Archivi categoria: Lavoro

6170.- Più salario o più lavoro?

L’Italia dei salari da fame: “5,7 milioni di lavoratori guadagnano meno di 850 euro netti al mese. E altri due milioni si fermano a 1.200”. L’introduzione del salario minimo potrebbe risolvere il problema?

Foto profilo per Alessandro Lupi

Da L’ÈLITE, di Alessandro Lupi · 

L’aumento del salario minimo potrebbe aiutare, ma con 3 grossi limiti:

  1. Aiuterebbe solo una fascia di popolazione, ma quella con più bassa produttività e cultura. In termini di PIL e supporto alla crescita del paese equivale a fare la carità al poveretto e non a migliorare stabilmente le cose. Un reddito di cittadinanza, inclusione o chiamiamolo come vogliamo (un “bonus” povertà, mi sembra strano che nessun politico abbia pensato di sfruttare questa definizione in campagna elettorale) sortirebbe un effetto simile e, se fosse fatto con regole giuste per limitarlo ai soli veri aventi diritto, anche migliore da un punto di vista sociale ed etico.
  2. I salari differenti in un paese riflettono ovviamente differenza nel lavoro fatto. Io pago un lavapiatti meno dello Chef, per fare un esempio. Se aumento il salario minimo, dovrò per forza aumentare successivamente anche gli altri salari senza creare problemi. Quindi più che di un salario minimo, c’è bisogno di una nuova politica salariale globale, ovvero bisogna cambiare il Paese. Per far questo devono essere d’accordo datori di lavoro e proprietari del “capitale”. Qui sorge il problema, perché con il singolo imprenditore illuminato si può ragionare, se è una brava persona, ma con Banche e Società per Azioni è molto più difficile per le meccaniche intrinseche al loro funzionamento. Faccio un esempio: se un CEO illuminato decide di pagare di più i dipendenti di una grossa azienda gestita come SPA, dovrà presentare un piano all’assemblea degli azionisti dove dimostri che questo non produrrà un calo degli utili, altrimenti l’azionista vende le sue quote azionarie e si compra le azioni di qualche altra impresa che gli garantisce di non ridurre i guadagni. Allora l’unico modo di far “digerire” a un’assemblea degli azionisti un aumento degli stipendi è tagliare i posti di lavoro (pago di più il lavoratore ma lo faccio rendere di più e licenzio i lavoratori di troppo per far tornare il conto finale). Altrimenti bisogna rivolgersi al modello Socialista Marxista che però nell’appiattimento di tutta la società toglie gli stimoli alla competitività e uccide l’economia.
  3. L’aumento dei salari viene generalmente ammortizzato dai datori di lavoro con un aumento dei prezzi dei beni e servizio forniti (il “costo del lavoro” aumenta e allora incide sul costo finale del bene prodotto). Questo processo inevitabile di aumento dei prezzi è condizionato da forti speculazioni, spesso mal controllate dallo stato e dagli organi competenti (quando una spirale inflattiva si innesca, i prezzi a livello di grossisti e dettaglianti aumentano anche se un singolo prodotto i prezzi non li ha aumentati). Questo meccanismo affligge i consumatori (anche quelli a cui il salario purtroppo non è aumentato, come i percettori di pensioni ed altre misure di welfare) vanificando gli effetti degli aumenti salariali. In questo momento entrano in gioco le Banche centrali che aumentano i tassi di interesse (“il costo del denaro”) e cercano accordi con le sigle sindacali per limitare la crescita dei salari in cambio di stabilità economica (per esempio, se il lavoratore ha un aumento salariale inferiore all’inflazione, perde potere di acquisto in cambio di una stabilizzazione dell’economia che potrebbe far fallire aziende e fargli perdere il posto di lavoro). La spirale inflattiva si interrompe alla fine quando i consumi si riducono (peraltro i prezzi non tornano mai quelli di prima) con l’inevitabile frenata dello sviluppo economico nota come “recessione”. E allora sono problemi seri, perché a quel punto solo i più forti sopravvivono, a danno dei più deboli che escono dal mondo del lavoro… e si ricomincia il ciclo.

Quindi per risolvere il problema seriamente non basta “stanziare qualche miliardo di euro e fare una legge con cui aumentare il salario minimo”, come mal-informano i propri elettori Schlein e Conte. A meno che non si dica con chiarezza che, per come viene proposta. si tratta di una misura di assistenzialismo, pagata alla fine dallo Stato e quindi dalla collettività. Che in certi momenti di grave crisi ci può stare, a patto di non imbrogliare le carte e trattare gli elettori da deficienti (o peggio da complici) come già fatto per il bonus 110%.

5616.- Gli stipendi non tengono il passo all’inflazione. Ecco perché

Da WSI, di Pierpaolo Molinengo, 10 Maggio 2023

Busta paga sempre più povera e ridotta al lumicino. Stipendi sempre più miseri: il taglio del cuneo fiscale, introdotto dal governo guidato da Giorgia Meloni, non ha apportato dei benefici reali ai lavoratori.

Grazie al taglio del cuneo fiscale, i dipendenti riusciranno a trovarsi in busta paga poco meno di 100 euro al mese. Una cifra che risulta essere insufficiente per recuperare il potere d’acquisto delle famiglie, che nel corso del 2022 hanno perso qualcosa come 10 miliardi di euro.

La situazione degli stipendi degli italiani appare ancora più drammatica se si va a dare uno sguardo al passato. Un’analisi effettuata dal “Fatto Quotidiano” ha messo in evidenza che gli interventi effettuati dalla seconda metà del 2021 risultano essere insufficienti a proteggere il potere d’acquisto delle famiglie. L’inflazione ha iniziato a crescere senza sosta fin dallo scoppio della guerra in Ucraina e continua ancora oggi a pesare sulle tasche dei lavoratori e delle loro famiglie.

Busta paga, non basta il taglio del cuneo fiscale

l’analisi ha messo in evidenza che lo stanziamento, arrivato attraverso l’ultimo Decreto Lavoro, che dovrebbe incrementare di quattro punti l’esonero contributivo che spetta ai lavoratori con una retribuzione annua fino a 35.000 euro, ammonta – al netto della maggiore Irpef che dovrà essere pagata – a qualcosa come 2,9 miliardi di euro.

A questa cifra devono essere aggiunti i 3,5 miliardi di euro che sono stati previsti nella Legge di Stabilità, con la quale è stato confermato il taglio di due punti introdotto dal governo Draghi e lo ha portato, invece, a 3 punti per le famiglie con reddito fino a 25.000 euro.

Complessivamente, in questo modo, si raggiunge quota 6,4 miliardi di euro, a cui si aggiungono altri due miliardi del precedente governo: complessivamente siamo arrivati a quota 8,4 miliardi di euro.

Andando a dare uno sguardo ai dati dell’Istat, risulta esserci un forte divario tra il reddito reale delle famiglie e l’aumento dei prezzi al consumo. Le risorse, che sono state introdotte dai vari governi, sono riuscite a coprire unicamente il 60% della perdita del potere d’acquisto degli stipendi, che nel corso di un anno e mezzo risulta essere pari a 10,3 miliardi di euro.

La domanda che molti osservatori si pongono è come possano fare le famiglie a far fronte a questo rincaro dei prezzi. Al momento non è stato rinnovato il taglio delle accise, che permettevano di contenere il rincaro delle bollette.

Stipendi sempre più poveri

Il bonus, che oscilla tra i 45 ed i 100 euro, che arriverà direttamente in busta paga per quanti hanno un reddito fino a 35.000 euro, non sembra essere particolarmente utile per far fronte alla situazione. L’inflazione continua a crescere: su base mensile è previsto un aumento dello 0,5%, rispetto all’ultima rilevazione resa nota dall’Istat.

Questo è uno dei motivi per i quali i sindacati hanno criticato duramente il governo Meloni per il Decreto Lavoro approvato il 1° maggio 2023. L’accusa è stata quella di aver precarizzato ancora di più il lavoro, andando a modificare il Decreto Dignità. Sarebbe stato molto più utile andare ad aumentare gli stipendi o stabilire un salario minimo.

A dare ragione ai sindacati ci sono le statistiche Istat sui contratti collettivi aggiornati a fine aprile, che hanno messo in evidenza che nonostante il rallentamento della crescita dei prezzi, la dinamica dell’inflazione e quella degli stipendi (almeno sotto il profilo delle retribuzioni contrattuali) rimane superiore a sette punti percentuali.

