applica ufficialmente lì. Applicare la legge israeliana a tutta o parte della Cisgiordania renderebbe molto difficile fare future concessioni come parte degli accordi di pace, se mai ce ne fossero.

Per queste e altre ragioni, la sinistra sta avvertendo che l’annessione avrebbe sostanzialmente seppellito la soluzione a due stati (portata avanti dall’alto rappresentante dell’Ue Mogherini. ndr) e avrebbe portato a ottenere un unico stato, che avrebbe messo in pericolo l’identità ebraica dello Stato di Israele o si sarebbe tradotto, ufficializzandolo, in un regime di apartheid, con un sistema legale discriminatorio per i palestinesi.

In che modo il mondo ha risposto alla possibile annessione israeliana?

Quando il piano di Trump fu pubblicato, la maggior parte del mondo inizialmente sostenne in linea di principio l’idea di riportare le due parti al tavolo dei negoziati. Ma poco dopo, quando le dichiarazioni israeliane sull’annessione hanno guadagnato terreno, la maggior parte dei paesi ha espresso una forte opposizione a qualsiasi mossa unilaterale – e questa è la linea di pensiero prevalente nell’arena internazionale al momento. La maggior parte dei paesi ha notato che l’annessione unilaterale israeliana sarebbe una violazione del diritto internazionale e costituirebbe la fine della soluzione a due stati e con essa la prospettiva dell’autodeterminazione nazionale palestinese.

A map showing the Jordan Valley annexation plan.

L’Unione europea sta guidando l’opposizione globale su questo tema, insieme alla Giordania, che subirebbe danni concreti dall’annessione della Valle del Giordano. La maggior parte dei paesi del mondo musulmano è al fianco della Giordania e dei palestinesi. All’inizio di questo mese, dopo la formazione del nuovo governo israeliano, gli Stati membri dell’UE hanno iniziato a discutere possibili sanzioni contro Israele nel caso in cui annettesse gli insediamenti.

L’Europa imporrebbe davvero sanzioni a Israele?

Come ogni decisione di politica estera dell’UE, la maggior parte delle sanzioni ufficiali nei confronti di Israele richiederebbe un consenso unanime tra i paesi membri. Negli ultimi anni, l’UE non è riuscita a raggiungere un consenso su quasi tutto, compreso il problema di Israele e dei palestinesi. Paesi come l’Ungheria e l’Austria, considerati vicini al governo Netanyahu, hanno ripetutamente bloccato risoluzioni e decisioni anti-Netanyahu.

Hungarian Prime Minister Viktor Orban speaking during a press conference in Budapest, January 9, 2020.

Ma ci sono passi punitivi che non richiedono un tale consenso: innanzitutto, cacciare Israele da accordi commerciali, sovvenzioni o iniziative di cooperazione. Queste sono le competenze della Commissione europea, non dei ministri degli esteri dell’UE. Esistono diversi accordi all’ordine del giorno nel campo della ricerca e dell’istruzione che potrebbero privare Israele di risorse accademiche e scientifiche se gli viene negata la partecipazione, anche se non ufficialmente come sanzione. Altre sanzioni potrebbero includere l’intensificazione della politica di differenziazione degli insediamenti, ad esempio contrassegnando i prodotti fabbricati negli insediamenti. Inoltre, ogni paese dell’UE può decidere di prendere le proprie misure contro Israele senza consultare altri paesi.

Tuttavia, il capo della politica estera dell’UE Josep Borrell ha ripetutamente sottolineato che il percorso verso le sanzioni ha ancora molta strada da percorrere. Le ruote a Bruxelles si muovono lentamente e diplomaticamente, per la convinzione che sia importante mantenere aperti i canali per Gerusalemme e preservarli da qualunque influenza sia possibile.

Cosa ha da dire Kahol Lavan su tutto questo?

Come notato, Kahol Lavan ha firmato l’accordo che consente a Netanyahu di presentare un piano di annessione per l’approvazione del gabinetto o Knesset. Si è anche impegnata a non interferire con i relativi processi legislativi nei comitati della Knesset. In questi giorni, il presidente del partito Benny Gantz e il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi sono stati attenti a esprimere il proprio sostegno al piano Trump nella sua interezza, e non alle misure unilaterali di annessione israeliana divorziate dalle altre componenti del piano.

US Secretary of State Mike Pompeo meeting with Foreign Minister Gabi Ashkenazi in Jerusalem, May 13, 2020.

Da Haaretz, 27 maggio 2020, traduzione libera di Mario Donnini

3154.- Mosca sulla Giordania: perché la Russia osserva con interesse l’Arena palestinese

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas cammina con il presidente russo Vladimir Putin presso il quartier generale dell’Autorità palestinese nella città di Betlemme in Cisgiordania, giovedì 23 gennaio 2020 (Credito: Alexander Nemenov, AP).

“Questa è una totale assurdità”, ha detto il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov all’agenzia di stampa Tass del suo paese in risposta alle voci di una proposta russa per un vertice di pace americano-palestinese. “Trovano ogni sorta di fantasmagoria. È ridicolo, è delirante Fanno finta di niente, fantasticano e poi mi attribuiscono che ho introdotto un qualche tipo di proposta: abbiamo solo una proposta: rispettare la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU sull’insediamento palestinese-israeliano, è tutto ciò che proponiamo “.

