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5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5975.- Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina.

Così anche Vienna. E Budapest vieta le manifestazioni pro organizzazioni terroristiche, mentre gli arabi si schierano con gli arabi. La battaglia di Israele e dell’Occidente non è e non deve essere contro i palestinesi, contro gli arabi, ma contro Hamas e tutto ciò che gli ha portato consensi e risorse, altrimenti, così, si fomentano le divisioni, si invita all’emulazione e si fa il gioco di Hamas, di Netanyahu, di Khomeyni e di chissà chi altro, Biden, per esempio. Impossibile che questo messaggio non detti la linea politica nelle cancellerie europee. Sembra quasi che i nostri governi siano stati imbarcati dalla portaerei USS Ford, che mirino a colpire l’Iran, quindi, a destabilizzare il Medio Oriente, anziché a dare impulso alla politica dei due stati, complementari fra loro, indicata dall’ONU. La via fra la Cina e l’Europa sarebbe impedita e, infatti, Pechino ha preso le distanze da Tel Aviv dichiarando di opporsi ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale.

La Repubblica dell’Algeria e della Tunisia hanno espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina

Proseguendo l’Italia in questa prospettiva, verrebbe meno il Nuovo Piano Mattei, mentre la politica ondivaga di Erdoğan si affermerebbe.

Da Pagine Esteri, l’articolo di Marco Santopadre, 13 Ott 2023.

Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina

Pagine Esteri, 13 ottobre 2023 – Manifestare a sostegno dei diritti del popolo palestinese sta incredibilmente diventando un atto che in alcuni paesi europei può essere considerato un reato.
I governi di Francia, Germania e Regno Unito, in particolare, hanno varato in queste ore delle misure dirette a impedire le manifestazioni pubbliche di solidarietà con la causa palestinese e a colpire addirittura la libera espressione di opinioni critiche nei confronti di Israele.

Scontri a Parigi, vietata ogni manifestazione per la Palestina 
La Francia è il paese che ha imposto finora il divieto più draconiano. Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, ha proibito ogni genere di manifestazione contro l’assedio e i bombardamenti israeliani che, mentre scriviamo, hanno già causato la morte di 1600 persone nella Striscia di Gaza. Darmanin ha comunicato la misura ai prefetti di tutto il Paese attraverso un telegramma, nel quale sono contenute le “rigide consegne” da applicare.

Le associazioni di solidarietà, i partiti di sinistra e le comunità palestinesi e arabe hanno però deciso di infrangere il divieto e scendere comunque in piazza. A Parigi ieri alcune migliaia di persone si sono radunate in Place de la République, ma sono state attaccate dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno tentato, senza successo, di disperdere i presenti usando manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Nella capitale francese la polizia ha effettuato dieci fermi. Manifestazioni più piccole si sono tenute ieri anche a Tolosa, Nimes, Bordeaux, Nantes e altre località.
Già lunedì scorso gli agenti avevano caricato e disperso circa 150 persone che si erano radunate in piazza a Lione per protestare contro l’occupazione della Palestina.

Il governo francese non sembra volersi limitare a impedire le manifestazioni pacifiche, violando uno dei principi basilari della sua stessa costituzione. Darmanin ha annunciato infatti che il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), una formazione di sinistra radicale, è oggetto di un’indagine in quanto accusato di “favoreggiamento del terrorismo” a causa di una dichiarazione diffusa dalla sua segreteria in cui si esprime solidarietà alla resistenza palestinese. Anche la France Insoumise, il principale movimento d’opposizione di sinistra del paese, è oggetto di un tentativo di linciaggio politico e mediatico perché i suoi principali esponenti, pur condannando l’azione di Hamas e l’uccisione di numerosi civili israeliani, si rifiutano di definire “terroristica” l’organizzazione palestinese.
Inoltre il Ministero degli Interni ha annunciato l’apertura di un iter che dovrebbe portare allo scioglimento e alla chiusura di alcune associazioni e organizzazioni che accusa di apologia dell’antisemitismo o del terrorismo, citando in particolare la sigla “Palestine Vaincrà”, legato alla sinistra palestinese, già oggetto di provvedimenti persecutori negli anni scorsi.
Come se non bastasse il ministro ha affermato che i cittadini stranieri autori di eventuali reati legati alla propaganda filopalestinese «devono vedersi sistematicamente revocato il permesso di soggiorno ed essere espulsi».

