Archivio mensile:febbraio 2015

SIAMO QUASI AL PUNTO ZERO DELLA DEMOCRAZIA: “UN ANNO DI PARLAMENTO ABUSIVO”.

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La politica al tempo dell’esecutivo (GUSTAVO ZAGREBELSKI).
25/02/2015
VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio.
IL loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.
Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
Quando si denuncia il deficit di depolitica. mocrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Na- zione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del pensiero di Gustavo Zagrebelsky tratta da La Repubblica del 25/02/2015, dal quale discendono alcune riflessioni che leggete sul nostro google group.

L’ALLARME PER LA DEINDUSTRIALIZZAZIONE ANTIDEMOCRATICA

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Abbiamo visto come l’euro, e in realtà l’intera costruzione europea insita nei trattati (a partire dalla “prova generale” dello SME), riesca a porre paesi dotati di modelli economici improntati allo sviluppo generale del benessere – modelli costituzionalizzati cioè resi democraticamente stabili e prioritari- nella medesima condizione dei paesi in via di sviluppo.
Abbiamo altrettanto visto che lo strumento è quello della condizionalità, incentrata sull’imposizione delle riforme strutturali contrarie ai propri modelli costituzionali.
Tuttavia, il contesto, l’antecedente economico-politico, è il liberoscambismo, l’apertura dei mercati nella mitologia della priorità della loro capacità di autoregolazione, che diviene regola assoluta di non interferenza da parte degli Stati.
Nell’applicazione di Maastricht, abbiamo pure visto come questo presupposto coercitivo di sistema abbia condotto alla sospensione dei modelli costituzionali.

L’effetto cumulativo di liberoscambismo, squilibri commerciali strutturali, conseguente indebitamento e imposizione di riforme strutturali “condizionali” è certamente l’impoverimento dei paesi più deboli; ma in generale, come ci attestano le realtà degli USA e della stessa Germania, è l’impoverimento della maggioranza schiacciante dei cittadini non appartenenti alle elite che guidano questa internazionalizzazione (tanto cara agli europeisti di Ventotene, in nome di una fantomatica pace ridefinita ribaltando i meccanismi causali della Storia in chiave anti-Stati nazionali).

2. Ma la sostanza di questo impoverimento consiste nella deindustrializzazione, cioè nella frammentazione restrittiva dei rispettivi settori manifatturieri, quelli che, nel quadro contemporaneo dei modelli democratico-costituzionali, consentono il maggior legame tra sviluppo, autonoma evoluzione e innovazione tecnologica e effettività della democrazia.
E’ questo, della rescissione del legame tra industrializzazione legata al territorio e democrazia “effettiva” – quindi non “idraulica” e cioè legata solo ad un formalistico e residuale metodo elettorale trasformato mediaticamente in sondaggismo -, un effetto tipico del free-trade.
Un effetto del liberoscambio-liberalizzazione dei capitali, a maggior ragione emergente anche nella loro versione posteriore alla iniziale teoria dei “vantaggi comparati” di Ricardo, e cioè alla “versione” fornita dalla teoria c.d. HOS (Heckscher-Ohlin-Samuelson). Al riguardo vi riportiamo quanto ne evidenzia Chang nel suo ultimo libro “Economics: The User’s Guide” (pagg.118-119):
“Nella teoria HOS si assume che tutti i paesi siano tecnologicamente e organizzativamente capaci di produrre ogni cosa. Essi “scelgono” di specializzarsi in differenti prodotti soltanto perchè le diverse produzioni utilizzano diverse combinazioni di capitale e lavoro, le cui relative disponibilità sono differenti nei vari paesi.
L’assunto conduce a conclusioni irrealistiche: se il Guatemala non produce cose come le…BMW, non è perchè non “può”, ma perchè non è economico fare in tal modo, dato che le loro produzioni (della Germania, ndr.) usano una gran quantità di capitale e poco lavoro, mente il Guatemala dispone di molto lavoro e poco capitale”.
Nei prossimi mesi vedremo come questa acritica teoria neo-classica, portata sventatamente nelle teorie dominanti in Italia sull’assetto del mercato del lavoro, produrrà i suoi effetti di ulteriore distruzione della domanda interna e della democrazia. Parliamo ovviamente del jobs act.

3. Se, a seguito della evoluzione liberoscambista accelerata prodottasi nell’area euro, sostituiamo al Guatemala la Grecia, – o, nei fatti, e in una tragica imminente prospettiva, anche l’Italia- la portata della “molto realistica” deindustrializzazione manifatturiera legata al territorio (su cui vivono le comunità rese “debitrici”), ci appare evidente.
Tutto questo, tra l’altro, ci aiuta a capire le difficoltà in cui si trova le Grecia nel condurre la “trattativa” per ripristinare il proprio benessere e la propria democrazia.
Rinviamo a quanto più volte sul punto ci ha detto Sapir: la forte deindustrializzazione è anche una condizione di debolezza della democrazia, cioè della sovranità costituzionale.
Inutile dire che, in una corsa contro il tempo, ciò vale anche per l’Italia, sebbene, in termini assoluti, in misura minore, ma non meno insidiosa. Se non altro perchè non compresa dal settore sociale, le PMI (sveglia!), che porta il peso del residuo manifatturiero italiano.

4. Su questo tema riportiamo un significativo brano di Dani Rodrik (*) che, sebbene riferito alle dinamiche dei paesi in via di sviluppo, per le condizioni create dal liberoscambismo sanzionato dal vincolo esterno “valutario”, ci appare eloquente anche per la Grecia e, di riflesso (mutatis mutandis, in una sostanza però omogenea), per tutti i paesi coinvolti nell’area euro.
Da rilevare che questa spiegazione ci dà ben conto dei sub-conflitti “sezionali” (p.11.1.), in funzione destabilizzatrice della democrazia, che fanno capo ai “diritti cosmetici” e alle identità etnico-religiose-localistiche, conflitti che sono una vera manna per le elites:

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“Le conseguenze politiche di una prematura deindustrializzazione sono più sottili, ma possono essere più significative.
I partiti politici di massa sono stati tradizionalmente un sotto-prodotto dell’industrializzazione. La politica risulta molto diversa quando la produzione urbana è organizzata in larga parte intorno all’informalità, una serie diffusa di piccole imprese e servizi trascurabili.
Gli interessi condivisi all’interno della non-elite sono più ardui da definire, l’organizzazione politica fronteggia ostacoli maggiori, e le identità personalistiche ed etniche dominano a scapito della solidarietà di classe.

Le elites non hanno di fronte attori politici che possano reclamare di rappresentare le non-elites e perciò assumere impegni vincolanti per conto di esse.
Inoltre, le elites possono ben preferire – e ne hanno l’attitudine- di dividere e comandare, perseguendo populismo e politiche clientelari, giocando a porre un segmento di non elite contro l’altro.
Senza la disciplina e il coordinamento che fornisce una forza di lavoro organizzata, il negoziato tra l’elite e la non elite, necessario per la transizione e il consolidamento democratico, hanno meno probabilità di verificarsi.
In tal modo la deindustrializzazione può rendere la democratizzazione meno probabile e più fragile.”