I rappresentanti del cosiddetto Quartetto sul processo di pace in Medio Oriente – Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite – si sono infatti riuniti venerdì per un incontro virtuale, ma per quanto si sa, non lo hanno fatto discutere un tale vertice per far avanzare il piano di pace del presidente Donald Trump. La Russia si oppone fermamente al piano, così come i palestinesi, che hanno annunciato che oltre a interrompere il coordinamento della sicurezza con Israele e cessare la cooperazione con Israele in tutte le altre sfere, stanno tagliando i legami con la Central Intelligence Agency statunitense. La portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova ha confermato che Bogdanov aveva parlato al telefono martedì con l’inviato speciale di Trump, Avi Berkowitz, ma ha detto che durante la chiamata “la Russia ha chiesto di rinnovare i colloqui diretti tra Israele e i palestinesi”.

D’altra parte, mercoledì, in una conversazione telefonica con il nuovo ministro degli Esteri israeliano, Gabi Ashkenazi, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il suo paese è pronto a svolgere un ruolo nel dialogo israelo-palestinese basato sul diritto internazionale, le decisioni del Quartetto e l’iniziativa di pace araba.
I palestinesi hanno una versione leggermente diversa. Secondo Munib al-Masri, un uomo d’affari palestinese della Cisgiordania e una figura pubblica di spicco, i palestinesi stanno esaminando la convocazione di un vertice internazionale a Mosca e i loro rappresentanti sono “in contatto con tutti i paesi del mondo e sperano che Mosca farà davvero il vertice possibile. Questa è una questione molto importante perché gli Stati Uniti hanno smesso di essere un broker onesto. “

Per anni, la Russia si è astenuta dall’affrontare la questione palestinese, nonostante sia stata membro del Quartetto per il Medio Oriente. Era chiaramente un’arena americana in cui Mosca non giocava un ruolo attivo. A marzo, alti funzionari russi hanno incontrato il capo dell’ala politica di Hamas, Ismail Haniyeh, che ha cercato assistenza russa nella promozione della riconciliazione palestinese interna tra Hamas, che controlla Gaza, e l’autorità palestinese dominata da Fatah in Cisgiordania. Ma finora le impronte digitali della Russia non si possono vedere su questo tema, tranne per i suoi sforzi per far avanzare uno scambio di prigionieri palestinesi e israeliani dispersi, una questione in cui anche altri paesi sono stati coinvolti e che finora non ha dato frutti.

Ora che un governo di unità è stato istituito in Israele, e alla luce della decisione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di andare avanti sull’annessione di porzioni della Cisgiordania a luglio, si è presentata una nuova opportunità per il coinvolgimento di Mosca. Se fino ad ora il governo israeliano aveva parlato con una sola voce dell’annessione, la Russia avrebbe apparentemente identificato un canale parallelo, tramite Ashkenazi e il suo collega del partito Kahol Lavan, il vice primo ministro Benny Gantz, che è anche ministro della difesa.
Un nuovo canale?
Gantz e Ashkenazi hanno ripetutamente affermato di appoggiare il piano di pace di Trump ma che (al momento) si oppongono a passi unilaterali che potrebbero innescare una violenta risposta palestinese e danneggiare irrevocabilmente i legami tra Israele e Giordania, oltre alle relazioni che Israele ha sviluppato con numero di paesi arabi.

La Russia ha espresso la sua ferma opposizione all’annessione pochi giorni fa in una dichiarazione del suo ministero degli Esteri: “La Russia ha ripetutamente messo in guardia i suoi partner israeliani dall’attuazione di piani unilaterali che contraddicono la base legale internazionale per un insediamento in Medio Oriente …. Tale espansionista le azioni di Israele provocheranno un pericoloso ciclo di violenza sulle terre palestinesi e destabilizzeranno la situazione generale in Medio Oriente “.

Mentre e in contrasto con l’Unione Europea, la Russia non ha minacciato o dettagliato le sanzioni che Israele potrebbe subire da Mosca in caso di annessione, il fatto stesso che la Russia abbia adottato una posizione pubblica così dura richiede che Israele consideri le implicazioni dell’annessione insieme e in relazione con Mosca. Questo, in particolare perché Mosca ha le carte in regola per consentire o interdire l’attività militare israeliana in Siria.

L’ipotesi di lavoro di Israele è che la Russia non creerà un collegamento tra le arene siriana e palestinese, perché in Siria, l’azione militare israeliana è al servizio dell’interesse russo a margine dell’Iran e garantisce la sopravvivenza del regime del presidente siriano Bashar al Assad.
Questa ipotesi è supportata anche dalla strategia tradizionale in cui, nei conflitti in Medio Oriente, la Russia ha sempre preferito che il suo coinvolgimento avvenisse in cooperazione con altri paesi, attraverso una coalizione di sostegno, piuttosto che agire unilateralmente.