La Germania contro Hamas, ma non solo
Apparentemente, il governo tedesco – formato da socialdemocratici, verdi e liberali – sembra per ora voler proibire esclusivamente le manifestazioni affini al movimento islamista palestinese Hamas, ma l’applicazione di questa misura viene già applicata in maniera relativamente indiscriminata.
La polizia di Berlino ha infatti già vietato due manifestazioni previste mercoledì a sostegno dei diritti del popolo palestinese nella capitale perché «avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico».
Comunque mercoledì a Berlino sono scese in piazza alcune migliaia di persone contro la quale si è scagliata la polizia mobilitata in forze, che ha realizzato 140 fermi e ha denunciato 13 persone per diversi reati. I manifestanti si sono radunati soprattutto nel quartiere di Neukoelln che, insieme a quello di Kreuzberg, ospita una notevole comunità araba e turca.

Anche in Germania, come in Francia, l’esecutivo intende sciogliere alcune associazioni e organizzazioni propalestinesi. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz, nel corso di un intervento al Bundestag, ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’associazione Samidoun, accusata di aver festeggiato a Berlino l’attacco di Hamas contro Israele. In realtà la “rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi” Samidoun è stata fondata nel 2011 da alcuni membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito della sinistra marxista palestinese che è inserito nelle liste nere dell’Unione Europea ma le cui attività finora non erano state bandite in Germania.
Scholz ha aggiunto che chiunque bruci le bandiere di Israele commette un reato e verrà punito.

Kissinger: la Germania ha sbagliato ad accettare troppi immigrati

Così, Kissinger, soffiando sul fuoco. ndr


Sulla vicenda interviene dagli Stati Uniti l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, che in un’intervista concessa all’emittente televisiva “Welt Tv”, commentando le manifestazioni filopalestinesi verificatesi nei giorni scorsi in numerose grandi città europee, ha affermato che la Germania ha compiuto un «grave errore» accogliendo per anni un numero eccessivo di migranti appartenenti a «culture, fedi religiose e idee» troppo diverse rispetto a quelle del paese e dell’UE nel suo complesso. La «accoglienza eccessiva», ha affermato il centenario ex segretario di Stato, nato in Germania ma fuggito negli USA nel 1938 per sottrarsi al nazismo, a sua avviso «ha creato un gruppo di pressione in ogni Paese” che ha praticato per anni politiche migratorie poco caute.

Anche in Austria, la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione pro-palestinese, motivando la decisione con lo slogan “Dal fiume al mare” usato per pubblicizzare la protesta, ritenuto un appello alla violenza. «Fondamentalmente è questo: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, uno slogan dell’Olp adottato da Hamas» ha spiegato il capo della polizia della capitale austriaca, Gerhard Puerstl.

«L’Ungheria non consentirà alcuna manifestazione a sostegno delle “organizzazioni terroristiche”» ha dichiarato oggi alla radio pubblica ungherese il primo ministro Viktor Orban (stretto alleato del governo israeliano), aggiungendo che tutti i cittadini ungheresi dovrebbero sentirsi al sicuro, indipendentemente dalla loro fede o origine.

Londra: anche sventolare la bandiera palestinese potrebbe essere vietato
Anche il governo conservatore del Regno Unito ha impresso un giro di vite alla libertà di espressione e manifestazione. Nei giorni scorsi si sono già svolte alcune manifestazioni a favore della Palestina sia a Londra sia in altre città ma il ministro dell’Interno Suella Braverman ha esortato la polizia ad essere inflessibile nei confronti di comportamenti e slogan ritenuti inaccettabili e a valutare se sventolare la bandiera palestinese possa essere considerato un reato assimilabile all’esaltazione del terrorismo.

Braverman ha inviato una lettera ai capi della polizia britannica per sottolineare che «non sono solo i simboli e i canti espliciti pro-Hamas a destare preoccupazione», ed ha invitato le forze di sicurezza a valutare se i canti o i simboli esposti possano essere intesi come «espressione di un atteggiamento violento». Quattro persone sono già state arrestate nel corso di una manifestazione organizzata a Manchester. – Pagine Esteri

5069.- IL BIO-LAB DELLA NATO NEL SOTTOSUOLO DI MARIUPOL?

