Archivio mensile:agosto 2014

IL TTIP DEVE FUNZIONARE PER LE PERSONE, ALTRIMENTI NON FUNZIONERÀ AFFATTO

DICHIARAZIONE DI PRINCIPI COMUNI CES-AFL-CIO
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Invitiamo fermamente sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea ad affrontare il Partenariato Transatlantico su Commercio e Investimenti (TTIP) in modo tale da porre al centro dell’accordo una prosperità condivisa e uno sviluppo sociale ed economico sostenibile. Il TTIP dovrebbe essere negoziato nell’interesse pubblico piuttosto che nell’interesse degli investitori privati. Come per tutte le altre relazioni economiche, le regole del TTIP sono importanti. Tali regole faranno la differenza tra un «New Deal» transatlantico, che prevedA un ruolo importante per un processo decisionale democratico, e un’egemonia transatlantica delle imprese, che privatizza gli utili e socializza le perdite. Un incremento del commercio tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea può aiutare a creare la crescita di posti di lavoro qualificati con una prosperità condivisa su entrambe le rive dell’Atlantico solo se il progetto viene svolto e concluso in modo aperto, democratico e partecipativo, e con in mente questi obiettivi.
La Federazione Americana del Lavoro-Congresso delle Organizzazioni Industriali (AFL-CIO) e la Confederazione Europea dei Sindacati (CES/ETUC) chiedono che l’Unione Europea e gli Stati Uniti si impegnino per realizzare un accordo «gold standard» che migliori le condizioni di vita e di lavoro su ambedue le rive dell’Atlantico e che difenda da ogni tentativo di usare l’accordo per abbassare le norme o per interferire sul processo decisionale democratico. Non può essere ingrandito il rischio dell’attuale modello di accordi di integrazione commerciale ed economica verso il processo decisionale democratico. Gli Stati Uniti hanno già perso cause tra stato e stato nelle loro politiche anti-fumo, di etichettatura della carne e del tonno e, ancora adesso, le multinazionali europee stanno usando il sistema di controversia tra investitore e stato per chiamare in cuasa decisioni di eliminare gradualmente l’energia nucleare e aumentare i salari minimi. In poche parole, queste politiche fanno parte della basilare responsabilità dei governi di promuovere il benessere generale della loro popolazione.
Le norme su commercio e investimenti che non solo permettono, ma promuovono simili controversie, indeboliscono il sostegno al commercio anche in quanto riducono la capacità dei governi di essere più responsabili nei confronti della loro opinione pubblica di quanto lo siano verso le ben posizionate multinazionali. Non è un caso. Le multinazionali desideravano da lungo tempo “superare la sovranità normativa”,1 e le attuali norme commerciali hanno compiuto dei passi in avanti in quella direzione. Per questo il TTIP è così importante: riuscirà a sostituire l’egemonia delle imprese con norme commerciali che promuovano la dignità umana e gli ideali democratici, poiché promuovono l’efficienza economica ed una crescita economica inclusiva? O conserverà quelle norme commerciali che hanno promosso una corsa al ribasso dei salari, dei diritti e delle tutele
1 Vedi, per esempio, “Il commercio in primo piano: il Presidente della Camera americano conversa con l’USTR (Office of the United States Trade Representative – Ufficio di Rappresentanza Commerciale degli Stati Uniti), “FreeEnterprise.com, 30 luglio 2013, disponibile su http://www.freeenterprise.com/international/trade-forefront-us-chamber-president-chats-ustr, e su “NAFTA Origins:The Architects Of Free Trade Really Did Want A Corporate World Government”, Matt Stoller, PopularResistance.or, disponibile su http://www.popular-resistance.org/nafta-origins-the-architects-of-free-trade-really-did-want-a-corporate-world-governme nt/.
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Noi immaginiamo un accordo centrato su popolazione e pianeta, che rispetti la democrazia, garantisca la sovranità statale, tuteli i diritti fondamentali del lavoro e quelli economici, sociali e culturali e affronti i cambiamenti climatici e le altre sfide ambientali. Nel deliberare ogni singola regola, le parti dovrebbero chiedersi: come potrà questa decisione creare posti di lavoro, promuovere il lavoro dignitoso, migliorare la tutela sociale, proteggere la salute pubblica, aumentare i salari, migliorare gli standard di vita, garantire una buona gestione ambientale e prevedere una crescita inclusiva e sostenibile?
Se i negoziatori non perseguono questi obiettivi, i negoziati dovrebbero essere sospesi.
Le norme sulla tutela dei lavoratori non dovrebbero mai essere considerate come barriere commerciali. Il TTIP non dovrebbe indebolire né le disposizioni per la tutela dei lavoratori fissate da leggi, regolamenti o contratti collettivi, né quei diritti sindacali collettivi, quali la libertà di associazione, il diritto di contrattazione collettiva e il diritto di sciopero e di azione sindacale. Il TTIP deve garantire che tutte le parti adottino, mantengano e rafforzino le otto convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per tutti i lavoratori, così come l’Agenda sul Lavoro Dignitoso e che quelle regole minime costituiscano un punto di partenza per regolari miglioramenti costruiti nell’architettura dell’accordo. In altre parole, il TTIP non dovrebbe soltanto innalzare i diritti per coloro i cui diritti non sono attualmente all’altezza, dovrebbe, invece, creare un sistema per continui miglioramenti.
Esso dovrebbe comprendere la promozione della democrazia sul posto di lavoro. Soltanto quando i lavoratori sono liberi di organizzarsi, associarsi, riunirsi pacificamente, intavolare una contrattazione collettiva con i loro datori di lavoro e scioperare quando è necessario, possono fornire un rapporto di forza vitale rispetto all’influenza economica e politica delle multinazionali.
Inoltre, i lavoratori, tramite i loro sindacati, devono avere il diritto alla piena divulgazione di informazioni riguardanti le condizioni finanziarie e i capitali della società per la quale lavorano. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea dovrebbero esplorare l’adozione di meccanismi transatlantici in linea con gli strumenti della UE per provvedere informazioni, consultazioni e partecipazione dei lavoratori nelle società transnazionali; una maggiore tutela della salute e sicurezza sul posto di lavoro; e i requisiti per assicurare ai lavoratori “temporanei” (ad esempio quelli assunti da un’azienda interinale) di ricevere un uguale trattamento per quanto riguarda la paga, lo straordinario, le pause, i riposi, il lavoro notturno, le ferie e così via. Un accordo commerciale tra gli Stati Uniti e l’Europa presenta l’opportunità di andare oltre l’approccio del “minimo comune denominatore ” in fatto di diritti del lavoro e di creare regole commerciali veramente centrate sulle persone. Senza un tale contrappeso, le multinazionali continueranno con la pratica insostenibile di prendere la maggior parte dei guadagni del commercio, condividendoli il meno possibile con i lavoratori il cui lavoro produce quei profitti.
Il TTIP deve essere in linea – e non funzionare mai a scopi trasversali – con gli accordi internazionali per proteggere l’ambiente, incluso l’impegno per rallentare i catastrofici cambiamenti climatici. Come parte della sua normativa, il TTIP deve promuovere un equilibrio sostenibile tra l’attività umana e il pianeta. Le regole non devono ledere o indebolire gli sforzi nazionali e regionali per definire e rafforzare le norme, le misure e le politiche ambientali ritenute necessarie per ottemperare agli obblighi verso i cittadini, la comunità internazionale e le generazioni future. Le norme devono rispettare il diritto delle parti di vietare alle imprese di acquisire guadagni tramite
2 Per maggiori informazioni sugli effetti devastanti delle norme commerciali volute dalle imprese, vedi il rapporto AFL-CIO “NAFTA at 20” disponibile su http://www.aflcio.org/NAFTAat20.
estrazioni predatorie, l’utilizzo insostenibile di risorse e lo scarico di sostanze inquinanti e di rifiuti.
Il TTIP deve avere alla sua base impegni e modi di risoluzione dei conflitti tra stato e stato; deve respingere tutte le disposizioni che permettono alle imprese, alle banche, agli hedge Funds e ad altri investitori privati di aggirare i normali processi legislativi, regolatori e giudiziari, inclusa la composizione delle controversie tra investitore e stato (Investor-to-State Dispute Settlement – ISDS).Gli impegni e i meccanismi di applicazione tra stato e stato rafforzano il concetto che l’accordo sia tra nazioni sovrane a vantaggio dei loro cittadini. Inoltre, riconoscono il diritto dei vari stati di effettuare scelte differenti su come promuovere nel modo migliore il benessere generale. Sopravvissuto allo screditato periodo del fondamentalismo del mercato, l’ISDS è usato da attori privati per limitare le scelte che le società democratiche possono fare sul modo migliore di tutelare l’interesse pubblico. Assegna al dovere dei governi di garantire il benessere generale lo stesso status dell’interesse privato al profitto – minando la fiducia pubblica e mettendo i governi nella posizione di dover pagare una taglia per proteggere l’interesse pubblico. Infatti, gli investitori devono assumersi le proprie responsabilità invece che semplicemente rivendicare i propri diritti. È indispensabile che il rispetto verso strumenti quali le Linee Guida per le Multinazionali dell’OCSE venga totalmente integrato nel TTIP. Chiediamo, inoltre, che i Punti di Contatto Nazionali siano adeguatamente preparati, forniti di personale e finanziati per soddisfare gli standard più elevati e coordinare il loro lavoro nel modo migliore.
Il TTIP deve includere norme che salvaguardino il ruolo di sistemi politici, legali e giudiziari nazionali, inclusa la contrattazione collettiva. Il TTIP non deve creare sistemi privati di giustizia, che sostituiscano o ignorino il processo decisionale nazionale o europeo. Le funzioni esecutive, legislative e giudiziarie devono essere conservate e non devono essere asservite a nessun consiglio normativo sovranazionale che sia fuori del controllo democratico. Poiché il TTIP espande i mercati e promuove l’accesso e la competizione delle giovani industrie emergenti, i consumatori e i lavoratori possono trarre beneficio da un aumento degli investimenti e degli scambi commerciali, fintanto che il ruolo dello stato di coltivare l’innovazione, lo sviluppo economico e le trasformazioni tecnologiche – di fronte al settore privato – non venga ulteriormente indebolito. Ciò significa che le norme del TTIP devono promuovere disposizioni riguardanti la privacy, la tutela del consumatore, la sostenibilità ambientale e l’anti-trust. Le scelte nazionali e locali sulla fornitura di servizi pubblici non devono essere vincolate o dirette e la stabilità del sistema finanziario non deve essere messa a repentaglio. Ciò vuol dire che il TTIP non dovrebbe né emanare “un congelamento” sulle regolle che impedisca ai governi di diventare laboratori di democrazia, innovazione e sviluppo economico sostenibile; né accrescere la capacità delle multinazionali di ostacolare l’attuazione di scelte ragionevoli su come mantenere servizi pubblici sostenibili e proteggere l’ambiente. Inoltre, il TTIP dovrebbe rispettare le attuali strutture internazionali di governance per il trasporto aereo internazionale, i diritti del traffico aereo e i relativi servizi, escludendo tali servizi dalla copertura del TTIP.
La crisi finanziaria e le conseguenti politiche di austerità hanno messo a rischio il diritto di tutti i cittadini europei ad avere un’assistenza sanitaria universale, accessibile e di qualità. Il TTIP non può diventare uno strumento che contribuisce ad abbassare ulteriormente gli standard sanitari. L’apertura del settore sanitario molto probabilmente farà aumentare i prezzi, impoverendo ulteriormente coloro che sono stati più duramente colpiti dalla crisi. La salute non deve essere trattata come centro di profitto per investitori internazionali. Inoltre, l’ambizione di creare un mercato pubblico degli appalti transatlantico, potrebbe indebolire i pilastri basilari delle società, favorendo le multinazionali che non si curano dei diritti dei lavoratori e della qualità dei servizi forniti, a spese dei fornitori di servizi locali, radicati nelle comunità locali e sensibili ai loro bisogni.
I governi devono mantenere il diritto di adottare le politiche degli appalti pubblici, allo scopo di diminuire la disoccupazione, di promuovere la responsabilità ambientale, affrontare le ingiustizie sociali attuali e storiche e, d’altra parte, soddisfare le esigenze specifiche della loro località, regione o nazione. Proprio come il prodotto più economico non rappresenta necessariamente la scelta più responsabile, normative sugli appalti pubblici che impediscano ai governi di rispondere alle esigenze della società tramite le decisioni sugli acquisti non sono necessariamente una buona politica.
Solo quando gli Americani e gli Europei potranno partecipare in modo significativo alla creazione del TTIP, potranno credere che è stato creato a loro vantaggio, piuttosto che come un affare segreto che aumenterà l’influenza delle multinazionali e diminuirà la voce della gente. Gli accordi commerciali segreti sono forse stati opportuni quando erano limitati alle tariffe e alle quote, ma data l’ampia fascia di questioni coperte dai moderni accordi commerciali – ad esempio l’assistenza sanitaria, la proprietà intellettuale, il lavoro, l’ambiente, le tecnologie dell’informazione, i servizi finanziari, i servizi pubblici, l’agricoltura, la sicurezza alimentare, l’anti-trust, la privacy, le catene di fornitura e appalto – la segretezza non può essere più difesa. Il luogo adatto per discutere ed arrivare ad un accordo su tali questioni di politica interna è il forum pubblico – se un’idea non può stare alla luce del giorno, non deve essere perseguita.
Oltre a creare e conservare buoni posti di lavoro a sostegno delle famiglie ed evitare l’austerità, per garantirsi il sostegno dei movimenti sindacali americani ed europei, il TTIP deve:
3 Il Principio di precauzione è così definito: Quando le attività umane potrebbero portare ad un danno moralmente inaccettabile, il quale è scientificamente plausibile ma incerto, allora bisogna intraprendere delle azioni per evitare o diminuire tale danno. Un danno moralmente inaccettabile si riferisce al danneggiamento umano o ambientale, che può essere:
• una minaccia per la vita o la salute umana, oppure

