Archivi categoria: Politica estera Marocco

6074.- I dilemmi europei nel Sahel

Dilemmi anche italiani perché la solidarietà attiva che ispira il Nuovo Piano Mattei deve caratterizzare iniziative di entrambi gli imprenditori europei e africani e trovare nell’Unione europea un garante; come dire che l’Italia, da sola, può ben poco. Era scontato che gli interessi che gravitano nel Sahel avrebbero reso il cammino irto di ostacoli. Africa ed Europa sono legate a un destino comune e le missioni francesi e quelle ONU non sembrano gradite alle giunte militari che hanno preso il potere. Ci auguriamo che la diplomazia e la politica italiane sappiano trarre profitto da queste difficoltà e che intensifichino i loro sforzi con progetti concreti.

Degage France terroriste vampire

Degage l’Armèe francaise du sol malien

Da Affari Internazionali, di Bernardo Venturi, 13 Novembre 2023

Modibo Keita International è l’aeroporto di Bamako, capitale del Mali. É adiacente all’Air Base 101, usata dalla Mali Air Force, con alcuni Mig-21F.

Gli aeroporti di Bamako e di Niamey sono affollati di soldati nelle ultime settimane. La Missione di Stabilizzazione Integrata Multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) sta lasciando il paese, con migliaia di effettivi e centinaia di mezzi in movimento, non senza rischi e una logistica complessa. Si sono infatti verificati già sei incidenti da quando le forze di pace hanno lasciato la loro base nel nord di Kidali il 31 ottobre per compiere il viaggio stimato di 350 km verso Gao, per un totale di 39 feriti.

Un ultimo tributo di sangue della missione: con 310 morti in 10 anni è la seconda più letale della storia, seconda sola a Unifil in Libano (332 caduti). Il ritiro della missione era stato chiesto dalla giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goïta, al potere dall’agosto 2020 dopo aver deposto con un golpe il presidente Ibrahim Boubacar Keïta.

La giunta miliare in Mali, dopo aver messo alla porta diversi diplomatici e contingenti militari europei, in primis francesi, ha quindi rinunciato anche a Minusma, benché non sembra in grado di sostituirle adeguatamente. La missione dell’Onu sta lasciando 12 basi nel centro e nel nord del paese, oltre a quella principale di Bamako. La poca collaborazione della giunta militare e il peggioramento delle condizioni di sicurezza hanno accelerato il ritiro e non stanno però permettendo un regolare passaggio di consegne alla autorità maliane.

In questo spazio vacante, i gruppi dell’Accordo Permanente Strategico nel nord del Mali – in predominanza Tuareg– ha dichiarato di avere occupato una base nella regione di Kidali subito dopo l’evacuazione del 31 ottobre scorso. Nel rapporto con i gruppi dell’Azawad rimane infatti un altro nodo critico. Il rapporto con la giunta militare si è progressivamente incrinatoarrivando a scontri armati diretti e mettendo ulteriormente in crisi l’accordo di pace di Algeri del 2015 che aveva messo fine alla guerra con il nord separatista.

La gestione dello spazio e delle basi nel nord del Mali ha però radici più profonde. Dopo l’intervento a fianco del governo di Bamako dalla fine del 2012 con l’Operazione Serval, la Francia non ha mai di fatto passato il testimone alle Fama, l’esercito maliano, tenendo per sé spazi cruciali. Questo approccio, così come altri post-coloniali in ambito politico, sociale e culturale, hanno favorito un sentimento antifrancese e antioccidentale sui quali negli ultimi anni la propaganda russa ha avuto gioco facile a giocare un ruolo incendiario.

Cercasi partner affidabile

Dopo anni passati a rimarcare la priorità del Sahel e a cercare partner credibili, l’Ue e gli stati europei non sanno letteralmente cosa fare. Fino al colpo di stato in Mali del 2020, Bruxelles aveva individuato nel Bamako il partner centrale per la regione. Ma i due colpi di stato nel paese, e soprattutto l’arrivo dei mercenari del Gruppo Wagner, hanno creato un notevole imbarazzo diplomatico, in particolare per la missione di training militare EUTM: restare con il rischio di incrociare i russi o lasciare il paese? Dopo vari tentennamenti e con il Burkina Faso segnato dai due coup d’état nel 2022 e da una crisi istituzionale e di sicurezza fuori controllo, l’Ue ha volto lo sguardo verso il Niger, indicando il presidente nigerino Mohammed Bazoum come il nuovo partner affidabile. Ancora una volta, un colpo di stato sta stravolgendo i piani e Bazoum si trova in stato di fermo dal 26 luglio scorso. Mentre i canali umanitari e di cooperazione allo sviluppo rimangono attivi con il Sahel, la postura politica e diplomatica sembra inseguire più vie d’uscita che strategie.

Riflessione strategica

Intanto Joseph Borrell nelle settimane scorse ha ammesso che i 600 milioni di euro investiti nell’ultimo decennio nelle missioni civili e militari nel Sahel non hanno portato i risultati sperati. Mentre l’Alto Rappresentante non nasconde che anche la missione militare in Niger ha le ore contate, prima di volgere lo sguardo al prossimo “partner fidato” (Mauritania?), servirà una riflessione più approfondita sul rapporto tra Europa e Sahel, a partire anche dagli errori commenti, come quello di dare priorità a un approccio securitario che ha messo in secondo piano quello integrato. Intanto, però, nonostante non venga detto ufficialmente, difficile togliersi l’idea che il Sahel stia diventando una regione sempre meno prioritaria.

Foto di copertina EPA/STR

Cosa intendiamo? In Mali, un valido esempio di quella che chiamiamo soplidarietà attiva sono le operazioni di magazzinaggio su larga scala della logistica Bolloré che possono fornire un servizio di movimentazione e magazzinaggio per conto di fornitori leader a livello mondiale di informazioni. Ma la Francia non è stata soltanto un vampiro. Bolloré è un impresa francese, una holding fondata nel 1822 con sede a Puteaux nella periferia ovest di Parigi, in Francia. Nata come industria cartaria, ha espanso le sue operazioni a molti altri settori, come il trasporto e la logistica, le distribuzione energetica, i film plastici, la costruzione di automobili e i mass media. Gli imprenditori sono la nostra Wagner.

Rémi Ayikoué Amavi è l’amministratore delegato di Bolloré Transport & Logistics Mali dall’agosto 2021.

Di nazionalità beninese, Rémi Ayikoué Amavi è entrato in Bolloré Transport & Logistics nel 2006 presso la filiale della società nella Guinea Equatoriale, dove era responsabile dello sviluppo commerciale delle attività logistiche. Diventa poi Amministratore Delegato nel 2017.

Rémi Ayikoué Amavi è laureato in Management e Strategia aziendale presso l’ENACO-Lille. Utilizzerà la sua esperienza per sviluppare attività logistiche in Mali. In particolare, si avvarrà della rete di Bolloré Transport & Logistics in 109 paesi e dell’esperienza dei suoi dipendenti per migliorare i servizi al Paese.

Circa la Bolloré Transport & Logistics Mali

Bolloré Transport & Logistics Mali è l’operatore leader nei trasporti, logistica e movimentazione. L’azienda, presente anche in Italia, impiega ora più di 200 persone in Mali, in particolare attraverso le sue agenzie a Bamako, Kayes, Sikasso e Kati, e gestisce anche i porti asciutti di Soterko, Faladié e Kali. Bolloré Transport & Logistics Mali attua una politica sociale a beneficio della popolazione maliana, che si riflette ogni anno nel sostegno di numerose azioni di solidarietà nei settori dell’istruzione e della sanità.

www.bollore-transport-logistics.com

6041 .- Ecco il Piano Mattei che intende rivoluzionare la politica estera italiana

Da La Voce del Patriota, di Cecilia Carapellese, 3 Novembre 2023

Sin dal suo insediamento Giorgia Meloni ha posto come priorità la realizzazione del cosiddetto Piano Mattei, presente tra l’altro anche all’interno del programma di Fratelli d’Italia presentato in occasione delle elezioni del 25 settembre 2022.
La ratio alla base di questo progetto è non solo quella di porre un freno all’annosa questione della migrazione illegale, ma anche e soprattutto quella di creare una partnership strategica che possa produrre effetti benefici sia per l’Italia che per l’Africa, rivalorizzando in particolare questo continente troppo spesso poco o mal sfruttato.

Stando a quanto si legge, i dettagli del Piano arriveranno oggi- 3 novembre- in Consiglio dei Ministri.

Una cabina di regia, presieduta dal presidente del Consiglio e che coinvolgerà anche il Ministro degli esteri, e una struttura di missione, guidata da dirigenti ed esperti, dovrebbero essere il fulcro del progetto ideato e voluto dal premier e dalla maggioranza.
Avrà una durata di quattro anni e potrà essere aggiornato ogni anno, e sarà rendicontato con una relazione al Parlamento.
La premessa sarebbe quella della “necessità e urgenza di potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del continente africano al fine di promuovere lo sviluppo economico e sociale e di prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari.”

Il Piano Mattei, come accennato anche in diverse altre occasioni dal Capo di Governo, intende focalizzarsi su diversi settori, dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, dal sostegno all’imprenditoria (in particolare quella giovanile e femminile), alla ricerca e innovazione, dall’agricoltura e sicurezza alimentare alla promozione dell’occupazione, dell’ istruzione e della formazione professionale, dalla valorizzazione delle risorse naturali alla tutela dell’ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, dall’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture alla valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico (anche nelle fonti rinnovabili). E, ovviamente, un occhio di riguardo in tema di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare.

L’operazione non è facile e i rischi sono molto alti, tenendo anche conto delle numerose crisi politiche e sociali che sono radicate in tutto il territorio africano, e che, drammaticamente, si aggiungono ai due conflitti su larga scala nel blocco russo-ucraino e in quello mediorientale. Per non parlare poi delle influenze sempre più marcate di Cina e Russia, che, a causa anche del disinteresse dell’Europa, hanno preso il potere in Africa.

La sfida in questa fase è dunque molto intensa, perché non solo l’Italia- e più in là si spera anche l’Ue- dovrà riconquistare i partner africani offrendo loro una soluzione a lungo termine, convincendoli di voler costruire un solido rapporto basato sui principi dell’uguaglianza e del rispetto, ma lo dovrà fare con una serie di variabili internazionali che appaiono sempre più difficili da gestire e da disinnescare.
Con il progetto che approda in Cdm il Governo mette in campo tutti gli strumenti che ritiene opportuni e che potrebbero portare al successo dell’iniziativa.
Ed è questo il segnale più potente e tangibile che l’esecutivo di centrodestra può lanciare, a riprova della priorità che viene data al Piano.
È esattamente in questo modo che si intende realizzare, per davvero, una rivoluzione. Una rivoluzione in termini del nostro peso in politica estera e di credibilità internazionale, tenendo sempre in considerazione la necessità di tutela e promozione della sicurezza e della grandezza italiana nel mondo.

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5434.- Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice di Monteforte.

Non solo gasdotti e non solo oleodotti, anche le reti e i sistemi informativi che vedete richiedono misure di prevenzione dagli atti terroristici e dai danneggiamenti dei cavi a causa della pesca a strascico e ancoraggio nelle zone vietate

Nel Potere Marittimo la sommatoria funzionale delle componenti è, come sempre, maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. La capacità di protezione delle infrastrutture sottomarine strategiche nel Mediterraneo che garantiscono il trasporto delle informazioni e l’approvvigionamento energetico italiano è una di queste componenti. L’Italia ha recepito la direttiva europea Network and Information Security, Nis, per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e la Guardia Costiera e la Terna SpA hanno implementato un protocollo di collaborazione. Il controllo del Canale di Sicilia e la cooperazione con le marine della costa africana e di tutto il Mediterraneo si pongono fra i cardini del sistema difesa Italia e rappresentano un invito ulteriore a ricercare la comunanza fra i Paesi rivieraschi attraverso il mare. Il futuro dell’Italia “è” nel Mediterraneo.