Ci siamo chiesti: Cosa devono difendere fino alla morte sotto Mariupol? George Soros ha finanziato i laboratori per le armi batteriologiche in Ucraina e perché George Soros e perché in Ucraina e non nel deserto del Nevada? E, quindi, chi ha rotto la pace in Europa e, sopratutto, perché? Il 25 febbraio si è parlato di reparti speciali francesi in Ucraina. E, poi? Dovunque sia la verità, le nostre vite sono nelle mani di delinquenti.

Serve un’altra Norimberga?

Di Fabioarmy, Aprile 15, 2022

Nei sotterranei dell’Azovstal di Mariupol ci sarebbe una struttura segreta della NATO, PIT-404 gestita insieme a Metabiota.

La notizia, che è stata quasi immediatamente bollata al solito come FAKE e come BUFALA dai fact-checkers che conosciamo, val la pena di essere comunque raccontata e approfondita, invitando come sempre tutti voi a fare le vostre ricerche e le vostre considerazioni.
Queste sono le notizie raccolte:

In un servizio video pubblicato da TgSole24 con immagini prese da EuroNews, il cancelliere austriaco Nehammer non sarebbe andato a incontrare il presidente Vladimir Putin per trovare una mediazione con il Cremlino, ma per chiedere la liberazione degli ufficiali della Nato intrappolati a Mariupol, nella struttura sotterranea segreta chiamata PIT-404 lo confermano numerosi fonti sia militari che civili.
Secondo l’analista geopolitico Pepe Escobar, un laboratorio concepito esclusivamente per lo sviluppo di armi biologiche letali gestito dalla Nato sarebbe collocato sotto le acciaierie di Azovstall.

Il premier austriaco KARL NEHAMMER in visita in Ucraina.

Nei sotterranei dell’Azovstal di Mariupol ci sarebbe una struttura segreta della NATO, gestita insieme a Metabiota. Un laboratorio di armi chimiche e biologiche la cui esistenza deve essere nascosta al mondo.
Invisibili alla vista, le reti sotterranee dell’Azovstal sarebbero una ragnatela di 24 km di gallerie che raggiungono una profondità di 30 metri. A cosa potevano servire? Secondo la ricostruzione di Escobar, quei tunnel sotterranei ospiterebbero una struttura segreta della NATO chiamata PIT-404. e un biolab che sarebbe gestito da Metabiota, una società associata a Hunter Biden, Rinat Akhmetov e al governo di Kiev.

Nel sottosuolo delle due acciaierie Azovstal sarebbero ancora nascosti circa tremila soldati e combattenti. Nella ricostruzione fornita da Escobar si racconta la presenza di diversi consiglieri militari dei paesi dell’Alleanza Atlantica. La struttura segreta della NATO sarebbe sotto il comando del tenente generale statunitense Roger L. Cloutier, arrestato dalle milizie DNR durante un tentativo di fuga in elicottero.

Il laboratorio Pit-404, sempre secondo le ricostruzioni di Escobar, sarebbe una struttura dedicata allo studio delle armi chimiche e biologiche. Nei tunnel sarebbero rimasti intrappolati più di trecento consulenti militari, ufficiali provenienti da Germania, Canada, Stati Uniti, Francia, Italia, Polonia, Turchia, Svezia e Grecia.

Acciaierie di Azovstall

Gli Ufficiali della Nato, che pochi giorni fa avevano contattato l’esercito russo in cerca di salvezza, avrebbero poi interrotto i contatti. La Nato, precisa il politologo russo Marat Bashirov, non può permettere alla Russia di catturare ufficiali e specialisti, perché questo dimostrerebbe il diretto coinvolgimento dell’alleanza atlantica nella guerra contro la Russia di Putin. Se gli ufficiali di Stato maggiore i medici non possono essere portati via dei sotterranei di Mariupol allora devono tacere, ha puntualizzato Bashirov, aggiungendo che l’ultimo tentativo è stato fatto dal cancelliere austriaco Karl Nehammer e il precedente da Macron, che intendeva attivare corridoi umanitari ma non per permettere i civili di lasciare il paese, bensì per consentire la fuga, poi fallita, del personale francese dal laboratorio.