Integrare in modo profondo il corpo legislativo e i partner sociali sia nel processo di
negoziazione e di realizzazione che nel processo di monitoraggio, una volta che
l’accordo è stato concluso.
Il processo di monitoraggio deve focalizzarsi sugli impatti
sociali ed ecologici e sull’esigibilità delle norme stabilite nel capitolo sullo sviluppo
sostenibile al pari che sulle altre parti dell’accordo; deve anche contenere un processo per
raccomandare misure compensative per quelli colpiti dall’accordo commerciale. Bisognerà
destinare maggiori risorse a sostegno di quei lavoratori soggetti a cambiamenti strutturali.

delle controversie
Garantire uno sviluppo sostenibile, richiedendo alle parti di proteggere i fondamentali
diritti del lavoro e l’ambiente e includendo, se necessario, il ricorso alla
risoluzione
e alle sanzioni commerciali.
I diritti del lavoro devono essere posti al
centro dell’accordo, essere applicabili a tutti i livelli di governo ed essere soggetti alla
risoluzione delle controversie e alle sanzioni commerciali, esattamente come le altre
questioni coperte dall’accordo. Le parti dovrebbero impegnarsi a ratificare e applicare in
modo completo ed effettivo le otto convenzioni fondamentali dell’OIL e i fondamentali
accordi internazionali sull’ambiente. Le disposizioni dovrebbero prevedere che le norme sul
lavoro e l’ambiente continuino a migliorare, puntando in particolare, all’applicazione, da
parte di tutte le parti, di tutte le Convenzioni dell’OIL in vigore. Inoltre, il meccanismo di
risoluzione delle controversie non deve compromettere, indebolire o creare conflitti con le
vigenti interpretazioni delle Convenzioni e Raccomandazioni dell’OIL.

Proteggere il diritto di legiferare e disciplinare nel pubblico interesse, includendo l’uso
del Principio di Precauzione,3
escludendo norme che potrebbero minare lo sviluppo
economico
nazionale, la sicurezza nazionale, la tutela ambientale, le politiche per la
salute e la sicurezza sul posto di lavoro.
Gli Stati necessitano di uno spazio politico interno
per far fronte ad importanti obiettivi di politica pubblica, tra i quali le politiche per il
mercato del lavoro, le politiche per la sicurezza del consumatore e alimentare, la fornitura di
beni pubblici ( inclusi salute, istruzione, trasporto, servizi pubblici e sistemi di previdenza
sociale) e lo sviluppo di coerenti politiche industriali. Le norme che stabiliscono interessi del
profitto privato, con maggiori possibilità di attaccare politiche di interesse pubblico
(possibilità che non esistono nelle leggi nazionali), riducono i livelli di vita e indeboliscono
il sostegno pubblico alle politiche commerciali. Il diritto di legiferare e disciplinare in modo
tale da proteggere contro nuovi, ma potenzialmente gravi rischi, rappresenta un modo
prudente di tutelare la popolazione e il pianeta, evitando di gravare del prezzo di decisioni
imprudenti le generazioni future. Il diritto di agire con prudenza, anche in assenza di
certezza scientifica al 100%, deve essere gelosamente custodito.

Proteggere la privacy delle comunicazioni e delle informazioni personali.
Il TTIP non
deve ridurre o interferire con i tentativi nazionali di garantire la privacy dei cittadini. Se le
leggi nazionali sulla privacy non si possono far rispettare per dati situati al di fuori delle
frontiere nazionali, il TTIP non deve contenere una richiesta di liberalizzare i mercati dei
dati.
E, il TTIP non deve:
• risoluzione delle controversie tra investitore e stato. L’ISDS è un diritto legale speciale a disposizione degli investitori stranieri per effettuare ricorsi per espropriazioni indirette e mancanza di “trattamento giusto ed equo” in
Contenere un meccanismo di
collegi
arbitrali privati. Poiché i sistemi di giustizia devono essere pubblici, democratici e
disponibili per tutti in una società su basi eque, la sola esistenza dell’ISDS è un anatema nei
confronti della democrazia. Inoltre, negli ultimi anni, il sistema è diventato un “centro di
profitti” per le multinazionali in cerca di una compensazione in cambio del diritto di una
nazione di dirigere, come vuole, per esempio, le sue politiche sull’energia, anti-fumo, sui
brevetti, l’assistenza sanitaria, l’istruzione, l’ambiente e il salario minimo.