(*) La globalizzazione intelligente è un libro di Rodrik Dani pubblicato da Laterza nella collana I Robinson. Rodrik è un economista turco, attualmente professore di Economia Politica Internazionale alla John F. Kennedy School of Government presso l’Università Harvard negli Stati Uniti. Assieme al premio Nobel per l’economia Douglas North, ha espresso nelle sue opere la necessità di una “riscoperta delle istituzioni” e ha discusso sulla difficoltà di portare a compimento riforme necessarie alla maggioranza della popolazione.

L’ISIS è l’esercito segreto americano in Medio Oriente – US Historian

Ho tradotto per Voi questa triste conferma che mette in discussione la leadership statunitense in Occidente e nel mondo.
Lo storico statunitense Webster Tarpley dice che gli Stati Uniti hanno creato lo Stato islamico e che usano i jihadisti come il loro esercito segreto, per destabilizzare il Medio Oriente.
lo Stato islamico Leader in Pakistan ottiene i suoi finanziamenti attraverso gli USA.
Lo Stato islamico è un esercito segreto degli Stati Uniti e Abu Bakr al-Baghdadi, leader del gruppo terroristico, è un caro amico del senatore John McCain, dice lo storico statunitense Webster Tarpley, in base alle notizie iraniana IRNA Agency.
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L’autore, noto per il suo libro “9/11 Synthetic Terror: Made in USA”, ha detto che tutto il terrorismo in tutto il mondo è stato creato e agevolato dal governo degli Stati Uniti.
Questi non sono i primi commenti di Tarpley nei quali incolpa gli Stati Uniti per la creazione dello Stato Islamico. In precedenza, Press TV aveva avuto un’intervista con Tarpley durante la quale aveva spiegato la sua logica del perché pensa che gli Stati Uniti siano dietro la creazione del gruppo terroristico.

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Tarpley ha esordito dicendo che il denaro che sostiene lo Stato islamico e le sue operazioni proviene dall’Arabia Saudita, un alleato chiave degli Stati Uniti in Medio Oriente. Il principale donatore dello Stato islamico è presumibilmente il principe Abdul Rahman al-Faisal, il fratello di Saud bin Faisal Al Saud, il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, e il principe Turki bin Faisal Al Saud, l’ex ambasciatore saudita negli Stati Uniti. Detto questo, Tarpley conclude che se gli Stati Uniti avessero voluto sbarazzarsi veramente dello Stato islamico, avrebbero potuto facilmente lanciare un ultimatum all’Arabia Saudita e agli Emirati del Golfo Unito per interrompere l’invio di armi e denaro ai terroristi, in Iraq e in Siria.

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In secondo luogo, la Turchia, membro della NATO, con un enorme esercito, si trova proprio accanto alla città di Kobane e alla guerra combattuta in Siria e in Iraq dai jihadisti. Tarpley pone una domanda importante: perché l’esercito turco non può entrare in territorio siriano e iracheno, territori senza legge e semplicemente ripulire i jihadisti dalla faccia della Terra? Questo potrebbe avvenire in poche settimane, soprattutto se gli Stati Uniti e la NATO fossero così desiderosi di distruggere lo Stato islamico.

In realtà, se gli Stati Uniti avessero pensato che lo Stato islamico fosse una mostruosità che doveva essere distrutta a tutti i costi, la domanda di Tarpley è: Perché la Casa Bianca non si è unita al governo di Bashar Assad in Siria, cioè, a un governo legalmente riconosciuto e a uno Stato membro delle Nazioni Unite, nella lotta contro i jihadisti, per schiacciarli una volta per tutte? E si chiede anche, perché le truppe Usa bombardano le unità siriane fedeli ad Assad, una volta che l’esercito siriano ha iniziato a sconfiggere i jihadisti e a respingerli? Il governo USA è controproducente e insensato nella migliore delle ipotesi, il sostenitore segreto dei militanti nel peggiore dei casi, dice Tarpley.
E, infine, riferendosi al modo in cui il gruppo jihadista sta usando i social media e Internet per diffondere la sua propaganda e per reclutare nuovi combattenti, Tarpley ha detto che vi è un interesse preciso a non arrestare la propaganda dello Stato islamico sul web. Tutte le principali società di Internet sono basate negli Stati Uniti e, quindi, la Casa Bianca potrebbe facilmente limitare, se non chiudere, la presenza dello Stato islamico su Internet, solo che lo volesse.
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Anche se la linea di pensiero di Tarpley potrebbe sembrare un po ‘troppo provocatoria per alcuni, tuttavia, non possiamo negare che le domande che si pone sono comunque importanti. Vi è certamente una connessione tra l’emergere di al-Qaeda e il coinvolgimento americano in Afghanistan nel 1980. E dal momento che al-Qaeda era un antenato dello Stato islamico, ci potrebbe essere la possibilità di un rapporto più intimo tra il governo degli Stati Uniti e gli jihadisti, attualmente tagliatori di teste della gente in Iraq e Siria.
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Per saperne di più: http://sputniknews.com/middleeast/20150222/1018598246.html#ixzz3SUXXxdbs
ISIS Riproduce in noi, Mani della NATO in Siria, Iraq
Arms militanti ISIS Utilizzare US-made, Armi: Report

ORDOLIBERISMO E EURO: LA LUNGA MARCIA DELLA RESTAURAZIONE (Post Fondamentale di Luciano Barra Caracciolo)

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Il Post che segue e’ un Post Fondamentale di Luciano Barra Caracciolo. Voglio sottineare l’importanza del contenuto: in effetti è il clou di tutto ciò che va smascherato e che è alla base della distruzione strisciante della democrazia e del benessere italiani, che vi abbiamo documentato in infiniti articoli. Potete anche approfondire QUI. Buona Lettura. GPG

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1) ORDOLIBERISMO
Per parlare dell’ordoliberismo (o “ordoliberalismo”: la distinzione, fatta in italiano, deriva dalla non conoscenza della lingua inglese, dove non esiste la parola liberism, ma solo quella “liberalism”, che indica indistintamente una dottrina economica e la sua inscindibile ideologia politica) prendiamo spunto da questa citazione di una frase di Giuliano Amato in un’intervista rilasciata in inglese.
La traduciamo così non ci sono equivoci: “Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace – che solleva gli Stati nazionali dall’ansia mentre vengono privati del potere- con grandi balzi istituzionali…Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questa è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee…”.
Rammentiamo poi questa sintesi della natura strumentale dell’ordoliberismo:
“Ordoliberismo: veste €uro-attuale del neo-liberismo che, imperniata sull’obiettivo del lavoro-merce, prende atto dell’ostacolo delle Costituzioni sociali contemporanee (fondate sul lavoro), ed agisce divenendo “ordinamentale”, cioè impadronendosi delle istituzioni democratiche per portarle gradualmente ad agire in senso invertito rispetto alle previsioni costituzionali.”
Questa vicenda di gradualitànell’impossessamento delle istituzioni democratiche, per invertirne la direzione di intervento, cioè per portarle a tutelare e realizzare interessi di segno opposto a quello per cui vennero concepite dalle Costituzioni nate dalla Resistena al nazifascimo, ha una avuto una fase operativa che ne ha consentito l’attuazione tecnocratica, secondo una precisa ideologia economica di tipo restaurativo, come fine ultimo.

