Archivi categoria: Sudan

6173.- Inferno nel Sudan, la peggior crisi umanitaria della storia recente

9 milioni di disperati.

La guerra civile del Sudan, scoppiata a seguito del colpo di Stato del generale Hemedti, è diventata la peggiore crisi umanitaria della storia recente, con 9 milioni di profughi.

Da La Nuova bussola Quotidiana, di Anna Bono,  22_03_2024Campo profughi in Chad

Il delirio di onnipotenza, l’ambizione sfrenata, l’insaziabile avidità di due uomini, due generali, hanno sprofondato il Sudan nella peggiore crisi umanitaria del mondo. Il generale Abdel Fattah al-Burhan è il comandante delle forze armate e il presidente del Consiglio superiore che ha assunto il potere dopo il colpo di stato militare del 2021. Ai suoi ordini ha 120mila militari. Il suo avversario è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti, che fino all’anno scorso era il suo vice. È il leader delle Forze di supporto rapido (FSR), un organismo paramilitare composto da circa 100mila combattenti. Lo scorso aprile le crescenti tensioni tra di due generali sono degenerate in conflitto armato. I combattimenti sono iniziati nella capitale Khartoum e nello stato occidentale del Darfur. Nei mesi successivi si sono estesi ad altre regioni.

Le conseguenze della guerra sono di portata apocalittica. Le perdite civili si contano ormai a decine di migliaia. I profughi sono almeno nove milioni, circa 1,7 milioni dei quali rifugiati nei paesi vicini, soprattutto in Ciad e nel Sudan del Sud. Circa 25 milioni di persone, più di metà della popolazione, hanno bisogno di assistenza. Già lo scorso febbraio la situazione era stata definita prossima al punto di non ritorno. “La guerra – aveva ammonito Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi – ha privato gli abitanti del paese quasi di tutto, la loro sicurezza, le loro case e i loro mezzi di sussistenza. Hanno bisogno di aiuto subito, con estrema urgenza o sarà una catastrofe”. Invece gli aiuti hanno tardato ad arrivare, fermati da continui ostacoli, e ancora non hanno raggiunto diverse parti del paese. Le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative hanno dovuto lottare con i funzionari di Port Sudan per ottenere i permessi di transito e soccorrere gli sfollati rifugiati nelle regioni per ora risparmiate dalla guerra. Solo da qualche giorno il governo ha consentito l’uso di tre aeroporti per far atterrare aerei carichi di aiuti e l’ingresso di soccorsi dal Ciad e dal Sudan del Sud. Aveva bloccato quelli dal Ciad sostenendo che gli Emirati Arabi Uniti si servivano dei convogli umanitari per fornire armi alle FSR. Questo ha lasciato senza assistenza gli abitanti del Darfur dove i combattimenti sono più intensi, milioni di persone. Come se non bastasse, a peggiorare la situazione contribuiscono i continui attacchi agli operatori e ai convogli per saccheggiarne i carichi.

All’inizio di marzo la situazione è precipitata. A causa della guerra la produzione agricola è crollata, milioni di persone sono senza raccolti e hanno perso tutto il bestiame. A questo si aggiungono i gravi danni alle infrastrutture, l’interruzione dei flussi commerciali, il vertiginoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. La prospettiva è la fame per milioni di persone: cinque milioni per il momento, ma il numero è destinato ad aumentare.

“Ormai siamo di fronte a uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente” ha dichiarato il direttore delle operazioni e della difesa dell’OCHA, Edem Wosornu, parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 marzo. Ma i contendenti non mostrano nessuna pietà per questa umanità esausta, disperata, tanto spietati da usare la fame come arma di guerra negando l’accesso agli aiuti. Nel corso dei mesi si è delineato un quadro raccapricciante di violenze inflitte senza risparmiare nessuno: torture, stupri di gruppo, attacchi indiscriminati in aree densamente abitate con conseguenti, inevitabili vittime civili e tutti gli altri orrori che caratterizzano le guerre in cui le violenze sui civili sono deliberate e non effetti collaterali dei combattimenti. Nel maggio del 2023 in una sola città, El Geneina, nel Darfur occidentale, da 10mila a 15mila persone di etnia Masalit sono state uccise dalle FSR. Sia i militari governativi che quelli delle FSR sono accusati di crimini di guerra e le FSR si ritiene siano responsabili anche di crimini contro l’umanità e pulizia etnica nel Darfur. 

Per dare sollievo alla popolazione, l’8 marzo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione proposta dalla Gran Bretagna che chiedeva ai contendenti di sospendere i combattimenti nel mese di Ramadan, che quest’anno è iniziato il 10 marzo. Sia al-Burham che Hemedti si sono dichiarati favorevoli a una tregua, ma in realtà finora non hanno deposto le armi neanche per un giorno e tutto fa pensare che non accetteranno presto di sedersi al tavolo delle trattative al quale da mesi si tenta di portarli. Del tutto indifferenti alle sofferenze e ai danni immensi provocati dalla loro guerra, non danno il minimo segnale di voler mettere fine alle ostilità se non con la completa sconfitta dell’avversario.   