Ostacolare o scoraggiare leggi o regolamenti sui servizi finanziari o interferire con i
tentativi di proteggere dai rischi finanziari sistemici.
Il TTIP deve preservare la capacità
di reagire alle crisi economiche. Deve precludere che le resistenze sulle ben regolate
procedure di risoluzione bancaria possano usare la composizione delle controversie tra
investitore e stato per indebolire tali procedure.

Mettere in pericolo la fornitura di servizi pubblici essenziali.
L’AFL-CIO e la CES
chiedono l’esclusione dei servizi pubblici dai negoziati. I negoziati devono rispondere alle
richieste di togliere i servizi pubblici, tra cui l’istruzione, la sanità e i servizi sociali, la
• • •
grave ed effettivamente irreversibile, oppure ingiusto per la generazione presente e per quelle future, oppure imposto senza una sufficiente considerazione per i diritti umani di coloro che vengono danneggiati.
Sebbene il Principio di Precauzione sia contenuto nell’Articolo 191 del Trattato di Lisbona, è minacciato dall’obiettivo del negoziato commerciale USA, che richiede che tutte le disposizioni proposte “siano basate su una solida scienza, l’analisi costi/benefici, la valutazione dei rischi o altre prove oggettive” [vedere “Bipartisan Congressional Trade Priorities Act of 2014” (S.1900), disponibile su http://beta.congress.gov/bill/113th-congress/senate-bill/1900/text%5D. Tali richieste per quanto riguarda le disposizioni, sono, di fatto, non la base per disposizioni scientificamente supportate, ma sono termini politicamente codificati che fanno parte di un programma di deregolamentazione.
fornitura di acqua, i servizi postali e i trasporti pubblici, dal campo di azione dell’accordo.
Deve essere adottato un approccio alla lista positiva per evitare una liberalizzazione dei
servizi non esplicitamente elencati.

Pregiudicare, in qualsiasi modo, l’accesso a medicinali, dispositivi sanitari o procedure
chirurgiche accessibili,
sia tramite eccessive protezioni con brevetti sia tramite la
cosiddetta “trasparenza” delle forniture, che danno ai produttori di medicinali e dispositivi
sanitari ulteriori possibilità di chiedere un aumento dei prezzi.

Pregiudicare il principio del posto di lavoro, che dovrebbe essere applicato fin
dall’inizio a tutti i lavoratori distaccati.
Anche se ci opponiamo con forza all’inclusione di
specifici obblighi di visto sotto la Modalità 4, il TTIP dovrebbe contenere un’esplicita
menzione sul fatto che i provvedimenti nazionali concernenti il lavoro e le norme sociali e i
contratti collettivi saranno confermati nel caso di qualsiasi e temporaneo distacco e
collocamento di lavoratori. Il TTIP dovrebbe garantire che vengano confermate oltreconfine
l’applicazione e l’attuazione delle sanzioni amministrative e penali, nei casi di violazioni
della legislazione del lavoro e di frode sociale.

Interferire con i tentativi di riforme sull’immigrazione.
Nella misura in cui l’Unione
Europea e gli Stati Uniti desiderano incrementare i flussi immigratori o facilitare gli attuali
flussi, dovrebbero discutere di ciò al di fuori del contesto commerciale, ma piuttosto in un
contesto che garantisca pieni diritti e tutela a tutti gli immigrati – con o senza permesso di
soggiorno – e mantenere il diritto dei governi nazionali di regolare le quote di visti rilasciati
in base alle fluttuazioni delle condizioni economiche. Gli impegni commerciali che trattano i
movimenti transfrontalieri di persone e merci come se fossero essenzialmente equivalenti
sono incompatibili con le norme internazionali, che garantiscono i diritti umani e i diritti del
lavoro.
Un accordo che segua questi principi, potrebbe finalmente essere l’accordo incentrato sulle persone
che le famiglie dei lavoratori, assillate dalla carenza di posti di lavoro, da salari stagnanti, dalle
promesse non mantenute e da contratti non rispettati, stanno aspettando. Un accordo che reiteri le
politiche del passato di privilegi per le imprese mancherà ancora una volta di aiutare i lavoratori e le
comunità e incontrerà, sicuramente, una maggiore opposizione.
(traduzione di Alida Di Marzio)

DOVE PORTA IL TTIP

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L’obiettivo è dar luogo ad un trattato di libero scambio tra Europa e Nord America che abolisca i dazi doganali e uniformi i regolamenti dei due continenti, in modo da non aver più alcun ostacolo alla libera circolazione delle merci e alla libertà di investimento e di gestione dei servizi. Questo significa abolire i dazi ma soprattutto uniformare i regolamenti Usa e Ue in modo da costruire un unico grande mercato. Per dare una idea dell’enorme importanza di questa operazione, occorre tener presente che tra gli argomenti trattati vi è: “l’accesso al mercato per i prodotti agricoli e industriali, gli appalti pubblici, gli investimenti materiali, l’energia e le materie prime, le materie regolamentari, le misure sanitarie e fitosanitarie, i servizi, i diritti di proprietà intellettuale, lo sviluppo sostenibile, le piccole e medie imprese, la composizione delle controversie, la concorrenza la facilitazione degli scambi, le imprese di proprietà statale”. Le sole produzioni audiovisive sono state tolte dalla trattativa grazie alla meritoria opposizione del governo francese.
Ovviamente i nostri governanti magnificano gli elementi positivi che scaturiranno da questa ulteriore liberalizzazione del mercato, parlando di significativi aumenti del Pil e del reddito pro capite oltre a milioni di nuovi posti di lavoro. Questa tesi ovviamente non ha fondamento, in quanto non si capisce perché un ulteriore aumento di concorrenza al ribasso sui costi dovrebbe far aumentare il prodotto interno lordo.
Il punto più rilevante però non è dato dalle solite promesse infondate che vengono fatte dai nostri governanti. Il punto più pericoloso è che l’uniformazione dei regolamenti tra Usa e Ue produrrà tendenzialmente una uniformazione al ribasso. Questa ipotesi è così vera che Obama ha chiesto di togliere dal negoziato i mercati finanziari, portando a motivazione che le regole in vigore negli Stati Uniti sono più severe di quelle europee (vero) e dando quindi per scontato che nella trattativa verrebbero rimosse le regole più severe che proprio la sua amministrazione ha inserito.
Questa uniformazione al ribasso delle regole avrebbe delle ricadute disastrose sull’Europa ed in particolare sull’Italia.
Per quanto riguarda l’agricoltura, negli Usa infatti è possibile coltivare prodotti Ogm, è possibile utilizzare gli ormoni nell’allevamento degli animali destinati all’alimentazione, così come non riconoscono la denominazione d’origine controllata. Sarebbe così possibile commercializzare Chianti o Barolo prodotto in California e denominare Parmigiano reggiano qualsiasi formaggio duro.
Per quanto riguarda i servizi si ipotizza di escludere dalla trattativa solo quelli per i quali non esiste offerta privata: l’acqua , la sanità, l’istruzione e cioè il complesso dei beni comuni e del welfare rischiano di essere completamente privatizzati e snaturati.
Per quanto riguarda l’ambiente le regole Usa sono molto meno vincolanti: non esiste la carbon tax e le aziende potranno contrapporre la loro aspettativa di guadagno alla difesa della salute attuata dagli stati. Emblematico – nell’ambito del trattato di libero commercio tra Usa e Canada (Nafta) – che lo stato del Quebec – che ha votato una moratoria sull’estrazione dello shale gas in nome della difesa della salute della popolazione – sia stato portato di fronte al tribunale arbitrale del Nafta dalle industrie Usa del settore, a causa della perdita di potenziale guadagno derivante dalla sua decisione.
In primo luogo sul piano economico chi ci guadagnerà di più saranno gli Usa e non l’Europa. Banalmente i dazi medi che le merci europee pagano per entrare in Usa sono del 3,5% mentre i dazi medi che le merci Usa pagano per entrare in Europa sono del 5,2%. A questa piccola differenza si deve sommare il fatto enorme che gli Usa hanno un sistema sanitario ed educativo sostanzialmente privato. Negli Usa vi sono cioè le aziende private in grado di colonizzare il mercato europeo in settori ove l’Europa – e segnatamente l’Italia – ha un sistema pubblico che sarebbe semplicemente scardinato dalla concorrenza al massimo ribasso. Al contrario è del tutto evidente che una Asl o una università pubblica italiana non si metterebbero a concorrere negli Usa per aprire ospedali o università.
In secondo luogo, questo trattato di libero scambio accentuerà le differenze che ci sono in Europa. Mentre gli Stati esportatori come la Germania vedranno un aumento degli sbocchi di mercato per le loro merci, gli stati più deboli saranno letteralmente colonizzati nel complesso delle loro funzioni vitali. I danni prodotti dall’Europa neoliberista di Maastricht, si sommerebbero i danni dell’ulteriore allargamento di un mercato sregolato, in particolare sul welfare, sull’ambiente, sull’agricoltura. Tornano alla mente le parole del Presidente della Bce Draghi quando nell’estate scorsa concionava sul fatto che il welfare è troppo costoso e che l’Europa deve farne a meno. Il libero mercato è lo strumento attraverso cui distruggere il welfare, il sindacato e alla fine la democrazia intesa come effettiva sovranità popolare.
In terzo luogo, non sfugge a nessuno che la costruzione di un mercato Transatlantico – una vera e propria Nato economica – risponde ad un preciso disegno geopolitico. Nella crisi evidente della globalizzazione neoliberista gli Usa stanno ricostruendo le proprie aree di influenza e di egemonia economica e militare. Dapprima hanno fatto il trattato transpacifico che ha unito i paesi che affacciano sul pacifico salvo la Cina. Adesso questo trattato trans Atlantico. Se si guarda chi resta fuori è evidente l’operazione degli Usa di saldare una propria sfera di influenza contro i Brics e segnatamente Cina, Russia e America Latina.
In quarto luogo è evidente che la riorganizzazione del mondo attorno agli Usa per aree di libero scambio economico e alleanze militari, porta dritto dritto all’acuirsi dei pericoli di guerra. La dinamica è del tutto simile a quella della prima guerra mondiale in cui imperialismo militarista e liberismo economico globalizzato si saldarono in una miscela esplosiva. Non sfugge a nessuno che il passaggio dalla guerra commerciale aggressiva alla guerra guerreggiata non è così lungo.
La mia opinione è quindi che il Ttip sia un passo che distruggerà il livello di civiltà che abbiamo conquistato in Europa dopo la seconda guerra mondiale e con esso i diritti dei lavoratori e buona parte della democrazia; che contribuirà a centralizzare i capitali e a dividere ulteriormente tra paesi e aree ricche e paesi ed aree deboli e che porta in se la certezza della guerra commerciale e i germi della guerra guerreggiata.
Io penso che esista una strada alternativa su cui lavorare a partire dalla informazione su cosa sia il Ttip e dalla sua contestazione.
In primo luogo la scelta dell’Europa di giocare un proprio ruolo autonomo e di pace sullo scacchiere globale. L’Europa è il più grande produttore mondiale e il più grande mercato mondiale, ha un peso sufficiente a determinare il terreno di gioco e deve attuare una politica di disarmo e cooperazione con tutti, a partire dai paesi del mediterraneo.
In secondo luogo l’Europa dovrebbe uscire dal Wto che ha sregolato completamente il mercato globale e dotarsi di una propria sovranità economica e finanziaria continentale. A partire dalla messa in discussione del Wto l’Europa dovrebbe proporre un sistema di relazioni internazionali multilaterali e bilaterali cooperative che permettano di migliorare la condizione umana sul globo nel rispetto dei diritti del lavoro e della natura.
In terzo luogo l’Europa deve modificare se stessa, superando il trattato di Maastricht e le successive regolamentazioni neoliberiste e assumendo la piena occupazione, lo sviluppo del welfare, il superamento delle diseguaglianze interne e la riconversione ambientale dell’economia e delle produzioni come obiettivo comune. A tal fine proponiamo che l’Italia disobbedisca ai trattati europei a partire dal Fiscal Compact.
Utopie? Per combattere la barbarie che sta avanzando nell’incapacità del capitalismo di uscire dalla sua crisi, non basta lamentarsi, occorre avere una visione.
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IL TRATTATO TRANSATLANTIC TRADE AND INVESTMENT PARTNERSHIP (TTIP)