2) LE RADICI RESTAURATRICI
Qui una ricostruzione delle radici restauratrici:
“…lo stesso instaurarsi del consumismo di massa in sè, indicava una via di reazione che il sistema conteneva già in sè e consentiva, quindi, un’evoluzione adattativa che restaurasse il modello capitalista auspicato (quello del famoso passaggio di Kalecky).
E questo nella coscienza che ciò potesse farsi con la dovuta gradualità, per attendere sia il consolidarsi della imminente vittoria definitiva sul socialismo “reale”, che lo sfaldamento della linea politico-elettorale caratterizzata da diversi livelli di concessione sul fronte del welfare (che pareva accomunare nella irreversibilità tutti i partiti in campo nei paesi occidentali, nei limiti della funzionalità alla strategia di sedazione dell’avanzata dei partiti comunisti).
Inutile dire che era, specie in partiti come il Repubblicano USA, una linea “rebus sic stantibus” e tatticamente accettata obtorto collo. Lo stesso, poteva dirsi di settori della democrazia cristiana, come dimostra la vicenda dell’evoluzione delle posizioni sulla banca centrale da quella di Carli anni ’70 a quella di Andreatta-Ciampi, primi anni ’80)…”.

3) LA RIVINCITA
Ora questa aspirazione alla restaurazione aveva già espresso, in Europa, (cioè nel contesto in cui sarebbe stato connaturato cercare di applicarlo), un sistema di pensiero economico-politico, in sé compiuto.
Quest’ultimo va identificato nella assoluta contiguità – storicamente attestata da prove inconfutabili (tanto che coloro che si identificano in questa “scuola” non intendono confutarlo ma semmai confermarlo) tra la scuola austriaca di von Mises e von Hayek, e la elaborazione della c.d. “terza via” di Roepke, cioè l’ordoliberalismo in senso proprio (la distinzione attiene più alle biografie dei rispettivi protagonisti, cioè a fortune politiche e mutevoli sedi di insegnamento accademico, che ad una reale separazione politico-ideologica, come vedremo).
L’ordoliberalismo, infatti, fin dalla sua genesi, si pone come un tentativo linguisticamente e ideologicamente (nel senso della enunciazione dei valori perseguiti) mirato a rendere accettabile la sostanziale realizzazione -o “rivincita”- del liberismo, cioè del “governo del mercato” sull’intera società; e questo era considerato attuabile conservando la facciata del soggetto, lo Stato strutturato, che era visto come la principale interferenza contraria a tale realizzazione.

4) L’AVVERSARIO
E’ ovvio che, nella fase storica del nazifascismo, questa visione si potè valere, certamente in Germania e, per certi innegabili aspetti in Italia, della coincidenza (transitoria) dello Stato centrale, – l’avversario tout-court di ogni dottrina liberista-, con quanto storicamente manifestatosi nel totalitarismo militarista e guerrafondaio di tale epoca (almeno nei luoghi di nascita dello stesso ordoliberismo).
La legittimazione, addirittura “pacifista“, del liberismo compromissorio (nella sola fase iniziale) e strumentale (data la permanente mira alla restaurazione del modello liberista nella sua sostanza integrale), poté quindi godere di un’ambigua investitura “etica” di opposizione al totalitarismo.
In effetti, però, l’ordoliberalismo al totalitarismo non rimproverava affatto la soppressione di quelle libertà “attive” (contro cui si era sempre mobilitato) che contraddistinguevano la democrazia abbattutadagli stessi totalitarismi: in altri termini, rispetto alla soppressione-negazione (eventuale) dei diritti c.d. sociali (ovvero di tutela del lavoro e del welfare), considerati dai neo-liberisti di ogni “scuola” quali inaccettabili distorsioni del mercato (in particolare e soprattutto, di quello del lavoro), l’ordoliberismo rimaneva in posizione neutra.
La posizione ordoliberista sulla progressiva natura “interventista” dei totalitarismi, poi, divenne inevitabilmente critica, in nome di un indistinto richiamo alla libertà, dato che i “fascismi“, seppure con livelli quantitativi “non inflattivi” e compatibili con l’alleanza organica col capitalismo industriale nazionale, aderirono in vario modo all’idea rinnovata, (post crisi del ’29), dell’erogazione delle “sicurezze” sociali alle masse governate, come pure a quella di una forte presenza pubblica nel settore bancario.
Anzi, questo versante della critica al nazifascismo, è tutt’ora utilizzato dalla parte liberista più ostinatamente (e strumentalmente) ignara delle reali vicende storiche e dei relativi dati economici: estrapolando le politiche sociali dei totalitarismi come elemento caratterizzante principale (se non unico) degli stessi, il neo-liberismo propone la mistificatoria equazione tra i totalitarismi e lo stesso Stato democratico pluriclasse del welfare (si tratta del fenomeno dell’ Antistalismo libertario “liceale“)

5) LA LEGITTIMAZIONE
Questa confusione – se non altro sulla natura e sulle reali ragioni dell’opposizione del liberismo agli stessi totalitarismi-non può certo dirsi casuale, dato che i totalitarismi fascisti si rivelarono come efficaci rimedi proprio al fallimento dei metodi di controllo sociale in precedenza predicati dall’imperante liberismo, quello dell’epoca del gold-standard, del colonialismo e dell’avversione al “monopolio” sindacale.
Nondimeno, questa militanza oppositiva al nazifascismo, – determinata in ultima analisi dalla (consueta) insofferenza liberista verso mediatori “politici” estranei all’oligarchia liberista, e la cui stessa esistenza attestava la natura fallimentare della società (neo)liberista-, consentì ai liberisti di sedersi al tavolo della “ricostruzione” con un’insperata legittimazione.
Ancorchè, quantomeno in Italia, gli stessi (ordo)liberisti, in sede di Assemblea Costituente, risultassero recessivi; e parliamo proprio degli Einaudi, dei Nitti, e dei vetero-liberisti strettamente connessi, nella loro traiettoria culturale, proprio ai von Hayek-von Mises e ai Roepke.

6) LA COSTRUZIONE EUROPEA
Tutti i passaggi finora accennati possono trovare, senza grandi sforzi bibliografici, un’agevole conferma sia storica che contenutistica, nelle vicende e nelle biografie che contrassegnarono i protagonisti prima del dopoguerra (ri-costruzione), poi della stessa “costruzione europea”, nelle sue fasi “comunitarie” e, successivamente “federal-unioniste”.
Per semplificare questa conclusione consigliamo la lettura integrale di questo paper sul principale teorico dell’ordoliberismo e della (apparente) “terza via“, cioè di quella che sarà poi la struttura fondamentale del Trattato di Maastricht. Va peraltro precisato, secondo la stessa letteratura scientifica che ne ricostruisce la vicenda personale e scientifica, che lo stesso Roepke non proponevala definizione di “terza via” :
“Röpke non disegna una terza via tra l’economia di mercato e l’economia collettivista. Lo dice lui stesso in forma esplicita nel già citato importante scritto del 1961 (L’anticamera del collettivismo): “Chiunque tema il rimprovero d’aver ignorato i segnali della storia mondiale si guarderà bene dal parlare ancora di un “sistema misto”, come se ci fosse una terza possibilità, atta a risparmiare la scelta, spesso scomoda, fra economia di mercato e collettivismo quali principi dell’ordine economico”.
Ma questa esplicitazione semmai conferma la natura “cosmetica” dell’uso del termine “sociale”, accanto a “economia di mercato“, da parte dell’ordoliberalismo e, quindi, degli stessi trattati europei, che tale terminologia pongono al centro della disposizione fondamentale dell’art.3 (par.3) del trattato sull’Unione.