Gli stessi problemi ci sono alla Bce

Il problema degli stipendi è presente anche all’interno della Bce. La Banca Centrale europea, in questi mesi ha avviato una vera e propria ricognizione sui meccanismi salariali, in modo da poter valutare eventuali automatismi di adeguamento all’inflazione. Il “Financial Times” riferisce che sono stati i sindacati a chiedere questa revisione, contrari ad un aumento della busta paga di poco superiore al 4% a fronte di un aumento dell’inflazione dell’Eurozona pari all’8,4%. L’aumento proposto, comunque vada, è in linea con la crescita salariale dell’area.

Il confronto, in queste settimane, si sarebbe spostato proprio su questi automatismi. Carlos Bowles, rappresentante dello staff Bce per il sindacato Ipso, nel corso di un’intervista rilasciata al “Financial Times”, ha spiegato che la richiesta è per un approccio più bilanciato per definire il valore degli stipendi: il modello da imitare sarebbe quello della Commissione europea. Per il momento, la Bce aggiorna gli importi delle buste paga basandosi sulle dinamiche salariali delle venti banche centrali nazionali, della Commissione europea, della Bei e della Bri. Il quotidiano inglese mette in evidenza che il turnover del 2022 si è fermato all’1,3%: a questo punto non ci sarebbe un tale frustrazione nello staff da generare fughe.

5614.- Da settembre ”MIA” potrebbe sostituire il Reddito di cittadinanza

Una necessaria premessa

Per la nuova misura, Misura di Inclusione Attiva, MIA, che sarà erogata ai cittadini dell’Unione e loro familiari, titolari di permesso di soggiorno o permanente, ma anche ai cittadini di paesi terzi in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo. Per assecondare la Commissione europea, gli stranieri potranno beneficiarne anche se non residenti in Italia da 10 anni, purché al momento della presentazione della domanda vi risultino residenti da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo

Due i  nuclei destinatari della prestazione: da un lato, le famiglie con almeno un componente con disabilità, o minorenne o con almeno 60 anni di età, che beneficeranno della misura al 100%. Dall’altro, i nuclei senza componenti disabili, minorenni o con almeno 60 anni di età, per i quali la prestazione sarà ridotta al 75%.

La misura dovrebbe decadere se si rifiuta la prima offerta di lavoro congrua, a tempo indeterminato o determinato, anche in somministrazione, non inferiore a 3 mesi entro 80 km dal luogo di residenza.

Non solo denaro, ma anche formazione. I beneficiari sarebbero tenuti all’obbligo di adesione e alla partecipazione attiva a tutte le attività formative, di lavoro ed alle misure di politica attiva individuate nel progetto di inclusione sociale e lavorativa.

C‘è un interesse specifico della Repubblica nel garantire il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e lo leggiamo nell’art. 3:

Articolo 3 della Costituzione

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 237 c. 148 c. 151 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 819], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Stato sociale e Dovere sociale nella Costituzione

La Misura di Inclusione Attiva, MIA, non si rivolge esclusivamente ai cittadini e costituisce un altro tentativo di dare attuazione agli artt. 4 e 38 della Costituzione. Riferendosi al principio fondamentale della dignità, richiama anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Trattiamo prima gli artt. 31, 37, 38, espressione dello stato sociale e del principio di sicurezza sociale, che impongono di assicurare ai singoli il rispetto della dignità, anche se versano in una situazione di bisogno:

articolo 38 della Costituzione

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Qui, dal punto di vista sistemico, potremmo notare un’impostazione che definiamo maschilista del welfare nella Costituzione, laddove nell’oggetto i cittadini donne sono pari ai maschi e la maternità è pari a una malattia. Soccorrono gli art. 31 e 7 della Costituzione:

Articolo 31 della Costituzione

La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo [cfr. art. 37 seguente].

Articolo 37 della Costituzione

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.

Quale che sia la scelta di libertà sacrosanta operata nel tempo dalla donna, che sia lavoratrice, compagna, moglie, madre, gli articoli 37 e 38 prevedono una disciplina che consenta alla puerpera di restare nella forza lavoro senza che la gravidanza comporti la perdita del posto. La donna non è semplicemente un cittadino, ma assicura il futuro dell’umanità e, per le sue facoltà di scelta, è anche il simbolo della Libertà. La norma dell’art. 3 Co. non rappresenta una deviazione da questi principi.

Con l’art. 38, lo Stato si fa carico in prima persona dell’assistenza sociale, ossia di quelle misure che servono a garantire un adeguato tenore di vita anche a chi è titolare di un reddito inferiore ad una certa soglia e non può procurarsi altre entrate (ad esempio perché invalido di guerra o inabile al lavoro per malattia). Queste misure si sostanziano, tra gli altri, in corresponsione di pensioni di invalidità e guerra o in agevolazioni per la fruizione di servizi. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si occupa di “sicurezza sociale e assistenza sociale” all’art. 34. Il preambolo della Carta:

“Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell‘uguaglianza e della solidarietà; essa si basa sul principio della democrazia e sul principio dello Stato di diritto”.

Art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

“Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.

 Se le parole hanno un significato, i diritti della Carta dei diritti fondamentali sono (o sarebbero) sei e precisamente: Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia.

La Carta dei diritti Fondamentali UE, descrivendo la portata dell’assistenza sociale in un determinato numero di casi, cita la maternità insieme alla malattia, agli infortuni sul lavoro, alla dipendenza o alla vecchiaia, oltre i casio di perdita del posto di lavoro.

Un’altra norma programmatica che riconosce a chiunque il diritto al lavoro è l’art. 4 della Costituzione, ma precisa anche che questo è un dovere. Il dovere sociale di concorrere al progresso materiale e spirituale della società, quindi, della nazione, dove non si possa vedere nel lavoro solo un mezzo di potere.

art. 4 della Costituzione

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Il tanto vantato Reddito di Cittadinanza, da un lato, consentiva di derogare al proprio dovere civico, da un altro lato, non prevedeva la partecipazione effettiva e attiva del lavoratore abile, ma involontariamente disoccupato, a tutte le attività formative, di lavoro. Il progetto di inclusione sociale e lavorativa prevede e pone a carico dello Stato le misure di politica attiva necessarie.

L’articolo di Altalex, dell’avv. Sara Occhipinti

La nuova misura dovrebbe entrare in vigore da settembre e avere criteri più stringenti per accedervi, ma una platea di beneficiari più ampia.

Si chiama “MIA”, la nuova misura che il Governo starebbe varando per sostituire il reddito di cittadinanza. Dovrebbe entrare in vigore da settembre, e avere criteri più stringenti di reddito per accedervi, ma una platea di beneficiari più ampia, soprattutto tra gli stranieri, considerato che non saranno più necessari per fare domanda i 10 anni di residenza in Italia. Ristretta anche la possibilità di rinnovo e basterà il rifiuto di una sola offerta di lavoro per decadere dal beneficio.

In arrivo al Consiglio dei Ministri la bozza di decreto per la nuova misura di inclusione attiva, “MIA”, che da settembre 2023 potrebbe sostituire la domanda per il reddito di cittadinanza. Ad anticiparlo, il Corriere della Sera, secondo il quale, il Ministro del lavoro, Elvira Calderone potrebbe presentare nelle prossime settimane al CdM il nuovo decreto legge, dopo il vaglio del Ministero dell’Economia.

La misura dovrebbe andare a correggere le distorsioni segnalate da Bruxelles sul reddito di cittadinanza. Il mese scorso infatti la Commissione UE aveva aperto una procedura di infrazione contro l’Italia perchè la prestazione di assistenza sociale attualmente vigente comporterebbe una discriminazione indiretta subordinandone l’erogazione alla residenza in Italia da almeno 10 anni. 

MIA invece sarà erogata ai cittadini dell’Unione e loro familiari, titolari di permesso di soggiorno o permanente, ma anche ai cittadini di paesi terzi in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, purché al momento della presentazione della domanda risultino residenti in Italia da almeno cinque anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo

La nuova misura di inclusione attiva, funzionerà come il vecchio reddito di cittadinanza, tramite erogazione su carta di pagamento elettronica ricaricabile, assegnata per nucleo familiare. Due i  nuclei destinatari della prestazione: da un lato le famiglie con almeno un componente con disabilità, o minorenne o con almeno 60 anni di età, che beneficeranno della misura al 100%. Dall’altro, i nuclei senza componenti disabili, minorenni o con almeno 60 anni di età, per i quali la prestazione sarà ridotta al 75%. Più rigorosi i parametri economici. 