Di conseguenza, in Libia, la Russia ha lavorato con l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, e in Siria ha collaborato con la Turchia e, in misura limitata, con l’Iran. In entrambe le zone di conflitto, la Russia sta approfittando dell’assenza degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, sta trovando nuovi posti da sfondare in Medio Oriente, anche in paesi chiaramente definiti come partner di Washington.
Di conseguenza, ha fatto sentire la sua influenza in Egitto, firmando un accordo per vendere al Cairo circa 20 caccia Sukhoi-35. È anche un partner di investimento con l’Arabia Saudita, nonostante la guerra petrolifera tra i due paesi.
La Russia sembra guardare all’arena palestinese come un obiettivo non tanto perché Mosca ha un così grande interesse nel risolvere il conflitto dei palestinesi con Israele, ma piuttosto perché è un’altra area in cui la massa degli americani sta affondando, e i palestinesi stanno guardando per un nuovo potente partner.
Chiunque spinga verso l’annessione israeliana in Cisgiordania dovrà tener conto del fatto che, al di là delle pressioni esercitate su Israele, un tale passo potrebbe condurre a una lotta tra le maggiori potenze – tra la Russia e l’Europa da un lato e gli Stati Uniti e Israele dall’altro. Questo non è esattamente il luogo caldo e accogliente in cui Israele vorrebbe essere.

Da Haaretz, 27 maggio 2020, traduzione libera di Mario Donnini

2808.- La politica americana in Medio Oriente è alla prova.

Washington può ancora imparare molto dalla Pax Romana, anche perché la sua politica estera è dettata dalla finanza e va al passo dell’elefante.

Tutte le forze straniere presenti in modo illegale in Siria saranno trattate come un’aggressione.

2020-01-01

Il viceministro siriano per gli affari esteri e i migranti, Faisal Al-Miqdad, ha affermato che qualsiasi presenza straniera illegale sul suolo siriano sarà trattata come un’aggressione e come un’occupazione del territorio siriano.

Al-Miqdad ha dichiarato martedì in una trasmissione alla Syrian News Agency (SANA): “Siamo sempre pronti a sacrificarci e a difendere i territori siriani. Siano terre arabe, palestinesi e siriane”.

Le dichiarazioni di Miqdad sono arrivate a margine del suo incontro con Ali Asghar Khaji, l’aiutante del ministro degli Esteri iraniano per gli affari politici speciali, che questa settimana visiterà la capitale siriana.

Il viceministro ha sottolineato che la Siria e l’Iran sono in guerra contro il terrorismo, invitando la comunità internazionale a schierarsi con loro in questa guerra, così come a stare contro i paesi che sono stati scoperti essere coinvolti nel sostenere il terrorismo.

Miqdad ha invitato i paesi stranieri a cessare il loro sostegno al terrorismo in Siria, “Compresi gli Stati Uniti d’America che cessino questo sostegno, che ha rivelato il suo orribile volto, soprattutto dopo la sanguinosa e inaccettabile aggressione americana contro le forze di mobilitazione popolare irachena, che sono uno degli strumenti dello stato iracheno nella lotta al terrorismo e il PMF dovrebbe essere sostenuto e non bombardato, ma queste sono le politiche americane ”.

L’attacco aereo americano ai Pasdaran

Cacciabombardieri F-15E appartenenti al 494th EFS dell’USAF rischierati in Giordania a Mwaffaq al-Salti hanno colpito il quartier generale, centro comando e deposito armi dei proxy Pasdaran KataibHezbollah ad AlQaim, nell’Iraq occidentale nei pressi del confine siriano.

I KataibHezbollah sono state fondamentali negli anni passati per il successo delle operazioni militari irachene contro Daesh che occupava gran parte del Nord del paese. Per Washington invece sono soltanto una milizia filo-Tehran.

Facciamo chiarezza. Innanzitutto le milizie iraniane hanno attaccato 20 volte le basi statunitensi in Iraq! L’ultimo attacco è costato la vita a un civile americano e diversi feriti! Dopodiché, gli Stati Uniti hanno colpito le basi delle milizie terroristiche che sono controllate dalla Repubblica islamica dell’Iran. I KataibHezbollah possono essere considerati e sono terroristi, come lo sono molti mercenari dei reparti irregolari turchi. Quindi, la discriminante fra combattente e terrorista non offre un confine sicuro e la verità è che le guerre, oggi, non si dichiarano e vengono combattute, per lo più, per procura. In Medio Oriente, gli Stati Uniti, Israele e i loro alleati combattono l’Iran e i suoi alleati, che, perciò, sono terroristi.

Lunedì il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiamato il Segretario di Stato americano Mike Pompeo per congratularsi con lui per gli attacchi aerei contro le milizie filo-iraniane

Una nuvola di fumo si alza dall’ambasciata americana a Baghdad mentre le forze americane tentano di disperdere i manifestanti.

2019-12-31

Centinaia di membri della milizia sciita irachena Kataib Hezbollah hanno fatto irruzione nell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad martedì, cantando “Death to America” ​​e dando fuoco al checkpoint di ingresso. Stavano protestando contro gli attacchi aerei statunitensi che hanno ucciso 25 dei loro membri durante il fine settimana, in quello che il Pentagono ha dichiarato essere una rappresaglia per l’attacco missilistico della scorsa settimana a una base americana a Kirkuk che ha ucciso un appaltatore.

La milizia si è ritirata dopo che una task force di circa 100 marines americani, accompagnata da elicotteri d’attacco, si è presentata per rafforzare l’ambasciata.

Estremisti sciiti guidati da Pasdaran iraniani e dai miliziani di KataibHezbollah hanno preso d’assalto l’ambasciata USA a Baghdad.Incendiate e sorpassate le mura esterne,ora stanno tentando di entrare nell’edificio principale.Contractor USA e militari Iraq barricati

Rapporto dell’incidente

Prosegue l’assedio, danneggiati almeno 2 edifici dedicati ai controlli di sicurezza interni al perimetro dell’ambasciata. Due elicotteri CH-47F CHINOOK ed altrettanti UH-60M BLACKHAWK dello Us Army hanno trasferito nuove aliquote di soldati a protezione dell’ambasciata ed evacuato personale. Presenti anche due elicotteri d’attacco AH-64E GUARDIAN in volo di “dissuasione” sull’area.