“Significativa è stata anche la partecipazione (di R.), nel 1938, al Colloque di Walter Lippman, famoso tra gli intellettuali di indirizzo liberale dell’epoca, nonchè l’incontro con Luigi Einaudi nel 1944, che diventerà un suo grande amico e con il quale condividerà ampiamente il suo pensiero e le sue teorie: sarà Einaudi ad applicare la teoria della “terza via” di Röpke in Italia per la rinascita economica del secondo dopoguerra; ed infine il periodo passato a Graz (1928-1929), dove entra in contatto con la Scuola di economia austriaca, rappresentata da von Hayek e von Mises.
L’Ordoliberalismo nasce quindi come espressione di due scuole di economia: quella austriaca (Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises) e quella friburghese (Walter Euken , Eugen von Böhm-Bawerk , Alexander Rüstow e Wilhelm Röpke) rappresentata da eminenti intellettuali, considerati i padri dell’economia sociale di mercato…
…E’ importante precisare che l’Ordoliberalismo ha dato i natali a quella “terza via” che si imponeva come opzione tra il liberalismo economico e la pianificazione economica, generando quello che è oramai conosciuto come “economia sociale di mercato”, dove lo Stato assume un ruolo di regolatore al fine ultimo di realizzare il benessere della società in un contesto di libero mercato attraverso i punti programmatici fondamentali dell’economia sociale di mercato.
Questi punti programmatici, nella versione dei padri fondatori dell’ordoliberalismo, si possono sintetizzare così (poniamo in corsivo la corrispondente “traduzione” in previsioni dei trattati UE):

—> un severo ordinamento monetario (che implica l’adesione al monetarismo ed alla convinzione che l’inflazione sia determinata dall’offerta di moneta);
—> un credito conforme alle norme di concorrenza(che pone l’accento sulla privatizzazione “bancaria” dell’emissione di moneta, che consentirebbe la miglior regolazione dell’offerta monetaria, svincolandola dall’interferenza delle politiche di deficit pubblico);
—> la regolamentazione della concorrenza per scongiurare la formazione di monopoli(nella convinzione che la libera formazione dei prezzi, incluso quello del lavoro, sia indicativa di un inappellabile giudizio di efficienza compiuto dal mercato, nella presunta condizione di concorrenza perfetta dell’offerta, ignorando perciò la prevalente struttura oligopolistica della produzione);
—> una politica tributaria neutrale rispetto alla concorrenza (cosa che aspira alla rinunzia a ogni effetto redistributivo della tassazione, visto come interferenza collettivistica sulla libera iniziativa e competizione economica);
—> una politica che eviti sovvenzioni che alterino la concorrenza (ammettendo politiche settoriali mirate sul solo lato dell’offerta, ed eliminando in radice l’ammissibilità di ogni politica fiscale di sostegno alla domanda);
—> la protezione dell’ambiente (con fissazione di standard tali da agevolare la realtà della grande impresa, capace di sostenere la ricerca, la produzione e i costi privati di tali standards;tale “protezione è inoltrevista come politica sostitutiva della tutela sanitaria pubblica generalizzata, da sostituire progressivamente, con un sistema sanitario assicurativo privato);
—> l’ordinamento territoriale (tale da privilegiare le realtà localistiche per assottigliare la presenza degli Stati nazionali, legati “pericolosamente” alle Costituzioni democratiche “interventiste”, cioè che prevedono il sostegno alla domanda e all’occupazione mediante il welfare);
—> la protezione dei consumatori da truffe negli atti d’acquisto (la tutela del consumatore consente di creare un’apparente protezione della “parte debole”, sostitutiva della tutela legale del lavoro, col fine di svincolarlo dalla tutela del welfare e dalla spesa pubblica relativa).”

7) TRATTATI EUROPEI
Si può dunque senza particolare sforzo riconoscere che questi “punti fondamentali” sono ritrovabili con esattezza quasi compilativa nei trattati sull’Unione Europea; nei loro riflessi IMMANCABILI, in termini di regole dominanti nella società interessata (in pratica, quella dei paesi aderenti all’UEM), questi “punti” avrebbero svolto un ruolo fondamentale nella restaurazione del mercato del lavoro perfettamente flessibile che è, poi, in sostanza, la rivendicazione fondamentale del liberismo.
Al momento in cui, come abbiamo visto sopra, maturarono le condizioni per passare dalla fase difensiva (cioè dalle mere resistenze in sede Costituente e nell’attuazione della Costituzione) alla fase “operativa”, l’ordoliberismo si affidò a uomini come Mitterand, soprattutto, lo stesso Amato e Carli in Italia, Tony Blair, Olof Palme.
Con ciò era saldata, adeguandosi ai tempi – di una minaccia “comunista” che si andava dissolvendo, fino alla caduta del Muro di Berlino-, la tradizione “cristiano-democratica” con quella “socialista-liberale”, essendo la seconda molto più in grado, per la sua pregressa legittimazione pro-welfare, di far accettare con immediatezza il “T.I.N.A.”, il “nuovo mondo”, insito nella restaurazione.
Questa restaurazione, (lo vediamo in questi giorni più che mai), veniva quindi proposta come “nuovo”, reso necessario dalla “globalizzazione” e, in realtà, da una liberalizzazione dei capitali e dei movimenti di forza lavoro, e non solo più delle merci, che veniva simultaneamente propugnata e costruita in sede europea fin dagli anni ’80 del secolo scorso.
Sul piano della comunicazione politico-economica, quindi si è andata creando una sorta di petizione di principio: cioè la causazione artificiale (per via del funzionamento effettivo dei trattati)della situazione di squilibrio economico, e poi di inevitabile crisi, giustifica l’affidamento di eccezionali poteri sovranazionali, erosivo delle sovranità nazionali. Quei poteri di cui parla appunto Amato nell’incipit.

8) LA COSTRUZIONE EUROPEA ATTRAVERSO L’ORDOLIBERISMO
Ci sarebbe da interrogarsi sulle mutazioni politico-internazionali che condussero a tale saldatura.
L’auto-proposizione dell’ordoliberismo come “terza via“, (nominalistica e tattica), rese quasi naturale ciò per un processo di “interpolazione“: se occorreva configurare un’alternativa di riequilibrio tra capitalismo sfrenato, divenuto socialmente inaccettabile nell’evoluzione del conflitto di classe nel corso del ‘900, ed ogni forma di economia pianificata e tendente all’inefficiente “collettivismo“, quest’ultimo – via via che si dissolveva, implodendo, il socialismo reale-, finì per essere identificato col modello economico-misto delle Costituzioni democratiche del welfare.
La costruzione europea attraverso l’ordoliberismo, dunque, si rivelò come occasione storica di rigenerazione dei partiti socialdemocratici (o riqualificatisi tali) in funzione antitetica al “costituzionalismo“: si considera eticamente “correct” superare la sovranità costituzionale nazionale in nome della “efficienza” sovranazionale, il “vincolo esterno“. Inizia così, specialmente in Italia, la grande stagione della “revisione” delle Costituzioni del dopoguerra (basate sulla non modificabilità dei principi sottostanti ai diritti sociali).
In generale, in tutta Europa inizia l’offensiva (OCSE-led) delle “riforme“, variamente proposte come soluzioni imposte da una supernorma addirittura sovra-costituzionale. Una proposizione che tende a fardimenticare ogni passato collegamento con il marxismo dei politici che la propugnano e che “nova” la sinistra filo-europea da pro-labor a “progressista“: si crea così una sinistra che viene legittimata, dall’idea di “progresso”, a derogare o a sospendere l’applicazione dei fondamenti costituzionali del dopoguerra.