Sembra che i soldati dell’esercito governativo per mesi non siano stati pagati, che molti, di entrambi i fronti, combattano in sandali, senza uniformi, il che provoca frequenti perdite da fuoco amico. Può darsi, ma le forze armate sudanesi sono uno degli eserciti africani più forti e le FSR sono ben armate e addestrate. Entrambi i generali inoltre continuano ad arruolare e addestrare nuove reclute e sembra che lo facciano su base etnica, una scelta molto allarmante perché la tribalizzazione dei conflitti in Africa accresce sempre la violenza degli scontri e rende più difficile raggiungere accordi di pace definitivi. Altrettanto preoccupanti, per l’esito della guerra, sono le interferenze esterne. La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza conteneva anche la raccomandazione ai governi di tutti i paesi di “astenersi da interferenze che cercano di fomentare lo scontro e di sostenere invece l’impegno per una pace duratura”.

La richiesta era rivolta agli Stati che stanno sostenendo i due generali e che in effetti, con i loro aiuti militari, deliberatamente contribuiscono a far sì che la guerra continui con conseguenze sempre più dolorose. I più potenti sostenitori del generale Hemedti sono gli Emirati Arabi Uniti e la Russia. Inoltre ha al suo fianco i mercenari russi della compagnia Wagner ai quali, in cambio, consente di sfruttare le miniere d’oro che controlla. L’alleato più forte del generale al-Burhan è l’Egitto. Di recente può contare anche sull’Iran che gli ha fornito armi e servizi di intelligence grazie ai quali ha lanciato una controffensiva dopo settimane di sconfitte e ha riconquistato la città gemella della capitale, Omdurman. Inoltre ha chiesto e ottenuto aiuto dall’Ucraina. I primi militari ucraini, principalmente dell’unità Tymur, sono arrivati in Sudan lo scorso anno in tempo per aiutarlo a lasciare la capitale, ormai circondata dalle FSR, e riparare a Port Sudan. 

A differenza di altri contesti, nei quali dei paesi stranieri, seppure motivati dall’interesse di stabilire rapporti economici e politici proficui, sono intervenuti a sostegno di governi e popoli africani minacciati da gruppi ribelli o jihadisti, in Sudan i militari russi e ucraini e gli Stati schierati su fronti opposti – Egitto, Yemen, Iran, Arabia Saudita, Qatar… – alimentano con il loro sostegno e le loro ingerenze una guerra voluta da due militari al solo scopo di sopraffare l’avversario. Ne approfittano, disposti a prolungarla e a renderla più cruenta – perché questo è il risultato – se serve a conquistare posizioni nel continente africano, incuranti delle conseguenze tanto quanto i generali Hemedti e al-Burhan.

5865.- Gabon. Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli USA

La Francia si auto esclude e ci danneggia

Ex colonia francese, governata dai Bongo dal 1967, il Gabon è un Paese produttore di petrolio, con la Total in prima fila. Tra le sue ricchezze anche il manganese, estratto dal gruppo parigino Eramet. Nel corso degli anni, la Francia ha sostenuto politicamente sia Omar Bongo che il figlio Ali . Il potere era gestito come un affare di famiglia e il malcontento della popolazione non era un mistero. Bongo avrebbe vinto in tre province su nove, quelle orientali, mentre nelle altre sei ha prevalso lo sfidante Albert Ondo Ossa. Per questo era prevedibile ciò che è successo. Un altra ribellione al sistema di potere neocolonialista di Parigi, che per questi popoli che vivono al di sotto della soglia di povertà si confonde con tutta l’Europa. Chi rivolge le sue preoccupazioni al futuro di Ali Bongo fa un favore a Putin.

Il Gabon è legato alle influenze cinesi nell’Africa Centrale e, infatti – cosa rara -, il governo cinese ha chiesto immediatamente ai golpisti di reintegrare Ali Bongo alla presidenza: “La Cina segue da vicino gli ultimi sviluppi in Gabon, invitiamo tutte le parti in Gabon di agire secondo gli interessi fondamentali del Paese e della gente, di risolvere le differenze attraverso il dialogo e ripristinare l’ordine normale il prima possibile e di garantire la sicurezza personale del presidente Bongo, al fine di sostenere la pace e la stabilità nazionali”.

Dopo il golpe, naturalmente antifrancese, il Gruppo Bollorè e il Gruppo parigino Eramet hanno sospeso le loro attività e decine di cargo, portaconteiner e petroliere sono all’ancora di fronte a Port-Gentil, principale porto del paese perché non possono attraccare. La Francia sta perdendo i suoi contatti, non mostra di voler passare il testimone, ma questo colpo di Stato militare è il quinto in tre anni nella regione. Come quello del Niger, destabilizza ancor più una regione dove gli interessi europei e di altre potenze la fanno da padrone su una popolazione estremamente povera e dove solo pochi detengono la maggioranza della ricchezza nazionale.