Finora, le truppe statunitensi hanno sparato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti filo-iraniani riuniti da mercoledì fuori dall’ambasciata americana a Baghdad.

Dozzine di miliziani e i loro sostenitori si sono accampati alle porte dell’ambasciata americana durante la notte. Martedì, decine di manifestanti hanno fatto irruzione nel complesso, danneggiando un’area di accoglienza e rompendo le finestre in uno dei peggiori attacchi all’ambasciata della memoria recente. I marines americani a guardia dell’ambasciata hanno sparato gas lacrimogeni quando sono arrivate più persone e dopo che i manifestanti hanno acceso un fuoco sul tetto dell’area di accoglienza.

I manifestanti hanno dato fuoco a un cancello, provocando un altro incendio e soldati americani sono stati visti sul tetto dell’edificio principale dell’ambasciata. La violazione dell’ambasciata ha fatto seguito agli attacchi aerei statunitensi di domenica che hanno ucciso 25 combattenti della milizia appoggiata dall’Iran in Iraq, il Kata’ib Hezbollah. Martedì le forze di sicurezza irachene non hanno fatto alcuno sforzo per fermare i manifestanti mentre marciavano verso la Zona Verde pesantemente fortificata dopo un funerale per le persone uccise negli attacchi aerei statunitensi, né sono intervenuti mercoledì mentre riprendevano le proteste e i bombardamenti.

Numerosi cittadini iracheni si sono radunati fuori dall’ambasciata americana nella Green Zone di Baghdad, per protestare contro gli ultimi attacchi aerei da parte dell’esercito americano nel paese.

Barzan Sadiq✔@BarzanSadiq · Dec 31, 2019

A fuoco il recinto esterno mentre altre centinaia di persone stanno giungendo da altri quartieri della capitale irachena. Le bandiere dell’Hezbollah sono state issate sui cancelli della rappresentanza diplomatica Usa.  Completamente assenti le forze di sicurezza irachene come già accaduto durante gli scontri di ieri.

Il prologo degli scontri è stato il raid statunitense condotto domenica scorsa contro cinque basi della milizia Kataib Hezbollah, al confine tra Iraq e Siria.

sostenitori di PMF Kataib Hezbollah cercano di assaltare l’ambasciata USA nel centro di Baghdad

L’Iran esorta gli Stati Uniti a riconsiderare le sue distruttive politiche regionali

Barzan Sadiq@BarzanSadiq · Dec 31, 2019

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Miliziani del PMF che cantano contro gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita di fronte all’ambasciata americana centrale Baghdad.

Barzan Sadiq@BarzanSadiq

#KataibHezbollah flag flying over #US embassy in #Baghdad.

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Allo stesso tempo, i manifestanti iracheni hanno preso d’assalto un posto militare americano nella Green Zone, dandogli fuoco. Inoltre, sono stati visti manifestanti mentre distruggevano le mura dell’ambasciata e mentre si avvicinavano alla missione diplomatica.

H. Sumeri@IraqiSecurity

Da quanto viene riferito, gli iracheni, che in precedenza hanno partecipato ai funerali delle persone uccise negli scioperi militari, stanno bruciando bandiere americane e gridando “Giù, sotto, USA” e “Morte in America”. Secondo i rapporti, molti manifestanti sono parenti di quelli uccisi dall’attacco degli Stati Uniti alle basi di Kata’eb Hezbollah in Siria e Iraq.

Circa 750 paracadutisti della 82a divisione aerotrasportata dell’esercito americano sono già in viaggio verso il Kuwait, e altri potrebbero presto seguirlo, dopo che l’ambasciata americana a Baghdad è stata presa d’assalto e quasi presa da arrabbiati miliziani iracheni.

Martedì sera è stato ordinato di schierare l’82a brigata di allerta, ha riferito Fox News, citando diversi funzionari del Pentagono, poco prima che il segretario alla Difesa Mark Esper confermasse l’ordine.

Segretario alla Difesa Dr. Mark T. Esper (@EsperDoD), 1 gennaio 2020:
La forza iniziale ha già lasciato Fort Bragg, nella Carolina del Nord, a bordo dei trasporti C-17.

“Gli Stati Uniti proteggeranno la nostra gente e gli interessi ovunque si trovino in tutto il mondo”, ha detto Esper, annunciando lo spiegamento, come abbiamo visto oggi a Baghdad.

  • La Forza di risposta immediata (IRF) è composta da circa 4.000 soldati dell’82a Brigata di pronto intervento (DRB), i cui tre battaglioni possono essere schierati entro 96 ore se necessario.

Ordine di battaglia della 1ª Brigata dell’82ª Divisione Aviotrasportata

82 ABD SSI.PNG

 82ª Divisione,  1ª Brigata :

  • Battaglione truppe speciali divisionale
    • 1º Battaglione, 504º Reggimento di fanteria paracadutista
    • 2º Battaglione, 504º Reggimento di fanteria paracadutista
    • 3º Squadrone, 73º Reggimento di cavalleria
    • 3º Battaglione, 319º Reggimento artiglieria da campo
    • 307º Battaglione di supporto
    • Battaglione truppe speciali della 1ª Brigata

L’Iran nega di avere un ruolo nella violenta protesta contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Bagdad e mette in guardia contro le ritorsioni.