9) LA BCE E LE RIFORME STRUTTURALI
Questa conclusione sul ruolo dell’ordoliberismo (alquanto lineare per un osservatore non superficiale) può trovare un’autorevole interpretazione autentica nelle stesse complessive parole di Draghi:
– sia nella qualificazione della natura della BCE:
“In this context, it is worth recalling that the monetary constitution of the ECB is firmly grounded in the principles of ‘ordoliberalism’, particularly two of its central tenets:
–> First, a clear separation of power and objectives between authorities;
–> And second, adherence to the principles of an open market economy with free competition, favouring an efficient allocation of resources.”
– sia nel costante e significativo invito di quest’ultimo all’effettuazione di riforme strutturali che altro che non sono che il completamento del mercato del lavoro perfettamente flessibile, auspicato come “essenza autosufficiente” della rivendicazione liberista.

10) LA SALDATURA DELLA SINISTRA EUROPEA E DEI CONSERVATORI
E sul punto specifico, poi, non esiste un fondamentale dissenso tra, più o meno rivendicate, posizioni ordoliberiste “di sinistra” e posizioni più prettamente “conservatrici“.
Entrambe condannano la tutela collettiva dei lavoratori, vista sia come miope perseguimento di “interessi sezionali” forieri addirittura del conflitto tra le Nazioni, sia che fosse, come oggi, sanzionata come principale caso di monopolio “avversario” del funzionamento del magico “sistema dei prezzi” di mercato, tanto più se legittimato dal deprecato riconoscimento normativo dello Stato.
E che questo disegno abbia, per l’Europa, utilizzato come perno la “costruzione federalista” – salvo poi rinnegarlanei fatti, ma nel modo tecnico-paludato e mimetico dei trattati, -, è un fatto storico su cui, il crescendo culminato nei fatti odierni, non dovrebbe lasciare più alcun dubbio.

11) SVUOTARE DALL’INTERNO LA DEMOCRAZIA, CONSERVANDONE LE ISTITUZIONI
L’ordoliberismo, quindi, per la sua natura tattica (cioè di compromesso o “terza via”, abilmente propagandati, per rendere accettabili i suoi fini ultimi) è uno strumento ideologico-politico più efficace della dura teorizzazione anti-keynesiana e darwinista-sociale di Hayek, perlomeno assunta al suo stato più puro: questi è portato ad ammettere apertamente la preferenza per la dittatura rispetto ad una democrazia (evidentemente “sociale”, cioè pluriclasse e non oligarchica) che ostacoli la Grande Società del mercato.
L’ordoliberismo, invece, svuota gradualmente dall’interno la democrazia, predicando il riduzionismo “idraulico-sanitario” della democrazia già definito da Hayek, ma preferendo farlo in una cornice di apparente conservazione del quadro istituzionale.
Cioè, attraverso la mitologia tecnocratica dell’UE, l’ordoliberismo consente lo svuotamento della democrazia sostanziale (“necessitata“) del secondo dopoguerra, con un’alternanza di gradualità ed accelerazioni, sostenute da una forte cornice moralistica, ma tutta e sempre diretta solo contro lo Stato, portatore di sprechi e corruzione, e mai contro il settore finanziario e della grande impresa.Questa proclamazione “moralistica” fa “assomigliare” l’ordoliberismo all’ordinamento democratico, naturalmente imperniato su valori solidaristico-umanistici, eliminando così, almeno ad un primo impatto, il senso di minaccia per le comunità sociali coinvolte.
Almeno fino a quando la minaccia non sia stata tradotta in un risultato acquisito ed irreversibile: la disarticolazione dell’azione pubblica a favore dell’interesse generale di tutti i cittadini, nell’obiettivo di realizzare l’eguaglianza sostanziale (e non solo formale, cioè che prescinde dalle divergenti condizioni sociali di partenza dei diversi individui). Il che ci riporta direttamente al “metodo” teorizzato da Giuliano Amato all’inizio di questa trattazione .
Ma ciò conferma anche il significato dello “stile” della tecnocrazia rivestita da slogan moralistici (pop), quale ci descrive il famoso brocardo di Juncker, che riassume in tutta la sua efficienza la tattica politica ordoliberista:
Luciano Barra Caracciolo

LIBIA: NAPOLITANO, ITALIA DEVE FARE LA SUA PARTE. 13:06 18 FEB 2015

Abbiamo ricevuto, ripropongo e commento per Voi questo messaggio di Giorgio Napolitano sulla situazione in Libia e sul ruolo che dovrebbe avervi l’Italia. Lo definirei un messaggio notarile, puntuale nel descrivere le responsabilità delle decisioni prese a livello istituzionale e, in particolare, del Governo, nella distruzione del regime di Gheddafi. Avrei gradito qualcosa più di una citazione per quanto riguardò la decisione presa dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dall’ONU di attaccare quello che, fino a prova del contrario, era un governo che stava collaborando e si palesava come amico dell’Italia. Non entro nel merito della decisione di Gheddafi di usare il dinaro oro e non più il dollaro negli scambi dei prodotti petroliferi, ma quali furono i reali motivi che spinsero ad annientare un regime del quale si era tollerato ben di più nel passato e che rappresentava per l’Italia una somma di sicurezze, di vantaggi e di opportunità? Sicurezze e opportunità,tutte colte e sviluppate dall’allora Governo Berlusconi e che riguardavano l’energia, l’immigrazione, la cooperazione e che noi italiani pacifisti abbiamo distrutto con le nostre bombe e più di ogni altro, come ha dichiarato di recente l’allora capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, generale Bernardis, nel suo recente libro. Un altro aspetto da sottolineare e del quale ci occuperemo, riguarda la realtà della minaccia rappresentata dall’ISIS in termini numerici e in termini politici. Infatti, sappiamo dal vescovo di Tripoli, che stiamo parlando di un centinaio di esaltati, mentre, da altre fonti, risulta che i finanziatori di questo ennesimo movimento del terrore siano alcuni preziosi alleati degli USA. Quest’ultimo aspetto è focale per comprendere e valutare l’entità della minaccia e le misure che si potranno intraprendere per controllarla; ammesso che saremo liberi di poterlo fare. Sicuramente, approvo e condivido l’auspicio del senatore Napolitano a ricercare “soluzioni politiche e diplomatiche”, mentre, le dichiarazioni bellicistiche del Governo avevano sollevato diverse perplessità, vuoi per la modesta entità della proiezione delle forze prevista, in un’area di tal vastità, vuoi per la temuta sottovalutazione dell’impegno e delle conseguenze che ne sarebbero derivate.
Con l’occasione, invito tutti a registrarsi per la serata di venerdì 27 febbraio p.v., a Dolo, ore 21.00, sui temi costituzionali della presidenza Napolitano che ci hanno fatto discutere. Attendo i Vostri RSVP alla e-mail o via SMS al n.ro 339 4664975. Mario Donnini