La soglia ISEE richiesta per ottenere il beneficio dovrebbe scendere dagli attuali 9360 Euro a 7200 Euro. Il reddito familiare invece non dovrebbe superare i 6000 Euro, come per il Reddito di cittadinanza, da moltiplicare per la scala di equivalenza in base alla numerosità del nucleo. Il patrimonio immobiliare diverso dalla casa di abitazione non dovrà superare i 30 mila Euro, e quello della casa di abitazione non potrà essere superiore a 150 mila Euro ai fini IMU, vincolo questo non presente nella vecchia misura. Il tetto del patrimonio mobiliare ai fini ISEE dovrà essere contenuto nei 6000 Euro, accresciuto di 2000 Euro per ogni componente il nucleo familiare successivo al primo, con il limite massimo di 10000 Euro, incrementabile di ulteriori 1000 Euro per ogni figlio successivo al secondo. I massimali dovrebbero essere comunque opportunamente incrementati per i componenti con disabilità, in funzione della gravità e della mancanza di autonomia. 

Attenzione anche alle novità sulla durata della prestazione. Mentre il reddito di cittadinanza vale per 18 mesi rinnovabili di ulteriori 18 dopo un mese di fermo, per MIA i 18 mesi restano validi solo per i  nuclei con componente disabile, minorenne o con almeno 60 anni di età. Il rinnovo sarà comunque ridotto a 12 mesi, dopo uno stop, ogni volta di un mese. Per i nuclei senza componenti disabili, minorenni con almeno 60 anni di età, la prestazione dovrebbe durare 12 mesi  invece egli attuali 18, e sarebbe rinnovabile una sola volta per 6 mesi, previo un mese di stop. Per presentare una nuova domanda in caso di necessità si dovrebbero aspettare 18 mesi di stop. 

La misura dovrebbe decadere poi se si rifiuta la prima offerta di lavoro congrua, a tempo indeterminato o determinato, anche in somministrazione, non inferiore a 3 mesi entro 80 km dal luogo di residenza. Per il reddito di cittadinanza invece la decadenza scatta col secondo rifiuto lavorativo. Si prevedono incentivi per i datori di lavoro privati che assumeranno i beneficiari di MIA, con esonero del 100% dei contributi per un periodo di 24 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato, ed esonero del 50% per 12 mesi in caso di contratto a tempo determinato. Se invece il beneficiario della misura decide di aprire un’attività autonoma, entro i primi 12 mesi di assunzione del beneficio, la bozza del decreto prevede di riconoscergli in un’unica soluzione sei mensilità addizionali, da 500 Euro ciascuna. 

Accanto alla erogazione in denaro, MIA prevederebbe l’adesione ad un progetto di inclusione sociale e lavorativa. Si dovrà stabilire prima se la condizione di povertà è legata esclusivamente alla situazione lavorativa. In questo caso i beneficiari dovrebbero sottoscrivere un patto di servizio personalizzato da coordinare con i percorsi formativi. Fuori da questa ipotesi invece, la bozza prevede una valutazione multidimensionale da parte del servizio sociale competente, coadiuvato da una equipe multisciplinare, con particolare riferimento ai settori dell’impiego e della formazione, delle politiche abitative, della tutela della salute e dell’istruzione. I beneficiari sarebbero tenuti all’obbligo di adesione e alla partecipazione attiva a tutte le attività formative, di lavoro ed alle misure di politica attiva individuate nel progetto di inclusione sociale e lavorativa.

5611.- Lavoro, professionalità, formazione e più soldi!

Presidente, la forbice tra costo del lavoro, stipendi, pensioni e costo della vita è stata fatta saltare artificiosamente. Recuperare si può? Analizziamo i fattori di questa crescita smisurata e la spirale che si prefiggevano e decretiamone la fine.

Lavoro, la priorità è il salario non la precarietà

Il lavoro è da sempre tema nobile per la politica. Il lavoro è cittadinanza, realizzazione di sé e della propria autonomia economica e non solo.
Ma le sortite tattiche sovente fanno di questo tema argomento da baruffa politica di piccolo cabotaggio magari travestito da alleanza tra sindacati e opposizioni.
L’idea della nuova crociata contro il precariato – l’ennesima a dire il vero perché ne abbiamo conosciute a ondate negli ultimi 30 anni – è una di queste: i dati Inps ci dicono che l’occupazione a tempo indeterminato è cresciuta in un anno del 21% e quelli Istat che l’occupazione è al record storico ed è per l’83,6% a tempo indeterminato. E – cosa che si dice poco – anche chi è assunto con contratti di lavoro a somministrazione, simbolo principe nella crociata anti-precariato, è ingaggiato con contratti a tempo indeterminato dalle agenzie del lavoro. Quanto ai contratti a termine, per i quali sono già state fatte 13 riforme con un movimento a pendolo sulle causali sì e causali no, l’Italia è nella media europea.
È ora di considerare che forse la vera priorità è il salario non la precarietà o per meglio dire la flessibilità (che semmai va pagata di più). E soprattutto è la distanza tra ciò che serve e ciò che i giovani sono in grado di offrire in termini di professionalità.
E in questo caso dire lavoro significa dire scuola e formazione, significa dire attenzione alla cultura d’impresa che poi è cultura tout court. 

di Alberto Orioli

5598.- L’Italia ha mandato all’aria la più grande riforma strutturale degli ultimi 40 anni

Pubblicato il 29 Aprile 2023 da Scenari economici. Di Davide Gionco

Da quando esiste l’Unione Europea non fa che ricordarci, un giorno sì e l’altro pure, di attuare le famose “riforme strutturali”. Come “riforme strutturali” sarebbero intesi degli investimenti oculati che consentano di mettere insieme l’equilibrio di bilancio pubblico e la realizzazione di interventi che portino a dei vantaggi economici permanenti per il paese.

Dopo di che la stessa Unione Europea, da sempre, propone e impone (si noti il numero di raccomandazioni ai vari paesi dal 2011 al 2018)


delle “riforme” che hanno dimostrato di non sortire questi risultati, come privatizzazioni e tagli dei servizi pubblici, della sanità, del sistema pensionistico. Queste riforme in realtà ingrassano gli incassi degli investitori finanziari che operano in questi settori, sistematicamente a spese dei cittadini, che si ritrovano con servizi di peggiore qualità e più costosi.
E’ purtroppo noto che a Bruxelles operano 12’500 lobbisti registrati ufficialmente, più molti altri che operano in modo non ufficiale. Oltre a questi ci sono quelli che operano a Francoforte, sede della BCER. Tutti questi lobbisti operano con lo scopo di portare vantaggi all’organizzazione che rappresentano, mentre evidentemente i cittadini non dispongono di lobbisti che rappresentino i loro interessi.
Lo scandalo che ha coinvolto la ex-vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili è molto probabilmente solo la punta dell’iceberg. Basti ricordare che l’ex-presidente della Commissione Europea Manuel Barroso , non appena concluso il suo mandato nel 2014, diventò immediatamente un alto dirigente della Goldman Sachs. Senza parlare degli ordinativi di vaccini anti-covid per miliardi di euro fatti per da parte dell’attuale presidente Von der Leyen tramite degli SMS privati.

Ma non è di questo che vogliamo parlare. Lasciamo ai lettori, con un accorato invito ai giudici, di occuparsi degli scandali all’interno delle varie autorità europee.
Parliamo invece delle vere riforme strutturali.

segue con La fine affrettata del Superbonus 110%

5597.- La fine affrettata del Superbonus 110%

Ha provocato il fallimento delle imprese che, fidando nella misura, avevano investito e organizzato e si erano esposte.

Tratto da Scenari economici

Il Superbonus 110% portava in sé degli aspetti fondamentali che avrebbero permesso a chi ci governa di realizzare la più grande riforma strutturale degli ultimi 30 anni. Anzi, se ci limitiamo alle riforme di tipo economico-finanziario, c’erano tutti i presupposti per la più grande riforma strutturale dai tempi dell’unità d’Italia.
L’aspetto fondamentale di questa riforma mancata non riguardava la finalità ecologica del provvedimento (isolamento degli edifici, risparmio energetico, riduzione delle emissioni di CO2), ma riguardava gli effetti del provvedimento sul bilancio dello Stato.
Per la prima volta nella storia era stato adottato un provvedimento che, strutturalmente, consentiva di non pesare negativamente sul bilancio dello stato, pur portando molti benefici ai cittadini privati. Anzi, con opportuni accorgimenti il provvedimento avrebbe consentito di realizzare degli attivi di bilancio strutturali negli anni a venire, tali da portare ad una progressiva riduzione del debito pubblico.
Oltre a questo gli effetti sull’economia reale del Paese portati dal Superbonus, anche se limitati nel tempo, hanno dimostrato tutto il potenziale di aumento strutturale dell’occupazione in Italia. Se il provvedimento fosse stato esteso anche ad altri settori dell’economia, oltre a quello rapidamente saturato dell’edilizia, si sarebbe potuti arrivare in pochi anni a creare i 5-6-7 milioni di posti di lavoro necessari per eliminare la disoccupazione in Italia, così come si sarebbe potuto conseguire il necessario graduale aumento degli stipendi, in un paese (l’Italia) in cui gli stipendi reali sono inferiori a quelli di 20 anni fa e in cui il tasso di inflazione sta erodendo drammaticamente il potere di acquisto dei lavoratori.