transatlantic-trade-300x336Il trattato TTIP favorirà le multinazionali a discapito di sicurezza alimentare e ambientale e dovrebbe essere pronto entro il 2015.
Da molti anni Washington e Bruxelles si fanno la guerra sulla sicurezza sanitaria degli alimenti e sulle implicazioni che le leggi europee hanno sul libero scambio delle merci. Pensiamo ad esempio ai divieti sull’utilizzo degli ormoni nella carne bovina, la mucca pazza, gli OGM e il pollo pulito col cloro.
Fino ad oggi, alcune di queste divergenze sono state appianate, altre sono rimaste in sospeso, ora il Ttip offre all’America una nuova occasione per riaprire i negoziati, a proprio vantaggio.
Ttip e sicurezza alimentare
In tema di sicurezza alimentare, l’Europa, in questi ultimi anni, ha raggiunto con fatica dei buoni risultati, ponendo dei freni all’immissione sul mercato di prodotti potenzialmente pericolosi per la salute dell’uomo.
Il Ttip, come abbiamo spiegato, rischia di invertire questo comportamento, penalizzandolo. Ecco un passaggio riportato dall’inserto comparso su Il Manifesto: “Un comune decide che le mense scolastiche acquistino prodotti locali a chilometri zero. Un paese – l’Italia – vota in un referendum che l’acqua deve essere pubblica. Un continente – l’Europa – pone restrizioni all’uso di Organismi geneticamente modificati (Ogm) in agricoltura. Tra poco tutto questo potrebbe diventare illegittimo. Il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip, Transatlantic trade and investment partnership), oggetto di discussioni segrete tra Usa e Commissione europea, prevede che le commesse pubbliche non possano privilegiare produttori locali, che gli investimenti delle multinazionali siano consentiti e tutelati anche nei servizi pubblici (acqua, sanità, etc.), che la regolamentazione non possa limitare i commerci, anche quando ci sono rischi per l’ambiente o la salute. E se un governo tiene duro, sono pronti i meccanismi di arbitrato che possono costringere gli stati a pagare alle multinazionali l’equivalente dei mancati superprofitti”.
Facciamo un esempio concreto: in Europa vige una regolamentazione che pone restrizioni all’utilizzo di prodotti OGM. In America questa regolamentazione non c’è, quindi un’azienda statunitense è libera di produrre e commerciare sementi OGM. A causa delle restrizioni presenti nel nostro continente, però, non può farlo in Europa. Questo genera un mancato profitto. Con il Ttip, c’è il rischio che le aziende possano appellarsi e costringere l’Europa a pagare le multinazionali (come la Monsanto per fare un esempio) penalizzate dalle leggi vigenti. L’introduzione di un Meccanismo di risoluzione dei contenziosi tra investitori e Stati, (Investor-State Dispute Settlement – Isds), quindi, permetterebbe alle imprese di far condannare quei paesi che approvano leggi dannose per i propri investimenti presenti e futuri.
Un trattato, quindi, che contrappone i diritti dei cittadini e le responsabilità collettive verso l’ambiente al denaro e al mercato.
La Commissione che si sta occupando del trattato sembra aver definito i regolamenti e gli standard di qualità europei «generatori di problemi». Eppure si è lottato per anni, con fatica, per avere mercati più sicuri. Ma si sa, davanti al profitto queste argomentazioni sono inezie.
Ricordiamo, ad esempio, che “nel 1988 l’Ue ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con alcuni ormoni della crescita, risultati poi cancerogeni. Per questo era stata obbligata a pagare a Usa e Canada dal Tribunale delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) oltre 250 milioni di dollari l’anno di sanzioni commerciali nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno, alla faccia del libero commercio”.
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Aree libere dalle coltivazioni OGM in Europa.

ARGENTINA: APPLICAZIONE DELLA LEGGE ANTITERRORISMO AD UNA MULTINAZIONALE USA

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La presidente Argentina, Cristina F. de Kirchner, ha annuciato l’applicazione della legge antiterrorismo ad una multinazionale USA

La presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner , ha annunciato che applicherà per la prima volta una legge antiterrorismo nei confronti di una impresa multinazionale nordamericana, la Donnelley, che pochi giorni prima, a sorpresa aveva dichiarato il fallimento, chiuso di colpo il suo stabilimento in Argentina, lasciando per la strada 400 lavoratori.

Questa mossa è stata collegata alla vicenda dei “fondi avvoltoio” ed è stata indicata dal governo argentino come una manovra preordinata.

La Cristina Kirchner ha presentato denuncia di fronte alla corte penale della Giustizia federale per il reato di “alterazione dell’ordine economico e finanziario”, come ha sostenuto la presidente la quale ha inforcato le lenti per leggere l’articolo che si riferisce alla legge antiterrorismo promulgata nel Dicembre del 2011 ,in mezzo a forti polemiche per la sua possibile utilizzazione nei conflitti sociali.

Secondo la Cristina, anche alcuni grandi giornali del paese avevano avallato tale manovra ed avevano annunciato con grandi titoli che 400 persone si trovavano dalla sera alla mattina senza lavoro, un sistema fraudolento per spaventare la popolazione e seminare il panico.

La Presidente argentina ha spiegato che vi era stato un atto preparatorio della chiusura della multinazionale Donnelley (leader nel settore della grafica con 55000 dipendenti in tutto il mondo) e lo ha collegato con la vicenda dei fondi avvoltoio che, ha assicurato, non vogliono arrivare ad un accordo, non solo per avarizia e cupidigia ma anche per una decisione geopolitica di voler tornare ad indebitare l’Argentina. Le loro argomentazioni hanno svelato un piano ordito, una cospirazione che spiegherebbe quanto accaduto anche alla Donnelley, dove non esisteva alcuna crisi.