Da Formiche.net, di Gaia Ravazzolo | 09/10/2022 – 

Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice

Le Forze armate tornano a guardare al dominio marittimo e alla sua sicurezza, anche in risposta alla crescente vulnerabilità delle infrastrutture strategiche sottomarine preposte a provvedere all’approvvigionamento energetico. Per proteggere tali infrastrutture “bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido” secondo l’ammiraglio Sanfelice di Monteforte

L’attenzione delle Forze armate sta tornando sulla dimensione marittima e sottomarina. Dopo il danneggiamento del Nord Stream è stato lanciato un allarme globale sulla vulnerabilità delle reti energetiche subacquee, accolto anche dal nostro Paese. Proprio la scorsa settimana infatti l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, ha parlato di un piano lanciato in accordo con il ministro Lorenzo Guerini per aumentare le misure di tutela a protezione delle infrastrutture strategiche nel Mediterraneo che garantiscono l’approvvigionamento energetico italiano, a partire dal Canale di Sicilia. Impegno ribadito anche nei dibattiti del Trans-regional seapower symposium di Venezia. Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici.

Il nostro Paese riconosce il Mediterraneo allargato quale principale area di riferimento strategico. Quale ritiene dovrebbero essere le priorità nazionali per permettere all’Italia di assumere un ruolo da protagonista nella regione? 

La massima priorità, affinché il Paese conservi il proprio livello di benessere, è la salvaguardia del commercio internazionale marittimo. Insieme al commercio ci sono le infrastrutture marittime quali oleodotti, gasdotti, cavi sottomarini legati alla connettività ecc. Il desiderio italiano è di voler giocare un ruolo da protagonisti in quest’area e per farlo c’è un solo modo: adottare la strategia del “fratello maggiore”. Dunque, essere benevoli verso tutti e favorire le sinergie nella regione, come si fece una quindicina di anni fa favorendo lo scambio di informazioni virtuali per tutta l’area del Mediterraneo, organizzato proprio dalla Marina militare italiana. Ne è un esempio il caso dell’Algeria, che abbiamo supportato per anni e che ora ci sostiene a sua volta attraverso le forniture energetiche. Parallelamente a questo, vi sono le riunioni periodiche a carattere biennale del Trans-regional seapower symposium proprio per conoscere e riunire insieme i capi delle Marine militari dell’area, per cercare di instaurare nuove collaborazioni e sinergie, in un’ottica di scambio reciproco.

La centralità del Mediterraneo è un elemento strategico non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa e la Nato. Ci sarà bisogno di implementare sinergie con gli alleati. L’Italia può ambire a una posizione di leadership di queste probabili iniziative future, e come?

Nell’ambito europeo l’Italia è già una potenza in questo senso. Mentre nella cornice Nato occupiamo una posizione più defilata. Questo perché disponiamo di un livello di forze nelle tre dimensioni – terrestre, aerea, marittima – che è considerato dai nostri alleati inferiore rispetto a quello che potremmo esprimere, non in senso qualitativo ma quantitativo. Quindi, nell’Alleanza Atlantica siamo ancora un po’ “al traino” degli altri. Mentre in Europa possiamo influenzare in modo più significativo la politica comunitaria. Ciò nonostante, vi è da fare una precisazione. Ultimamente con questa nuova attenzione al dominio marittimo prevale un sentimento di giusto orgoglio nazionale e il conseguente desiderio di avere una posizione preminente rispetto agli altri. Tuttavia, ad oggi quello che dovrebbe prevalere è il sentimento e la voglia di sopravvivenza economica, e non solo fisica.

Al recente simposio di Venezia, il capo di Stato maggiore della Marina, Enrico Credendino, ha parlato della necessità di un approccio olistico per garantire la sicurezza delle vie marittime. C’è necessità di superare una sorta di sea-blindness che colpisce il sistema Italia. Che ruolo dovranno avere le forze navali nazionali in questo senso?

Il ruolo delle forze navali nazionali è da una parte quello di prevenire le crisi e sedarle, e dall’altra proteggere sia il commercio sia le infrastrutture strategiche. Questo fa parte di un approccio olistico perché le Forze armate, e in particolare le Forze della Marina militare, non sono più occupate solo nel portare avanti battaglie navali ma sono impegnate a creare una situazione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile.

Quali sono gli strumenti a disposizione del nostro Paese e della Marina militare per provvedere alla protezione di cavi e pipeline in modo da continuare a garantire la connettività e l’approvvigionamento energetico?

Sono 1.500 km di cavi sottomarini che saranno sorvegliati dalla Guardia Costiera e da Terna SpA

In primo luogo è necessaria una sorveglianza particolare nelle zone di passaggio di tali infrastrutture critiche, che dovrà inevitabilmente essere ampliata e ingrandita nella sua portata. Per adesso stiamo puntando alle infrastrutture subacquee più vicine e quindi si dovrà pensare e provvedere un po’ a tutte quelle infrastrutture che esistono nell’area. In secondo luogo bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido. Siccome non è possibile prevenire le minacce in modo completo al 100%, si dovranno creare delle capacità di intervento rapido per fermare eventuali conseguenze e ripercussioni dovute a sabotaggi o guasti.

Di fronte alla crescente rilevanza della dimensione marittima e sottomarina, è importante puntare sull’innovazione. Che ruolo può giocare in questa dimensione la componente unmanned?

Le Marine dispongono e impiegano la componente unmanned ormai da vent’anni, non è qualcosa di nuovo. Tuttavia, solo nell’ultimo periodo si sta ampliando ed espandendo sempre di più. Innanzitutto, la componente unmanned è stata usata, e viene usata ancora oggi, per la “guerra di mine”. Così da sminare le aree di mare che sono state minate in passato. Poi vi sono degli altri sistemi subacquei, di più recente introduzione al servizio, quali i sommergibili, che possono lanciare dei droni a guida remota e non solo. In questo quadro bisogna però considerare anche i sistemi che possono agire ed essere sopra la superficie, dal momento che finalmente si stanno sviluppando i droni lanciabili e recuperabili dal mare. Dunque, la componente unmanned per la Marina non è certamente una novità, ma ricopre un ruolo molto rilevante. D’altronde è molto più pratico mandare un mezzo unmanned a sorvegliare le aree che ospitano infrastrutture critiche, piuttosto che dispiegare un elicottero con quattro persone a bordo.

5208.- La NATO crea nuovi obiettivi in Italia e in Germania. Erdogan: mano libera sul popolo Curdo

Aggiornato 30 giugno 2022.

Insieme ai tedeschi, saremo il primo obiettivo russo della guerra nucleare voluta da Biden. Ripeto: Insieme ai tedeschi, saremo il primo obiettivo russo della guerra nucleare voluta da Biden.

Al summit NATO, Draghi a coperto con una dichiarazione sciocca sui curdi la delicatezza degli argomenti guerreschi di Biden e Stoltenberg!

Lo schieramento di armi nucleari, ipersoniche, a medio raggio americane fa dell’Italia un bersaglio atomico, obbligato e prioritario per la Russia e deve essere approvato con referendum e dal Parlamento.

Turchia, Svezia e Finlandia hanno firmato un memorandum d’intesa sulla pelle del popolo curdo. Lo riferisce l’agenzia turca Anadolu.

Un popolo senza diritti e senza patria. Il suo motto: Non abbiamo altri amici che le nostre montagne.

Questa NATO è orrida. Con Biden, è venuta meno la simpatia fraterna che ci ha legato agli Stati Uniti. La Svezia per entrare nel business NATO rimanda ai turchi i profughi curdi che aveva accolto. La condizione di Erdogan per l’ingresso della Svezia nella Nato era riconoscere che i curdi sono terroristi e estradarli In Turchia, accettando di fatto una persecuzione etnica. I curdi sono quelle persone per loe quali battevano i cuori dell’l’Occidente, a partire dagli Stati Uniti e noi con loro. Ricordate le donne combattenti di Kobane? Ottenuto il prezzo del ricatto, la Turchia ha ritirato il veto all’ ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia. Ora, Erdogan potrà far massacrare o, più probabilmente, gassare, i curdi come ha sempre desiderato. Pur di riuscire a controllare la Federazione Russa i paladini dei diritti umani sbandierati dall’ Occidente rinunciano al loro e al nostro onore. Avanti così Biden e avanti Erdogan! ma l’orrore non finisce qui: Il presidente del Consiglio Draghi appoggia l’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia, approvando la consegna del popolo curdo (I curdi, sì, che hanno combattuto per la ns LIBERTÀ, non l’Ucraina). Draghi s’inchina al Sultano Erdogan, che lui stesso aveva chiamato dittatore e che, da oggi, è diventato statista; ma, ammettiamolo: L’avessimo noi un Erdogan!

Biden al summit Nato annuncia più truppe anche in Italia, e dove? a Pisa? Cade il veto turco a Svezia e Finlandia.

Ci occupano; ma non ci avevano liberato?

Pisa. 70 ettari di bosco che a breve saranno sacrificati per una base militare pro USA. Non siamo in Corea, ma IN TOSCANA NEL 2022, NEL “PARCO DI SAN ROSSORE”. La base militare sarà realizzata con i fondi del PNRR dopo l’ok del presidente Mario Draghi. E qui che faranno base i sistemi mobili lanciamissili ipersonici della Lockheed Martin?

Un bosco patrimonio della Regione Toscana tra i più belli d’Italia trasformato in base militare del Patto Atlantico o Patto Leonino.

San Rossore. Sarà questa la nuova base dei missili ipersonici nucleari con lancio da piattaforme terrestri mobili, prodotti dalla Lockheed Martin; missili con gittata tra 500 e 5500 km: un vero pericolo per la Russia!

mercoledì 29 Giugno 11:17 – di Vittorio Giovenale

summit Usa, Biden

Gli Stati Uniti dispiegheranno “difese aree aggiuntive e altre capacità in Germania e Italia”. Lo ha annunciato il presidente americano Joe Biden, parlando del rafforzamento della presenza militare statunitense in Europa in un breve incontro con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, prima dell’inizio del summit di Madrid. “Oggi annuncio che gli Stati Uniti miglioreranno la loro postura di difesa in Europa per rafforzare la nostra sicurezza e rispondere alle sfide”, ha detto il presidente americano. Nel concreto, dagli Usa arriveranno altre truppe e mezzi nel continente.

“Qui in Spagna lavoreremo con il nostro alleato per aumentare i cacciatorpediniere che abbiamo nella base navale di Rota, che passeranno da quattro a sei – ha annunciato Biden – In Polonia creeremo una sede per rafforzare la nostra collaborazione con la Nato. Avremo una brigata a rotazione di tremila soldati e altri tremila anche in Romania, manderemo due squadroni nel Regno Unito e difese aree addizionali e altre capacità in Germania e Italia”. Traduciamo il messaggio volutamente ermetico. Per difese aree addizionali possiamo intendere batterie di missili PATRIOT a difesa delle armi nucleari USA, per esempio, delle basi di Ghedi e Aviano, mentre per altre capacità possiamo intendere i nuovi sistemi missilistici ipersonici a raggio intermedio,  guidati dai sistemi satellitari della Forza Spaziale degli Stati Uniti annunciato dal C.S.M. dell’US ARMY generale McConville.

Lo schieramento di queste armi nucleari, ipersoniche, a medio raggio fa dell’Italia un bersaglio atomico obbligato e prioritario per la Russia e deve essere approvato con referendum e dal Parlamento.

Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e l’Agenzia di ricerca del Pentagono avevano già annunciato della decisione degli Stati Uniti (non dell’Italia) di schierare in Europa (si parlava di una probabile prima base in Polonia o Romania) missili ipersonici armati di «vari carichi bellici», ossia di testate nucleari e convenzionali. Si tratta di missili con lancio da piattaforme terrestri mobili, prodotti dalla Lockheed Martin, ossia missili con gittata tra 500 e 5500 km della categoria che era stata proibita dal Trattato sulle forze nucleari intermedie firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, stracciato dal presidente Trump nel 2019.

Certamente, secondo le specifiche tecniche fornite dalla Darpa, “questo nuovo sistema” permette ad armi ipersoniche plananti, con propulsione a razzo e velocità di 10.000 km/h, di colpire con rapidità e precisione bersagli di importanza critica e prioritaria, penetrando moderne difese aeree nemiche, dove, per nemiche, Biden e Stoltenberg intendono i russi. 