Nei giorni scorsi, in un video pubblicato sui social, è stato ritrovato un berretto verde della Legione francese. La drammatica situazione dei sotterranei di Mariupol è sufficiente a spiegare gli sforzi diplomatici di Francia e Germania per creare corridoi umanitari utili per esfiltrare quegli ufficiali stranieri che non dovrebbero trovarsi lì. Mariupol è diventato l’epicentro dello scontro ed è difeso così ferocemente perché è stato per anni il centro dell’aggressione nel Donbass e uno dei capisaldi della NATO in Ucraina.

FONTI: Servizio TgSole24 di Margherita Furlan e Jeff Hoffmann
Articolo di Piero Messina per SOUTHFRONT.ORG

5068.- Mosca, «abbiamo preso Mariupol, ultimatum all’acciaieria»

Scaduto l’ultimatum russo, resistono ancora 1500 militari superstiti nascosti nei 24 Km di cunicoli sotterranei costruiti per resistere ad un attacco nucleare, ma 24 Km sono tanti. Per salvare chi?.

Ultimatum all’acciaieria. Mariupol è stata “ripulita” dalle truppe ucraine. Alla fine del 51esimo giorno di guerra, Mosca annuncia che in tutta l’area urbana della città sul Mar d’Azov la resistenza è stata vinta, e solo un manipolo di forze di difesa resta asserragliato sotto i tunnel della grande acciaieria. La resa totale degli ucraini, che potrebbe avvenire da un giorno all’altro, sarebbe la prima vera svolta nell’invasione, ma potrebbe anche costituire una pietra tombale sui tentativi di trovare una soluzione diplomatica. Volodymyr Zelensky l’ha detto in modo chiaro: se ci distruggerete a Mariupol i negoziati salteranno. Si comincia a temere anche per l’arrivo dei rinforzi con la notizia, sempre da Mosca, che i russi hanno abbattuto vicino ad Odessa un cargo militare ucraino che trasportava le armi inviate dall’Occidente. Dopo un’ennesima giornata di combattimenti furiosi nella città martire, ridotta ormai ad uno scheletro, il ministero della Difesa russo ha annunciato di avere “ripulito completamente l’area urbana da tutti i miliziani del battaglione Azov, dei mercenari stranieri e delle truppe ucraine”. Ed ha aggiunto che gruppi di resistenza sono ancora attivi nell’acciaieria di Azovstal, ma “totalmente bloccati, con l’unica possibilità di deporre le armi e arrendersi”. In precedenza le autorità locali avevano ammesso una situazione molto difficile. Con nuove unità russe costantemente schierate in città e rastrellamenti di tutti gli uomini per portarli nelle zone controllate dai secessionisti. Quel che resta della resistenza è rappresentato dai marines ucraini e gli uomini del Battaglione Azov, protetti sotto i tunnel dell’acciaieria situata vicino alla costa. Per stanarli, Mosca sarebbe pronta a utilizzare bombe Fab-300 a alto potenziale, con un raggio di decine di metri. Zelensky ha avvertito che la “distruzione delle forze ucraine a Mariupol segnerà la fine dei negoziati”. Anche perché il presidente ucraino sa bene che la resa della città sul Mar d’Azov sarebbe un primo grande successo per le truppe di invasione, che alimenterebbe ulteriormente l’offensiva nel resto del Paese. Diversi analisti americani, inoltre, ritengono che la tattica di lento logoramento condotta a Mariupol dai russi potrebbe pagare anche sugli altri fronti, perché favorisce l’esercito più numeroso. Anche nel sud-est l’Armata russa procede su questo schema: bombardamenti continui e ammassamento di truppe. Nella regione di Kharkiv un raid con un missile a lungo raggio ha provocato due morti e 18 feriti tra i civili. Mentre il Pentagono ha rilevato che i russi stanno schierando elicotteri d’attacco lungo il confine orientale, inviando altre truppe e pezzi di artiglieria.

Gruppi di resistenza sono ancora attivi nell’acciaieria di Azovstal. Lo ha detto il portavoce del ministero della Difesa Igor Konashenkov, citato da Interfax. “Il resto dei gruppi ucraini sono ora totalmente bloccati nell’acciaieria Azovstal, e l’unica possibilità che hanno di avere salve le vite è di deporre le armi e arrendersi”.