Chiunque sia a capo dell’immigrazione, è evidente che agli africani non basta emigrare. I governi e le organizzazioni internazionali hanno di fronte la folla e la sua festa, le sue grida di giubilo per la conquistata libertà da un regime che sembrava inossidabile, anche se a rovesciarlo sono stati la potente guardia presidenziale e l’esercito, quell che di fatto lo sostenevano.

Macron condanna il colpo di Stato, ma l’opposizione francese risponde: «Supporto incondizionato della Francia a un regime insopportabile: gli africani hanno voltato pagina»

francese, la missione in Gabon conta al momento 370 soldati dispiegati in modo permanente. Gli interessi economici, del resto, sono tanti ed evidenti. In Gabon opera, ad esempio, il gruppo minerario francese Eramet, attivo nell’estrazione del manganese (minerale essenziale, ad esempio, per la produzione di acciaio inossidabile). Il gigante, che ha sede a Parigi, ha dovuto annunciare nelle scorse ore uno stop delle operazioni: «In seguito agli ultimi avvenimenti in corso», il gruppo ha «messo fine» alle sue attività in Gabon e «monitora» la situazione per «proteggere la sicurezza del personale e l’integrità delle strutture», ha fatto sapere Eramet, che in Gabon conta 8 mila dipendenti. L’annuncio ha fatto crollare le azioni Eramet alla Borsa di Parigi, con un calo del 18,83% a 61,85 euro intorno alle 9.55.

Ma il Gabon basa la propria economia soprattutto sull’esportazione di prodotti fossili, dal gas naturale al petrolio, passando anche per il carbone. E qui, ancora, la Francia conta ancora diversi investimenti. TotalEnergies, compagnia petrolifera francese con sede a Parigi, è il principale distributore di prodotti petroliferi del Gabon, con 45 impianti e 350 dipendenti. Nelle ore seguenti il golpe, Total ha affermato di aver preso provvedimenti per garantire la sicurezza dei propri dipendenti e delle sue operazioni in Gabon. 

Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli USA

Da RAINews del 31 agosto 2023

Già “aiutante di campo” dell’ex presidente Omar Bongo, poi nominato dal figlio Ali capo d’intelligence della Garde républicaine, un corpo militare di elite: questo il curriculum essenziale del generale Brice Oligui Nguema, alla guida della giunta che ha preso il potere in Gabon. Dopo il golpe di ieri, l’ufficiale è stato portato in trionfo dalle truppe nella capitale Libreville

Il generale era stato molto vicino a Omar Bongo tra il 2004 e il 2009, l’anno della morte del presidente e dell’ascesa al potere del figlio. Secondo una ricostruzione dell’emittente radio France International, in quella fase di transizione Nguema era stato accusato di aver appoggiato un fallito tentativo di golpe contro Ali. Nel corso del processo, però, non era emersa alcuna responsabilità specifica. Nel 2020 il generale era stato invece toccato da un’inchiesta condotta dal gruppo Organized Crime and Corruption Reporting Project: stando all’indagine, l’ufficiale avrebbe diverse proprietà negli Stati Uniti, per un valore totale di un milione di dollari. Nel 2018, sempre secondo l’inchiesta, avrebbe pagato 447mila dollari in contanti per acquistare una proprietà nella città di Silver Spring, nel Maryland. A chi gli aveva chiesto l’origine di quei fondi, il generale aveva risposto: “Credo che anche in Francia o negli Stati Uniti la vita personale sia vita personale e dovrebbe essere rispettata”. 

Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli Usa
Già “aiutante di campo” dell’ex presidente Omar Bongo, poi nominato dal figlio ali capo d’intelligence della Garde républicaine, un corpo militare di elite: questo il curriculum essenziale del generale Brice Oligui Nguema, alla guida della giunta che ha preso il potere in Gabon. Dopo il golpe di ieri, l’ufficiale è stato portato in trionfo dalle truppe nella capitale Libreville.

Il generale era stato molto vicino a Omar Bongo tra il 2004 e il 2009, l’anno della morte del presidente e dell’ascesa al potere del figlio. Secondo una ricostruzione dell’emittente radio France International, in quella fase di transizione Nguema era stato accusato di aver appoggiato un fallito tentativo di golpe contro Ali. Nel corso del processo, però, non era emersa alcuna responsabilità specifica. Nel 2020 il generale era stato invece toccato da un’inchiesta condotta dal gruppo Organized Crime and Corruption Reporting Project: stando all’indagine, l’ufficiale avrebbe diverse proprietà negli Stati Uniti, per un valore totale di un milione di dollari. Nel 2018, sempre secondo l’inchiesta, avrebbe pagato 447mila dollari in contanti per acquistare una proprietà nella città di Silver Spring, nel Maryland. A chi gli aveva chiesto l’origine di quei fondi, il generale aveva risposto: “Credo che anche in Francia o negli Stati Uniti la vita personale sia vita personale e dovrebbe essere rispettata”.