Al summit Nato l’annuncio dell’ingresso di Svezia e Finlandia

“I leader oggi prenderanno anche la storica decisione di invitare Finlandia e Svezia a diventare membri della Nato, sulla base dell’accordo raggiunto ieri tra Finlandia, Svezia e Turchia: si tratta di un accordo positivo per la Finlandia, la Svezia, la Turchia e per tutti noi”. Lo ha detto il segretario della Nato Jens Stoltenberg arrivando al summit organizzato nella periferia di Madrid.

La mediazione in extremis di Stoltenberg ha infatti convinto Erdogan a ritirare il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia, dopo settimane d’impasse. I tre Paesi hanno firmato un memorandum d’intesa sulle richieste turche e Ankara può davvero dirsi soddisfatta: “Abbiamo avuto quello che chiedevamo, piena cooperazione” contro i curdi del PKK e i loro alleati, ha fatto sapere la presidenza turca. “Con l’ingresso di Stoccolma e Helsinki nell’Alleanza saremo tutti più sicuri”, ha esultato Stoltenberg. Non solo. Il presidente americano Joe Biden è arrivato nella capitale spagnola annunciando un nuovo sforzo per la sicurezza euroatlantica: un rafforzamento “a lungo termine” dell’impegno militare Usa nel vecchio mondo, in particolare “nei Paesi Baltici, nei Balcani” e in generale “sul fianco orientale dell’Alleanza”.

Gli annunci nel dettaglio arriveranno nel corso del vertice ma appare chiaro che un blocco importante di quei 260mila effettivi in più a disposizione del comando supremo saranno degli Usa. Un inasprimento della tensione con Mosca (e in parte anche con Pechino).

Lo spessore di uno statista:

Non è uno sciocco! Contento di sviare il discorso dai missili in Italia… dite se sbaglio?
Giornalista: “L’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato vale la consegna dei Curdi -che ci hanno aiutato a combattere Isis- al ‘dittatore’ Erdogan, come lei stesso lo aveva definito?” Draghi prima gira sui tacchi poi risponde: “È un argomento importante. Fate questa domanda a Svezia e Finlandia“.

Vertice Nato, Stoltenberg

“Abbiamo appena completato un summit che ha portato a decisioni profonde”, ha detto Stoltenberg

Dal fianco sud rischi per tutti gli alleati “Questa mattina abbiamo affrontato le questioni di sicurezza in Medio Oriente, Nord Africa e Sahel: i rischi che provengono da quest’area hanno un impatto su tutti gli alleati. Abbiamo inoltre ribadito che il terrorismo è una delle minacce principali alla nostra sicurezza. Inoltre per la prima volta abbiamo approvato un pacchetto di aiuti alla Mauritania e alla Tunisia”. Lo ha detto Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, al termine del summit di Madrid. 

Supporto a lungo termine per l’Ucraina. Altri 800 milioni di armi per la guerra alla Russia.. la guerra in Europa!

A Madrid nasce ufficialmente il fondo per l’innovazione della Nato. Con un miliardo di euro di capitalizzazione, servirà a finanziare start-up e PMI ad alto contenuto tecnologico sul territorio dell’Alleanza. “È il primo fondo di venture capital al mondo di questo tipo”, ha detto il segretario Jens Stoltenberg. “Dobbiamo mantenere la nostra spinta tecnologica, ora che Cina e Russia ci sfidano in questo settore chiave”, ha precisato. Il fondo è sostenuto da 22 Paesi Nato, tra cui l’Italia, che è stata rappresentata alla cerimonia di firma dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Osserviamo:

Da una parte, il presidente statunitense assicura: “Sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo che serve”, cioè, finanzia la guerra; da un’altra, con la sua politica ha favorito la concentrazione dei BRICS contro il dollaro; meglio tardi che mai, denuncia la crescita del terrorismo in Nord Africa e nel Sahel, infine, in un clima di inflazione senza freni e di rallentamento della crescita, che vede a rischio gli utili e i multipli societari, finanzia la crescita di start-up e PMI. C’è un pò di confusione a Washington.

Le basi Nato in Italia

Sarebbero circa 111 le Basi USA o mantenute attive per gli USA e circa 135 le testate nucleari, dopo il trasferimento in Italia di quelle della base di Incirlik, in Turchia, voluto da Erdogan. Può darsi che l’accordo sulla pelle dei curdi abbia rivisto queste posizioni del governo turco.

Gli USA hanno potuto stabilire le loro Basi, in Italia – e continuano indisturbati a mantenerle e ad aumentarle – sulla base di: 1) Le clausole segrete della «Convenzione d’Armistizio» del 3 Settembre 1943; 2) Le clausole segrete del «Trattato di pace» imposto all’Italia, il 10 Febbraio del 1947 (Parigi); 3) Il «Trattato NATO» firmato a Washington il 4 Aprile 1949, entrato in vigore il 1 Agosto 1949; 4) L’«Accordo segreto USA-Italia» del 20 ottobre 1954 (Accordo firmato esclusivamente dai rappresentanti del Governo di allora e mai sottoposto alla verifica, né alla ratifica del Parlamento); 5) Il «Memorandum d’intesa USA-Italia» o «Shell Agreement» del 2 Fe

Le basi militari degli o per gli Stati Uniti d’America in Europa, Mediterraneo e Medioriente, con o senza copertura NATO (elenco indicativo, aggiornato al 2005)

a cura di Alberto B. Mariantoni (**)

Nelle pagine che seguono sono elencati gli stabilimenti e le basi militari operative o a disposizione degli Stati Uniti d’America (1) insediati nel Continente europeo, nel Bacino Mediterraneo e nell’Area mediorientale, con o senza copertura NATO.

Basi USA in Europa (2)

Da Nord a Sud, tra le più importanti:

  • ISLANDA: NAS Keflavik (Reykjanes – US-Navy – US-Air Force).
  • Estonia, LETTONIA, Lituania: attualmente sono in costruzione almeno 22 Basi militari e 6 Basi navali NATO (3), su controllo statunitense (Mare Baltico – US-Air Force; US-Navy; US-Army; NSA (4)).
  • NORVEGIA: Sola Sea Air Base (US-Air Force); Stavanger Air Base (US-Air Force); Flesland Air Base (Bergen – US-Air Force).
  • GRAN BRETAGNA: (all’incirca 30 basi – US-Air-Force, US-Navy, US-Army) – nome della base: Lakenheath (località: Lakenheath; provincia o regione: Suffolk – US-Air Force); Mildenhall (Mildenhall, Suffolk – US-Air Force); Alcombury (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Molesworth (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Thrapston (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Upwood (Ramsey, Cambridgeshire – US-Air Force); Fairford (Fairford, Gloucestershire – US-Air Force); Feltwell (Thetford, Norfolk – US-Air Force); Croughton (Croughton, Northamptonshire – US-Air Force); senza contare le Basi di supporto logistico di: Barford St John (US-Air Force); Bicester (US-Air Force); Chelveston/Rushden (US-Air Force); Eriswell (US-Air Force); Ipswich (US-Air Force);Newbury (US-Air Force); Newmarket (US-Air Force); Stanton (US-Air Force);Thetford (US-Air Force);Yildenhall (US-Air Force); London (US-Navy); St. Mawgan (US-Navy); Hythe (US-Army).
  • OLANDA: Soesterberg Air Base (US-Air Force); Eygelshoven (US-Army); Brunssum (US-Army); Schinnen(US-Army); Vriezenveen (US-Army); Rotterdam (US-Navy – US-Army); più altri 4 insediamenti (5).
  • BELGIO: Bruxelles (Comando Nato); Mons (SHAPE Headquarters – Forze alleate in Europa – US-Army); Chievres (80º Air Support Group – US-Air Force); Brasschaat (Brasschaat – US-Air Force); Gendebien (US-Army); Kleine Brogel Air Base (US-Air Force); Florennes Air Base (US-Air Force); Anversa (US-Navy); più una decina di altri insediamenti.
  • LUSSEMBURGO: Sanem(Esch-Alzette – US-Army); Bettembourg (Luxemburg – US-Army).
  • DANIMARCA: Thule Air Base (Thule, Groenlandia); Karup Air Base (Karup – US-Air Force).
  • GERMANIA: (all’incirca 70 basi – Air-Force, US-Navy, US-Army – con una presenza di all’incirca 60.000 militari) – La maggior parte delle Basi USA sono concentrate nelle regioni di: Baden-Wuerttemberg, Renania-Palatinato, Assia e Baviera. Tra le sedi dei Comandi più importanti figurano:
    • Ramstein (6) (Ramstein, Rheinland-Pfalz – US-Air Force): da questo Comando dipendono i Sub-comandi di: Brasschaat (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg); Patton Barracks (7) (Heidelberg, Baden-Wuerttemberg); Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg); Giebelstadt (Giebelstadt-Wuerzburg, Bayern); Grafenwoehr (Grafenwoehr, Bayern); Hohenfels-CMTC (Hohenfels-Regensburg, Bayern); Katterbach Barracks (Ansbach, Bayern); Storck Barracks (Illesheim, Bayern); Schweinfurt-Conn Barracks (Schweinfurt, Bayern); Armstrong Army Heliport (Buedingen, Hessen); Hanau-Fliegerhorst (Hanau, Hessen); Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen); Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen); Geilenkirchen (Teveren, Nordrhein-Westfalen); Ramstein (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Sembach (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); nonché le Basi aere di: Ramstein-Landstuhl (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Rhein-Main Frankfurt, Spangdahlem (Spangdahlem, Rheinland-Pfalz), Büchel e Siegenburg-Mühlausen;
    • Heidelberg (8) (località: Heidelberg; regione: Baden-Wuerttemberg – US-Army) – Divisioni: 1st Armored Division, Weisbaden; 1st Infantry Division, Wurzburg; 2nd Brigade, 1st Armored Division, Buamholder; 7th Army Reserve Command (ARCOM), Schwetzingen; Corpi d’Armata: Vº Corps, Heidelberg; Comandi: U.S. Army Europe (USAREUR); Combat Maneuver Training CenterLandstuhl Regional Medical Center; nonché le caserme: Hammonds BarracksCampbell BarraksTompkins BarracksStem BarracksHammond Barracks – più 10 altri insediamenti della US-Army;
    • Brasschaat (9) (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg), con le seguenti caserme: Coleman BarracksSpinelli BarracksTurley BarracksSullivan BarracksFunari Barracks – più altri 11 insediamenti US-Army nella stessa regione;
    • Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg – US-Army), con le seguenti caserme: Kelley BarracksRobinson BarracksPatch Barracks– più altri 13 insediamenti US-Army;
    • Hanau (Hanau, Hessen – US-Army), con le seguenti caserme: Argonen BarracksFliegerhorst BarracksPionier BarracksUtier BarracksWolfgang BarracksYorkhof Barracks – più altri 6 insediamenti US-Army;
    • Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen), Comando Intelligence Militare – più altri 9 insediamenti US-Army;
    • Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen) – almeno 2 insediamenti US-Army e 2 US-Air Force;
    • Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz) con le seguenti caserme: la GE-642 Armoured-Forces BarracksDanner BarracksPulaski BarracksRhine BarracksKleber Barracks – più altri 8 insediamenti US-Army e 4 US-Air Force;Inoltre i Distaccamenti: Pendleton Barracks di Giessen (US-Army); Sheridan Barracks di Garmisch (US-Army); Larson Barracks di Kitzingen (US-Army); Johnson Barracks di Nürnberg (US-Army); Rose Barracks di Bad Kreuznach (US-Army); Pond Barracks di Amberg (US-Army); Warner Barracks di Bamberg (US-Army); Storck Barracks di Windsheim (US-Army); Smith Barracks di Baumholder (US-Army); McCully Barracks di Mainz (US-Army); Ledward Barracks di Schweinfurt (US-Army); Amstrong Barracks di Dexheim (US-Army); Anderson Barracks di Büdingen (US-Army); l‘Eliporto di Landstuhl (US-Army), ecc.
  • POLONIA: Krzesiny Air base (regione di Poznan – US-Air Force); Gdansk (facilità portuali – US-Navy).
  • FRANCIA (10): Istres Air Base (Marsiglia – Base logistica e di rifornimento US-Air Force), nonché Marsiglia e Tolone (facilità portuali – US-Navy).
  • UNGHERIA: Taszár Air Base (Pecs/Paych – US-Air Force); Kaposvar Air Field (UH-60 Black Hawk helicopters e 127º Aviation Support Battalion – US-Army).
  • ITALIA: circa 111 Basi USA (11) (US-Air Force, US-Navy, US-Army, NSA) e NATO. Alcune tra le basi USA o italiane a disposizione degli USA, da Nord a Sud della Penisola:
    • Cima Gallina (BZ): Stazione telecomunicazioni e radar dell’US-Air Force (USAF).
    • Aviano Air Base (Pordenone, Friuli – US-Air Force): la 16ma Forza Aerea ed il 31º Gruppo da caccia dell’Aviazione U.S.A. e dei Marines.
    • Roveredo in Piano (PN): Deposito armi e munizioni USA ed istallazione US-Air Force.
    • Monte Paganella (TN): Stazione telecomunicazioni USAF.
    • Maniago (UD): Poligono di tiro a disposizione dell’US-Air-Force (USAF).
    • S. Bernardo (UD): Deposito munizioni dell’US-Army.
    • Ciano(TV): Centro telecomunicazioni e radar USA.
    • Solbiate Olona (MI – Comando NATO Forze di pronto intervento – US-Army).
    • Ghedi (BS): Base dell’US-Air-Force (USAF).
    • Montichiari (BS): Base aerea (USAF).
    • Remondò (nel Pavese): Base US-Army.
    • Vicenza: Comando SETAF, Sud Europe Task Force; Quinta Forza aerea tattica (USAF); Deposito di testate nucleari.
    • Camp Ederle (provincia di Vicenza): Q.G. NATO; Comando SETAF dell’US-Army; un Btg. di obici ed Gruppo tattico di paracadutisti USA.
    • Tormeno (San Giovanni a Monte, Vicenza): depositi di armi e munizioni.
    • Longare (Vicenza): importante deposito d’armamenti.
    • VeronaAir Operations Center (USAF). e Base NATO delle Forze di Terra del Sud Europa; Centro di telecomunicazioni (USAF).
    • Affi(VR): Centro telecomunicazioni USA.
    • Lunghezzano (VR): Centro radar USA.
    • Erbezzo (VR): Antenna radar NSA.
    • Conselve (PD): Base radar USA.
    • San Anna di Alfaedo (VE): Base radar USA.
    • San Gottardo, Boscomantico (VE): Centro telecomunicazioni USA.
    • Candela-Masazza (Vercelli): Base d’addestramento dell’US-Air-Force e dell’US-Army, con copertura NATO.
    • Finale Ligure (SV): Stazione di telecomunicazioni dell’US-Army.
    • Monte Cimone (MO): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Parma: Deposito dell’USAF con copertura NATO.
    • Bologna: Stazione di telecomunicazioni del Dipartimento di Stato Americano.
    • Rimini: Gruppo logistico USA per l’attivazione di bombe nucleari.
    • Rimini-Miramare: Centro telecomunicazioni USA.
    • Potenza Picena (MC): Centro radar USA con copertura NATO.
    • La Spezia: Centro antisommergibili di Saclant.
    • San Bartolomeo (SP): Centro ricerche per la guerra guerra sottomarina.
    • Camp Darby (tra Livorno e Pisa): 8º Gruppo di supporto USA e Base dell’US Army per l’appoggio alle Forze statunitensi al Sud del Po, nel Mediterraneo e nell’Africa del Nord.
    • Coltano (PI): importante base USA/NSA per le telecomunicazioni; Deposito munizioni US-Army; Base NSA.
    • Pisa(aeroporto militare): Base saltuaria dell’USAF.
    • Monte Giogo (MS): Centro di telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Talamone (GR): Base saltuaria dell’US-Navy.
    • La Maddalena-Santo Stefano (Sassari): Base atomica USA, Base di sommergibili, Squadra navale di supporto alla portaerei americana «Simon Lake».
    • Monte Limbara (tra Oschiri e Tempio, Sassari, in Sardegna): Base missilistica USA.
    • Sinis di Cabras (SS).: Centro elaborazioni dati (NSA).
    • Isola di Tavolara (SS): Stazione radiotelegrafica di supporto ai sommergibili della US Navy.
    • Torre Grande di Oristano: Base radar NSA.
    • Monte Arci (OR): Stazione di telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Capo Frasca (OR): eliporto ed impianto radar USA.
    • Santulussurgiu (OR): Stazione telecomunicazioni USAF con copertura Nato.
    • Perdas de Fogu (NU): base missilistica sperimentale.
    • Capo Teulada (CA): da Capo Teulada (CA) a Capo Frasca (OR): all’incirca 100 km di costa, 7.200 ettari di terreno e più di 70.000 ettari di zone Off Limits: poligono di tiro per esercitazioni aeree ed aeronavali della US NAVY e della Nato.
    • Decimomannu (CA): aeroporto Usa con copertura Nato.
    • Salto di Quirra (CA): poligoni missilistici.
    • Capo San Loremo (CA): zona di addestramento per la Sesta flotta USA.
    • Monte Urpino (CA): Depositi munizioni USA e NATO.
    • Rocca di Papa (Roma): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Monte Romano (VT): Poligono saltuario di tiro dell’US-Army.
    • Gaeta (LT): Base permanente della Sesta Flotta USA e della Squadra navale di scorta alla portaerei «La Salle».
    • Casale delle Palme (LT): Scuola telecomuncicazioni NATO su controllo USA.
    • Napoli: Comando del Security Force del corpo dei Marines; Base di sommergibili USA; Comando delle Forze Aeree USA per il Mediterraneo.
    • Napoli-Capodichino: Base aerea dell’US-Air-Force.
    • Monte Camaldoli (NA): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Ischia(NA): Antenna di telecomunicazioni USA con copertura Nato.
    • Nisida: Base US-Army.
    • Bagnoli: Centro controllo telecomunicazioni Usa per il Mediterraneo.
    • Agnano (nelle vicinanze del famoso ippodromo): Base dell’US-Army.
    • Cirigliano.(NA): Comando delle Forze Navali USA in Europa.
    • Licola(NA): Antenna di telecomunicazioni USA.
    • Lago Patria (CE): Stazione telecomunicazioni USA.
    • Giugliano (vicinanze del lago Patria, Caserta): Comando STATCOM.
    • Grazzanise (CE): Base utilizzabile dall’USAF.
    • Mondragone (CE): Centro di Comando USA e NATO sotterraneo antiatomico.
    • Montevergine (AV): Stazione di comunicazioni USA.
    • Pietraficcata (MT): Centro telecomunicazioni USA/NATO.
    • Gioia del Colle (BA): Base aerea USA di supporto tecnico.
    • Punta della Contessa (BR): Poligono di tiro USA/NATO.
    • San Vito dei Normanni (BR): Base del 499º Expeditionary Squadron; Base dei Servizi Segreti: Electronics Security Group (NSA).
    • Monte Iacotenente (FG): Base del complesso radar Nadge.
    • Brindisi: Base navale USA.
    • Otranto: Stazione radar USA.
    • Taranto: Base navale USA; Comando COMITMARFOR; Deposito USA/NATO.
    • Martina Franca (TA): Base radar USA.
    • Crotone: Stazione di telecomunicazioni e radar USA/NATO.
    • Monte Mancuso (CZ): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Sellia Marina (CZ): Centro telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Sigonella (CT): importante Base aeronavale USA (oltre ad unità della US-Navy, ospita diversi squadroni tattici dell’US-Air-Force: droni GlobalHawk, elicotteri del tipo HC-4, caccia F18 e A6 Intruder, nonché alcuni gruppi di F-16 e F-35 equipaggiati con bombe nucleari del tipo B-43, da più di 100 kilotoni l’una!).
    • Motta S. Anastasia (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Caltagirone (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Vizzini (CT): Diversi depositi USA.
    • Isola delle Femmine (PA): Deposito munizioni USA/NATO.
    • Punta Raisi (Aeroporto): Base saltuaria dell’USAF.
    • Comiso (Ragusa – insediamento US-Air Force).
    • Marina di Marza (RG): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Monte Lauro (SR): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Sorico: Antenna NSA.
    • Centuripe (EN): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Niscemi (Sicilia): Base del NavComTelSta (stazione di comunicazione US-Navy).
    • Trapani: Base italiana, USAF/US NAVY con copertura NATO.
    • Pantelleria: Centro telecomunicazioni US-Navy e Base aerea e radar NATO.
    • Lampedusa: Base della Guardia costiera USA; Centro d’ascolto e di comunicazioni NSA.
  • SPAGNA: NAS Rota (Rota, Cadice – US-Navy – US-Army); Moron Air Base (Moron de la Frontiera, Siviglia – US-Air Forces); Torrejon Air Base (US-Air Force); Zaragoza Air Base (US-Air Force); San Vito (US-Air Force); nonché le Basi navali di appoggio e di facilità portuarie di: AlicanteBarcellonaBenidormCartagenaMalagaPalma de Maiorca (US-Navy).
  • PORTOGALLO: Horta (Falai Island, Azores – US-Navy); Lajes Field Air Base (Terceira Island, Azores – US-Air Force); San Miguel (Azores – US-Air Force); Villa Nova (Azores – US-Air Force); Santa Maria (Azores – US-Air Force); Praia Da Victoria (Azores – US-Air Force); San Jorge (US-Navy); più una decina di distaccamenti della US-Navy e della US-Army (Azores).
  • BOSNIA ERZEGOVINA: Camp Comanche (Tuzla – US-Army); Camp Eagle (Tuzla – US-Army); Camp Dobol (US-Army); Camp McGovern (Brcko – US-Army).
  • KOSSOVO: Camp Bondsteel (Urosevac – US-Army).
  • MONTENEGRO: Camp Monteith (Gnjilane – US-Army).
  • MACEDONIA: Camp Able Sentry (Skopje – US-Army).
  • ROMANIA: Costanza (Mar Nero – US-Navy – US-Air Force); Mihail Kogalniceanu Air Base (US-Air Force); Agigea (in costruzione – US-Navy); Babadag (in costruzione – US-Army).
  • BULGARIA: Sarafovo Air Base (Burgas – Gruppo del 49º Expeditionary Corp – US-Air Force); Camp Sarafovo (US-Army); Bezmer e Novo Selo (due basi in costruzione – US-Army).
  • GEORGIA: Base navale (informale) di Supsa (Mar Nero – US-Navy).
  • GRECIA: Iraklion/Eleusis(Atene – US-Navy); Hellenikon Air Base (nei pressi di Atene – US-Air Force); Aktion (Costa ionica – US-Air Force); Souda Bay (Chania, Creta – US-Navy); nonché le Basi appoggio e di facilità portuaria di Corfù e Rodi (US-Navy).
  • CIPRO GRECA: Nicosia (base logistica saltuaria – US-Air Force); Larnaca (facilità portuarie – US-Navy).

Occorre aggiungere le facilitazioni di attraversamento dello spazio aereo, di atterraggio, di rifornimento e di supporto logistico accordate – de iure o de facto – agli aerei ed agli elicotteri militari dell’US-Air Force (com’è accaduto nel corso della guerra di aggressione all’Iraq nel 2003), dalla Svizzera, dall’Irlanda, dall’Austria, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Georgia, ecc. (e le facilità d’ormeggio e di rifornimento permanenti o saltuarie concesse all’US-Navy da Marocco, Tunisia, Gibilterra e Malta).