La Cristina ha spiegato come siano strettamente collegati i fatti quali il contenzioso dei fondi avvoltoio con l’Argentina, la NML di Paul Singer, che aveva trasferito un 13% delle azioni di una multinazionale che si trova in Argentina (non ha indicato quale) al fondo di investimento Blackrock. Successivamente P.S. lo stesso aveva dichiarato che la Donnelley era parte per il 60% o 70% di fondi di investimento e che uno di questi era Black Rock.

“Esiste una trama mafiosa a livello internazionale che sta manovrando l’economia mondiale”. ha assicurato la Cristina.

Fonte: Clarin Emol

PERCHÉ BERLINO NON FA I COMPITI? DA Italia Oggi, via Massimo Giacon.

Numero 169, pag. 9 del 18/7/2014

La Cassa depositi e prestiti subisce vincoli ai quali la Kreditanstalt non obbedisce
I nostri enti locali pesano sul deficit, quelli tedeschi no
di Giorgio Ponziano Twitter: @gponziano
Non bisogna nascondere i propri problemi sotto il tappeto degli altri. Ma guardare a fondo l’economia tedesca
e il sistema pubblico che la sorregge non significa cercare di autoassolversi, poiché il debito italiano rimane
un moloch soffocante, può però servire per non restare silenziosi dietro la lavagna. Insomma al tavolo
europeo i più bravi vanno lodati ma non debbono barare al gioco.
I tasselli del mosaico che fotografa l’altra faccia della Germania provengono da analisi e studi di economisti,
giornalisti, ricercatori, tra i quali Patricia Szarvas, Francesco Cancellato, un’èquipe dell’università di Linz,
Lucrezia Reichlin, Mario Baldassarri, eccetera. Eccolo, il mosaico.
1. Franco Bassanini, presidente della Cdp, cassa depositi e prestiti, controllata per l’80 % dal ministero
dell’Economia, ogni anno emette 320 milioni di euro di obbligazioni e il ministro Pier Carlo Padoan quei soldi
li deve contabilizzare nel debito pubblico italiano. In Germania vi è un istituto fotocopia, che si chiama Kfw,
Kreditanstalt für Wiederaufbau, anch’esso per l’80% appartenente al governo federale. Emette obbligazioni
per finanziare i suoi interventi, l’ultimo anno ne ha emesse per 500 miliardi di euro. Ebbene, di quei 500
miliardi non c’è traccia nel deficit pubblico tedesco perché in Germania vi è una legge che esclude dal
conteggio (e quindi dalle tante statistiche sul rapporto debito/pil) le società pubbliche che coprono la metà dei
propri costi con ricavi di mercato. Avviene quindi che nonostante le due strutture finanziarie siano pubbliche e
si tratti di risorse reperite sul mercato con obbligazioni, in un caso è considerato debito pubblico e nell’altro
no. Trattandosi di centinaia di miliardi non è cosa da poco.
2. In Italia, non essendoci federalismo amministrativo, tutto finisce nel calderone della finanza pubblica. I
deficit di regioni, comuni e province (finché ci saranno) vengono contabilizzati dallo Stato e formano la massa
del debito, tanto che si è dovuti ricorrere alla camicia di forza della spending review per bloccare le spese dei
comuni e il presidente del consiglio, giustamente, ha annunciato un maggiore controllo anche sulle spese
delle regioni, che in genere continuano a sgarrare rispetto al patto di stabilità. In Germania invece c’è
federalismo e quindi i 600 miliardi di debito dei länder rimangono nei loro bilanci locali. Anche in questo caso
si tratta di una disparità, rispetto ai conti pubblici italiani, difficile da comprendere. È vero che Angela Merkel,
comunque preoccupata per il progressivo aumento del deficit dei länder, ha imposto il dietrofront, con
l’obiettivo del pareggio dei loro bilanci, ma dovranno tagliare il traguardo nel 2020 e non nel 2015 come
invece viene chiesto (e imposto) all’Italia.
3 Nelle classifiche sull’occupazione, la Germania svetta col suo (solo) 5% di disoccupati ma dietro questo
dato vi è quello delle persone a rischio povertà, addirittura il 24%. Perché? Perché il 25% dell’offerta di lavoro
è costituita dai mini job, lavori part time a basso costo: le statistiche tedesche considerano occupati coloro
che hanno un contratto di mini job, in realtà essi hanno contratti di tre mesi, senza alcuna garanzia e la media
del salario è 400 euro netti al mese. In molti casi si tratta quindi di una disoccupazione nascosta. Ovvero lo
scarto tra il 12,7% della disoccupazione in Italia e il 5% di quella in Germania non è veritiero, la forbice è
molto più stretta.
4. L’economia sommersa è una vergogna non solo italiana. In Germania il nero è calcolato dagli economisti
tedeschi nel 13% della produzione tedesca, con 8 milioni di lavoratori e 350 miliardi di euro sottratti alle casse
dello Stato. Soprattutto nella capitale Berlino, trainata dal poderoso settore dell’edilizia, la diffusione del
lavoro nero sembra la regola più che l’eccezione. Né il rigore né i controlli degli appositi uffici tedeschi sono
riusciti a rendere meno abnorme il fenomeno. L’aggiramento della legge è uno sport non solo italico.
5.Dopo varie peripezie, in Italia il sistema bancario è oggi privato e con la svolta del Montepaschi è caduta
l’ultima roccaforte dell’incesto tra pubblico e privato. Al contrario, in Germania la svolta non c’è stata, il 45 %
del sistema bancario tedesco è saldamente in mani pubbliche, comprese le banche regionali, poiché ogni
länd ha il proprio istituto di credito. È scontato il fatto che il sistema pubblico tedesco funziona meglio di
quello italiano e che la politica è meno invasiva ma rimane da rilevare che i 637 miliardi di crediti quasi
25/08/2014
inesigibili delle Landesbanken, appunto gli istituti dei länder, sono in ultima analisi sul groppone dello Stato,
così come più o meno una cifra analoga pesa sui bilanci delle banche nazionali controllate dallo Stato. Quindi
il passivo del sistema bancario pubblico tedesco non compare nel bilancio generale e non concorre al deficit
e al rapporto tra debito e pil, eppure si tratta a tutti gli effetti di una passività pubblica. Non solo. Questo
controllo del governo sulle banche può in teoria (o in pratica) essere usato per indirizzare politiche finanziarie
a favore o contro altri Paesi. Un esempio. Silvio Berlusconi, da presidente del consiglio, rivolge parole volgari
alla Merkel? Le banche pubbliche tedesche vendono titoli di Stato italiani, mettono Piazza Affari sotto
pressione, lanciano allarmi finanziari: lo spread sale e il paese sotto tiro va in crisi. Si tratta di un uso politico
della finanza che non ci sarebbe se l’Ue imponesse la privatizzazione delle banche, com’è avvenuto per altri
settori. Ma la Germania non vuole e nulla si muove, mentre l’Italia deve fare i compiti a casa.
6. Si sono svolte anche recentemente aste dei titoli di Stato tedeschi e, come a volte succede, una parte non
è stata assorbiti dal mercato primario. Invece di ricorrere al mercato secondario (con tassi più alti e perdita di
valore dei titoli) è intervenuta direttamente, per acquistarli, la Bunbdesbank, anche se ciò è espressamente
vietato dal trattato di Maastrich. Ma chi ha il coraggio di sgridare la banca centrale tedesca? In questo modo
però essa evita la crescita del debito pubblico, una sorte a cui invece vanno incontro gli altri Paesi, che
rispettano il trattato.
7. L’Italia si sta svenando per rispettare il six pack, cioè le sei direttive concordate nel 2011 che prevedono
che un Paese non debba registrare un passivo superiore al 3% del pil e un surplus (export meno import) di
oltre il 6%. La Germania è negli ultimi 5 anni largamente al di fuori di quest’ultima percentuale e se ne
infischia. Il suo avanzo è attorno al 7% del pil e secondo il six pack avrebbe dovuto essere sanzionata,
invece niente, mentre per noi il 3% è sacro e i tedeschi ce lo ripetono ogni giorno. Due pesi e due misure,
che fanno crescere le ingiustizie e le differenze tra i sistemi economici degli Stati.
8.Infine l’Ocse. Avverte la Germania: oggi il vento soffia a favore (anche se da marzo si registra un
rallentamento) ma attenzione al futuro. Dormire sugli allori può essere pericoloso. L’invecchiamento
demografico, l’enfasi eccessiva sull’export, la bassa crescita della produttività, la scarsa concorrenza interna
nel settore dei servizi, la burocrazia efficiente ma tentacolare sono nodi che la Repubblica Federale deve
affrontare e risolvere per il suo bene ma anche per quello dell’Europa.
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25/08/2014

LA RAZZA INFAME

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Questa è la storia di Tyke, l’elefante ucciso con 86 fucilate. L’animale era prigioniero al circo internazionale di Honolulu, nelle Hawaii. La sua vita era segnata, finché un giorno Tyke ha deciso di ribellarsi. Dopo anni di violenze subito, l’elefante ha colpito a morte il suo domatore ed è scappato per le strade del Paese. Lo hanno ucciso davanti alla folla con 86 fucilate. La sua colpa? Aver seguito l’istinto, aver cercato la libertà.