Attendiamo di sapere se risponde a verità la notizia che i sotterranei dell’acciaieria Azovstal nasconderebbero una rete di gallerie di 24 km, profonde fino a 30 m., quindi un infrastruttura di valore militare antiatomica e se vi si trovi uno dei laboratori per lo studio di armi batteriologiche e, non solo, ma se nel manipolo di superstiti che difendono i sotterranei vi siano gli sperimentatori di queste armi, provenienti da paesi NATO.

Il capo dei separatisti filo-russi di Donetsk Denis Pushilin, parlando con i giornalisti, ha detto che i combattenti ucraini che rimangono a Mariupol e si rifiutano di arrendersi saranno eliminati. Anche il portavoce del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha detto: “Al gruppo accerchiato è stato offerto di deporre volontariamente le armi e di arrendersi per salvare le loro vite”, ma Kiev ha proibito al reggimento Azov di negoziare la resa, ha aggiunto Konashenkov. Forse Kiev non vuole che rivelino segreti? Sembra, da notizie non confermate, che la visita del cancelliere austriaco Nehammer al presidente Putin, a Mosca, di sette giorni fa, mirasse alla loro liberazione. Si comprenderebbe perché il presidente Volodymyr Zelensky, citato dal Kyiv Independent, abbia dichiarato: “La distruzione delle forze ucraine che difendono la città di Mariupol metterà fine ai negoziati con la Russia”. Zelensky tiene aggiornato il primo ministro britannico Boris Johnson sulla situazione a Mariupol.

Secondo il ministero della Difesa di Mosca, 1.464 militari della 36a brigata della marina ucraina, inclusi 162 ufficiali, si erano già arresi a Mariupol, mentre dall’inizio dell’attacco alla città oltre 4.000 membri delle forze che la difendevano sono stati uccisi. Le autorità di Mosca affermano che tra i mercenari fatti prigionieri a Mariupol ci sono due cittadini britannici.

Mosca ha comunicato l’abbattimento, nel cielo di Odessa, di un aereo cargo di Kiev che trasportava armi fornite dai paesi occidentali. Lo afferma il ministero della Difesa russo, secondo quanto riporta la Tass.

5029.- Gas e rubli, che succede (davvero) se Mosca chiude i rubinetti?

Chi la dura, la vince, ma noi perdiamo sempre.

Di Otto Lanzavecchia, Formiche, 01/04/2022 –

Gas e rubli, che succede (davvero) se Mosca chiude i rubinetti?

L’ultimatum russo (di facciata) ha spinto l’Ue a mettere alla prova il Cremlino. Il sistema di conversione via Gazprombank non è ancora pronto, i prossimi pagamenti saranno a maggio. E poi? Se la Russia chiudesse i rubinetti, chi cederà prima? Tutti gli scenari e le variabili in campo, a partire dall’arbitrato che scatterebbe a Stoccolma

“Niente rubli, niente gas”. L’ultimatum di Vladimir Putin ha scosso l’Occidente, ma come spiegavamo su queste colonne si tratta di un’escalation più di facciata che non di sostanza. Perché sono già previsti gli escamotage per preservare lo status quo, almeno per qualche settimana, come il pagamento via “conti speciali” su Gazprombank (che non saranno pronti per altri dieci giorni) e un meccanismo contorto di conversione in rubli che di fatto permette agli acquirenti europei di pagare in euro, come confermato ieri da Mario Draghi.

La ratio della mossa di Putin ha molto a che fare con il rinforzo del rublo, che in effetti è quasi tornato allo stesso valore contro il dollaro rispetto a prima della guerra (anche se oggi è in netto calo, forse i mercati hanno chiamato il bluff di Mosca). C’entrano anche i profitti delle esportazioni, salvagente per l’economia russa sotto sanzioni. E la solidità di queste ultime è messa alla prova dal tentativo di costringere gli europei a convertire euro in rubli attraverso la Banca centrale russa, a sua volta sanzionata.

A ogni modo, la mossa dello zar ha fatto sì che i Paesi europei iniziassero a equipaggiarsi per vedere quanta sostanza ci sia dietro al “ricatto” dello zar – perché, dopotutto, l’economia russa ha bisogno della liquidità tanto quanto l’Ue ha bisogno di gas russo. La Commissione sta lavorando per arrivare a una posizione comune tra i Ventisette, alcuni dei quali hanno già spiegato senza mezzi termini che non si piegheranno alle condizioni dello zar. Francia, Germania e Austria già parlano di razionamenti. In parallelo, si pensa alla diversificazione.