L’Unione africana sospende il Gabon

Il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) si è riunito ieri per “esaminare la situazione in Gabon” e Il presidente della commissione Moussa Faki Mahamat ha annunciato di aver “sospeso immediatamente” il Gabon in seguito al colpo di stato militare. L’organismo (fondato il 9 luglio 2002 da Muammar al-Qaddafi) ha affermato su X che “condanna fermamente la presa del potere militare nella Repubblica del Gabon, che ha deposto il presidente Ali Bongo il 30 agosto 2023, e decide di sospendere immediatamente la partecipazione del Gabon a tutte le attività dell’Ua, dei suoi organi e istituzioni”. L’Unione Africana ha deciso di confermare le sanzioni ai danni di Sudan, Mali, Burkina Faso, Guinea e Niger, sospesi momentaneamente dell’Unione in quanto attanagliati dalle conseguenze dei colpi di stato messi in atto da giunte militari.

Mentre la Russia appoggia la missione militare della compagnia mercenaria Wagner in Mali, le bandiere russe sventolano nel Niger, l’Ue, con Borrell respinge qualsiasi presa di potere con la forza e l’Unione africana sospende il Gabon, come già il Mali, il Burkina Faso, il Sudan e il Niger; ma, in Gabon la folla esulta dopo il colpo di Stato che ha deposto il presidente eletto Ali Bongo

Golpe in Gabon, il generale Nguema giurerà lunedì, l'opposizione: "concludere spoglio dei voti"

Di fatto, dopo il Niger anche il Gabon “caccia” la Francia dal Paese, ex colonia francese. 

Ecowas preoccupata per il golpe: “Contagio autocratico”, ha condannato il golpe in Gabon esprimendo ”profonda preoccupazione per la stabilità sociopolitica  del Paese” e per il ”contagio autocratico che sembra diffondersi in diverse regioni del nostro amato continente”. Così il presidente della Nigeria Bola Ahmed Tinubu, attuale leader di Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale.

Bene Tajani: in Africa Ue lavori a diplomazia, no a uso armi 

“In Niger a in Gabon c’è una situazione di instabilità con una serie di golpe militari con un effetto domino. Chiediamo sempre una soluzione diplomatica in cui l’Europa sia presente ma mai dia l’idea di essere una nuova colonizzatrice. Abbiamo apprezzato le proposte di mediazione algerina. Un intervento militare creerebbe nuove complicazioni e aumenterebbe i flussi migratori. Sulle sanzioni in niger valuteremo ma serve una soluzione diplomatica che non appaia una scelta anti africana, serve sempre grande prudenza”. Lo afferma il ministro degli esteri, Antonio Tajani, arrivando alla riunione informale dei ministri degli esteri Ue. 

5737.- La Wagner in Africa.

Anzitutto cosa rappresenta per la Russia la Compagnia Wagner.

Quanto danno abbia portato il tradimento di Prigozhin lo vedremo, come anche vedremo quanti lo avessero appoggiato. Per ora, è stato annunciato l’arresto del gen. Surovikin e sappiamo che l’aereo di Yevgeny Prigozhin ha lasciato l’aeroporto di Machulishchy per Mosca e, poi, per San Pietroburgo. In effetti, Prigozhin potrebbe ancora negoziare e tradendo i suoi adepti potrebbe aver salva la vita. Potrebbe, ma, nello stile di Putin, non si concede una seconda opportunità ai traditori.

Sono decine di migliaia i mercenari che continueranno a essere impiegati in Africa,  dove la compagnia svolge attività in tredici diversi paesi, retribuita con risorse naturali come oro e pietre preziose. Per esempio, il Mali paga alla Wagner il corrispettivo di 10 milioni di dollari al mese. In Sudan,  nel settore delle risorse minerarie, la Wagner agisce attraverso la società M Invest di Yevgeny Prigojine e la sua controllata Meroe Gold, che si è trasferita in Sudan nel 2017 e lavora con Aswar, una società controllata dall’intelligence militare sudanese.  In Sudan, è esentata dal 2018 dalla tassa del 30% imposta dalla legge sudanese alle società aurifere. Nella Repubblica Centrafricana, ancora per esempio, Wagner è un partner privilegiato con 13 basi militari. Sua la difesa del governo del presidente Faustin-Archange Touderà, minacciato dai ribelli e da una guerra civile. Il contraccambio ha un accesso privilegiato alle miniere d’oro e di diamanti. Per la miniera di Ndassima il governo centrafricano ha istituito addirittura il divieto di sorvolo per i droni. Alcuni ministeri centrafricani sono controllati dalla Wagner. La Wagner è in Libia, Eritrea, Sudan, Algeria, Mali, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Guinea equatoriale, Repubblica Centrafricana, Madagascar, Mozambico e Zimbabwe.

La presenza radicata della Wagner in Africa è importante per Mosca e il ministro Lavrov si è affrettato a confermarla. Anche questo ha motivato Putin nell’accettare la trattativa fra Lukascenko e Prigozhin ed è e sarà, certamente, un problema per l’Italia, per l’Europa, in particolare, per il controllo del Mediterraneo allargato e per il Piano Mattei. In Russia, Prigozhin dovrà confrontarsi anche con il Consiglio del comandante di Wagner. Più analizziamo le situazioni, più ci chiediamo se la decisione di tenere la Russia fuori dalla NATO sia stata una scelta infelice.