Basi USA nel Vicino Oriente ed Oceano Indiano

  • TURCHIA: Ankara (Comando US-Air Force); Batman Air Base (US-Air Force); Buyuk-Cigli Air Base (US-Air Force); Incirlick-Adana (39º Air Expeditionary Wing – US-Air Force); nonché le Basi aeree di IzmirCorluKonyaDiyarbakir eMus (US-Air Force) ele Basi di appoggio e di facilità portuaria di IstambulIzmirMersin e Iskenderun (US-Navy) – più una decina di altri insediamenti US-Army.
  • CIPRO TURCA: Famagosta (US-Navy); Rizocarpaso (NSA)
  • EGITTO: Cairo (3º NavMedRschu – US-Navy); Alessandria (US-Navy); Hurgada (Mar Rosso – US-Navy);
  • ISRAELE: Haifa (US-Navy).
  • Inoltre, tra le più importanti:
  • IRAQ: 14 Basi permanenti («enduring» military bases – con la presenza di all’incirca 110.000 uomini – US-Army); Baghdad Air Base (US-Air Force); più le Speciali Basi di: Bashur(Kurdistan – US-Army); Talil (nei pressi dell’Aeroporto di Baghdad – US-Air Force); Base H-1 (deserto occidentale iracheno – US-Army); Nassiriya (Sud del paese – US-Army).
  • GIORDANIA: Muafaq Salti (US-Army);
  • Kuwait: Ahmed al-Jaber Air Base (US-Air Force); Ali Al Salem Air Base (US-Air Force); Camp Doha (US-Air Force); Camp Udairi (Kuwait-City – US-Army); Camp Doha (Ad-Dawhah – Quartier Generale della 3ª Armata – US-Army), Ali al-Salem (US-Army);
  • Arabia Saudita: Prince Sultan Air Base (alla periferia di Riad – US-Air Force); King Abdul Aziz Air Base (Dhahran – US-Air Force); Eskan Village Air Base (US-Air Force); King Fahd (Taif – US-Air Force); King Khaled (Khamis Mushayt – US-Air Force); Al-Kharj (US-Air Force); Exmouth(US-Navy); più 5 istallazioni US-Army.
  • Emirati Arabi Uniti: Al Dhafra/Sharjah (763º Squadrone dell’Expeditionary Air Refueling – US-Air Force); Al Dhafra Air Base (Abu Dhabi – US Air Force).
  • Qatar: Al Udeid (US-Air Force); Al-Sayliyah (US-Air Force);
  • Oman: Thumrait (305º Squadrone dell’Air Expeditionary Force – US-Air Force); Dhuwwah/Masirah Island (US-Air Force); Seeb (US-Air Force); Salalah (US-Air Force);
  • Bahrein: Sheik Isa (Sitrah, Golfo Arabo-Persico – US-Air Force); Muharraq Air Field (US-Air Force); Juffar (Quartier Generale della Vª Flotta americana – US-Navy).
  • YEMEN: B ase navale di Aden (US-Navy).
  • Gibuti: (Corno d’Africa): Le Monier Barracks (US-Air Force); Gibuti/Le Monier (US-Navy).
  • Azerbaigian: KurdamirNasosnayaGuyullah (3 Basi aeree in corso di ammodernamento/realizzazione – US-Air Force).
  • Kirghizistan: Manas/Ganci (regione di Bishkek – US-Air Force); Qarshi Hanabad (86ª Rapid Deployment Unit – US-Army)
  • Uzbekistan: Kandabad Air Base (Karshi – US-Air Force); Karshi Barracks (10ª Divisione di montagna – US-Army).
  • Tagikistan: Tagikistan Air Base (US-Air Force); KhojandKulyabTurgan-Tiube (3 Basi US-Air Force e US-Army, in trattativa per la loro costruzione).
  • Afghanistan; Mazar-e-Sharif Air Base (US-Air Force); Pul-i-Kandahar (Kandahar Air Field – US-Air Force), Shindand Air Base (Heart – US-Air Force); Khost Air Base (Paktia – US-Air Force); Bagram (Charikar, Parvan – BAF – US-Air Force); Kandahar (101ª Airborne Division – US-Army); Asadabad (US-Army); Heart (US-Army); Gardez (Paktia – US-Army); Mazar-e-Sharif (Task Force 121 – US-Army); Nimrouz (US-Army – in costruzione); Helmand (US-Army – in costruzione) – nonché le Basi di OrgunShkin e Sharan (provincia di Paktika – US-Army).
  • Pakistan: Dalbandin Air Base (US-Air Force); Jacobabad Air Base (US-Air Force); Pasni (US-Air Force); Shahbaz Air Base (US-Air Force); Jacobabad Camp (US-Army); Khowst (US-Army).
  • Diego Garcia: (Oceano Indiano): Diego Garcia Air Base (US-Air Force); Diego Garcia (Naval base and support facilities – US-Navy).

Basi «Echélon» in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente

Gestite e coordinate dal Comando generale statunitense della NSA (National Security Agency) di Fort Meade (nel Maryland), organizzate in cooperazione con i servizi segreti britannici GCHQ (Government Communications Head Quarters), canadesi CSE (Communications Security Establishment), australiani DSD (Defence Signals Directorate) e neo-zelandesi GCSB (Government Communications Security Bureau), e spesso mimetizzate sotto le mentite spoglie di banali imprese di telecomunicazioni private, le Basi d’ascolto, di spionaggio elettronico e d’elaborazione dati del programma Echélon (che già dispone – oltre alle usuali “stazioni” di spionaggio che sono integrate nella normale rete diplomatica e consolare statunitense nel mondo – di una ventina di satelliti spia della National Reconaissance Office – del tipo KeyholeMercurySigintParsaeComintOrion/VortexMentorTrompet, ecc. – e di una trentina di Boeing RC-135 che giorno e notte – da centinaia di chilometri, nel cielo – sono in grado di intercettare, registrare e controllare qualsiasi comunicazione radio, telefonica, fax, cellulare ed internet, e persino fotografare e decifrare, con altissima risoluzione – come nel caso dei satelliti «Advanced KH-11» e «KH-12» – persino l’indirizzo di una cartolina postale) coprono praticamente l’intero pianeta, con all’incirca 4.000 ‘antenne’ disseminate nei diversi paesi del mondo. In Europa, le principali Basi del programma Echélon – che agiscono sotto l’egida dei Comandi regionali USA di Morenstow e di Menmith Hill, in Gran Bretagna, e di Bad Aibling, in Germania (Baviera) – sono installate nelle seguenti località (da Nord a Sud): in Islanda: Keflavik; in Lituania: Vilnius; in Estonia: Tallinn; in Lettonia (Latvia): Ventspils; in Finlandia: Santahamina; in Svezia: Karlskrona, Muskö e Lovön; in Norvegia: Borhaug, Jessheim, Fauske/Vetan, Randaberg, Kirkenes, Skage/Namdalen, Vardo e Vadso; in Gran Bretagna: Belfast (Irlanda du Nord), Brora e Hawklaw (Scozia), Chicksands, Culm Head, Cheltenham, Digby, Menwith Hill, Irton Moor, Molesworth, Morwenstow, Londra (Palmer Street); in Danimarca: Aflandshage, Almindingen, Dueodde-Bornholm, Gedser, Hjorring, Logumkloster; in Olanda: Amsterdam e Viksjofellet; in Germania: Frankfurt, Bad Aibling, Ahrweiler, Hof, Achern, Bad Münstereifel, Darmstadt, Braunschweig, Husum, Monschau, Mainz, Rheinhausen, Stockdorf, Pullach, Vogelweh; in Francia: Parigi (GIX: Global Internet Exchange), Strassburgo e Grenoble; in Austria: Neulengbach e Konigswarte; in Svizzera: Merishausen e Rüthi; in Croazia: isola di Brac ed aeroporto di Zagreb-Lucko; in Bosnia-Erzegovina: Tuzla; in Spagna: Playa de Pals, Pico de las Nieves (Grande Canaria), Manzanares e Rota; in Portogallo: Terceira Island (isole Azores); a Gibilterra (Gibraltar); in Albania: Tirana, Durazzo (Durrës) e Shkodër; in Grecia: Iráklion (Creta); nell’isola di Cipro: Ayios Nikolaos; in Turchia: Istanbul, Izmir, Adana, Agri, Antalya, Diyarbakir, Edirne, Belbasi, Sinop, Strait, Samsun; in Israele: Herzliyya (Q.G. dell’Unità 8200), Mitzpah Ramon, Monte Hermon, Golan Heights Monte Meiron; nel Pakistan: Parachinar; nel Kuwait: Kuwait-City e l’isola di Faylaka; in Arabia Saudita: Araz, Khafji; negli Emirati Arabi Uniti: Az-Zarqa, Dalma, Ras al-Khaimah e sull’isola di Sir Abu Nuayr; nell’Oman: Abut, Khasab, isole di Goat e di Masirah, penisola di Musandam; nello Yemen: isola di Socotra.


Note

*. Il testo è ricavato dal saggio “Dal ‘Mare Nostrum’ al ‘Gallinarium Americanum’. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente”, apparso nella rivista di studi geopolitici Eurasia, diretta da Tiberio Graziani, alle pp. 81-94 del fascicolo 3 del 2005.

**. Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, scrittore e giornalista, è specialista in economia politica, islamologia e religioni del Medio Oriente. È stato collaboratore di Panorama e corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra.

1. Elenco aggiornato a giugno 2005.

2. Come riporta il sito web Kelebek in un articolo intitolato Hiroshima, Italia. Le nostre armi di distruzione di massa, Hans Kristensen, uno specialista del Natural Resources Defense Council (NRDC) ed autore di un rapporto sulle armi atomiche in Europa, ha rivelato al quotidiano «L’Unità» (10.02.2005) che sul nostro Continente ci sarebbero attualmente “ben 481 bombe nucleari, dislocate in Germania, Gran Bretagna, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. In Italia ve ne sono 50 nella base di Aviano e altre 40 in quella di Ghedi Torre, in provincia di Brescia”.

3North Atlantic Treaty Organization.

4National Security Agency

5. Per «insediamenti», bisogna intendere: medi e piccoli acquartieramenti militari, basi per il lancio di missili, depositi (per carri armati, automezzi, artiglieria, munizioni e pezzi di ricambio), stazioni d’ascolto e/o radio, nonché villaggi, ospedali, centri di riposo e di svago per il personale civile e militare statunitense che è permanentemente basato nel paese.

6. Sede del Quartier Generale della US-Air Force.

7. Caserma o acquartieramento importante (in inglese: «Barracks»).

8. Sede del Quartier Generale dello US-Army.

9. Quando è citato soltanto il nome della città, in neretto, trattasi di sede di Comando regionale.

10. Nonostante che la Francia, dal 7 Agosto 1966, rifiuti ufficialmente di ospitare Basi USA o NATO.

4016.- Gaza. Punto e a capo.

Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro.

Hamas-Israele, una tregua duratura?

di Maria Scopece, Start Magazine

israele hamas

Chi c’era e che cosa si è detto al webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano” organizzato dall’associazione Ricostruire di Stefano Parisi

Dopo 11 giorni di battaglia Israele e Palestina hanno siglato il cessate il fuoco. Il bilancio di questa ennesima puntata del conflitto tra israeliani e palestinesi è di 232 vittime palestinesi e 12 israeliane

Una tregua duratura?

“Potrà anche esserci una tregua ma non cambierà nulla. Hamas appena finiti i bombardamenti ricomincerà a scavare la sua metro, riprenderà a usare le fabbriche di missili e di razzi con istruttori iraniani e si preparerà al prossimo scontro”. A dirlo è il giornalista esperto di esteri, ed analista, Carlo Panella, nel corso del webinar “Cosa sta succedendo in Israele? Quello che i media non raccontano”, organizzato dall’associazione “Ricostruire” di Stefano Parisi. All’appuntamento online hanno partecipato anche Marco Paganoni, Professore di Storia di Israele e direttore di Israele.net, Claudio Pagliara, corrispondente Rai da New York e già corrispondente Rai da Gerusalemme, e Angela Polacco, israeliana che vive a Gerusalemme dal 1985.