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AGI) – Roma, 18 feb. – “Da questo mondo cosi’ gravido di pericoli non possiamo scappare, non possiamo evadere. Questo e’ il nostro dovere”. Lo ha detto, nell’aula di Palazzo Madama, il senatore a vita Giorgio Napolitano, in un passaggio del suo intervento dopo l’informativa del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni.
Per Napolitano l’Italia “deve fare la sua parte”.
“Ho chiesto la parola per esprimere anch’io grande apprezzamento per le dichiarazioni del ministro degli Esteri, per la serieta’ e l’equilibrio di queste dichiarazioni”, ha detto in Aula Napolitano. “L’ho fatto anche perche’ – ha sottolineato – sono stato gentilmente citato per il ruolo da me svolto negli anni trascorsi, compreso quello delle settimane e dei giorni in cui venne deciso che l’Italia partecipasse a un’iniziativa multilaterale di carattere militare di fronte alla situazione venutasi a creare in Libia”, ha spiegato.
“Vale la pena di ricordare che fu un’azione decisa in comune, fu una comune assunzione di responsabilita’, incentrata su chi nel nostro sistema costituzionale aveva ed ha la responsabilita’ delle decisioni in materia di politica estera e di difesa, cioe’ il governo della Repubblica. Vorrei pero’ ricordare che ci fu un amplissimo consenso parlamentare con la risoluzione approvata il giorno 18 marzo dalle Assemblee della Camera e del Senato, che fu qualcosa di molto significativo e importante”, ha osservato. “Alle spalle di quelle decisioni italiane, anche parlamentari oltre che di governo, vi erano state le prese di posizione in sede di Nazioni Unite, in modo particolare l’approvazione della risoluzione del 17 marzo sulla no fly zone e, immediatamente a seguire, le decisioni che vennero prese dall’Italia”, ha detto ancora. Ma “le gratuite polemiche sulla partecipazione dell’Italia all’intervento Nato del 2011 dimenticano che non solo il governo Berlusconi vi aderi’ sulla base dell’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma che fu proprio l’Italia ad adoperarsi perche’ l’operazione, iniziata estemporaneamente – ha proseguito Napolitano – non dimentichiamo, da Francia e Regno Unito, rientrasse interamente nel quadro di gestione politica e militare dell’Alleanza atlantica”. “Un quadro da cui l’Italia, ritenemmo tutti quanti all’epoca, e anch’io nella mia qualita’ di Presidente del Consiglio supremo di difesa, che pure non e’ un organo decisionale, non potesse in alcun modo estraniarsi.
Naturalmente, anche la piu’ ampia legittimazione internazionale non esclude che si possano commettere errori”, ha sottolineato.
“L’errore giu’ grave e’ consistito in una sorta di disimpegno di larga parte della comunita’ internazionale nella fase successiva a quella dell’intervento militare e della caduta o dell’abbattimento del ruolo del presidente Gheddafi”, ha detto ancora il Presidente emerito della Repubblica. “Oggi il quadro e’ anche piu’ complicato per quanto riguarda la legittimazione internazionale, che ancora si puo’ dire in fieri nonche’ sottoposta ad incognite, ed e’ abbastanza difficile a realizzarsi pienamente per debolezze che non possiamo negare nell’organizzazione piu’ rappresentativa della comunita’ internazionale, e cioe’ nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che e’ molto travagliata di fronte alla molteplicita’ delle sfide e delle crisi che in questo momento attraversano il mondo”, ha aggiunto. “Credo che bisogna essere molto attenti e molto seri, ma comunque non si puo’ escludere che possa venire una minaccia concreta da parte delle forze dell’Isis che occupano una parte del territorio libico, e soprattutto non si puo’ escludere la necessita’ di una grandissima vigilanza nonche’ di una grande attenzione a tutto cio’ che va predisposto perche’ l’Italia sia in grado di fare la sua parte, se necessario, in un ambito piu’ ampio e collettivo di intervento che si renda necessario”, ha detto ancora Napolitano. “Un intervento che sia innanzi tutto, e’ inutile ripeterlo, politico e diplomatico”, ha proseguito Napolitano.
“Ho detto da qualche tempo che la ma convinzione e’ che da decenni non si presentava una situazione cosi’ gravida di pericoli, di sfide e di incognite. Non e’ il caso di elencare quanti siano i centri che oggi suscitano preoccupazione e allarme, le situazioni difficili da padroneggiare, le crisi estremamente complicate da risolvere, e pero’ c’e’ solo da dire che noi non possiamo tirarci indietro, come non ci tirammo indietro nel 2011, rispetto a quello che accade in Libia e a tutte le ricadute della situazione libica – ha osservato ancora – E’ stato per citato per tutti il flusso migratorio, in larga parte manovrato e coatto, rispetto al quale le risposte da parte dell’Europa tardano o sono insoddisfacenti, come si e’ dimostrato in questi giorni. Tuttavia, da questo mondo cosi’ gravido di pericoli quello che e’ certo e’ che non possiamo evadere, non possiamo scappare, e questo e’ il nostro dovere”, ha osservato. (AGI) .

E’ DI IERI L’ULTIMATUM DELLA TROIKA ALLA GRECIA: UNA SETTIMANA DI TEMPO PER RINNOVARE IL PROGRAMMA.

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L’incontro tra Yanis Varoufakis e gli altri ministri delle finanze dell’eurozona, di una settimana fa, al Consiglio europeo di Bruxelles, aveva portato a un nulla di fatto. Dalla riunione non era emersa neppure una dichiarazione comune, segno che un accordo di compromesso sui debiti della Grecia non è nel novero delle probabilità. Sul nuovo incontro di ieri, Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’eurogruppo nonché presidente del board di governatori del MES (il fondo Salva Stati) ha specificato che i partecipanti non sono entrati neppure nei dettagli delle proposte della Grecia. l’Unione Europea ha chiesto al Governo di Atene di procedere con il piano di aiuti che scade il 28 febbraio, con tutta la catena di impegni sulle riforme e sulle privatizzazioni previste. Al Governo di Atene è stata concessa una settimana di tempo per dare una risposta. Se Tsipras accetta, nuova riunione straordinaria dell’Eurogruppo venerdì prossimo.
Alla conferenza stampa hanno partecipato il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il Commissario UE per l’Euro Pierre Moscovici e il direttore del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde. Non c’era Varoufakis. Nulla di nuovo, dunque e mentre registriamo una riunione straordinaria dell’Eurogruppo sul terrorismo e sulla crisi in Ucraina, diamo uno sguardo alle chances di Tsipras e Varoufakis.
Intanto, hanno ingaggiato Lazard come consulente governativo.
 Lazard è il dinosauro della speculazione finanziaria di New York, ha lavorato con JP Morgan (come Monti) e Deutsche Bank, creando l’olocausto etiope, prigioniero per almeno ancora 100 anni di questi criminali.
A Lazard lavora anche Gerd Häusle, che ha partecipato, facendo il doppio gioco, a truccare i conti della Grecia prima di entrare in Europa e allo stesso tempo affossandola con i derivati speculativi.
Adesso prevedo un futuro ancora più atroce per la Grecia. Tsipras si troverà di fronte a una sicura guerra civile.
Un aiuto della Russia alla Grecia potrebbe risolvere a breve tempo il problema, ma a lungo termine potrebbe anche essere fatale.
Gli USA, dall’altro lato, sono falliti molti anni prima dell’Europa, ed essendo mille anni luce dalla ripresa, non possono fare altro che sperare in una grande guerra. Ci stanno provando e la Russia è un pretesto facile e a portata di mano.
La Russia a marzo dirotterà i gasdotti in Grecia, per ritorsione agli USA e alla NATO e ha stipulato due enormi contratti con la Cina.
Si riparla dell’idea di stampare monete d’oro eslusivamente per l’acquisto del petrolio, uccidendo così il dollaro.
Se Tsipras non farà la scelta giusta, temo che una guerra prima o poi sarà inevitabile.
 Uscire dall’euro è un atto civile e di buon senso, chi non lo vuole fare è contro il popolo e contro la libertà dei popoli e delle loro costituzioni.