Ora si tratta di vedere quanto sono sostenibili le posizioni dei due fronti, che sembrano determinati a vedere che cede per primo. Da una parte la Russia dà segnali di escalation, considera di estendere questo meccanismo anche ad altre materie prime. Dall’altra l’Ue sembra intenzionata ad affrontare la possibile interruzione del 40% delle proprie forniture di gas. Ipotesi non troppo realistica nel brevissimo termine: i contratti specificano la valuta di pagamento, e una modifica unilaterale da parte di Gazprom, spiega il Financial Times, aprirebbe un contenzioso da portare all’attenzione del Tribunale arbitrale di Stoccolma.

La mancata apertura del Nord Stream 2 che trasporterebbe il gas attraverso il Mar Baltico, si fa sentire. .Francia, Germania e Austria già parlano di razionamenti.

Questo è un processo che richiede mesi, durante i quali il gas dovrebbe continuare a fluire fino alla risoluzione della controversia o quantomeno a una ordinanza in materia. Sospendere l’erogazione potrebbe far scattare un risarcimento del danno ancora più pesante in caso di lodo arbitrale favorevole ai compratori, ed è in ogni caso uno scenario insostenibile per il Cremlino, che ha interesse a fare la voce grossa e tenere il punto, non certo a fermare i tubi. Se Gazprom ferma tutto smette anche di ricevere euro, dollari e sterline, e il valore del rublo potrebbe precipitare.

Nella pratica l’operatore russo è effettivamente in grado di “spegnere” l’estrazione di gas con relativa facilità. Quello che non può fare, per via dell’infrastruttura esistente, è dirottare il grosso delle forniture altrove: il gasdotto Siberia-Cina richiederà altri tre anni almeno, gli impianti di liquefazione e le navi metaniere non bastano a compensare. La Russia sarebbe così costretta a utilizzare le proprie strutture di stoccaggio, più la rete stessa, per trattenere il gas. La capacità di stoccaggio russa equivale a meno della metà dei volumi che spedisce ogni anno in Europa; secondo un esperto Icis sentito da FT, l’intero sistema sarebbe pieno nel giro di quattro mesi e mezzo. A questo punto, si tratta di vedere se l’economia russa non collassi prima.

Sull’altro fronte, i Paesi europei stanno spingendo per riempire le proprie riserve. Il periodo primaverile è appunto il momento in cui gli operatori pianificano i riempimenti; oggi i prezzi del gas alle stelle incidono sul successo delle prime aste, come spiegava un esperto in materia a Formiche.net. Ci sono diverse strade per tirare giù il prezzo, ma dipendono dalla volontà politica dei Paesi membri. Intanto si spinge sulle importazioni di gas da altre fonti (tra cui gli Usa e i Paesi dell’area Mena). Tuttavia, anche nel migliore degli scenari, ci vorranno almeno quattro anni per sostituire le importazioni di gas dalla Russia.

C’è un però. Gli analisti di Bruegel, uno dei think tank più ascoltati a Bruxelles, ritengono che l’Ue nel suo insieme sia in grado di attraversare un breve periodo senza forniture dalla Russia. Anche il prossimo inverno, a patto che gli Stati compiano scelte difficili e adottino politiche di razionamento che portino a una riduzione della domanda complessiva del 10-15%, o 400 terawattora. È possibile, scrivono gli esperti, aggiungendo che “un ventaglio di opzioni eccezionali potrebbe abbattere almeno 800 TWh”.

Dunque, ammettendo l’improbabile ipotesi secondo cui la Russia trovi un modo per tagliare il gas e non collassare nel giro di poche settimane o mesi, l’Ue è in grado di resistere per un anno almeno – posto che si raggiunga un’intesa politica tra i Ventisette, che sarebbero più inclini a farlo se messi davvero alle strette. Rimane più probabile che Gazprom continui a rifornire l’Europa, sia per via del “guinzaglio” legale, sia per assicurare il flusso di introiti al Cremlino; l’approntamento del sistema di conversione via Gazprombank indica che Mosca voglia almeno tenersi la porta aperta.