Come noto prima il governo Draghi e poi l’attuale governo Meloni hanno posto fine in modo affrettato al provvedimento. Come spesso accade in Italia, i mezzi di informazione non hanno aiutato a fare chiarezza su quanto accaduto. Non sono stati evidenziati i punti di forza del provvedimento che avrebbero consigliato di mantenerlo e non sono stati evidenziati i punti deboli che bastava semplicemente correggere. Il settore dell’edilizia tornerà nella crisi in cui si trovava da oltre 10 anni.
In questo articolo cerchiamo di fare chiarezza e di spiegare perché l’Italia, senza che i nostri governanti se ne rendessero conto, ha perso una occasione di storica riforma strutturale della propria economia.

I componenti della misura Superbonus 110%

Il Superbonus 110% è stata una misura di stimolo fiscale dell’economia italiana costituita dai componenti seguenti :

  1. Un meccanismo innovativo di finanziamento. Lo Stato concede ora degli “sconti fiscali” che stimolano la crescita economica. Lo fa senza spendere nulla ora. Gli “sconti fiscali” sono cedibili a terzi. Quindi anche dei soggetti fiscalmente non capienti sono in grado di usufruire dei benefici economici del provvedimento. La possibilità teorica di cedere in modo illimitato, e trasparente, i crediti fiscali consente a chi commissiona i lavori di usare i crediti fiscali per pagare i lavori alla ditta. In seguito consente alla dita di usare quei crediti fiscali per pagare i propri fornitori. E così via, fino a che, negli anni a seguire, poco alla volta quei crediti fiscali verranno “spesi” per pagare le tasse. In quel momento futuro lo Stato registrerà effettivamente una riduzione degli introiti fiscali pari allo sconto fiscale emesso anni prima, ma nel frattempo la cessione plurima dei quei crediti fiscali avrà portato ad una maggiore emersione di fatturato imponibile per le varie imprese, al punto che l’aumento di introiti fiscali innescato compensa e supera i futuri ammanchi per gli sconti fiscali.E’ quello che, tecnicamente, viene chiamato moltiplicatore fiscale.
    Un centro studi economico serio e conosciuto come Nomisma ha quantificato i crediti fiscali emessi a 71,8 miliardi di euro (non di spese attuali per lo Stato, ma di future minori entrate) ed ha quantificato l’impatto economico benefico sull’economia a 195,2 miliardi di euro, tale da assicurare maggiori entrate fiscali per lo Stato tale da compensare largamente le minori entrate previste.
    Il concetto importante da comprendere che il meccanismi che consente la sostenibilità fiscale per provvedimento è proprio il meccanismo della cessione dei crediti fiscali. Quanto più vengono ceduti prima di essere scontati, tanto più il provvedimento è vantaggioso per le casse dello Stato.
    Questo meccanismo di sostenibilità non esiste per gli altri bonus fiscali “tradizionali” che gli italiani conoscono da molto tempo. I bonus ordinari sono personali ovvero vengono concessi solo ai “ricchi” che hanno sufficiente capienza fiscale per detrarli dalle proprie imposte. Non possono essere ceduti a terzi per il pagamento di altre prestazioni lavorative. Di conseguenza il loro moltiplicatore fiscale è molto più basso e, dal punto di vista del bilancio dello stato, sono decisamente meno sostenibili.
    Il principale motivo per cui gli ultimi 2 governi hanno deciso di porre fine al provvedimento è stata la sua supposta insostenibilità economica di bilancio anche se, dati alla mano, non è per nulla dimostrata. Ci ritorniamo nella parte finale dell’articolo.
  2. L’identificazione di uno specifico settore dell’economia beneficiario del provvedimento. Si è deciso che solamente l’edilizia privata, per gli interventi di ristrutturazione energetica, doveva essere beneficiaria della misura.
    Ma, chiediamoci, se il meccanismo della cedibilità dei crediti rendeva la misura sostenibile, perché non utilizzare il Superbonus anche per finanziare i lavori di edilizia pubblica?
    Lo Stato, anziché faticare a trovare a bilancio le decine di miliardi necessarie a costruire e ristrutturare scuole ed ospedali (per fare un esempio), si sarebbe potuto auto-finanziare pagando le imprese mediante dei crediti fiscali cedibili a terzi.
    E poi perché fermarsi all’edilizia?
    Non si sarebbero potuti dare dei crediti fiscali alle famiglie più povere da “spendere” per andare in vacanza, portando anche beneficio agli operatori turistici?
    E non si sarebbero potuti pagare dei lavori di estensione della fibra ottica per le telecomunicazioni?
    La decisione di limitare il provvedimento di stimolo fiscale ad un solo settore dell’economia non trova spiegazioni logiche, se non quella di non avere compreso il meccanismo di finanziamento che ne avrebbe garantito la copertura.
    Questa decisione, peraltro, ha portato troppi incentivi in un solo settore dell’economia, che non era in grado di soddisfare la troppo rapida crescita della domanda, il che è uno dei fattori che ha contribuito all’aumento dei prezzi. Nello stesso tempo ha lasciato privi di incentivi altri settori dell’economia nei quali si sarebbe potuto investire.
  3. Una quota di detrazione fiscale pari al 110% dell’importo delle spese.
    Lo stimolo alle ristrutturazioni energetiche degli edifici avrebbe funzionato anche limitando gli sgravi fiscali ad esempio all’80%.
    Mediamente il tempo di ritorno degli investimenti di isolamento termico degli edifici, senza incentivi, è dell’ordine di 20-30 anni. Con detrazioni all’80% il tempo di ritorno si riduce a 4-6 anni. Le banche avrebbero potuto fare credito decennale per finanziare la quota restante del 20% dei lavori, facendosi ripagare dalle economia di energia. All’estinzione del mutuo sarebbero rimasti tutti i vantaggi economici di economia sulle bollette a beneficio degli utenti.
    Il fatto di poter detrarre il 100% delle spese, più un ulteriore 10% di commissioni da corrispondere alle banche (a chi, se no?) ha annullato le necessarie trattative commerciali fra venditore ed acquirente. Questo fattore, unito alla concentrazione degli investimenti in un unico settore dell’economia, ha ulteriormente contribuito all’aumento dei prezzi dei lavori e, quindi, a ridurre la redditività degli investimenti.
    Non era difficile comprendere che sarebbe stato molto meglio limitare all’80% le detrazioni fiscali, pur mantenendo la possibilità di cedere lo sconto fiscale.
    Molte persone sono convinte che sia stata l’esagerazione della quota di detrazioni al 110% a rendere insostenibile il provvedimento.
    Questo non è vero. Come i dati di Nomisma dimostrano, la sostenibilità fiscale del provvedimento era comunque garantita dal meccanismo della cessione.
    L’errata scelta della quota al 110% ha ridotto l’efficacia economica del provvedimento, probabilmente perché qualcuno ha pensato di accrescere gli utili per le banche al 10% e più della torta, ma non ne ha compromesso la sostenibilità.
    Per migliorare il Superbonus sarebbe bastato ridurre all’80% la percentuale delle spese da portare in detrazione e fare un accordo con il sistema bancario per coprire il restante 20% con crediti ad hoc, ripagati dai risparmi sulle bollette energetiche.
  4. Un provvedimento incerto e non strutturale. Fin dalla sua origine la misura del Superbonus 110% è stata concepita come misura non-strutturale. Ovvero ogni anno, nella legge finanziaria, si doveva decidere se confermare o meno il provvedimento, in quali termini e secondo quali regole.
    Ora: se l’obiettivo del provvedimento deve essere quello di creare dei posti di lavoro stabili, allora è necessario garantire alle imprese una continuità degli investimenti. Solo avendo la certezza di commesse per i 5-10 anni a venire le imprese investiranno nell’assunzione di giovani da formare e nell’acquisto di macchinari. Un provvedimento strutturale è qualcosa che risulta da una pianificazione a medio-lungo termine, non qualcosa che di anno in anno si decide di rinnovare o di porvi fine.
    La combinazione di queste incertezze con la rapida crescita di commesse nel settore ha contribuito ulteriormente all’aumento dei prezzi. Non essendoci la possibilità di fare i lavori negli anni a seguire, le imprese si sono trovate di fronte ad una domanda eccessiva e non rimandabile. Quindi hanno aumentato i prezzi.
    Se il provvedimento fosse stato confermato per almeno 10 anni, questo avrebbe portato ad una maggiore efficienza degli investimenti ed a ricadute molto positive per l’occupazione negli anni a venire.
    Anche questo è un aspetto che era sufficiente correggere, senza porre fine al provvedimento.
  5. Una eccessiva burocrazia. Sappiamo che i burocrati dei ministeri vivono sulle complicazioni amministrative imposte ai cittadini. Nel caso del Superbonus 110% è stato probabilmente stabilito il record mondiale della burocrazia, che è stata resa ancora più complessa nel caso di interventi di ristrutturazione effettuati da condomini, quindi da molti proprietari “associati” fra loro. Gli effetti di questo eccesso di burocrazia sono stati un aumento delle prestazioni professionali per la realizzazione dei lavori (altra perdita di efficienza degli investimenti), dei ritardi nell’avvio dei lavori e dei vantaggi dei committenti singoli (in genere persone benestanti e accorte che hanno saputo approfittare dell’occasione) rispetto ai condomini (composti da appartamenti di persone povere e meno capaci di organizzarsi).
    Molti che avrebbero voluto realizzare (Nomisma li stima a 10 milioni di persone, 1/6 della popolazione) degli interventi di ristrutturazione energetica, cosa che sarebbe stata utile sia per il bilancio delle famiglie povere, sia per la pesante bolletta energetica del nostro paese, sia per i benefici ambientali, non sono riusciti a farlo a causa dell’eccesso di burocrazia.
    Davvero non si capisce la necessità di certificare a priori la conformità degli interventi.
    Dal punto di vista della sostenibilità fiscale, come abbiamo dimostrato al punto 1), questi controlli non erano necessari. La misura si sostiene tramite il meccanismo della cedibilità dei crediti fiscali, indipendentemente dalla conformità dei lavori. Nessun costo aggiuntivo a carico dello Stato.
    Dal punto di vista degli obiettivi di risparmio energetico era sufficiente affidare la progettazione a dei tecnici competenti e fare delle verifiche “sostanziali” sui lavori effettivamente realizzati. Non era difficile trovare dei tecnici privi di conflitti di interesse per fare delle ispezioni tecniche nei cantieri.
    Resta il sospetto che la burocrazia sia stata introdotta proprio con l’obiettivo di rendere meno fruibile il provvedimento.
    Se l’obiettivo voleva essere quello di aiutare le famiglie povere a realizzare interventi di risparmio energetico e velocizzare l’esecuzione dei lavori, lo si poteva fare in modo semplice, riducendo al minimo la burocrazia.