L’ostilità dell’opinione pubblica araba 

La conflittualità in Medioriente non di esaurisce alle schermaglie tra governi. “Nell’opinione pubblica araba c’è una grave ostilità nei confronti di Israele – ha aggiunto Panella -. Ciò che non è chiaro all’opinione pubblica occidentale è che l’opinione pubblica araba, a causa di una lettura letterale del corano, nega il diritto degli ebrei di avere uno stato in Palestina. Basta leggere lo statuto di Hamas”. In occidente ci sarebbe la convinzione sbagliata la contesa riguardi la terra ma non sarebbe così. “Il mondo islamico sostiene che Gerusalemme non è la città degli ebrei. Gli ebrei,  secondo gli islamici, non possono andare sulla spianata di al-Aqsa – continua Panella -. L’essenza di questo conflitto, e Hamas è chiarissima a dirlo, è che l’Islam è proprietario di Gerusalemme. Gli stati arabi, anche gli stati che hanno firmato gli accordi di Abramo, fronteggiano una marea montate che rifiuta il diritto degli ebrei di avere uno stato. Questo elemento rende così complesso l’evolversi dello scenario”. 

Hamas: “Vittoria della resistenza palestinese”

Hamas, alla dichiarazione del cessate il fuoco, ha dichiarato vittoria e migliaia di persone sono uscite in strada nei Territori Palestinesi. “Oggi la resistenza dichiara vittoria sui nemici”, ha detto Khalil al-Hayya, numero due di Hamas a Gaza. Per Ali Barakeh, della Jihad Islamica, la tregua è una sconfitta per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e una “vittoria per il popolo palestinese”.

Claudio Pagliara: “C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas”

“C’è molta ignoranza sulla natura di Hamas, su chi c’è dietro”. La preoccupazione circa la poca informazione sull’opacità di Hamas è del corrispondente Rai da New York Claudio Pagliara: “Nel 2005 Ariel Sharon ordinò il ritiro di 8mila civili e di tutto l’esercito da Gaza. Consegna le chiavi della Striscia ai palestinesi senza contropartita. All’epoca c’era ancora l’autorità palestinese. In quei territori c’era Fatah contro cui Hamas si scontrò. Nel 2007 Hamas prende il potere sconfiggendo e uccidendo o leader di Fatah”. Secondo l’inviato Rai, un tempo inviato da Gerusalemme, alla natura violenta di Hamas va imputata la recrudescenza della violenza nei territori della Striscia di Gaza. “Questa storia va ripetuta perché se non si capisce la profonda divisione che si è creata nel campo palestinese non si capisce perché in meno di 15 anni abbiamo avuto quattro gravi conflitti a Gaza – continua Pagliara -. Gaza è finita nelle mani di un’organizzazione che non ha come scopo il benessere della popolazione palestinese ma vuole utilizzare tutte le risorse che riceve per costruire una base militare e colpire Israele che aveva consegnato la striscia di Gaza nelle mani dei palestinesi per farne altro. All’epoca c’erano 29 progetti internazionali per fare di Gaza la Svizzera del Medio Oriente. Tutto fallito perché le forze di Abu Mazen vengono sconfitte dagli integralisti islamici”. 

Il ruolo degli Stati Uniti d’America 

Gli Stati Uniti d’America giocano da sempre un ruolo cruciale nella gestione delle conflittualità dell’area. “L’amministrazione Trump aveva cercato di cambiare il paradigma dell’approccio alla questione – dice Marco Paganoni, professore di Storia di Israele e direttore di israele.net -. Aveva proposto un nuovo approccio che sottolineava che la parte palestinese che rifiuta il negoziato e rifiuta i compromessi ogni volta che vengono proposti, che continua a crescere intere generazioni di palestinesi nelle campagne contro Israele, che sfrutta agenzie internazionali con i suoi finanziamenti per continuare a fare l’insegnamento dell’odio e premiare i terroristi con pensioni e vitalizi. Va fatta pressione e va fatta lì, perché Israele il compromesso punta a farlo”. 

Il cambio di prospettiva dell’amministrazione Biden 

Il prof. Paganoni ritiene che dietro questa recrudescenza degli scontri ci sia una variazione nell’approccio americano alla questione. “Questo approccio aveva prodotto dei risultati ed ora è stato smontato – continua il prof. Paganoni -. L’amministrazione americana è tornata a dare gratuitamente credito ai leader palestinesi. Questo cambio di direzione credo che abbia giocato in maniera pesante nella decisione della tempistica della deflagrazione di questo conflitto. Israele stava facendo la pace con un pezzo importate del mondo arabo. Si stava per formare in Israele un governo con l’ingresso di una formazione araba islamica, continuava a colpire i progetti atomici iraniani, stava uscendo dalla pandemia in modo brillante. In questo quadro qualcuno non poteva stare con le mani in mano. Questo qualcuno non è solo Hamas ma soprattuto i suoi protettori”. 

La mano iraniana 

“La differenza con Trump non riguarda gli accordi di Abramo” – dice Pagliara -. Riguarda il dossier iraniano. Un dossier strategico, Trump aveva avuto un approccio davvero innovativo. La convinzione di base era che bisognava parlare al mondo sunnita e fargli capire che la questione palestinese, con Hamas che a Gaza persegue la distruzione dello stato di Israele, è una questione che riguarda anche loro. Queste azioni dell’amministrazione Trump hanno spinto molti paesi del golfo a fare accordi con Israele”. Anche per il corrispondente Rai gli scontri di questi giorni hanno a che fare con il cambio di indirizzo dell’amministrazione statunitense.  “Su questo terreno l’amministrazione Biden ha lasciato segnali diversi e si è mostrata, secondo alcuni, troppo disposta a tornare a un tavolo del dialogo ricevendo da Teheran dei sonori no – aggiunge Pagliara -. Dietro questa fiammata c’è in primo luogo la mano iraniana”.

4002.- Biden vende armi a Netanyahu. Fa il gioco di Hamas e cancella la pace di Trump.

Biden, e l’ “accordo del secolo”?

Israele-Gaza o Israele-Hamas? O, peggio! Hamas-Linkud? Linkud è il partito di Netanyahu. L’orrore fa salire Netanyahu, nei consensi, ma ad Hamas manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. All’insaputa di larga parte del Congresso, Biden vende armi a guida di precisione a Israele per 735 milioni di dollari e rafforza gli estremisti ebrei,  poco prima degli attacchi di Hamas sulla striscia di Gaza, in risposta alla feroce repressione di Israele a Gerusalemme contro la proteste per gli sfratti nel distretto di Sheikh Jarrah. Bandiere rosse levate per alcuni membri della Camera più aperti a mettere in discussione il sostegno della DC a Netanyahu, suggerendo che la vendita venga condizionata e utilizzata come leva. La vendita riguarda le munizioni ad attacco diretto congiunto (JDAMS) che trasformano le cosiddette bombe “stupide” in missili a guida di precisione. Israele ha già acquistato JDAMS in precedenza, spiegando la sua scelta: gli attacchi aerei a Gaza guidati con precisione negli appartamenti e sulle famiglie dei capi di Hamas aiutano a evitare la morte tra i civili.

Dove sono finiti gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi racchiusi nella “Peace to Prosperity”, nome ufficiale della proposta di pace di Trump per il Medio Oriente, benedetta come “accordo del secolo”. La road map del piano andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani; ma non a quelli elettorali di Netanyahu. Ma, allora, c’è un legame fra l’elezione di Biden e la rielezione di Netanyahu?

Dal punto di vista operativo, le 181 pagine della “Peace to Prosperity”presentavano chiaramente un doppio framework (politico ed economico), nel quale emergevano almeno quattro punti critici:

1.- Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città (in pratica l’area di Abu Dis) come loro capitale;

2.- I palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno;

3.- Vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”;

4.- È sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.

A questi elementi meramente politici si affiancavano le disposizioni economiche, che prevedevano, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove sarebbero stati investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. Nell’arco temporale di un quadriennio, gli israeliani si sarebbero impegnati, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. 

Conclusioni:

Benjamin Netanyahu mette sempre più in un angolo la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che dal 1967 la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi e il piano Trump andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani, ma è stato vanificato dall’elezione di Biden. È una conclusione e anche una domanda.

Ocasio e Sanders incalzano Biden: «Non possiamo avere la linea di Trump». Perché?

Bene fa l’Antidiplomatico a ricordare all’esercito di occupazione israeliano le parole dello scrittore uruguaiano Edoardo Galeano, scritte nel 2012:

L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato al mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili sono chiamate danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su dieci danni collaterali, tre sono bambini. E ci sono migliaia di mutilati, vittime della tecnologia dello smembramento umano, che l’industria militare sta testando con successo in questa operazione di pulizia etnica.”

Intervista a Tom Segev:

La parola a Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore del quotidiano Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze: “Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti … La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

CORRIERE DELLA SERA

Parlano le immagini:

Razzi, scontri e già 224 morti: cosa c’è dietro le nuove tensioni tra Israele e i palestinesi?
 Aerei israeliani e bombe americane hanno colpito l’abitazione di Yehiyeh Sinwar, il principale leader di Hamas. 

Israele-Gaza, Segev: «La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

Intervista a Tom Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore di Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze. «Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti»

di Lorenzo Cremonesi, il Corriere.

Nelle immagini dell’abitazione distrutta, abbiamo visto le macerie nelle stanze, i giocattoli dei più piccoli. Si tratta del bilancio più drammatico provocato da un singolo attacco nella Striscia dall’inizio dell’offensiva dell’esercito israeliano

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«Questa non è una terza intifada. O almeno non lo è ancora diventata e non credo lo sarà. Manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. Hamas da Gaza detta il ritmo del conflitto militare. Mi ha però molto colpito lo scontro interno ai confini di Israele del 1948 tra cittadini arabi ed ebrei. Non ce lo aspettavamo tanto violento». Tom Segev ci parla da Gerusalemme. Autore di alcune opere fondamentali sulla storia di Israele, per decenni commentatore per il quotidiano Ha’aretz, Segev insiste sull’unicità di questa nuova ondata di violenze.

Che cosa vede di nuovo?
«L’intensità dei disordini in località che sono al cuore dello Stato. Lod, la vecchia Lydda araba dove oggi si trova l’aeroporto internazionale: qui bande di ragazzini hanno bruciato tre sinagoghe. Come anche le aggressioni di Ramla, Acri e Giaffa, alle porte di Tel Aviv. Nel 1948 l’esercito israeliano aveva espulso praticamente tutta la vecchia comunità palestinese. Poi però una parte degli abitanti originari era tornata. Con i decenni erano diventati luoghi modello di coesistenza, pur se con grossi problemi di povertà e droga. Mi ha sinceramente sorpreso il saccheggio all’hotel di Acri, non lo ritenevo possibile. Sino a pochi mesi fa i nostri media raccontavano con entusiasmo del ruolo fondamentale giocato dai medici e dagli infermieri arabi negli ospedali mobilitati per l’emergenza Covid. Arabi nati e cresciuti tra noi, israeliani a tutti gli effetti. Avevamo scoperto che gran parte delle nostre farmacie era tenuta da farmacisti arabi. Però, attenzione, non credo si tratti di pogrom, o di “Notte dei Cristalli”, sono gravi violenze organizzate come abbiamo visto di recente in Francia o negli Stati Uniti».

Come lo spiega?
«Sono una minoranza. Ma aggressiva, ostile. La polizia non ha saputo contrastarla. A Lod, per esempio, il sindaco ha imposto il coprifuoco. Ma nessuno lo ha rispettato. Come pochi mesi fa, del resto, le forze dell’ordine non riuscivano a obbligare gli ebrei ortodossi ad indossare la mascherina e restare in casa. Abbiamo scoperto di essere un Paese poco governabile, quasi anarchico. Ne hanno approfittato anche gli estremisti ebrei».

In che modo?
«Gruppi legati alla destra nazionalista e religiosa hanno agito in modo coordinato per attaccare le zone arabe. Penso per esempio alla “Familia”, che è l’organizzazione violenta della tifoseria più fanatica e razzista della squadra di calcio del Betar Gerusalemme. Sono arrivati con gli autobus, centinaia di giovani decisi a vandalizzare, linciare, impaurire».

La chiamano terza intifada.
«No. Non credo sia corretto. Per ora domina lo scontro militare tra il nostro esercito e gli estremisti di Hamas. Quasi una guerra convenzionale, con missili, artiglierie e droni».