Trump ha incolpato l’Iran per l’attacco all’ambasciata di martedì scorso e, in un tweet, ha avvertito che avrebbero “pagato un grande prezzo”. Il presidente ha detto che non era un avvertimento, ma “una minaccia”

Members the Iran-backed Shiite militia network Hashed al-Shaabi smash the bullet-proof glass of the U.S. embassy's windows in Baghdad after breaching the outer wall of the diplomatic mission, December 31, 2019
Membri della rete della milizia sciita appoggiata dall’Iran Hashed al-Shaabi sfondano il vetro a prova di proiettile delle finestre dell’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad dopo aver violato il muro esterno della missione diplomatica, dicembreAFP

L’Iran ha negato di essere il fomentatore delle violente proteste presso l’ambasciata degli Stati Uniti in Iraq, martedì e ha messo in guardia contro qualsiasi ritorsione, dopo che il presidente Donald Trump ha incolpato Teheran per l’attacco alla missione e ha affermato che sarebbe stata ritenuta responsabile.

“I funzionari americani hanno la strabiliante audacia di attribuire all’Iran le proteste del popolo iracheno contro l’uccisione selvaggia (di Washington) di almeno 25 iracheni …”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Abbas Mousavi in una dichiarazione pubblicata su un sito web del ministero. E, fin qui, non si può dargli torto; ma chi è il responsabile dell’uccisione del contreactor americano?

I manifestanti guidati da milizie appoggiate dall’Iran hanno espresso la loro rabbia per gli attacchi aerei statunitensi sulle basi della milizia in Iraq e Siria, hanno lanciato pietre e dato fuoco a un posto di sicurezza presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Baghdad.

Mousavi ha negato le accuse dei funzionari americani contro il suo paese, messo in guardia contro qualsiasi reazione sconsiderata o errore di calcolo da parte dei funzionari degli Stati Uniti e ha invitato la Casa Bianca a riconsiderare le sue politiche distruttive nella regione “, afferma la dichiarazione .

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Martedì in precedenza, Trump ha dichiarato in un post su Twitter: “L’Iran ha ucciso un appaltatore americano, ferendone molti. Abbiamo risposto con forza, e sempre lo faranno. Ora l’Iran sta orchestrando un attacco all’ambasciata degli Stati Uniti in Iraq. Sappiano che saranno ritenuti pienamente responsabili”.

Successivamente Trump ha twittato: “L’Iran sarà ritenuto pienamente responsabile delle vite perse o dei danni subiti in una qualsiasi delle nostre strutture. Pagheranno un PREZZO GRANDE! Questo non è un avvertimento, è una minaccia”.

I manifestanti pro Iran hanno iniziato a ritirarsi dalla US Embassy di Baghdad , oggi, giorno di Capodanno, a seguito di ordini dal gruppo di milizia sostenuto dall’Iran KataibHezbollah .

L’esercito arabo-siriano cattura nuove armi e missili di fabbricazione USA.

Durante la loro recente operazione nella zona sud-orientale di Idlib, le unità dell’esercito arabo siriano hanno scoperto grandi quantità di armi e munizioni di fabbricazione USA. lasciate nella zona da jihadisti sconfitti.

Un comandante di campo disse a SANA che durante le operazioni militari nei villaggi e nelle città nella campagna sud-orientale di Idlib, l’esercito trovò grandi quantità di armi e munizioni, tra cui artiglieria, missili TOW fabbricati negli Stati Uniti e i loro treppiedi di lancio, un grosso drone armato, quattro piccoli droni, fucili d’assalto e da cecchino, proiettili di artiglieria e mortaio e munizioni per mitragliatrici.


Il comandante ha detto che l’esercito ha anche trovato un veicolo di segnalazione militare per coordinare le comunicazioni che era stato fornito da un’organizzazione danese, oltre a un ospedale da campo contenente forniture mediche e chirurgiche di origine turca.


Questo è il secondo deposito di armi che l’esercito siriano ha sequestrato nelle ultime 48 ore.

2701.- Chi sono i “rifugiati fantasma” del deserto della Giordania e come ci sono rimasti intrappolati?

In 75.000, siriani, hanno uno scatolone di sabbia per rifugio dalla guerra alimentata in Siria dall’imperialismo finanziario.

Li chiamano “rifugiati fantasma”. Sono migliaia, intrappolati nella terra di nessuno dal lato siriano della frontiera con la Giordania, in un’area arida e remota che arriva a temperature di più di 50°.

I primi – svariate migliaia – arrivarono a Ruqban, al confine sud-est della Siria, nel Luglio del 2014. Fuggivano dall’avanzata dello Stato Islamico, soprattutto da Homs e Aleppo.
Ad oggi si stima che siano 75.000.

Il 7 Settembre 2016, l’organizzazione Human Rights Watch pubblicò un’immagine satellitare della zona:

Alla sinistra si vede la vasta area di tende dove si sono stabiliti i rifugiati, nel centro, insieme alla recinzione che sigilla il confine, altri sette nuclei di persone intorno ad altrettanti punti di distribuzione dell’acqua.
La zona nella quale si sono insediati viene, comunemente, denominata “The Berm” (terrapieno) , un promontorio nel bel mezzo del deserto.