La storia è raccontata sulla pagina Facebook Essere Animali. Leggiamo:

In una giornata di agosto di 20 anni fa l’elefante Tyke veniva ucciso con 86 colpi di fucile per le strade delle Hawaii. La sua colpa? Essersi ribellato alle logiche di questo mondo troppo umano che lo voleva prigioniero del Circo Internazionale di Honolulu. Dopo anni di soprusi e violenze, quel giorno, Tyke durante una delle sue esibizioni, ha deciso di opporsi, ha colpito a morte il suo domatore ed è scappato per le strade affollate del paese. Ci sono volute 86 fucilate per soffocare e uccidere il suo desiderio di libertà. A volte solo le tragedie riescono a rendere idea di quanto sia assurdo confinare e domare animali.

Qui il terribile video della sua uccisione.

La sua fuga è stata breve, ma la sua morte lenta e dolorosa. Per due ore la polizia ha continuato a sparare addosso all’animale senza che venisse autorizzato un intervento veterinario per cercare di calmarlo e non venne utilizzato alcun tipo di anestetico per alleviargli le sofferenze che stava subendo. Due ore interminabili.

MA NON SOLTANTO GLI YANKEE MERITANO L’APPELLATIVO……

La Nuova Strategia Europea sul Benessere degli animali introduce un sostanziale miglioramento dell’attuale Strategia con l’introduzione di regole obbligatorie sulla tutela di ogni forma di vita animale in tutti i 27 Paesi membri, alla luce dell’articolo 13 del Trattato di Lisbona, che definisce gli animali come “esseri senzienti”.
…. e, come volevasi dimostrare, ecco la civile Danimarca come regola le nascite nei suoi zoo. La giraffa Marius, risultata un “doppione” è stata assassinata dallo zoo di Copenaghen, squartata e data in pasto ai leoni … pubblicamente! E quando dico “pubblicamente”, intendo anche alla presenza delle scolaresche, come Vi mostra la fotografia.152_marius9

E I MUSULMANI?

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MA NON SOLTANTO GLI EUROPEI IN GENERALE. ANCHE GLI ITALIANI SANNO FARE LA LORO PARTE.

Prima reintroducono gli orsi in Trentino, poi, quando mamma orsa pascola con gli orsetti, si avvicinano furtivamente per fotografarla e fanno scattare il suo allarme materno e, siccome, reagisce mordendo una scarpa del cretino, la cattureranno, imprigioneranno e terrorizzeranno, lei e i suoi paffuti orsacchiotti, complici i tromboni della politica.8540DED042626B866356CBBDA8A50Daniza

http://video.gelocal.it/trentinocorrierealpi/locale/parco-adamello-brenta-il-pastore-filma-gli-orsi-daniza-non-e-cattiva/33209/33268

Dimenticavo il delfino, amico dell’uomo..

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COME FERMARE I MILIZIANI SUNNITI DELL’IS, E CON QUALI RISCHI

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La diffusione online del video della brutale esecuzione del giornalista statunitense James Foley ha reso ancora più attuale la discussione pubblica globale sullo “Stato Islamico” (IS) – gruppo estremista sunnita prima conosciuto come ISIS – e sulla sua avanzata verso il Kurdistan iracheno e in particolare verso Erbil, la capitale curda in cui vivono anche molti cittadini statunitensi. Anche se la questione è più grande di così: l’IS opera da mesi in Iraq e in Siria e ha creato una specie di Stato, che definisce “Califfato” e che governa applicando brutalmente la legge islamica, uccidendo oppositori e infedeli. Il video della decapitazione di Foley è solo l’ultima di una lunga serie di violenze efferate che sono state mostrate e diffuse dall’IS sui social media.
Venerdì 8 agosto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato l’inizio di una campagna aerea contro alcune postazioni militari dell’IS nel nord dell’Iraq. L’obiettivo, ha detto Obama, è fermare l’avanzata dei miliziani dell’IS verso il Kurdistan iracheno: per il momento qualche risultato è stato ottenuto, come la riconquista da parte dei curdi dell’importante diga di Mosul. La decisione di Obama ha fatto parlare della possibilità di un “ritorno americano in Iraq”, dopo la lunga occupazione militare cominciata nel 2003 e conclusa solo alla fine del 2011.
Le opzioni che si stanno valutando in queste ultime ore per colpire lo Stato Islamico sono diverse. Per valutarle ragionevolmente, comunque, è necessario fare due premesse. Primo: il tipo di intervento militare – la sua ampiezza, gli attori coinvolti, i mezzi e le armi utilizzate – dipende dall’obiettivo politico che si vuole raggiungere. Per esempio: se l’obiettivo è soltanto la liberazione di alcuni ostaggi, viene da sé che un massiccio bombardamento aereo senza supporto di terra non ha molto senso (per liberare ostaggi hai bisogno di qualcuno che li porti via, sia che siano tuoi soldati sia che siano milizie tue alleate). Se l’obiettivo è proteggere il Kurdistan, le risorse da impiegare saranno altre; se l’obiettivo è smantellare l’IS, saranno altre ancora.
Secondo: se si vuole prendere come metro di giudizio l’intervento finora autorizzato da Obama, c’è da tenere a mente che gli Stati Uniti hanno esplicitamente affermato che il loro obiettivo è fermare l’avanzata dello Stato Islamico, non sconfiggerlo. Per questa ragione finora si sono limitati agli attacchi aerei e a dare armi ai curdi, ma hanno rifiutato l’opzione di intervenire con truppe di terra.
Le opzioni militari di cui si parla di più sono:
– Continuare con gli attacchi aerei. Come ha spiegato Douglas Olivant, gli attacchi aerei sono utili quando usati su certi obiettivi e controproducenti se usati nelle situazioni sbagliate. L’Iraq presenta entrambe le alternative. Sul fronte più avanzato, l’IS sta conducendo una guerra di aggressione – di conquista, si potrebbe definire – che crea le condizioni affinché gruppi di miliziani, veicoli e armi si trovino in posti lontani dai centri urbani e siano facili da colpire dal cielo. Quindi, se l’obiettivo è fermare l’aggressione e l’ulteriore espansione dell’IS verso il Kurdistan, i mezzi aerei possono essere efficaci. Questo è l’obiettivo che si è dato Obama, e la strategia adottata ha dato per ora dei buoni risultati: il più significativo è stato la riconquista da parte delle milizie curde della diga di Mosul, la più grande di tutto l’Iraq, supportate dagli attacchi aerei americani. Naturalmente si tratta però di un obiettivo parziale: se non il Kurdistan, un pezzo dell’Iraq e un pezzo della Siria resterebbero comunque nelle mani dell’IS, con tutto quello che di terribile ne consegue per le persone che abitano quei posti.
– Attacchi aerei combinati con alleanze con gruppi locali. L’IS ha istituito il suo Califfato su un territorio comprendente buona parte dell’Iraq occidentale e della Siria orientale: al suo interno ci sono aree urbane piuttosto estese e popolate, come Mosul e Fallujah, che non possono essere riconquistate esclusivamente con l’uso del potere aereo. Se l’obiettivo politico cambia – quindi non ci si vuole più soltanto limitare a frenare l’avanzata dello Stato Islamico, ma si vogliono ricacciare indietro i miliziani e riconquistare terreno – allora dovrà cambiare anche la strategia militare adottata. Olivant ipotizza un’alleanza con le diverse forze presenti in Iraq, in particolare con gli arabi e i curdi, che formino un fronte compatto per combattere lo Stato Islamico. Questo tipo di soluzione presenta un grosso problema: negli ultimi nove anni l’Iraq è stato governato dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki, che a causa delle sue politiche settarie si è alienato il sostegno dei sunniti e dei curdi. Ora il governo a Baghdad sta per cambiare, ma potrebbe essere troppo tardi per augurarsi la creazione di un fronte comune. Inoltre la situazione irachena di questi anni e l’impreparazione del suo esercito giustifica qualche scetticismo sul successo di un’operazione di questo tipo, sia nel breve che nel lungo periodo, anche se qualche risultato potrebbe essere ottenuto.
– Intervento di terra. Se l’obiettivo è la distruzione dello Stato Islamico, scrive l’analista della New America Foundation Brian Fishman, lo sforzo militare richiesto diventa molto più grande. Negli anni dell’occupazione militare americana in Iraq, i soldati statunitensi si scontrarono con le difficoltà di avere a che fare con una rivolta locale in un territorio urbano ostile alla potenza occupante: in particolare nella provincia di Anbar, dove si trova anche la città di Fallujah, le perdite americane causate dai gruppi sunniti locali furono altissime. In situazioni di guerriglia urbana di questo tipo, l’asimmetria militare tra le due fazioni si riduce notevolmente. Ciò significa che nonostante gli Stati Uniti possano contare su una superiorità militare e tecnologica notevole rispetto all’IS, ci potrebbero volere anni e decine di migliaia di truppe di terra per riuscire a sconfiggere i nemici.
E stiamo parlando comunque soltanto dell’Iraq. Pensare di sconfiggere l’IS in Siria vorrebbe dire infilarsi in una faccenda molto più grande dell’IS: la guerra civile in Siria, che va avanti da oltre tre anni, che ha provocato la morte di quasi 200.000 persone e nella quale – civili incolpevoli a parte – è diventato praticamente impossibile distinguere i buoni dai cattivi, visto come i ribelli cosiddetti “moderati” sono stati schiacciati e annullati dagli estremisti islamici e dal regime di Bashar al Assad.
– Non fare niente. È l’opzione che i governi del mondo hanno di fatto percorso – salvo forse qualche contatto diplomatico con i paesi accusati di finanziare l’IS – fino alla scelta degli Stati Uniti dello scorso 8 agosto. Il risultato è la situazione attuale. C’è una corrente di pensiero che sostiene che le brutalità dell’IS sono così enormi che anche i sunniti alla fine si rivolteranno contro i miliziani, cacciandoli; anche se questo scenario dovesse verificarsi, è evidente che passerebbe per la prosecuzione delle violenze sui civili per un periodo di tempo non breve, e probabilmente anche per un’ulteriore avanzata dei miliziani in Iraq. Altri suggeriscono di intraprendere azioni non belliche, limitandosi a inviare aiuti umanitari in attesa di organizzare una risposta internazionale: ma ammesso che questa risposta internazionale arrivi – tutt’altro che scontato, senza considerare che anche un eventuale intervento militare dell’ONU dovrebbe affrontare i problemi strategici di cui sopra – nel frattempo l’IS continuerebbe ad avanzare e uccidere.