5653.- La Wagner e l’oro del Sudan

Sudan, violata di nuovo la tregua: raid aerei e scontri nella notte a Karthum

AFP. Il fumo si leva in lontananza a Khartoum

In Sudan, l’ennesima tregua, forse la dodicesima in un mese, è stata violata e si spara ancora. I raid aerei e gli scontri, anche nella notte, impediscono l’ingresso di civili e aiuti umanitari a Karthum. Il ruolo della brigata Wagner” nella guerra e nel contrabbando. Torniamo in Sudan e sulla brigata Wagner perché parliamo di una guerra ai confini del Mediterraneo, della stabilità dell’Africa Orientale e del saccheggio senza fine dell’Africa. Mentre, Mosca affronta le sanzioni contrabbandando l’oro dei sudanesi, in questo momento “circa 15 milioni di persone vivono con meno di 2,15 dollari”, in pratica 1,96 euro al giorno.

L’oro sudanese motore dell’economia e del saccheggio

20 Aprile 2023

oro

di Tommaso Meo

 Il Sudan è il decimo maggiore produttore al mondo di oro e il terzo nel continente africano, dopo Ghana e Sudafrica, con cifre in aumento. All’inizio di quest’anno la Sudanese Mineral Resources Company, l’organismo statale che supervisiona il settore minerario del Paese, ha annunciato l’estrazione di 18 tonnellate e 637 chilogrammi di oro nel 2022. La società l’ha descritta come la più grande produzione di oro nella storia del settore minerario in Sudan. La produttività è aumentata esattamente di una tonnellata e 611 chilogrammi, rispetto alla produzione più alta dell’ultimo periodo, raggiunta nel 2019.

Un rapporto della Banca centrale del Sudan sul commercio estero afferma che l’oro è la principale merce di esportazione dal Sudan. Tuttavia la produzione è spesso guidata da attività minerarie non regolamentate e artigianali e il contrabbando di oro è routine. Si stima che tra il 50 e l’80% dell’oro del Sudan venga contrabbandato fuori dal paese. Dubai è la destinazione privilegiata di molto dell’oro sudanese, ufficiale o di contrabbando, ma anche la Russia gioca la sua parte in quello che è stato definito un vero e proprio “saccheggio”.

Un’inchiesta della Cnn del 2022 ha infatti collegato la compagnia russa Meroe Gold, attiva in Sudan, al gruppo paramilitare legato al Cremlino Wagner, scoprendo che contrabbandava l’oro, con l’aiuto dei militari, via terra nella Repubblica Centrafricana e tramite voli. Almeno 16 noti tra l’inizio del 2021 e la metà del 2022.

Prima dell’ultimo colpo di Stato militare, nell’ottobre 2021, il ministro delle Finanze Gibril Ibrahim ha stimato che solo il 20% della produzione di oro del Sudan è passato attraverso i canali ufficiali, mentre le informazioni della Banca centrale indicavano che quell’anno mancavano 32,7 tonnellate di oro all’appello. Secondo alcuni esperti la produzione di oro del Sudan, se considerata quella non ufficiale, sarebbe addirittura fino a dieci volte maggiore.

Per limitare l’esportazione illegale la Banca centrale del Sudan a marzo 2022 ha emesso una circolare alle banche e alle autorità collegate, vietando la vendita all’estero di oro da parte di agenzie governative e stranieri, individui e società, escluse le società di concessione che operano nel settore minerario.

La corsa all’oro in Sudan ha avuto grande impulso intorno al 2010 con la scoperta di diversi giacimenti nel Darfur settentrionale proprio nel momento in cui al Paese veniva a mancare il petrolio del sud, dopo l’indipendenza del Sud Sudan. In 8 anni, tra il 2009 e il 2017, la produzione d’oro del paese è passata da 15 a 107 tonnellate, secondo i dati della Banca del Sudan. Nel settembre 2012 l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir apriva la prima raffineria d’oro del Paese.

Negli anni successivi sull’oro hanno messo gli occhi e poi le mani in tanti, soprattutto tra militari e paramilitari. In particolare Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, il leadere delle Forze di supporto rapido (Rsf), controlla dal 2017 con i suoi sodali alcune delle più redditizie miniere del Sudan. “Attraverso l’oro”, scrive la Bbc, “è arrivato a controllare il più grande ‘budget politico’ del Sudan: denaro che può essere speso per la sicurezza privata o qualsiasi attività, senza bisogno di rendere conto”.

5583.- Le mani di Mosca su Port Sudan e il ruolo della brigata Wagner

Mentre la tregua di 72 ore mediata da Washington e Riad prosegue a intermittenza e supera il secondo giorno, i miliziani occupano un laboratorio biologico nella capitale Khartoum che custodisce agenti patogeni micidiali come, polio, colera e morbillo, che, a detta dell’Oms, potrebbero causare danni catastrofici. Si tratta del laboratorio biologico centrale pubblico, l’ennesimo sparso nel mondo.