Non è un campo per rifugiati

Il cimitero dei senza nome

L’area conosciuta come “The Berm” (il terrapieno), è chiamata così per le sue particolari barriere di sabbia, che delimitano una terra di nessuno lunga un miglio tra Siria e Giordania. L’area è costellata di basi militari, posti di blocco e pattuglie, insieme a vari gruppi armati siriani, alcuni dei quali si mescolano ai rifugiati.

The Berm” non è un campo profughi. Lì, la situazione è molto più critica rispetto ad un normale campo di rifugiati, dove le persone hanno a disposizione impianti, accesso ai pasti, acqua e assistenza sanitaria”. Così, spiegava alla BBC Mundo, Natalie Thurtle, responsabile del progetto di Medici senza Frontiere a “The Berm”.

Ma come sono rimaste “intrappolate” queste migliaia di rifugiati siriani in un luogo così remoto?

أطباء بلا حدود سوريا✔@MSF_Syria

Dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, l’area attorno al terrapieno è servita da porta di accesso alla salvezza in Giordania dall’implacabile violenza in Siria, ma il 21 Giugno 2016, un attacco suicida condotto con un’autobotte-bomba contro un posto di blocco dell’esercito giordano, vicino all’insediamento improvvisato, provocò sette morti. Il sedicente Stato Islamico rivendicò l’attacco.
In quel frangente, il governo di Amman assicurò che quell’incidente era una “chiara prova” che elementi dello Stato Islamico si nascondono tra la gente che arriva alle frontiere del paese.

Sono raccolti in una specie di zona cuscinetto, su una striscia di terra inospitale, perlopiù in territorio giordano, poco più a nord del confine giordano ufficiale. Ma quel confine è chiuso, il che impedisce agli aiuti di raggiungere questi disperati e allo stesso tempo non permette loro di cercare salvezza. Se si spostano, rischiano di essere respinti in Siria o di morire nel rigido deserto. Entrambe le opzioni sono moralmente intollerabili e completamente evitabili.

. L’inverno è alle porte. Che colpa hanno avuto i siriani?

Dall’inizio della guerra in Siria nel 2011, l’area attorno al terrapieno è servita da porta di accesso alla salvezza in Giordania dall’implacabile violenza in Siria. Ma il 21 giugno, la Giordania ha chiuso il suo confine settentrionale dopo un attentato con un’autobomba avvenuto lo stesso giorno presso una base militare vicina.

Per milioni di civili siriani intrappolati da cinque anni da una guerra instancabile, perfino l’assistenza più basilare è fuori portata, figuriamoci un rifugio. Ma per i 75.000 sfollati fermati alla desertica frontiera giordana con la Siria, la salvezza è a una manciata di chilometri. Perché allora sono stati a tutti gli effetti abbandonati?

Frontiera giordana chiusa

La Giordania difende la sua sicurezza. È la Siria che deve essere liberata.

Abbiamo una posizione ferma nella nostra guerra contro il terrorismo e speriamo che il mondo capisca la nostra decisione sovrana e appoggi la Giordania”, disse, in quell’occasione, il Ministro dell’Informazione giordano Mohammad al-Momani alla BBC.
Dopo l’attacco, la Giordania chiuse e dichiarò zona militare le frontiere del Nord e dell’Est.

Da allora, l’accesso all’area è limitato e gli aiuti umanitari arrivano con il contagocce. E le condizioni delle migliaia di rifugiati dall’altro lato della frontiera sono iniziate a peggiorare.

Non potendo attraversare la frontiera o tornare indietro, la situazione in cui si trovano queste donne, uomini e bambini, peggiora ogni giorno di più. Hanno un urgente bisogno di assistenza sanitaria”, dichiararono in un comunicato congiunto le agenzie d’aiuto umanitario delle Nazioni Unite, dopo la chiusura della frontiera. Le Nazioni Unite portarono viveri sufficienti per due mesi dall’altro lato della frontiera grazie a delle gru. I due mesi sono già passati e gli osservatori avvertono del crescente rischio di scarsità. Due mesi e son tre anni.

Le leggi internazionali indicano che chi fugge dalla guerra dovrebbe ricevere asilo e protezione. Tuttavia, le organizzazioni umanitarie non riescono a fare pressione per far sì che la Giordania riapra le frontiere. Non possono mettere in discussione il timore di quel paese per la sua sicurezza e si trovano in una situazione difficile. Mentre molti paesi occidentali si rifiutano di accogliere rifugiati, la Giordania ospita più di 650 mila siriani”. Così è stato scritto, ma ai signori della guerra poco importa.

Crisi umanitaria

Con i canali di comunicazione con l’esterno completamente tagliati, la situazione di questi “rifugiati fantasma” di Ruqban è drammatica.

Le immagini satellitari – uno degli strumenti che si utilizzano per cercare di monitorare l’evoluzione della crisi vista l’impossibilità di accedere all’area – mostrano che i punti di distribuzione d’acqua si trovano sul lato giordano, fuori dalla zona demilitarizzata, tra due promontori di sabbia.

Sembra che le famiglie siriane debbano caricare l’acqua dai punti di distribuzione fino alla zona demilitarizzata dove si trovano le loro tende”, scrisse HRW in un comunicato.

Anche la situazione sanitaria è precaria

Interi popoli non hanno diritto alla vita.