Il Superbonus e i vincoli di bilancio

Probabilmente non tutti sanno che cosa rientra nel “debito dello stato”.
Molti pensano che si tratti di un debito simile a quello di una famiglia. In realtà questo non è vero.
Nel debito pubblico vengono contabilizzati i titoli di stato in circolazione, che il Tesoro si è impegnato a rimborsare entro una certa scadenza e ad un certo tasso di interesse. Si tratta di denaro in qualche modo “preso in prestito” dallo Stato.
Ma nel debito pubblico non sono contabilizzati le fatture non pagate ai fornitori che hanno già fornito le loro prestazioni. Stiamo parlando di diverse decine di miliardi di euro di debiti commerciali non saldati dei vari enti pubblici nei confronti di imprese private.
Secondo le normative di Eurostat questi importi non vengono conteggiati nel debito, in quanto incidono sul bilancio dello Stato solo nel momento in cui il denaro esce effettivamente dalle casse del Tesoro.
Con la stessa logica anche le detrazioni fiscali sono considerate rientranti nel conteggio del debito solo nel momento in cui vengono effettivamente scontate. Questo perché, per diversi motivi, può accadere con uno sgravio fiscale, come ad esempio i vecchi bonus per le ristrutturazioni edilizie, non venga completamente utilizzato, magari per decesso della persona avente diritto o per incapienza fiscale.

Il superbonus 110% avrebbe dovuto essere stato considerato allo stesso modo. Non un debito o deficit dello Stato al momento della sua emissione, ma solo al momento in cui, dopo la catena di cessioni, qualcuno effettivamente lo utilizza per pagare meno tasse.
Sulla questione vi è stato a inizio anno il pronunciamento del rappresentante di Eurostat Luca Ascoli, così come del direttore generale del MEF Giovanni Spalletta sul modo di calcolare nel bilancio dello stato questo nuovo tipo di sgravio fiscale. La differenza sostanziale rispetto ai bonus “vecchio stile” è che in questo caso è quasi certo che il credito fiscale venga utilizzato, in quanto la catena di cessioni del credito terminerà nelle mani di qualcuno certamente in grado di utilizzarlo.
Alla fine l’interpretazione dei quei geni della Ragioneria dello Stato è stata che debba essere inserito, contraddicendo la logica utilizzata per i debiti commerciali e per gli ordinari bonus fiscali, non al momento futuro dello sconto, ma già al momento della emissione.
E questo è significato, dal punto di vista contabile, che per gli anni già trascorsi 2020-2022, nel corso dei quali lo Stato ha emesso le decine di miliardi di crediti fiscali del Superbonus, è stato ricalcolato il bilancio dello Stato, scoprendo (ORRORE!) uno sforamento importante nel deficit preventivato per quegli anni e complessivamente stimato dai ragionieri e dal ministro Giorgetti in complessivi 120 miliardi di “buco di bilancio”.
Questa è la ragione per la quale, ufficialmente, il governo Meloni ha deciso di affossare definitivamente il provvedimento, ponendo soprattutto fine al meccanismo della cessione dei crediti fiscali.
Proviamo a paragonare al situazione a quella di una normale impresa o famiglia. Ho la possibilità di fare un investimento di 71 o di 120 mila euro (come dice Giorgetti) che, nel giro di 2 anni, mi porta benefici per 159 mila euro, con la certezza di rientrare rapidamente del mio indebitamento. Dovrei decidere di rinunciare a quell’investimento solo perché mi costa troppo caro nel primo anno?
Solo un folle (o un ministro dell’economia italiano) potrebbe ragionare in questo modo.
E a nulla serve la solita scusa “ce lo chiede l’Europa”, sia perché l’Europa per 2 anni consecutivi aveva approvato senza problemi le manovre finanziarie contenenti la misura del Superbonus. E se anche l’UE avesse qualcosa da ridire, il fatto di attuare una misura strutturale che consente nello stesso tempo di fare investimenti nella direzione delle politiche “green” europee, di creare 600’000 posti di lavoro e di far quadrare i conti del bilancio per gli anni a venire metterebbe a tacere queste critiche.

Conclusioni

Gli ultimi 2 governi del nostro paese hanno messo tutto il loro impegno non per rimuovere le criticità citate dalla misura del Superbonus 110%, ma per renderla via via sempre meno sostenibile dal punto di vista contabile, impedendo la cessione illimitata dei crediti fiscali.
Prima del governo Draghi, che ha fatto di tutto per limitare la cessione dei crediti alle sole banche, le quali ad un certo punto hanno rifiutato la cessione, avendo già raggiunto la loro capienza fiscale. L’impossibilità di cedere ad altri i crediti unita all’indisponibilità delle banche ha portato alla creazione dei “crediti incagliati”. Si tratta di farina cattiva del sacco di Draghi al 100%. Il meccanismo di base della cessione illimitata dei crediti doveva essere favorito, non ostacolato.
Il nuovo governo Meloni non ha fatto nulla per rimediare ai danni causati da Draghi al Superbonus, se non di trovare una soluzione “all’italiana” per i crediti incagliati, solo dopo aver posto fine al provvedimento.
La motivazione che è stata venduta all’opinione pubblica di un “buco contabile” insostenibile non è mai stata supportata da dati reali. Giorgetti si è limitato ad evidenziare il presunto scostamento di bilancio del primo anno (che in realtà non c’è stato nella sostanza), senza contabilizzare le maggiori entrate fiscali innescate dall’effetto moltiplicatore, già misurato nel corso dei primi 2 anni di attuazione del provvedimento. Quindi entrate certe, non ipotetiche.
Oltre al citato studio di Nomisma, altri istituti hanno validato al sostenibilità fiscale del provvedimento. Possiamo citare anche la Open Economics, la Luiss Business School, la Fondazione Nazionale dei Commercialisti, il Cresme, il Censis, l’Associazione Nazionale Costruttori, il Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Non è ammissibile che un governo giustifichi di fronte all’opinione pubblica la cessazione di una misura che creerà 600’000 nuovi disoccupati (fine del mini-boom dell’edilizia), un calo del PIL, la sostanziale cessazione degli interventi di ristrutturazione energetica, solo sulla base di una cifra annunciata senza un confronto con gli istituti specialisti del settore che danno cifre completamente diverse.