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A dimostrazione di quanto sia cieca, sorda e stolta la politica dell’UE (tedeschi in primis) succederà che la Grecia, con accordi miliardari per ripagare il debito verso l’Europa, farà entrare Russia e Cina creando disordini geopolitici. La Turchia diverrà ancor più un bastione della NATO e aumenterà le sue pretese e la sua influenza sul Medio Oriente. Come e perché la Grecia si è venuta a trovare in questa situazione deve essere oggetto di studio da parte nostra perché siamo sulla stessa strada. Resistiamo più dei greci perchè abbiamo fondamentali economici, tecnici e scientifici differenti e maggiori ma avanti di questo passo con riforme utili soltanto a cedere il 100% della sovranità nazionale all’U.E., vedremo USA, Russia, Cina, Germania, Inghilterra, Emirati Arabi e quant’altri avranno denaro da spendere, partecipare all’asta fallimentare ITALIA.
Le avvisaglie ci sono già state con il decreto sblocca italia o mille proroghe con cui si da fondo alle risorse naturali concedendo a multinazionali straniere l’estrazione di petrolio in cambio di misere royalties.
Questa svendita del sistema produttivo italiano è in atto da anni, come il comparto industriale del latte finito nella holding industriale della Lactalis ai francesi e l’alta moda griffe ecc.., ai tedeschi il comparto della acciaierie e meccanica automobilistica, il settore delle banche assicurazioni e prodotti finanziari agli anglosassoni, perfino le telecomunicazioni vendute agli spagnoli. Si parlava di cedere importanti rami dell’Ansaldo alla Cina. La lista sarebbe infinita.

“IN GOD WE TRUST”! E FATELO!

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Obama non vuole, l’ONU nemmeno. Come faremo? Mac Cain fa lo scemo con l’ISIS; lo frequenta dalla sua nascita, se, addirittura, non ne ha la paternità. Finora, per alzare la temperatura hanno tagliato qualche testa; e domani? Gli USA in politica estera, valgono poco perché non sono accostumati a cooperare con chi è più debole, con chi è stato vinto e a rispettarlo. Non hanno eguagliato la grandezza di Roma imperiale, portatrice di civiltà e grande con i vinti. Hanno lasciato che l’economia s’impossessasse della politica e si sentono i più forti; ma lo sono ancora per poco, perché fino ad ora, in 300 milioni che sono, hanno sfruttato miliardi di uomini, ma questi miliardi sono cresciuti nel numero e vogliono crescere in qualità. Credo, però tristemente, di poter dire che la prima vittima della politica USA sia proprio il loro popolo. Fossero meno codardi i suoi capi, meno succubi del “QUANTO CI GUADAGNO E QUANDO” costruirebbero un solido mercato euro-atlantico; non il TTIP delle loro multinazionali. Favorirebbero una Confederazione europea di Stati sovrani e diversi. Un alleato vero, non quel loro zombie politico che è l’Unione Europea. Farebbero dei paesi del Mediterraneo una porta sull’Africa, non un cimitero dei popoli. L’unica nostra difesa contro le loro creature preferite vogliono che sia la NATO; ma non è più un’alleanza difensiva. E’ offensiva. I suoi obbiettivi sono Russia, Iran e quel che non hanno già bombardato della Siria. Vogliono così, perché di più non possono. Ma, cari amici, chi ha messo al potere in Ucraina il partito nazista (viene a mente chi finanziò il riarmo di Hitler)? Chi ha creato in un anno l’ISIS? un’esercito addestrato di 100.000 tagliagole? chi lo ha armato? chi ha pagato tutti quei pick up, nuovi di fabbrica? chi lo mantiene? a quale strategia fa capo? A VENETO UNICO, la vediamo così: USA, POLONIA, ISRAELE, ARABIA SAUDITA, QATAR , non ultima, la TURCHIA, pensano di trarre vantaggio dalla restaurazione della guerra fredda, dall’assedio della Russia, dalla destabilizzazione del Mediterraneo e dalla soggezione dell’Europa. Pensano di salvare il sanguinoso dominio del dollaro aprendo fronti su fronti. Sbagliano, ma, a pagare, saremo anzitutto noi. I 10.000 europei dell’Ucraina, i Kurdi, gli iracheni, i siriani, i libici morti li maledicono. La sciatemi sperare. Spero che il grande popolo statunitense faccia della pace e del rispetto fra i popoli lo stendardo che lo guiderà ad un nuovo impero, dove la spiritualità prevalga sul materialismo e dove a comandare non sia una vile moneta. La Cina delle formiche, l’India delle caste, nulla potrebbero perché l’economia cede sempre alla fede. L’Europa degli europei – Credo – sarebbe con loro. In questa analisi c’è l’auspicio, ma anche tutto il rancore di chi ha creduto e ha servito accanto alle stelle e strisce. Se questa mia analisi pessimistica non è veritiera, l’ISIS non costituirà una minaccia e sarà facilmente debellato.

LE MULTINAZIONALI DELL’AGROINDUSTRIA ALL’ASSALTO DELL’ UCRAINA, IN ATTESA DEL TTIP.

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l’Ucraina, la Grecia e l’Italia sono l’immagine triste di ciò che la finanza USA farà dell’Europa: in Ucraina con le armi, in Grecia con la finanza e in Italia con i massoni.
l’Ucraina è detta il granaio d’Europa. E’ il terzo maggior esportatore di mais,
l’Ucraina è il quinto esportatore mondiale di grano,
l’Ucraina ha 32 milioni di ettari di terra coltivabile equivalente a un terzo totale della terra produttiva dell’Unione Europea.
Mentre il conflitto armato ucraino s’infiamma, le multinazionali del settore agricolo Monsanto, Cargill e DuPont conquistano sempre più terreno.La stipula del TTIP gli aprirà, poi, le porte dell’Unione Europea.
Questa è la democrazia a stelle e strisce.