Oggi, con la frontiera ancora chiusa, la “crisi umanitaria” nell’accampamento di Ruqban sembra solo peggiorare. “Là, le persone possono ricevere la metà dell’acqua che dovrebbero avere in una situazione d’emergenza come questa. Non c’è nessun accesso di gruppi umanitari che possano provvedere all’assistenza medica. Gli è stato offerto assistenza base per bambini e madri tra il 15 e il 20 di Maggio e il 21 Giugno 2016. Da allora, non hanno accesso a quei servizi. Crediamo che vi possa essere qualche tipo di assistenza base molto limitata fra i rifugiati stessi che hanno formazione medica”.

2616.- La Russia esorta l’Arabia Saudita e l’Iran a evitare di trasformare la Siria nel luogo del loro confronto

AL TEMPO DI PUTIN

La Russia ha esortato l’Arabia Saudita e l’Iran a evitare di trasformare la Siria nel luogo del loro confronto. La Russia si è anche offerta di formare una organizzazione di sicurezza a protezione del Golfo Persico. Putin, dopo la vittoria in Siria, è favorevole al mantenimento della situazione attuale in Medio Oriente, disapprova le politiche espansive di Netanyahu e di Erdogan e si richiama al concetto di sicurezza collettiva, già richiamato da Trump, ma in chiave di contrapposizione con Russia e Iran. A quando un’altrettanta iniziativa per la Libia? Evidententemente, l’attuale difficoltà del contesto saudita, letta in un più vasto disegno per la regione, trascina gli eventi, ma non incontra il favore della Russia e dell’Egitto; ma quanto giova e a chi questa rinnovata contrapposizione fra Russia, Iran e NATO? E mi chiedo: Che ci fa la Russia fuori dall’Occidente? Siamo sicuri di stare puntando contro il vero avversario? Più chiaro ancora: Siamo sicuri che, sostenendo la politica di Netanyahu in Medio Oriente, facciamo l’interesse dell’Occidente? Sono domande, ma abbiamo visto cadere l’Iraq, la Libia, la Siria, l’Afghanistan e il Libano, che non si riconoscono. Forse è giunto il momento di mettere le carte in tavola.


Di News Desk -2019-10-030

La Russia esorta l’Iran e l’Arabia Saudita a non utilizzare il territorio siriano come luogo di scontro, giovedì il presidente Vladimir Putin lo ha riferito a una sessione del Valdai Discussion Club.

“Il confronto tra i paesi più grandi e influenti della regione non può che influenzare l’intera situazione in quella regione del globo, compresa la situazione in Siria”, ha sottolineato Putin.
“So che la leadership dell’Arabia Saudita, che visiterò a breve, e la leadership dell’Iran (restiamo in costante contatto con i colleghi iraniani, e ho incontrato il presidente iraniano in questi giorni) – vogliono la pace per il popolo siriano e auguragli ogni bene “, ha detto Putin.

“E noi li esortiamo a essere guidati da questi nobili motivi e facciamo ogni sforzo per non usare il territorio siriano come luogo di confronto”, ha sottolineato Putin.

Fonte: TASS

La Russia si è anche offerta di formare una organizzazione di sicurezza a protezione del Golfo Persico. A quando un’altrettanta iniziativa per la Libia?

Le Guardie della Rivoluzione

La Russia si offre di costituire un’organizzazione con la partecipazione di Russia, Stati Uniti, Stati dell’UE e altri paesi al fine di risolvere le questioni nel Golfo Persico, ha sottolineato giovedì il presidente russo Vladimir Putin durante la sessione plenaria del Valdai Discussion Club.

“Vorrei ricordare che seguendo questa logica, la Russia ha escogitato il concetto di garantire la sicurezza collettiva nel Golfo Persico nel luglio di quest’anno. Penso che tenendo conto della situazione instabile e imprevedibile nella regione, l’idea rimane attuale. Offriamo di mettere da parte le nostre differenze e rivendicazioni reciproche e di creare un’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione nella regione sostanzialmente da zero, che includa gli Stati del Golfo e che potrebbe coinvolgere Russia, Cina, Stati Uniti, UE, India e altri interessati afferma come osservatori “, ha detto.

Il 23 luglio, il ministero degli Esteri russo ha introdotto un concetto di sicurezza collettiva nella regione del Golfo Persico.

Il concetto include la formazione di un gruppo di iniziative per organizzare una conferenza internazionale sulla sicurezza e la cooperazione nell’area del Golfo Persico, che porterebbe alla creazione di un’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione nella regione. Inoltre, Mosca si offrì di stabilire zone demilitarizzate nella regione, abbandonare il dispiegamento permanente di unità di stati non regionali e istituire hotline militari.

In precedenza, durante una conferenza stampa congiunta sugli esiti dei colloqui con il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, il massimo diplomatico iraniano Mohammad Javad Zarif ha accolto con favore l’iniziativa russa. Ha aggiunto che l’Iran offre di creare una coalizione sulla sicurezza nel Golfo Persico, tra cui Iraq, Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman e Kuwait sotto l’egida delle Nazioni Unite.

2542.- Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

 

Da quasi quattro anni nello Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita: perché nessuno parla di questo conflitto così simile alla Siria?

Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

Nello Yemen è in corso una tragica guerra civile dove l’Arabia Sauditain modo diretto, oltre all’Iran in modo indiretto, gioca un ruolo determinante per questo conflitto che dura ormai dal 2015.