IL LIMITE IGNOTO. Il Cremlino nella crisi sudanese

Le mani di Mosca su Port Sudan e il ruolo della brigata Wagner

Una nave da guerra russa ancorata a Port Sudan – Ap

Nuovo!

Sabato Angieri

In questi giorni sentiamo spesso ripetere che la guerra civile in Sudan è caratterizzata da un forte coinvolgimento della compagnia di mercenari russa Wagner. Ma quanto c’è di vero in tale affermazione e quali sono gli interessi russi nell’area?
Le questioni principali sono due: la presenza della Wagner e la base di Port Sudan. Mosca cerca da anni di ottenere i diritti di base a Port Sudan per costruire un’infrastruttura commerciale e una darsena per un distaccamento della sua marina militare. Port Sudan si trova sul Mar Rosso, al centro della lunga costa sudanese, in posizione strategica rispetto alla tratta che dal Corno d’Africa conduce allo stretto di Suez e potrebbe dare al Cremlino un’importante presenza navale in questa zona e, per estensione, nell’Oceano Indiano. Durante una visita alla capitale sudanese Khartoum lo scorso febbraio, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha discusso della base con i leader sudanesi e ha espresso la volontà del suo Paese di completare il progetto entro la fine del 2023, stando a quanto si apprende da uno dei leak di intelligence statunitensi apparsi in rete tramite la piattaforma Discord. Tuttavia, oltre alle indiscrezioni, il rapporto tra il Sudan e la Russia è abbastanza solido e in costante ascesa.

In un’intervista rilasciata al Washington Post, Suliman Baldo, fondatore di Sudan Transparency and Policy Tracker, ha dichiarato che i mercenari della Wagner sono presenti in Sudan dal 2017 per fornire addestramento militare alle forze locali. I servizi della compagnia sono stati offerti sia all’esercito regolare guidato da Al-Burhan, sia alle Forze di supporto rapido (Rsf) di Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemedti, a quel tempo alleate. Oltre agli aspetti commerciali, soprattutto nel ramo delle estrazioni aurifere e del commercio illegale di armi, la Wagner avrebbe funzionato come testa di ponte tra il Cremlino e i governi golpisti del Sudan per perorare gli interessi russi. Anche perché, nell’area, la compagnia di Evgenij Prigozhin ha un ruolo molto importante anche in Libia, dove è alleata del generale Khalifa Haftar, tra i protagonisti del caos scoppiato nel Paese dopo la deposizione violenta di Gheddafi. E, per chiudere il cerchio, si ritiene che Haftar ed Hemedti abbiano collaborato assiduamente negli ultimi anni, spesso utilizzando proprio il tramite della Wagner. Quindi la Russia al momento propenderebbe per l’Rsf.

Tuttavia, il Cremlino teme che l’instabilità nel Paese possa far arenare il progetto della base di Port Sudan e, infatti, si chiede chi appoggiare. Al momento l’Rsf appare militarmente più debole e una sua sconfitta potrebbe precludere ai russi la possibilità di allargare la propria influenza in Africa.

5573.- Dal Sudan, la minaccia alla stabilità dell’Africa orientale

Il Sudan è uno Stato araboafricano, che confina con l’Egitto a nord, con il Mar Rosso a nord-est, con l’Eritrea e l’Etiopia ad est, con il Sudan del Sud a sud, con la Repubblica Centrafricana a sud-ovest, con il Ciad a ovest e con la Libia a nord-ovest. Crisi e conflitti mai risolti si moltiplicano sulle sponde del Mediterraneo: in Tunisia, in Libia, in Israele, in Siria, nel Nord Yemen (gli houthi) e nel Sahel, fino alla ripresa della guerra civile in Sudan.

In Sudan si combatte dal 16 aprile tra le Forze di Supporto Rapido (Rsf, note anche come i diavoli a cavallo) e l’esercito governativo. Lo scontro è sul processo di democratizzazione e sull’integrazione delle Rsf nell’esercito, oltre che sulla richiesta di giustizia per le 125 vittime del precedente golpe. Tensione in tutta la regione malgrado gli appelli alla tregua dell’Egitto e del Sudan del Sud.

Sembrava che l’esercito sudanese avesse accettato la tregua di tre giorni offerta dalle RSF in occasione della fine del Ramadan, ma la tregua è durata poche ore e le Rsf sono state attaccate a Omdurman. Il generale Abdel Fattah al-Burhan,  Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, quindi, capo dello Stato e delle forze armate, ha dichiarato che non aveva ricevuto la proposta di tregua. Le Rsf sono state attaccate anche dall’aviazione e hanno abbattuto due elicotteri.

Sarebbero più di 350 i morti e 3.300 i feriti di questa fase del conflitto. Nei combattimenti in corso sono stati messi fuori servizio 39 ospedali su 59, vale a dire il 70 per cento degli ospedali di tutto il Sudan. A Khartum, nessun ospedale è in grado di fornire servizi completi. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) comunica che si stanno esaurendo il sangue, le attrezzature per le trasfusioni, i fluidi per via endovenosa e altri rifornimenti vitali.