A questo punto il governo ha rinunciato all’unico strumento di riforma strutturale dell’economia che aveva fra le mani. La prosecuzione dei bonus fiscali non cedibili porterà a benefici economici molto limitati per il Paese e probabilmente ad una insostenibilità fiscale, causa il basso fattore moltiplicatore. Siamo ritornati alla politichetta di misure-spot a breve termine, priva di visione e totalmente inadeguata per un rilancio economico dell’Italia.
E’ stata persa una enorme occasione di riformare il bilancio dello stato, strutturandolo su di un bilancio in euro per le spese correnti, pubbliche e private, e in moneta fiscale (tali sono i crediti fiscali cedibili) per gli investimenti per lo sviluppo.
E’ stata persa l’occasione di lanciare un piano trentennale di ristrutturazione energetica degli edifici in Italia, così come la possibilità di un piano strutturale di rilancio degli investimenti pubblici per ammodernare le strutture sanitarie, scolastiche, le telecomunicazioni, ecc.

E’ solo il caso di far notare come se l’Italia adottasse questo strumento in modo stabile per finanziare gli investimenti pubblici e per stimolare gli investimenti privati, avremmo la possibilità da un lato di ridurre strutturalmente la spesa pubblica “in euro” e dall’altro lato di stimolare la crescita del Prodotto Interno Lordo (come è fattivamente avvenuto grazie al Superbonus 110%).
Il risultato sarebbe un rallentamento della crescita del debito ed un aumento del PIL, ovvero la tanto invocata riduzione del rapporto debito/PIL richiesta dai trattati europei.
Ma a quanto pare gli esperti del MEF preferiscono continuare con le politiche economiche del passato, che da 30 anni hanno dimostrato né di potere ridurre il rapporto debito/PIL, né di portare crescita economica al Paese.
La buona occasione per la più grande riforma economica strutturale degli ultimi 40 era arrivata, ma i nostri governanti hanno pensato bene di rinunciarvi.

Di positivo ci resta solo il fatto di avere dimostrato, per chi sa guardare obiettivamente i risultati economici, che si trattava della strada giusta da seguire per la ripresa economica del Paese.
Quando avremo un governo finalmente con l’obiettivo di fare qualcosa di strutturalmente utile per i cittadini, potrà ripristinare il meccanismo degli sgravi fiscali a cessione illimitata ed utilizzarlo per rilanciare molti settori dell’economia, in modo da finanziare delle politiche per la piena occupazione (art. 1 della Costituzione), per il contrasto alla povertà, per la crescita dei redditi, in favore dell’ambiente e senza creare dissesti al bilancio dello Stato.
Aspettiamo e speriamo.
Se qualcuno ne ha la possibilità, faccia avere questo articolo ai parlamentari e a chi ci governa. Non sia mai che si ravvedano dal grave errore commesso.

5592.- Il cardine dello Stato sociale e il Governo Meloni

Un Primo maggio di cui tutti, anche le e gli antitaliani, devono essere orgogliosi.
Il cardine dello Stato sociale e del principio di sicurezza sociale che vediamo attuati dal Governo li trovo scritti nell’art. 38 Cost., che vuole sia sempre assicurato ai singoli il rispetto della dignità, anche in situazioni di bisogno. Bisogna leggerlo per capire quanto male era stato scritto e realizzato il Reddito di cittadinanza:
“Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. E, poi,”I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria” . Viene, poi, il “diritto all’educazione e all’avviamento professionale” per gli inabili ed i minorati. Tutto a carico dello Stato. Ci voleva Giorgia per farlo?
Gli ignoranti non sanno che assicurare comunque ai singoli il rispetto della dignità e affrancare dal bisogno chi si trovasse in condizioni di debolezza sociale ed economica è sempre stato un dovere per lo Stato, ma la sinistra ne ha fatto strumento di propaganda politica e li senti sberciare, come ieri sera a Zona Bianca.
Finalmente, il Governo di Giorgia Meloni sta dando perfetta attuazione alle norme che cito e sempre finalmente, insieme alla abolizione del reddito di cittadinanza, produce un supporto vero da parte dello Stato, con un fascio di risposte ai lavoratori. Brava presidente. Bravi tutti.

L’art. 38 è uno dei cardini dell’idea di Stato sociale e del principio di sicurezza sociale, che impongono di assicurare ai singoli il rispetto della dignità, anche se versano in una situazione di bisogno.

Articolo 38

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L’assistenza privata è libera.

Questi principi impongono di assicurare ai singoli il rispetto della dignità, anche se versano in una situazione di bisogno. L’Assemblea costituente ha voluto impegnare la Repubblica ad affrancare dalla «schiavitù del bisogno» tutti quei cittadini che si trovano a vivere condizioni di debolezza sociale ed economica. Ci richiama ai valori illuministi e, in particolare, al principio di eguaglianza sostanziale contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, uno dei più importanti e noti:

Articolo 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione , di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Importante è il passaggio relativo alla “dignità sociale” da cui si evince che non possono esserci distinzioni che abbiano una rilevanza sociale se non quelle basate sulla capacità e sul merito dell’individuo. Un passaggio che avrebbe dovuto far riflettere le ideologie della sinistra politica.

Il principio di eguaglianza afferma che le leggi, oltre ad essere uguali per tutti, devono prevedere leggi speciali a favore delle categorie più deboli.

La seconda parte dell’articolo impegna lo Stato a promuovere le condizioni necessarie al realizzarsi dell’uguaglianza sostanziale e parla di “«”pieno sviluppo della persona umana”, concetto che potremmo collegare con lo scopo della Fabian Society di elevare le classi lavoratrici per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione. Ricordate la famosa formula della “ricerca della felicità” contenuta nella Dichiarazione d’indipendenza americana? Vi si prescrive l’obbligo per lo Stato di impegnarsi perché tutti i suoi cittadini abbiano la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni.

Gli istituti più rilevanti di cui l’ordinamento si è dotato sono l’INPS, che gestisce la tutela previdenziale degli occupati in imprese private e l’INAIL che, invece, ha copre il settore dell’infortunistica sul lavoro.

La norma lascia posto anche all’assistenza privata. Negli ultimi anni, a causa della scarsità delle risorse dello Stato, l’importanza dell’assistenza privata è aumentata. Tra le forme previdenziali private che sono state introdotte vi sono associazioni di volontariato, cooperative ed istituti di patronato ed assistenza. 

L’azione del Governo nelle parole di Giorgia Meloni

Il Governo Meloni sta dando perfetta attuazione alle norme che abbiamo elencato e, insieme alla abolizione del reddito di cittadinanza, norma mal scritta e peggio attuata, produce nuove norme che distinguono tra chi non può lavorare e chi può farlo, inserendo questi ultimi in percorsi di formazione al lavoro, supportati da rimborsi spese e incentivi per i loro assuntori. Avremo perciò un supporto migliore da parte dello Stato e il Governo lo realizza dando un fascio di risposte ai lavoratori e a coloro che legittimamente aspirano a migliorare la propria condizione.

Il più importante di questi provvedimenti è relativo al taglio delle tasse sul lavoro, il più importante degli ultimi decenni, che si realizzerà grazie al taglio del cuneo contributivo di 4 punti percentuali, che si somma a quello già operato nella legge di bilancio, per cui avremo un taglio di 6 punti percentuali per i redditi fino a 35.000 euro e, addirittura, di 7 punti per i redditi fino a 25.000 euro. In pratica, si parla anche di aumenti di 100 euro nella situazione che conosciamo. Si aggiungano altre norme importanti a favore dei lavoratori con figli a carico, norme sull’alternanza scuola-lavoro e sulla sua sicurezza, incentivi all’assunzione dei giovani pari al 60% del loro salario, fino al finanziamento dei centri estivi. Un Primo maggio di cui tutti devono essere orgogliosi.