Se ci mettiamo poi che nel più che mai diviso territorio dello Yemen esistono anche zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida, ecco che allora lo scacchiere assomiglia sempre di più a quello della Siria.

L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando infinite sofferenze ai civili.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame, con un’epidemia di colera che soltanto negli ultimi tre mesi del 2017 ha provocato 2.000 morti. Ma perché l’Occidente e le Nazioni Unite tacciono di fronte a questa tragedia?

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L’Arabia Saudita e la guerra civile nello Yemen

Dopo una lunga divisione, nel 1990 lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud decidono di riunirsi in un unico stato, con San’a che diventa la nuova capitale. Presidente è Ali Abdullah Saleh, che all’epoca era alla guida del Nord fin dal lontano 1978.

A seguito nel 2012 delle rivolte nella parte meridionale del paese in quella Primavera araba che sconvolse molti paesi islamici, Saleh rassegna le sue dimissioni e al suo posto arriva il sunnita Abd Rabbuh Mansur Hadi, con il compito di guidare per due anni lo Yemen fino a nuove elezioni.

Visto il timore però che le elezioni sarebbero potute essere soltanto un miraggio e che il regno di Hadi potesse continuare invece per altri anni, nel febbraio 2015 il gruppo armato sciita degli Huthi, proveniente dal Nord del paese, conquista la capitale San’a e costringe alle dimissioni il presidente Hadi che si rifugia a Sud ad Aden, che così diventa una seconda capitale dello Yemen.

Da quel caos si arriva a un paese diviso in due: a Nord ci sono gli sciiti con il governo di Saleh nella capitale San’a, mentre a Sud nella città di Aden si è insediato il Presidente spodestato Hadi, l’unico riconosciuto dall’Occidente e dalle Nazioni Unite.

In tutto ciò Al-Qa’ida è riuscito a entrare in possesso di vaste zone nella parte orientale del paese, con anche l’Isis che si è stabilizzato in diversi villaggi facendo sentire la sua tragica voce con attentati fatti soprattutto contro gli sciiti di San’a.

Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita sunnita si mette a capo di una coalizione di paesi sunniti comprendente anche Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar.

Questa lega araba formata da nove paesi e capeggiata da Riyad inizia così un massiccio bombardamento in Yemen nei territori controllati al Nord dai ribelli Huthi, che da allora in pratica resistono a questo assedio con il supporto, paventato, soltanto dell’Iran ovvero il più grande stato sciita.

Il dramma dei civili

Lo stato di perenne assedio ha però fiaccato l’alleanza tra gli Huthi e il ras del Nord l’ex presidente Saleh. Quest’ultimo infatti, dopo aver cercato invano rifugio oltre confine, è stato catturato e ucciso dai ribelli fino a poco tempo fa suoi alleati.

Lo Yemen del Nord quindi ora è nel caos più totale ed è controllato dagli Huthi. Vista la debolezza creata dalla faida interna, sono aumentati i bombardamenti da parte della coalizione sunnita che sta aggravando ancora di più la situazione umanitaria.

Un conflitto che sta diventando sempre più cruento, visto che anche di recente ci sono stati violentissimi scontri tra lealisti e ribelli: 142 morti tra i militari dei due schieramenti, mentre 7 sono state le vittime civili.

Oltre ai militari uccisi, altissimo infatti è anche il bilancio delle vittime civili. Non sono soltanto le bombe saudite a fare strage di civili ma anche la fame(lo Yemen è lo stato più povero del Medio Oriente) e il colera.

Anche se da noi viene vista come una malattia ormai debellata, nello Yemensi parla di almeno 500.000 persone contagiate, con il colera che ha provocato soltanto negli ultimi tre mesi la morte di 2.000 persone.

Il blocco dei paesi arabi vicini imposto a San’a sta stritolando la popolazione del Nord, tra quella che sembrerebbe essere l’indifferenza generale anche delle Nazioni Unite che nulla hanno fatto finora per salvare la popolazione civile da questa atroce fine.

L’indifferenza dell’Occidente

Nel 2016 parlando della problematica situazione in Siria Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, dichiarò che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”.

Peccato però che per la guerra civile nello Yemen non sia stato rivolto lo stesso pensiero. L’Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti e, come se non bastasse, si è sempre opposta alla creazione di corridoi umanitari per permettere di inviare cibo e medicinali alla popolazione civile.

In pratica si starebbe utilizzando la fame e le epidemie come un’arma d’assedio, per convincere i ribelli Huthi a cedere visto che le bombe sganciate su San’a finora non hanno prodotto gli effetti sperati.

Immagine simbolo di questa tragedia è quella di Amal, bambina yemenita fotografata in un campo profughi dal premieo Pulitzer Tyler Hicks pochi giorni prima di morire per fame a soli sette anni.

Nicholas Ferrante, Money

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Amal Hussain, la bambina yemenita di 7 anni denutrita, è morta. Diritto alla vita negato.

Per ultimo c’è stata la tristemente famosa strage di bambini, con 43 morti e 60 feriti per un autobus che è stato colpito mentre si stava recando a un mercato situato nel Nord del paese, oltre al più recente bombardamento da parte dell’aviazione saudita di un ospedale di Save the Children che ha provocato 7 morti tra cui 4 bambini.

Il sentore è che la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.

Si può dire invece che tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, sia al contrario sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi.

Alessandro Cipolla