L’E.R.F., L’EUROPEAN REDEMPTION FUND, SARÀ IL PUNTO DI NON RITORNO.

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Ecco cosa sta per accadere: il 70% del debito pubblico italiano di più di 2 mila miliardi di euro sarà trasferito a un fondo europeo comune, chiamato Redemption Fund (di seguitoRF), dove saranno convogliate anche tutte le eccedenze di debito pubblico degli altri Stati dell’Eurozona. Cioè: siccome il Trattato di Maastricht stabilisce che il debito pubblico degli Stati non deve essere superiore al 60% del PIL, tutto ciò che eccede questo limite nei debiti pubblici dei 17 Paesi dell’euro sarà trasferito in questo Redemption Fund. Ok? Saranno quindi cifre immense di trilioni e trilioni di euro, che diverranno a quel punto di proprietà del RF. Grazie Merkel!

      L’ERF, l’European Redemption Fund, sarà il punto di non ritorno per il nostro Paese. Mentre i candidati di tutte le compagini politiche alle prossime elezioni per il rinnovo quinquennale del Parlamento Europe già fanno a gara, con sfumature diverse, nel professarsi critici contro questa aggregazione monetaria e verso ogni cosa provenga dai palazzi di Bruxelles, gli eurocrati stanno preparando in silenzio la più micidiale delle trappole a danno dei paesi eurodotati; una sorta di punto di non ritorno nei confronti della totale abdicazione delle residue sovranità nazionali.
E’ drammatico, e nel frattempo stesso patetico per le sorti del Paese, il modo con cui molti esponenti politici italiani trattano argomenti economici pubblicamente senza averne le più che minime conoscenze tecniche e ignorando completamente i vincoli e i dettami sempre più pressanti imposti dalle regole dei Trattati sottoscritti.
DAL TRATTATO DI MAASTRICHT AL FISCAL COMPACT. Cerchiamo però di spiegarci meglio. Il “vecchio” Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 e ribadito da quello di Lisbona entrato in vigore nel 2009, prevedevano essenzialmente la possibilità dell’indebitamento massimo del 3% rispetto al rapporto con il PIL e il contenimento del debito non oltre il 60%, sempre secondo l’indicatore della crescita. Successivamente si sono voluti irrigidire ulteriormente questi criteri di convergenza, introducendo il Trattato sulla Stabilità, meglio conosciuto come Fiscal Compact, dove veniva introdotto il principio del pareggio di bilancio, quindi la non più possibilità per uno Stato membro di ricorrere all’indebitamento, inserendo il vincolo anche nel dettame costituzionale, e una metodologia precisa e pianificata per il rientro delle eccedenze delle porzioni di debito pubblico superiori al citato 60% nel limite temporale di venti anni.
IL FISCAL COMPACT SECONDO IL PROF. GUARINO. Premesso che l’Italia è stato per ora l’unico Paese dei 25 firmatari ad averlo inserito in costituzione (art.81), ricordiamo che l’impianto del Fiscal Compact è illegittimo secondo le puntuali deduzioni del prof. Giuseppe Guarino, in quanto lo stesso testo precisa che si applica se non in contrasto con altri Trattati su cui si fonda l’Unione Europea (art.2) mentre questi ultimi specificano chiaramente che il limite dell’indebitamento è del 3% (art. 104 c di Maastricht e art.126 di Lisbona) e non lo 0% come invece recita l’art. 3, n.1, lett.a del Trattato in questione.
IL MICIDIALE, ULTERIORE, MECCANISMO AUTOMATICO. Ma la bruciante crisi economica che da più di 5 anni attanaglia l’eurozona e che ha fatto precipitare tutti i dati macroeconomici, ha indotto la Commissione Europea ad “escogitare” un micidiale ulteriore meccanismo automatico per il rispetto delle regole previste dal Fiscal Compact che altrimenti rischiavano di rimanere lettera morta se affidate solamente alle “volontà” dei rispettivi governi nazionali.
LA SORPRESINA POST ELETTORALE ESCOGITATA DA BARROSO. Pertanto, mentre per soddisfare i fabbisogni finanziari in regime di “pareggio di bilancio”, per noi tollerato al 0,5%, dovremo far ricorso solo ed esclusivamente a tagli della spesa pubblica e/o aumenti della pressione fiscale a carico delle famiglie e del sistema delle imprese che saranno in questo modo considerati a tutti gli effetti i soli “prestatori di ultima istanza” e non come in tutto il resto del mondo dove questa funzione è svolta correttamente e proficuamente dalle proprie Banche Centrali, per ottemperare lo scoglio della riduzione del debito, la Commissione guidata da Barroso ci ha riservato una bella sorpresina post elettorale. Non guasta ricordare comunque in questa sede che la spesa primaria, cioè al netto degli interessi sul debito, è già comunque inferiore alla spesa sostenuta dalla media dei Paesi dell’eurozona, essendo minore a quella di paesi come la Francia, Finlandia, Austria, Belgio, Germania e Olanda (dati ufficiali AMECO) e che pertanto il futuro reperimento di fabbisogni finanziari sarà soddisfatto con sempre maggiore ricorso alla fiscalità e circostanziando il problema della spesa a criteri qualitativi e non quantitativi.
LE VARIE INTERPRETAZIONI. Poi c’è la questione sulla data di applicazione del Fiscal Compact perché anche qui piovono interpretazioni: nei gineprai dei Regolamenti europei ne spunta uno, il 1467/97 e successivi, che ci dà una piccola mano in quanto prevede che uno Stato membro, soggetto precedentemente a una procedura per disavanzi eccessivi, soddisfa i requisiti per un triennio a decorrere dalla correzione. Pertanto, essendo stata chiusa la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia il 29.5.13, secondo l’interpretazione della Banca d’Italia dovrebbe scattare dal 2015, perché le lancette le fa partire dal momento dell’inizio della manovra correttiva avvenuta nel 2012, mentre per il Ministero dell’Economia dal 2016, poiché considera invece la chiusura della procedura d’infrazione del maggio 2013!
QUANTO CI COSTERA’ LA STANGATA? In ogni caso se volessimo ad oggi simulare l’entità delle risorse necessarie per soddisfare la riduzione dell’eccedenza del debito così come previsto dal F.C. e tenendo conto dei dati previsionali forniti dal FMI sulla dinamica del debito e del PIL nel 2014 e 2015 nel nostro Paese, dovremmo reperire 38,4Mld di euro, ma a conti fatti potrebbero essere molti di più perché le elaborazioni che in genere fornisce il FMI sulla crescita si sono rivelate essere sempre troppo ottimistiche e non veritiere.
IL FAMIGERATO RUOLO DI UN COMITATO DI ESPERTI…Ma in ogni caso il Fiscal Compact, almeno come lo conosciamo ora, quasi sicuramente subirà una terrificante evoluzione perché essendo la Commissione Europea conscia che in pochi riusciranno a rispettarlo, ha incaricato un Comitato di esperti di redigere un altro “pilota automatico” per il suo rispetto tecnico. Questo Comitato, composto da 11 titolati economisti europei di cui neanche uno italiano e presieduto dall’integerrima ex banchiera centrale austriaca Gertrude Trumpel-Gugerell, ha terminato i lavori a fine marzo facendo propria la proposta del German Council of Economics Expert avanzata alla fine del 2012 che prevede la costituzione di un Fondo Europeo di Redenzione, ovvero l’ERF, acronimo di European Redemption Fund. Questa proposta, su cui il sottoscritto era già sulle tracce già un anno fa, tanto da inserirla a pag.164 del saggio “Europa Kaputt” del giugno 2013, è stata presa a totale riferimento nel lavoro degli esperti incaricati da Bruxelles per ridurre coercitivamente le eccedenze di debito senza possibilità di moratorie e con modalità automatiche.
ECCO CHE COS’E’ IL FAMIGERATO ERF – Il micidiale ERF funziona essenzialmente in questo modo: tutti gli Stati aderenti conferiscono a un Fondo specifico le eccedenze delle porzioni di debito superiori al 60% del PIL e lo stesso Fondo, per finanziarsi e tramutare i titoli nazionali con quelli con garanzia comune, emetterà sul mercato dei capitali una sorta di super eurobond al cubo e avvalendosi della tripla A, concessa dalle Agenzie di rating alle emissioni della UE, potranno godere di tassi presumibilmente più bassi rispetto a quelli di molti paesi “periferici”.
GLI EFFETTI NEFASTI PER L’ITALIA. Ma siccome nessuno ti regala nulla per nulla, tanto meno i ragionieri esattori europei, in cambio viene pretesa a garanzia l’asservimento dei rispettivi asset patrimoniali nazionali, riserve valutarie e auree e parte del gettito fiscale (es. IVA). In questo modo si firmano cambiali in bianco e la riduzione del debito avverrà automaticamente con la vendita dei beni patrimoniali seguendo la logica del curatore fallimentare più orientata a soddisfare i diritti del creditore che del debitore se non si sarà in grado di versare gli importi previsti ogni anno e per vent’anni! Praticamente per noi una specie di euro Equitalia esattrice-liquidatrice o come avviene con la cessione del quinto stipendio, rimanendo però con il residuo del debito (il 60%) da onorare senza più contare sul “collaterale” patrimoniale!
LA TRISTE FINE DELLE PARTECIPAZIONI DI STATO. Le partecipazioni di ENI, Finmeccanica, Poste, ENEL ecc., beni immobiliari pubblici, riserve auree e valutarie, saranno liquidate automaticamente con il pericolo che saranno letteralmente svendute a favore dei soliti noti, per soddisfare il criterio della riduzione ventennale del debito, visto che attualmente la nostra eccedenza di debito ammonta a circa 1170 Mld., pari al 73% del PIL essendo ora al 133%.
LA TOTALE ABDICAZIONE DELLA SOVRANITA’. Inoltre in questo modo il nostro debito, anche se attualmente espresso in euro, ma di fatto valuta per noi estera in quanto non la stampiamo, almeno è ancora sotto la giurisdizione italiana, mentre con la conversione in emissioni comuni (eurobond), si tramuterebbe in giurisdizione internazionale e non più convertibile in valuta nazionale in caso di uscita poiché non più applicabile il principio di Lex Moneta è previsto dagli artt.1277 e 1278 del nostro codice civile. Si tratterebbe dell’abdicazione più totale di qualsiasi residuo di sovranità e saremo depredati di tutto il nostro patrimonio pubblico.
E poi per la nota massima “Moneta buona scaccia la cattiva”, il residuale di debito del 60% sul PIL, che rimarrebbe comunque in nostro carico, subirebbe un forte deprezzamento in termini di tassi pur espresso sempre in euro! Ma possiamo star pur certi che la nostra classe politica, già fortemente deficitaria sulla conoscenza del funzionamento del Fiscal Compact nonostante l’abbia votato e inserito in Costituzione, ignora completamente cosa stiano tramando a Bruxelles e la decisione politica sull’applicazione dell’ERF, il cui iter è da scommettere inizierà un minuto dopo la chiusura delle urne il 25 maggio prossimo, li troverà totalmente impreparati. Ma questa volta c’è in gioco il destino, il futuro e l’identità del nostro Paese e sono certo che la corretta informazione preventiva farà in modo che la coscienza dei cittadini italiani compenserà l’incapacità dimostrata fino ad ora dalla classe politica nel non comprendere l’irreversibilità di certe scelte scellerate! ù
Antonio Maria Rinaldi