5332.- Si parla di Comunione e Liberazione alle prossime elezioni?

Cos’è esattamente Comunione e Liberazione?

Di recente, l’argomento ha suscitato dibattito nella rubrica Quora e se ne trae un giudizio tanto spietato, quanto essenzialmente positivo. “Comunione e Liberazione si prefigura come una corporazione che tutela gli interessi economici e sociali dei propri membri. Si potrebbe definire una setta. Di cristiano non ha molto, solo la facciata, poi è una grande organizzazione politica-economica che si ammanta di cristianesimo. Direi che comunione e liberazione, per se, non ha idee economiche e politiche. Pero e’ vero che alcuni di CL si sono messi insieme ed hanno fondato la Compagnia delle Opere che, ad esempio, porta avanti la sussidiarieta’ come idea economica. Ma ancora questo e’ a latere di CL, non dentro CL.

Resta un gruppo chiuso in se stesso, molto elitario e parecchio intollerante con gli altri.

CL è tutte e tre queste cose assieme. La visione di Cristianesimo è piuttosto cupa, integralista/revisionista e molto conservatrice. Poco disposti al dialogo con non credenti o praticanti altri culti, sono anche freddi con gli stessi cattolici che non fanno parte dei loro gruppi.

Sognano una civiltà nuova basata sulla loro versione di Cattolicesimo e disprezzano tutte le conquiste civili e sociali faticosamente ottenute.

Per dire: l’impostazione di Padre Livio o del Cardinale Ruini (che pure non sono di CL in senso stretto) rispecchiano bene i loro pensieri.

Per quanto riguarda don Giussani, il loro fondatore, hanno una venerazione così alta da quasi sfociare nel culto della personalità. I suoi libri sono testi fondamentali per tutti quelli che si professano ciellini, al punto da aver sostituto, nei loro incontri, Bibbia e Vangelo.

Come molti altri gruppi integralisti di altre religioni, tendono a prendere molto sul serio la loro missione di fare proselitismo, colonizzando in modo particolare le aule universitarie.

Come gli ebrei ultraortodossi e gli Amish hanno di solito almeno tre figli per coppia.

Inoltre la commistione tra religione, politica e affari li ha resi potentissimi, specie in alcune regioni, come la mia Lombardia dove, fino a qualche anno fa, se eri di CL avevi la strada spianata per quasi tutti i settori pubblici e non. Nelle piccole realtà funziona ancora così. Se sei disoccupato e nella tua parrocchia c’è una forte presenza ciellina (e magari anche gli stessi parroci lo sono) sta’ pur certo che se ti iscrivi a CL (o alla Compagnia delle Opere, che è il loro braccio economico) il lavoro te lo trovano subito, e bello per giunta.

Ci sono persone intelligenti anche tra di loro, ma sono molti di meno rispetto ai pecoroni che, vuoi per cieca fede, vuoi per mero opportunismo, sono disposti a seguire i dettami dei loro direttori senza il minimo spirito critico.

Entrare in questa setta ti garantisce sicuramente un posto di lavoro, hai tutte le porte aperte, E’ molto potente, una volta entrati in Comunione e Liberazione non se ne esce più anche perché garantisce sicurezza economica, una vita senza particolari preoccupazioni. Devi in cambio partecipare a tutte le loro attività, in questo non puoi mai tirarti indietro. Le attività che svolgono non sono comunque solo per fare soldi, ci sono anche attività di volontariato che aiutano i più bisognosi. Nel complesso sei dentro una comunità che ha finalità essenzialmente a carattere economico, nascoste dietro la religione cattolica.” Questo si dice, ma chiedo: “Perché non apprezzarne lo spirito pratico e l’ispirazione cristiana?

Da CL alla nuova DC

Una non lunga frequentazione dei superstiti DC ha portato a risultati in conflitto. Da un lato, una difficoltà al dialogo e alla partecipazione democratica: parla chi può, da un altro a condividere i valori e i metodi che fanno un tutt’uno di religione, politica e affari. In particolare, Comunione e Liberazione avrebbe da dire molto sul tema del lavoro, ma questo richiede investimenti e non pareggi di bilancio. Andremo, così, a parlare dei trattati europei, un tema vasto e spinoso. Sta di fatto che la poca consistenza dei profili selezionati da sinistre e destre sta portando i residui della DC, mai chiusa ufficialmente, a pensare di ritagliarsi un nuovo ruolo nel centro, assegnandosi una funzione equilibratrice: non poco! In realtà, il difetto dei partiti leadership di entrambi gli schieramenti e di non avere principi costituzionalizzati con cui garantire la partecipazione dei cittadini alla politica della Nazione, prima di tutti il principio dell’Alternanza (Aristotele). Vale per i partiti e vale per le istituzioni. Vi sembra che i presidenti di estrazione PD, Napolitano e Mattarella abbiano ricercato l’Alternanza? La ricerca del potere accomuna tutti gli attuali leader, si riverbera in ogni livello organizzativo dei loro partiti, anche meschino e per quanto osservato, a mia vista, anima o animerebbe anche questo terzo polo; perciò, trovo insulso cercare di equilibrare gli schieramenti con un nuovo polo senza aver prima risolto questa carenza della Costituzione. Non è casuale che siano almeno quattro i progetti di legge depositati che abbiano proposto l’argomento, senza mai essere stati calendarizzati. Per inciso, fu il PCI a non volere principi guida dei partiti in Costituzione, essendo esso medesimo alla conquista del potere detenuto dal Partito Nazionale Fascista, ma senza il re tra i piedi.

5323.- Principio della proporzionalità della retribuzione.

Un argomento di attualità per i lavoratori, ma non per tutti i livelli, in un periodo di tendenze salariali al ribasso.

La busta paga è spesso complessa.

Il principio della retribuzione proporzionata alla qualità e alla qualità del lavoro svolto è sancito dall’art. 36 della Costituzione, tale risultato è perseguibile dalla contrattazione collettiva

Proporzionalità della retribuzione nella Costituzione

A sancire il principio di proporzionalità della retribuzione è l’articolo 36 della Costituzione che al comma 1 così dispone: “1. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.”

Da un’attenta lettura della norma si ricava in realtà che la norma contiene il principio della sufficienza della retribuzione. Essa infatti non deve essere solo proporzionata al lavoro svolto, ma deve essere in grado di garantire sia lavoratore chiama sua famiglia condizioni di vita dignitose.

Ovviamente la garanzia prevista dall’art. 36 della Costituzione si riferisce alla retribuzione proporzionale così come stabilita dalle parti sociali in sede di contrattazione collettiva. Retribuzione che, come definita dall’art. 2099 del codice civile, non si compone solo della paga base, ma anche di attribuzioni ulteriori di tipo accessorio che si vanno ad aggiungere, senza dimenticare l’adeguamento della stessa al costo della vita attraverso l’applicazione di particolari indici. Retribuzione che infine, per completezza, può essere inoltre calcolata a tempo, a cottimo, attraverso la partecipazione agli utili e a premio.

Normativa sovranazionale sulla proporzionalità

Di sancire la proporzionalità della retribuzione si occupa anche la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo del 1948, il cui art. 23, al comma 3 recita: “Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.

Principio espresso con parole diverse dall’art. 31 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose.”

Proporzionalità della retribuzione nella giurisprudenza 

Da quanto detto finora emerge chiaramente che la retribuzione non viene definita dalla legge per le varie categorie di lavoratori. Essa è soprattutto il frutto della contrattazione tra le varie parti sociali interessate. Questo vuoto normativo ha determinato, da parte della giurisprudenza, l’assunzione di un ruolo nomofilattico integrativo, come emerge anche da diverse e recenti pronunce della Cassazione.

Le indennità di fine rapporto pagate a rate non violano l’art. 36

La Consulta nella sentenza n. 159/2019 è chiamata a pronunciarsi sulla illegittimità costituzionale, per violazione del principio di proporzionalità sancito dall’art. 36 della Costituzione, dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispongono il pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti pubblici.

nella motivazione della sentenza la Consulta spiega che “Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell’art. 36 Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa (…) Le scelte discrezionali adottate in tale àmbito dal legislatore, anche in un’ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost. Nel caso di specie, i limiti posti dai princìpi di ragionevolezza e di proporzione (però) non sono stati valicati. Il termine di ventiquattro mesi per l’erogazione dei trattamenti di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio, è stato introdotto già dall’art. 1, comma 22, lettera a), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148. L’intervento del legislatore travalica l’obiettivo contingente di conseguire immediati e cospicui risparmi, puntualmente stimati dalla relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 138 del 2011, e si raccorda, in una prospettiva di più ampio respiro, a una consolidata linea direttrice della legislazione, che si ripromette di scoraggiare le cessazioni del rapporto di lavoro in un momento antecedente al raggiungimento dei limiti di età o di servizio. La misura restrittiva in esame si colloca dunque in una congiuntura di grave emergenza economica e finanziaria, che registra un numero cospicuo di pensionamenti in un momento anteriore al raggiungimento dei limiti massimi di età o di servizio.” 