Chi vince?
«Per ora Hamas. Un fatto molto grave, sono fondamentalisti pericolosissimi, terroristi che sparano sulle città in nome della guerra santa. Usano gli aiuti che giungono dall’estero per costruire armi. Sono riusciti a imporsi come i difensori di Gerusalemme di fronte al mondo islamico e della causa palestinese. Ci hanno obbligati a chiudere il nostro aeroporto più importante e di fatto stanno paralizzando la vita civile. Però, rimane un evento limitato a poche minoranze di fanatici combattenti. Non è una rivolta generalizzata».

Le conseguenze politiche?
«Benjamin Netanyahu resta al potere, o comunque pare più forte di prima. Ci aveva fatto credere che si potevano annettere i territori occupati nel 1967 senza troppi problemi e ora ne paghiamo le conseguenze. Però, la sua politica di dividere i palestinesi a scapito dei moderati dell’Olp di Abu Mazen e beneficio invece dei fanatici di Hamas, alla fine per lui paga. Nonostante sia sotto processo per corruzione e politicamente molto debole, Netanyahu adesso fa leva sulla necessità dell’unità nazionale nell’emergenza. La grande novità sarebbe stata la partecipazione dei quattro deputati del Partito Arabo Unito guidato dal super-pragmatico Mansour Abbas nella coalizione di centro-destra assieme ai partiti di Yair Lapid e Naftali Bennett. Sarebbe stata l’unica coalizione alternativa al Likud di Netanyahu. Ma adesso non è più possibile».

4001.- Guerra a Gaza, test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da Trump a Biden: Israele e Iran lanciano il sasso e Gaza risponde. Test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da La nuova Bussola Quotidiana, 16 maggio 2021

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. L’Iran, armando Hamas, sta facendo saltare l’equilibrio. 

Scontri a Lod

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. In politica interna, le liste dei partiti arabi avevano guadagnato consenso e dimostrato di voler partecipare, eventualmente, a coalizioni di governo. La Lista Araba Unita, di Mansour Abbas, con un programma islamista, era considerato addirittura uno degli aghi della bilancia per la formazione della prossima coalizione di governo, dopo il risultato non decisivo delle ultime elezioni parlamentari del 2021. All’estero, lo scenario di contrapposizione fra mondo arabo e Israele era radicalmente mutato dal 2020, dopo la firma degli Accordi di Abramo, la normalizzazione delle relazioni fra lo Stato ebraico e quattro Stati arabi islamici: Emirati Arabi Uniti, Oman, Sudan e Marocco. Con i morti palestinesi a Gaza che hanno raggiunto quota 145, come stanno reagendo gli arabi?

Gli ultimi sviluppi non fanno presagire una fine imminente del conflitto, anche se è meno probabile di quanto si pensasse un attacco di terra israeliano contro Gaza. Nonostante la presenza di tre brigate dell’esercito al confine con il territorio controllato da Hamas (la 7^ brigata corazzata, la brigata paracadutisti e la brigata Golani di fanteria), finora l’azione si è limitata a bombardamenti aerei e di artiglieria. Venerdì, Israele ha fatto circolare, forse deliberatamente, notizie di un imminente attacco di terra, inducendo le milizie di Hamas a prendere posizione nei tunnel usati per il combattimento urbano, ma qui sono stati bersagliati dall’aviazione che li aveva individuati. Ieri, sabato 15, la giornata è stata funestata dal bombardamento del palazzo al Jala, sede degli uffici di corrispondenza di Al Jazeera e di Associated Press. L’episodio non ha mancato di suscitare un’ondata di sdegno di tutti i media internazionali, anche se l’attacco è avvenuto dopo un ampio preavviso che ha risparmiato vittime civili. Secondo Israele, lo stesso palazzo al Jala era usato da Hamas come base. I bombardamenti israeliani non sono comunque riusciti, almeno finora, a fermare l’incessante pioggia di razzi lanciata da Hamas contro obiettivi israeliani: 2400 dall’inizio della settimana, sparati in raffiche fitte al punto di saturare Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano. Obiettivi anche lontani da Gaza, come Tel Aviv, sono stati colpiti anche nella giornata di ieri. Oltre a gravi distruzioni di proprietà, gli israeliani hanno finora subito 11 morti e 140 feriti.

Più lungo e sanguinoso è il conflitto, più fragile diventa la tenuta dei rapporti con gli arabi. In particolar modo sta saltando l’equilibrio con gli arabi cittadini di Israele, con pogrom anti-ebraici (termine impiegato per la prima volta nella dichiarazione del presidente Reuven Rivlin) a Lod, Acri e Haifa. A Lod (nota per l’aeroporto Ben Gurion), dove si sono verificati i primi episodi gravi, un ebreo aggredito a colpi di pietre e mazze da arabi si è difeso con la pistola e ha ucciso uno dei suoi aggressori. I funerali dell’uomo sono diventato l’inizio dell’insurrezione: negozi e locali pubblici, auto e case private degli ebrei sono stati attaccati e +dati alle fiamme. Anche tre sinagoghe sono state incendiate.

Anche ad Acri, già capitale crociata e meta turistica nota in tutto il mondo, sono stati attaccati e distrutti negozi e ristoranti di proprietà ebraica. Distrutto anche il popolare ristorante Uri Buri, che impiega personale sia ebreo che arabo. Un cittadino ebreo, nel corso degli scontri di martedì, è stato trascinato fuori dalla sua auto e picchiato, tuttora è ricoverato in condizioni critiche. Altri incidenti simili si sono verificati anche a Tiberiade, in Galilea e Haifa, solitamente indicata come esempio di convivenza pacifica fra le varie comunità che compongono la popolazione israeliana (ebrei, arabi, drusi, circassi, oltre alla minoranza religiosa Bahai che a Haifa ha la sua sede centrale). Venerdì le strade della città portuale sono state invece percorse da bande di arabi che urlavano Allahu Akhbar e “morte agli ebrei”, oltre a ronde di estremisti ebrei che cantavano “morte agli arabi”. Gli estremisti di destra ebrei sono entrati in azione anche a Gerusalemme, dove un arabo è stato pugnalato e soprattutto a Bat Yam dove un ristorante e una gelateria arabi sono stati distrutti e un insegnante 37enne arabo, estratto dalla sua auto, è stato aggredito.

Se l’equilibrio interno fra ebrei e arabi è messo in pericolo, quello esterno, fra Israele e i suoi nuovi partner della regione si sta dimostrando invece più solido del previsto. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno condannato né l’azione di polizia di Israele sulla spianata delle moschee, né gli scontri che ne sono seguiti a Gerusalemme, limitandosi a delle dichiarazioni vaghe in cui invitano le autorità dello Stato ebraico a rispettare la sacralità dei luoghi musulmani. Sul conflitto a Gaza, poi, i media di Stato emiratini sono stranamente silenti. Ieri gli Emirati hanno anche chiesto a Hamas di interrompere il lancio di razzi, pena il ritiro degli investimenti a Gaza. La prudenza, nelle reazioni e nelle dichiarazioni, caratterizza anche il comportamento tenuto dagli altri partner degli Accordi di Abramo.

Al di fuori del mondo arabo, l’Iran è la principale potenza regionale che sta sostenendo materialmente Hamas: la maggior parte dei razzi lanciati dal partito armato palestinese vengono dall’Iran, oltre a quelli fabbricati in loco. E poco importa, nella strategia di Teheran, che il movimento armato palestinese, contrariamente a Hezbollah e agli Houthi, sia radicale sunnita e parte della galassia dei Fratelli Musulmani. Tre razzi sono stati lanciati dal Libano contro il Nord di Israele, anche se Hezbollah nega ogni responsabilità. Erdogan, dalla Turchia, sta cavalcando il conflitto. E’ di ieri il suo appello agli arabi per “difendere Gerusalemme”, anche se formalmente la posizione della Turchia è quella di una richiesta di de-escalation e dialogo. Gli Usa, che per bocca del presidente Biden hanno riaffermato il diritto di Israele a difendersi, hanno inviato il loro mediatore in Medio Oriente (Hady Amr) approdato ieri a Tel Aviv. Resta però il forte sospetto, soprattutto in Israele e nei Paesi arabi sunniti, che lo sdoganamento dell’Iran da parte della nuova amministrazione Biden (oltre che la sua ostentata ostilità nei confronti dell’Arabia Saudita e del governo Netanyahu) sia una delle cause principali del conflitto. Teheran sta mettendo alla prova la pazienza dell’interlocutore statunitense su molti fronti: dopo l’offensiva nello Yemen e gli annunci della ripresa del programma nucleare, la guerra a Gaza è l’ultimo test in ordine di tempo.

L’Egitto ha riaperto il valico di Rafah per lo sgombero dei feriti

L’Egitto, venerdì 15 maggio, ha aperto, con un giorno di anticipo e “a tempo indeterminato” il valico di Rafah, sul proprio confine terrestre con Gaza, e ha inviato dieci ambulanze all’enclave palestinese per evacuare e curare nei propri ospedali palestinesi feriti nei bombardamenti israeliani. La riapertura era prevista sabato, dopo la fine della festa musulmana di Eid.

3352.- UN CAMMINO DI PACE: GRAZIE DONALD TRUMP!

Libia, Sarraj ufficializza le sue dimissioni entro fine ottobre

  1. 18 Settembre 2020. Di Francesco Bussoletti, da Difesa e Sicurezza, Politiche
Libia, Sarraj Ufficializza Le Sue Dimissioni Entro Fine Ottobre

Sarraj ufficializza in un discorso in tv le sue dimissioni entro la fine di ottobre

Fayez Sarraj lo ha confermato: lascerà la guida del GNA entro ottobre. Lo ha fatto in un breve discorso televisivo in cui ha sottolineato gli sforzi fatti per riconciliare le diverse visioni in Libia e per riunificare le istituzioni dello stato. Secondo il premier di Tripoli, però, il clima è rimasto altamente polarizzato, rendendo ogni tentativo molto difficile. A proposito ha denunciato che “qualcuno” ha contato sulla guerra contro Khalifa Haftar per imporre la sua agenda nel paese africano e il Consiglio Presidenziale è stato obbligato a fare molte concessioni per evitare l’inasprimento del conflitto. Sia a livello interno sia esterno. Nonostante ciò, è riuscito a raggiungere una tregua stabile con l’Est, tramite Agila Saleh, che ha posto le basi per la ripresa del processo politico. Si attendono ora le reazioni dei partner del governo riconosciuto e di quelli di Bengasi.

Il capo del GNA lascerà una volta che si sarà il nuovo Consiglio Presidenziale, formato da un elemento per ognuna delle tre regioni libiche. Haftar dovrà “liberare” il petrolio, mentre si attende il nuovo inviato speciale ONU

L’annuncio delle dimissioni di Sarraj, che comunque manterrà i poteri fino alla costituzione del nuovo esecutivo, apre nuovi scenari per il futuro della Libia. Innanzitutto sblocca il dialogo avviato tra GNA e l’Est, in quanto i partner di Haftar perdono oggi l’arma principale per frenare il processo. Inoltre, obbligherà il Generale a liberare effettivamente i giacimenti e i terminal petroliferi, pena la condanna dei suoi stessi alleati. Ora la palla passa all’ONU, che dovrà nominare al più presto il nuovo inviato speciale. Questo sarà strategico per mettere d’accordo le parti sulla necessità di un nuovo Consiglio Presidenziale, formato da un elemento di ogni regione libica (Tripolitania, Fezzan e Cirenaica). Il tema, infatti, sarà probabilmente quello principale, insieme a un cessate il fuoco duraturo, al prossimo round di negoziati a Ginevra. Di conseguenza, per quella data è auspicabile che questa figura sia stata già nominata e sia operativa. Da sottolineare, la decisione definita dall’ONU “coraggiosa” del premier, Fayez al-Sarraj, di dimettersi. Il governo di Tripoli ha chiesto alle Nazioni Unite di sostenere il popolo libico nell’organizzazione di un referendum costituzionale. Chi vede in questa decisione l’inizio di un cammino incerto e chi vede una speranza di pace.