Sudan - Dagalo

Il generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo 

L’Rsf è l’organismo paramilitare, forte di 100.000 uomini, bene armati, feroci e addestrati dai mercenari russi del gruppo Wagner, presenti in Sudan almeno dal 2017. L’Rsf guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, sta tentando di prendere il controllo del paese.  Significativo il fatto che il generale Dagalo e il segretario generale dell’ONU António Guterres hanno convenuto sulla necessità sia di un completo cessate il fuoco sia di offrire protezione agli operatori umanitari e medici. Se Dagalo vincesse sarebbe il terzo colpo di stato militare in quattro anni, dopo quello che nell’aprile del 2019 ha destituito Omar Hassan al Bashir, mettendo fine a un regime autoritario durato 30 anni e portando alla guida del paese un Consiglio di Transizione composto da militari e civili; e quello dell’ottobre 2021, con cui ha preso il potere l’attuale giunta militare presieduta dal capo del Consiglio e, di fatto, dello stato, generale Abdel Fattah al-Burhan, con Hemedti suo vice.

L’Rsf si rese famoso per i massacri compiuti nel Darfur sulle comunità agricole delle etnie africane, armati e scatenati nel 2003 da al Bashir, deciso a completare il suo progetto di islamizzazione e arabizzazione del Sudan. Per le stragi compiute tra il 2003 e il 2008 di cui è ritenuto il mandante, al Bashir è stato denunciato alla Corte penale internazionale che nel 2009 ha emesso contro di lui un mandato internazionale di arresto, con l’accusa di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Al centro dello scontro c’è la questione dell’integrazione dei militari delle Rsf nell’esercito, della sua tempistica e di chi sarà il capo delle forze armate unificate. C’è inoltre la richiesta popolare rivolta alla giunta militare di cedere le molte, redditizie proprietà dell’esercito in vari settori dell’economia, da quello agricolo a quello commerciale, che costituiscono una fonte fondamentale di potere.

Dopo la morte di tre dipendenti del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, avvenuta nel Nord del paese. l’agenzia Onu ha sospeso tutte le operazioni nelle città e nelle aree in cui si combatte. 

Il conflitto minaccia la stabilità di tutta l’area geopolitica, quella dell’Africa orientale, già caratterizzata da situazioni critiche: l’Etiopia, da poco uscita da un conflitto durato due anni, originato dalla ribellione del Tigré e costato centinaia di migliaia di morti; la Somalia, in guerra dal 1987, affondata da allora nel degrado prodotto da tribalismo, corruzione e integralismo islamico e ridotta alla fame; il Sudan del Sud, indipendente dal 2011, nella morsa della guerra due anni dopo, scatenata dalle due etnie maggiori, i Dinka e i Nuer, e ancora irrisolta; lo stesso Kenya, il paese più stabile, tuttavia appena uscito da una drammatica prova di forza tra il presidente William Ruto e il leader dell’opposizione Raila Odinga.
A tutto ciò si aggiungono la presenza di milioni di rifugiati e sfollati e una protratta siccità che ha colpito quasi tutta la regione e rischia di provocare una carestia di vaste proporzioni.

Sudan, fuga da Khartoum. Evacuati tutti gli stranieri

  • Da La Nuova Bussola Quotidiana del 24-04-2023. Di Anna Bono

In Sudan prosegue da nove giorni la guerra civile scatenata dai paramilitari Rsf del generale Hemedti contro la giunta militare del generale al-Burhan. Saltata anche la tregua di Eid-al-Fitr, i Paesi che hanno ambasciate a Khartoum, Italia inclusa, hanno deciso di evacuare tutti i connazionali. 

Combattimenti in corso a Khartoum

Evacuare tutti i connazionali, inclusi i diplomatici, chiudere l’ambasciata e le sedi consolari sono gli atti estremi che un governo si vede costretto a intraprendere quando in un paese straniero vengono del tutto meno le condizioni di sicurezza a causa di un conflitto in corso, quando neanche le sedi diplomatiche vengono più rispettate. È l’indicatore di una situazione ormai troppo irrimediabilmente compromessa e troppo pericolosa per poter prendere ancora tempo e del fatto che nel breve periodo si ritiene non ci sia la volontà, da parte dei contendenti, e forse neanche la facoltà di sospendere i combattimenti per discutere l’eventualità di una tregua e di un cessate il fuoco.

È quello che sta succedendo in Sudan dove, da nove giorni, nella capitale Khartoum e nella regione occidentale del Darfur sono in corso furiosi combattimenti tra i paramilitari delle Rsf (Forze di supporto rapido) guidati dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, e i soldati governativi del generale Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e della giunta militare che dal 2021 ha preso il potere con un colpo di stato destituendo il Consiglio sovrano, l’organismo composto da civili e militari che a sua volta era alla guida del paese in seguito a un golpe, quello che nel 2019 ha messo fine al regime trentennale di Omar Hassan al Bashir.