COSÌ SVENDERANNO IL PATRIMONIO NAZIONALE E PERDEREMO SOVRANITÀ

I retroscena e le promesse di Renzi a Draghi:

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C ‘è, eccome se c’è, la trattativa sui conti con l’Europa. La Banda Bassotti e’ all’opera, adesso parla le lingue e usa il computer.
Un autorevole parlamentare europeo mi dice che a Bruxelles ormai lo dicono tutti che Renzi “vuole pagare il debito vecchio col debito nuovo”. Invito il mio interlocutore a fermarsi e spiegare. “Semplice – mi dice – quando Draghi parla di cessione di sovranità si riferisce anzitutto alle mani dell’Europa sul nostro patrimonio. Siamo incapaci di venderlo e ci penseranno loro, ma dietro trasferimento dei nostri beni a loro. Fisco incluso. Allentano il nostro debito vecchio e ci rendono schiavi dettandoci le cose da fare a casa nostra”.
Il meccanismo che ci stritolerà si chiama Erf (fondo europeo di “redenzione) e ne abbiamo parlato nei mesi scorsi sul Giornale d’Italia. Sul tema c’è vasta letteratura anche sul web, a partire dagli scritti di Antonio Rinaldi, economista e campione dei “no euro” e da quanto ci offre Giuseppe Palma, avvocato di Brindisi.
Quello che vogliono da noi in Europa – e le nostre fonti comunitarie sono molto precise sul tema dei colloqui “segreti” – lo ha spiegato benissimo Draghi a Renzi. Il quale nega ma “deve” essere d’accordo: si prepara a svendere il patrimonio nazionale.
A fine mese, al massimo quello dopo, i governi degli Stati europei saranno chiamati alla decisione politica sull’Erf. E Draghi avrebbe convinto Renzi: “Non ti muovere dal 3 per cento, cedi al fondo i beni di proprietà dello Stato e il tuo debito sarà più leggero”. Mattoni, spiagge, cultura e persino tasse.
Draghi vuole essere certo dei tempi dell’operazione e ha chiesto al presidente del Consiglio come potra’ passare il trattato prossimo venturo sull’Erf in Parlamento, a partire dal Senato. In alternativa, c’è la strada elettorale anticipata: i poteri forti comunitari scommettono sulla vittoria di Renzi alle politiche, con un Parlamento reso più docile dall’Italicum per via della maggioranza che potrebbe avere il premier. E Draghi ha bisogno di una maggioranza silente disposta ad autorizzare senza condizioni la ratifica di un trattato peggiore del fiscal compact.
Nel colloquio in Umbria, Draghi e’ stato preciso: la più micidiale delle trappole e’ praticamente pronta. Con Erf – ha spiegato il presidente Bce al premier italiano – tutti gli Stati aderenti conferiranno al Fondo le eccedenze delle porzioni di debito superiori al 60% del PIL – noi voliamo oltre il 130… – e lo stesso Fondo, per finanziarsi e tramutare i titoli nazionali con quelli con garanzia comune, emetterà sul mercato dei capitali una sorta di super eurobond al cubo e avvalendosi della tripla A, concessa dalle Agenzie di rating alle emissioni della UE, godra’ di tassi bassissimi.
In cambio verra’ preteso a garanzia l’asservimento degli asset patrimoniali nazionali, riserve valutarie e auree e parte del gettito fiscale (es. IVA). In questo modo si firmeranno cambiali in bianco e la riduzione del debito avverrà automaticamente con la vendita dei beni patrimoniali seguendo la logica del curatore fallimentare più orientata a soddisfare i diritti del creditore che del debitore. Praticamente una specie di euro-Equitalia. Renzi ha detto si’. Pagheremo noi. E i nostri figli.
da Francesco Storace

PAPA FRANCESCO: “SIAMO ENTRATI NELLA TERZA GUERRA MONDIALE”.

“Fermare l’aggressore ingiusto è lecito”. Sul volo di ritorno dalla Corea del Sud verso Roma, Papa Francesco ha risposto così ai giornalisti che gli chiedevano degli jihadisti dell’Isis. “Sottolineo il verbo: fermare – spiega il Pontefice – Non dico bombardare o fare la guerra. Dico: fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare dovranno essere valutati”.

Il santo Padre parla apertamente della situazione in Iraq e commenta così l’intervento militare degli Stati Uniti nel paese: “Una sola nazione non può giudicare come si ferma l’aggressione. Dopo la Seconda guerra mondiale questo compito è delle Nazioni Unite. Dobbiamo avere memoria – ha sottolineato il Papa – di quante volte con questa scusa di fermare l’aggressione ingiusta le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto vere guerre di conquista”.

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“Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli”, continua il Santo Padre, che ha denunciato l’efferatezza delle guerre non convenzionali che hanno “un livello di crudeltà spaventosa” di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini. E proprio in riferimento ai sanguinosi combattimenti nel mondo, in particolare in Siria e Iraq, il Pontefice ha aggiunto di “essere pronto a recarsi nel Kurdistan” iracheno per pregare e alleviare la sofferenza delle popolazioni colpite dalla guerra: “In questo momento non è la cosa migliore da fare, ma sono disposto a questo”.