Cavusoglu: Ankara e Mosca prossime a un accordo politico in Libia

17 SETTEMBRE 2020 

Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha dichiarato che la Turchia e la Russia giungeranno presto ad un accordo per il cessate il fuoco e ad una soluzione politica in Libia. Nel frattempo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha esortato le parti coinvolte nel conflitto libico a rispettare l’embargo sulle armi e a ritirare i mercenari stranieri (Luiss).

Le politiche espansioniste di Erdogan sono giunte al termine e, così, penso, la sua carriera politica. Anche l’Egitto è intervenuto per stabilizzare la Libia

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Lunedì, 7 settembre, Shoukry ,ha avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri del Marocco, Sameh Shoukry e Nasser Bourita, incentrato sugli sviluppi della crisi libica. 

Dall’Agenzia Nova era giunta notizia che l’Egitto ha stabilito i primi contatti diretti con gli esponenti di Fayez al Sarraj ricevendo al Cairo una delegazione di alto livello composta da membri dell’Alto Consiglio di Stato della Libia (il “Senato” libico) e da deputati “ribelli” della Camera dei rappresentanti che si riuniscono a Tripoli (e non a Tobruk, in Cirenaica, dove ha sede il parlamento), più altre “figure legali” esterne ai due organismi.

Al Cairo, LNA del generale Khalifa Haftar è stato portatore di una proposta che fa della città strategica di Sirte una “linea rossa” che le forze di Tripoli sostenute dalla Turchia non possono sorpassare, pena un intervento militare diretto egiziano a sostegno dell’LNA.

Domenica 13 settembre, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry aveva espresso il sostegno assoluto del suo Paese a tutti gli sforzi volti a risolvere il conflitto in Libia, comprese le consultazioni intra-libiche in Marocco. Aveva dichiarato: “La Turchia cerca politiche espansive”.

Durante una conferenza stampa con la sua controparte armena, Zahrab Mnatsakanyan, Shoukry aveva confermato che l’Egitto sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una soluzione alla crisi in Libia e non ha riserve su nessun partito libico che partecipa al processo politico.

Il ministro Shoukry aveva ribadito l’adesione dell’Egitto alla ricerca di una soluzione politica libica-libica sotto l’egida delle Nazioni Unite, sottolineando la necessità di garantire l’integrità territoriale del Paese e di rispettare le pertinenti risoluzioni internazionali.

l presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il 20 giugno, si era dichiarato pronto a qualsiasi missione, ma a fine agosto, ha accolto con favore le dichiarazioni di cessate il fuoco del Consiglio Presidenziale e dalla Camera dei Rappresentanti dello Stato della Libia definendole, su Twitter, “un passo importante” verso il raggiungimento di una “soluzione politica”.

Fermezza e diplomazia

Shoukry ha detto che l’Egitto “è intervenuto per stabilizzare la situazione militare in Libia”. Rivolto alla Turchia, ha rilevato, allo stesso tempo, che ci sono stati “interventi stranieri a servizio delle politiche espansionistiche in Libia”, puntualizzando che c’erano “quelli che portano in Libia combattenti stranieri e organizzazioni terroristiche”. Ha accusato Erdogan di perseguire “politiche espansive e destabilizzanti nella regione. “ Infine: “La cosa più importante sono le azioni, non le dichiarazioni”, ha detto, aggiungendo: “Se le dichiarazioni turche non coincidono con le azioni, non hanno valenza alcuna”.

Questo allinearsi all’ONU, sta a dimostrare la non disponibilità dell’Egitto ad essere trascinato in un conflitto armato da Erdogan e la sua adesione alla politica di pacificazione della Libia e del Medio Oriente condotta con determinazione da Trump. Possiamo affermare che Donald Trump è senza dubbio il miglior leader dell’Occidente di questa epoca e che la sua politica interpreta il desiderio di pace e prosperità dei popoli mediterranei.

Né al Sarraj né Haftar hanno vinto

I libici si sono riuniti in un certo numero di città e villaggi nella parte nord-occidentale e meridionale del paese per celebrare il 51 ° anniversario della “Rivoluzione Al-Fateh”, che, nel 1969, portò al potere il defunto leader Muammar Gheddafi.
Numerose le bandiere verdi e le immagini di Gheddafi e dei suoi figli, incluso Khamis Gheddafi, ucciso durante gli eventi del 2011.

I centri nevralgici del problema del Mediterraneo Orientale rimangono la sicurezza di Israele e il destino del popolo palestinese.

Tuttavia, la normalizzazione dei rapporti con la Siria, da parte di Israele richiede un prezzo che possiamo definire troppo elevato; quanto meno per un Netanyahu.

Il primo ministro marocchino, Saad Eddine El-Othmani, leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Pjd)

Andando alle consultazioni intra-libiche tenute nella città di Bouznika, in Marocco, sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stato molto apprezzato il clima favorevole creato da quel governo. Il primo ministro marocchino, Saad Eddine El-Othmani, ha rifiutato, tuttavia, qualsiasi normalizzazione dei rapporti con Israele, anche dopo che Tel Aviv ha annunciato la normalizzazione dei rapporti con gli Emirati Arabi Uniti.

Di fronte a una riunione del Partito per la giustizia e lo sviluppo, El-Othmani ha sottolineato che “il Marocco rifiuta qualsiasi normalizzazione con l’entità sionista perché questo rafforza la sua posizione nel continuare a violare i diritti del popolo palestinese”.

Il Marocco ritiene che sia necessaria una soluzione a due stati con la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme est come capitale.

Il Marocco e Israele hanno avviato relazioni di basso livello nel 1993 dopo che è stato raggiunto un accordo di pace tra i palestinesi e Israele. Ma Rabat ha congelato le relazioni con Israele dopo lo scoppio della rivolta palestinese nel 2000.

Queste dichiarazioni sono venute prima di una visita di Jared Kushner, consigliere senior e genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nella regione, e dopo che gli Emirati Arabi Uniti e Israele avevano raggiunto il recente accordo.

Il ritiro della Turchia dalla Libia e lo smantellamento delle milizie libiche e dei reparti irregolari turchi sarà condizione per la realizzazione del processo di pace, da cui scaturirà la soluzione politica globale. Si avviano a una possibile soluzione molti problemi nel Mediterraneo. Tutto questo fervore diplomatico ha il suo apice nell’accordo arabo-israeliano voluto da Trump e dovrà essere seguito da una regolamentazione dell’immigrazione verso l’ Europa.

2542.- Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

 

Da quasi quattro anni nello Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita: perché nessuno parla di questo conflitto così simile alla Siria?

Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

Nello Yemen è in corso una tragica guerra civile dove l’Arabia Sauditain modo diretto, oltre all’Iran in modo indiretto, gioca un ruolo determinante per questo conflitto che dura ormai dal 2015.

Se ci mettiamo poi che nel più che mai diviso territorio dello Yemen esistono anche zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida, ecco che allora lo scacchiere assomiglia sempre di più a quello della Siria.

L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando infinite sofferenze ai civili.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame, con un’epidemia di colera che soltanto negli ultimi tre mesi del 2017 ha provocato 2.000 morti. Ma perché l’Occidente e le Nazioni Unite tacciono di fronte a questa tragedia?

Leggi anche Perché c’è la guerra in Siria

L’Arabia Saudita e la guerra civile nello Yemen

Dopo una lunga divisione, nel 1990 lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud decidono di riunirsi in un unico stato, con San’a che diventa la nuova capitale. Presidente è Ali Abdullah Saleh, che all’epoca era alla guida del Nord fin dal lontano 1978.

A seguito nel 2012 delle rivolte nella parte meridionale del paese in quella Primavera araba che sconvolse molti paesi islamici, Saleh rassegna le sue dimissioni e al suo posto arriva il sunnita Abd Rabbuh Mansur Hadi, con il compito di guidare per due anni lo Yemen fino a nuove elezioni.

Visto il timore però che le elezioni sarebbero potute essere soltanto un miraggio e che il regno di Hadi potesse continuare invece per altri anni, nel febbraio 2015 il gruppo armato sciita degli Huthi, proveniente dal Nord del paese, conquista la capitale San’a e costringe alle dimissioni il presidente Hadi che si rifugia a Sud ad Aden, che così diventa una seconda capitale dello Yemen.

Da quel caos si arriva a un paese diviso in due: a Nord ci sono gli sciiti con il governo di Saleh nella capitale San’a, mentre a Sud nella città di Aden si è insediato il Presidente spodestato Hadi, l’unico riconosciuto dall’Occidente e dalle Nazioni Unite.

In tutto ciò Al-Qa’ida è riuscito a entrare in possesso di vaste zone nella parte orientale del paese, con anche l’Isis che si è stabilizzato in diversi villaggi facendo sentire la sua tragica voce con attentati fatti soprattutto contro gli sciiti di San’a.

Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita sunnita si mette a capo di una coalizione di paesi sunniti comprendente anche Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar.

Questa lega araba formata da nove paesi e capeggiata da Riyad inizia così un massiccio bombardamento in Yemen nei territori controllati al Nord dai ribelli Huthi, che da allora in pratica resistono a questo assedio con il supporto, paventato, soltanto dell’Iran ovvero il più grande stato sciita.

Il dramma dei civili

Lo stato di perenne assedio ha però fiaccato l’alleanza tra gli Huthi e il ras del Nord l’ex presidente Saleh. Quest’ultimo infatti, dopo aver cercato invano rifugio oltre confine, è stato catturato e ucciso dai ribelli fino a poco tempo fa suoi alleati.

Lo Yemen del Nord quindi ora è nel caos più totale ed è controllato dagli Huthi. Vista la debolezza creata dalla faida interna, sono aumentati i bombardamenti da parte della coalizione sunnita che sta aggravando ancora di più la situazione umanitaria.

Un conflitto che sta diventando sempre più cruento, visto che anche di recente ci sono stati violentissimi scontri tra lealisti e ribelli: 142 morti tra i militari dei due schieramenti, mentre 7 sono state le vittime civili.

Oltre ai militari uccisi, altissimo infatti è anche il bilancio delle vittime civili. Non sono soltanto le bombe saudite a fare strage di civili ma anche la fame(lo Yemen è lo stato più povero del Medio Oriente) e il colera.

Anche se da noi viene vista come una malattia ormai debellata, nello Yemensi parla di almeno 500.000 persone contagiate, con il colera che ha provocato soltanto negli ultimi tre mesi la morte di 2.000 persone.

Il blocco dei paesi arabi vicini imposto a San’a sta stritolando la popolazione del Nord, tra quella che sembrerebbe essere l’indifferenza generale anche delle Nazioni Unite che nulla hanno fatto finora per salvare la popolazione civile da questa atroce fine.

L’indifferenza dell’Occidente

Nel 2016 parlando della problematica situazione in Siria Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, dichiarò che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”.

Peccato però che per la guerra civile nello Yemen non sia stato rivolto lo stesso pensiero. L’Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti e, come se non bastasse, si è sempre opposta alla creazione di corridoi umanitari per permettere di inviare cibo e medicinali alla popolazione civile.

In pratica si starebbe utilizzando la fame e le epidemie come un’arma d’assedio, per convincere i ribelli Huthi a cedere visto che le bombe sganciate su San’a finora non hanno prodotto gli effetti sperati.

Immagine simbolo di questa tragedia è quella di Amal, bambina yemenita fotografata in un campo profughi dal premieo Pulitzer Tyler Hicks pochi giorni prima di morire per fame a soli sette anni.

Nicholas Ferrante, Money

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Amal Hussain, la bambina yemenita di 7 anni denutrita, è morta. Diritto alla vita negato.

Per ultimo c’è stata la tristemente famosa strage di bambini, con 43 morti e 60 feriti per un autobus che è stato colpito mentre si stava recando a un mercato situato nel Nord del paese, oltre al più recente bombardamento da parte dell’aviazione saudita di un ospedale di Save the Children che ha provocato 7 morti tra cui 4 bambini.

Il sentore è che la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.

Si può dire invece che tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, sia al contrario sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi.

Alessandro Cipolla