I combattenti, specialmente i paramilitari di Hemedti, non risparmiano i civili.Niente e nessuno sembra essere al sicuro da saccheggi e violenze. Sono stati denunciati tentativi di attaccare e fare irruzione nelle ambasciate di alcuni paesi fin dall’inizio degli scontri. Benché il Sudan sia un paese abitato per il 97% da musulmani di origine araba e africana, abbia adottato per lunghi periodi come legge dello stato la shari’a, la legge islamica, e sia profondamente influenzato dell’integralismo islamico, addirittura non è stata rispettata la tregua di 72 ore per celebrare Eid-al-Fitr, la seconda maggiore festa islamica che segna la fine del mese di Ramadan e che quest’anno cadeva il 21 aprile. Insolitamente uniti e concordi, l’hanno invano sollecitata paesi occidentali e islamici, l’Onu, l’Unione Europea, l’Unione Africana, la Lega Araba per consentire almeno di seppellire i morti, rifornire i pochi ospedali ancora aperti a Khartoum, ormai sprovvisti di medicinali, scorte di sangue e dispositivi chirurgici, e distribuire aiuti alimentari alla popolazione.

Così nel pomeriggio di domenica 22 aprile, uno dopo l’altro, i ministeri degli esteri di gran parte dei paesi che hanno sedi diplomatiche a Khartoum hanno ordinato l’avvio di piani di evacuazione del personale diplomatico e di tutti i connazionali residenti nella capitale e altrove. Migliaia di persone si sono preparate a lasciare il paese a bordo di mezzi aerei militari. Alle persone lontane dalla capitale ogni ambasciata ha chiesto di recarsi nei punti di raccolta previsti in caso di emergenza, per essere prelevati, e se necessario di mettersi in contatto con il personale diplomatico per indicare la loro posizione. A tutti è stato raccomandato, mentre si lavorava febbrilmente per garantire in sicurezza gli spostamenti, di restare nel frattempo in casa o comunque in un posto sicuro, di chiudere porte e finestre, di tenere in carica i cellulari.

Per quel che riguarda i cittadini italiani, nella sera del 22 aprile la Farnesina ha annunciato che si stava predisponendo un piano di evacuazione, con un ponte aereo da Khartoum a Gibuti, il piccolo stato all’estremità meridionale del mar Rosso, e da lì a Roma. La mattina del giorno successivo il ministro degli esteri Antonio Tajani ha assicurato: “i nostri connazionali sono stati tutti contattati, anche durante la nottata, dall’unità di crisi del ministero. Sono stati chiamati uno per uno: stanno tutti bene e raggiungeranno la nostra ambasciata. Di più non posso dire per motivi di sicurezza”. Poco dopo il sottosegretario agli esteri Maria Tripodi ha aggiunto che l’ambasciata era ancora operativa per fornire l’assistenza necessaria e il ministro della difesa Guido Crosetto ha quindi annunciato che le operazioni di evacuazione erano iniziate, coordinate dal comando operativo di vertice interforze: “alle 13.55 ora italiana – ha spiegato – da Gibuti sono decollati due C-130 dell’aeronautica militare alla volta di Khartoum, con a bordo personale delle forze speciali dell’esercito e dei carabinieri. La sicurezza degli aeroporti è assicurata dai fucilieri dell’aria dell’aeronautica militare”.

Tuttavia non mancano le difficoltà e i rischi. Il 22 aprile Al-Burhan ha dichiarato che era pronto a far scortare gli stranieri fino all’aeroporto internazionale di Khartoum e Hemedti si era impegnato a sospendere le azioni in prossimità dello scalo durante le operazioni di decollo. Ma non tutto è andato liscio. Il convoglio francese, ad esempio, che trasportava anche cittadini di altri paesi europei, è stato attaccato ed è stato costretto a rientrare nell’ambasciata. Anche la Francia intende trasportare a Gibuti i suoi connazionali. La Giordania e l’Arabia Saudita invece stanno facendo confluire i loro cittadini a Port Sudan. Gli Stati Uniti già nel pomeriggio del 22 aprile hanno iniziato le operazioni di rimpatrio e il 23 di prima mattina tre elicotteri Chinook hanno prelevato  le ultime 100 persone dall’ambasciata che adesso è chiusa. Più di 100 militari americani hanno raggiunto il Sudan in poche ore partendo da Gibuti e passando per l’Etiopia per assistere i loro connazionali. Tra gli altri paesi che stanno radunando i connazionali per cercare di portarli in salvo: Turchia, Egitto, Canada, Olanda, Germania, Belgio, Russia, Giappone, Regno Unito, Kuwait, Qatar, Corea del Sud.

Molti italiani sono in Sudan impiegati in imprese italiane. “Il timore è che le due parti in conflitto per il controllo del potere in Sudan non abbiano intenzione di sedersi a un tavolo – spiega il ministro Tajani – Ci sono anche imprese italiane che lavorano per grandi opere nel Paese. Mi auguro che non vengano distrutte le grandi infrastrutture che sono utili al popolo del Sudan”.