Dal 2 dicembre scorso l’Ucraina ha un nuovo governo, un governo fortemente appoggiato dalle potenze occidentali e unico al mondo per una particolarità: tre dei suoi più importanti ministri sono nati all’estero e il presidente Poroshenko ha concesso loro cittadinanza ucraina poche ore prima di assumere l’incarico.
Si tratta del lituano Aivaras Abramavicius, ministro dell’economia, del georgiano Alexander Kvitashvili a cui è andato il ministero della sanità, uno dei settori più corrotti del paese, e infine della nordamericana Natalie Jaresko, residente in Ucrania dagli anni ’90, amministratrice di Horizon Capital (fondo di investimento con sedi in Ucraina e Usa), che si è aggiudicata il ministero delle finanze.
Secondo quanto riportato da Limes, “nel nuovo esecutivo ci saranno altri stranieri, circa venticinque. Serviranno nei ministeri e sono stati reclutati da rinomati cacciatori di teste internazionali. Il processo è stato sostenuto finanziariamente dalla Reinassance Foundation, organizzazione con sede a Kiev. Fa parte della costellazione di gruppi patrocinati dalla Soros Foundation”.
Questa inusuale presenza di stranieri, che rende unico il governo di Kiev, è coerente con il predominio che gli interessi occidentali sull’economia ucraina.
Frédéric Mousseau, e l’istituto da lui diretto l’Oakland Institute, ha documentato questa trasformazione in due recenti relazioni, la prima sulla presenza del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale nel conflitto in Ucraina (Walking on the West Side: The World Bank and the IMF in the Ukraine Conflict) e il più recente sulla penetrazione delle multinazionali occidentali nell’agricoltura ucraina (The Corporate Takeover of Ukrainian Agriculture).
Per Frédéric Mousseau, il principale fattore della crisi che ha scatenato un’ondata di proteste e forzò la rinuncia del presidente Viktor Yanukovich nel febbraio del 2014, è stato il suo rifiuto a sottoscrivere un accordo di associazione con l’Unione Europea (EU), concepito per espandere il commercio bilaterale e integrare l’economia dell’Ucraina a tale blocco. L’accordo era vincolato ad un credito di 17.000 milioni di dollari elargiti dal FMI.
Dopo l’allontanamento di Yanukovich e la formazione di un governo filo-occidentale, riporta lo studio dell’Oakland Institute, il FMI ha iniziato un programma di riforme orientato ad incentivare gli investimenti privati in Ucraina. Un pacchetto di misure che comprendeva la privatizzazione del rifornimento di acqua e energia, e assegnava una consistente importanza a ciò che la Banca Mondiale identificava come “le radici strutturali” dell’attuale crisi economica ucraina, in primo luogo gli elevati costi che gravano sulle imprese private.
“L’agricoltura – scrive Mousseau su Ips– è stato l’obiettivo principale degli investimenti stranieri in Ucraina ed è considerata, da FMI e Banca Mondiale, un settore prioritario del programma di riforme”. Ovviamente le due istituzioni si sono congratulate per la velocità con cui il governo ucraino ha seguito il loro consiglio: ora il programma di riforma sottoscritto da paese prevedere agevolazioni per l’acquisto di terreni agricoli, l’eliminazione di controlli e regolamenti in materia di produzione di alimenti, nonché la riduzione di imposte e di dazi doganali.
Per rendere l’idea la relazione di Oakland Institute riporta pochi ma significativi dati per descrivere la grandezza dell’agricoltura ucraina:
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Il controllo del sistema agricolo ucraino è un fattore fondamentale nel conflitto in corso, il maggior conflitto tra Est e Ovest dalla fine della Guerra Fredda. La presenza delle company straniere nell’agricoltura dell’Ucraina si è estesa rapidamente e, secondo i dati raccolti dall’equipe di Mousseau, negli ultimi anni sono stati messi in vendita e venduti 1,6 milioni di ettari di terra coltivabile a multinazionali del settore agricolo. E’ vero, certo, che company statunitensi come Monsanto, Cargill e DuPont sono presenti da tempo in Ucraina, ma recentemente i loro investimenti nel paese sono cresciuti esponenzialmente.
Cargill produce pesticidi, sementi, fertilizzanti ed ha aumentato i suoi investimenti in depositi di grano e alimenti per animali, contemporaneamente ha acquisito partecipazioni nella UkrLandFarming, la principale e più potente impresa agroindustriale dell’Ucraina.
Per quanto riguarda invece Monsanto, il rapporto dell’Oakland Institue riporta che la company nordamericana ha duplicato negli ultimi tre anni il suo personale in Ucraina. A marzo del 2014, qualche settimana prima dell’uscita di scena del presidente Yanukovich, Monsanto ha investito nel paese 140 milioni di dollari nella costruzione di una nuova fabbrica di semi.
Anche l’espansione di DuPont comprende la costruzione di una fabbrica di semi.
Tutto lascia intendere che il disegno delle company occidentali non si ferma al controllo di alcune attività agricole redditizia, il loro obiettivo è l’integrazione verticale del settore agricolo, e si sta già estendendo al trasporto e alle infrastrutture.
Cargill, per esempio, possiede ora quattro silo per stoccaggio di grano e due fabbriche per la produzione di olio di girasole, nel dicembre del 2013 ha acquistato il 25 per cento di un terminal nel più grande porto del Mar Nero, quello di Novorossijsk, con la capacità di preparare all’export circa 3,5 milioni di tonnellate di grano ogni anno.
In ogni fase della catena agricola, dalla produzione di semi al trasporto delle esportazioni, il controllo delle company occidentali è in aumento. E anche se l’Ucraina non permette la produzione di alimenti geneticamente modificati (ogm), l’accordo tra Kiev e l’UE prevede una clausola – all’art. 404 precisa Mousseau – che impegna le due parti a cooperare per “estendere l’uso delle biotecnologie” in Ucraina. Si tratta di una clausola che attira l’attenzione perché implica una apertura verso l’importazione di alimenti geneticamente modificati in Europa, grande target delle company produttrici di semi come Monsanto, ma dove gli ogm sono fortemente rifiutati dalla maggior parte dei consumatori.
Tuttavia, non si capisce come tutto questo cambiamento potrà andare a beneficio degli ucraini, e quali saranno le conseguenze di quest’ondata di investimenti stranieri per i sette milioni di agricoltori locali. Quando cesserà il conflitto nel settore orientale pro-russo, gli ucraini si chiederanno cosa è rimasto della capacità del loro paese nel controllo dell’approvvigionamento di cibo e nell’amministrazione di una economia nel rispetto degli interessi del paese. Alla fine, conclude Mousseau, “c’è solo da sperare che presto cittadini europei e statunitensi non ascoltino più le retoriche assordanti sulla aggressione russa e i diritti umani, è inizino a mettere in discussione l’ingerenza dei loro paesi nel conflitto ucraino”.
di Marina Zenobio
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Da quasi un anno la Rai promuove l’accordo commerciale di libero scambio con gli Stati Uniti. Il Trattato Transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP o TAFTA) è pensato per allargare il Mercato Unico Europeo oltre l’Atlantico. Un tale accordo creerebbe una sorta di Nato del commercio sotto l’egida degli Stati Uniti.

La Rai spinge per il TTIP, ne magnifica la portata, e per il bene dell’Italia si adopera affinchè venga realizzato. Ma l’accordo non è noto ai comuni mortali, lo stanno portando avanti le commissioni europee nel segreto delle stanze dei bottoni e, una volta concluso, il Parlamento Europeo si troverà nella condizione di accettarlo o respingerlo senza poter mettervi mettere mano. Le multinazionali ci considerano al contempo delle mucche da cui mungere i soldi e dei maiali da ingrassare con le schifezze reperibili oltre l’Atlantico.