Emolumenti accessori a chi svolge mansioni superiori

La Cassazione n. 19772/2022 di recente ha anche ribadito che la Sez. U n. 3814/2011 ha stabilito che “In caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato, atteso che l’attribuzione delle mansioni dirigenziali, con pienezza di funzioni e assunzione delle responsabilità inerenti al perseguimento degli obbiettivi propri delle funzioni di fatto assegnate, comporta necessariamente, anche in relazione al principio di adeguatezza sancito dall’art. 36 Cost., la corresponsione dell’intero trattamento economico, ivi compresi gli emolumenti accessori” (conforme Cass. n. 9878/2017).

Retribuzione proporzionata anche per i soci delle cooperative

Merita di essere menzionata la Cassazione n. 17698/2022, per la seguente articolata precisazione: “il D.L. 248/2007, convertito in L. 31/2008, che, all’art. 7 comma 4, ha previsto: – Fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivistipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. Detti trattamenti fungono, dunque, da parametro esterno e indiretto di commisurazione del trattamento economico complessivo rispetto ai criteri di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, previsti dall’art. 36 Cost., di cui si impone l’osservanza anche al lavoro dei soci di cooperative; il fatto che, nel tempo, sia stata attribuita alla contrattazione collettiva, nel settore privato e poi anche nel settore pubblico, il ruolo di fonte regolatrice nell’attuazione della garanzia costituzionale di cui all’art. 36 Cost., non impedisce al legislatore di intervenire a fissare in modo inderogabile la retribuzione sufficiente, attraverso, ad esempio, la previsione del salario minimo legale (suggerito dall’Organizzazione internazionale del lavoro – OIL, come politica per garantire una «giusta retribuzione»), oppure, come avvenuto nella materia in esame, attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva.

L’attuazione per via legislativa dell’art. 36 Cost., nella perdurante inattuazione dell’art. 39 Cost., non comporta il riconoscimento di efficacia erga omnes del contratto collettivo ma l’utilizzazione dello stesso quale parametro esterno, con effetti vincolanti (cfr. Corte Cost. 51/2015). 14. La legge 31/2008, art. 7, presuppone un concorso tra contratti collettivinazionali applicabili in un medesimo ambito («in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria») e attribuisce riconoscimento legale ai trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle associazionidatoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria e quindi presumibilmente capaci di realizzare assetti degli interessi collettivi più coerenti col criterio di cui all’art. 36 Cost., rispetto ai contratti conclusi da associazioni comparativamente minoritarie nella categoria. 

Come si legge nella sentenza della Corte Cost. n. 51 del 2015, «nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato (D.L. n. 248 del 2007, art. 7 ndr.) si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative» (in tal senso anche Cass. 17583/2014; 19832/2013) Dall’assetto come ricostruito non deriva alcun rischio di lesione del principio di libertà sindacale e del pluralismo sindacale. La scelta legislativa di dare attuazione all’art. 36 Cost., fissando standard minimi inderogabili validi sul territorio nazionale, a tal fine generalizzando l’obbligo di rispettare i trattamenti minimi fissati dai contratti collettivi conclusi dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative nella categoria, non fa venir meno il diritto delle organizzazioni minoritarie di esercitare la libertà sindacale attraverso la stipula di contratti collettivi, ma limita nei contenuti tale libertà, dovendo essere comunque garantiti livelli retributivi almeno uguali a quelli minimi normativamente imposti. Parimenti, le singole società cooperative potranno scegliere il contratto collettivo da applicare ma non potranno riservare ai soci lavoratori un trattamento economico complessivo inferiore a quello che il legislatore ha ritenuto idoneo a soddisfare i requisiti di sufficienza e proporzionalità della retribuzione.

5153.- Fratello non picchia mai un fratello.

2018. Ieri come oggi. Il Covid, l’Ucraina, sono solo pretesti. Prosegue la deindustrializzazione dell’Italia sulla pelle delle famiglie dei lavoratori.

Abbiamo un diverso concetto dell’Ordine Pubblico da quello del Viminale, chiunque sia il ministro in carica. La violenza ricorrente della polizia contro gli operai delle acciaierie AST di Terni, l’altro ieri, poi, contro le proteste PACIFICHE dei portuali di Trieste e, ieri, contro le proteste ancora PACIFICHE dei pescatori, con i serbatoi vuoti, arrivati alla fame, NON CI PIACE.

2022. Rompi la testa al pescatore, che perda la voglia di dimostrare!

Succede, invece, se la politica è sorda agli appelli di chi ha fame e si nasconde dietro i manganellatori di professione. Sbaglierò, ma a vedere in faccia certi reparti, sembra che picchiare i cittadini non violenti sia per loro fonte di gioia. Ma chiamare questi picchiatori “Polizia” è far torto a questa istituzione. Sono agenti antisommossa, semplici picchiatori, punto e basta. Ieri, con Renzi presidente PD del consiglio, a Roma, in Piazza della Repubblica, con gli operai delle acciaierie di Terni (3 lavoratori all’ospedale e Alfano disse: Operai caricati a sua insaputa!), poi, proseguì con i manganelli contro i civili inermi di Palermo. Infatti, la repressione violenta è un costume e un metodo di chi usa il potere contro il popolo. Ed ecco, ancora, i picchiatori e gli idranti in azione a Trieste, contro i portuali e le loro famiglie, bambini compresi, composte e ordinate.

Ieri, un Italia succube ha obbedito al comando degli Stati Uniti d’America e si è schierata a favore del 6° lotto di sanzioni contro gli europei e contro i russi, ben sapendo che per la Sicilia questo significa il tracollo, che i prezzi dei carburanti schizzeranno in alto in tutta l’Italia. Non si può scherzare con centinaia di migliaia di posti di lavoro. Attendiamo le dimissioni del governo? No! attendiamoci altri manganelli! Signori agenti, vi difendiamo sempre, ma mi sono vergognato per voi, vedendovi, ieri, ancora a Roma, contro i pescatori che dimostravano pacificamente. Sono quelli che, per pescare, affrontano il Golfo della Sirte. Vorrei vedervici. Voi, chi affrontate? Manganellate per coprire la politica, assente nella piazza. Picchiate i lavoratori che il pane lo hanno sempre sudato e chiedono di sudarlo. Per chi non chiede di sudarlo, per le armi a chi ci vuole in guerra, per le parate tricolori fumanti, i soldi ci sono. E, infatti, cosa abbiamo celebrato ieri? Al ministro e ai suoi presidenti, che si sono detti fieri di noi, diciamo che vorremmo essere anche noi fieri di loro e che i manganelli non si mangiano.

Ecco un modo diverso, democratico e legittimo di ascoltare i lavoratori. Correva il febbraio 2021, circa un anno fa e scriveva Marco Rizzo: “Mentre tutti applaudono Draghi siamo stati a portare la nostra solidarietà agli operai della Treofan di Terni, che hanno occupato la fabbrica per evitare i licenziamenti e lo smantellamento dei macchinari. Col socialismo non esisterebbero situazioni come questa.” Ha detto Solidarietà, quella dell’art. 38 della Costituzione e di cui vi riempite la bocca per lo straniero. Marco Rizzo è il solo che è rimasto fedele alla sua politica; ma i sindacati? quelli con pensioni milionarie, che fine hanno fatto?

Un problema è l’incapacità, se non peggio – perché si pensa male, temendo di non sbagliare -, del governo di fare politiche di investimento e di sostegno del lavoro come chiedeva la Costituzione, ante Unione europea.

Un altro problema è sostituire chi ha identificato come sommosse le manifestazione di lavoratori messi alla fame da politiche, all’evidenza, sbagliate, antitaliane. Propongo corsi di rieducazione civica e, poi, di sano controllo dell’Ordine Pubblico, da questore in giù.

Trieste, idranti e manganelli contro il dolore dei portuali, pacifici dimostranti.

Quando, poi, il sistema vuole, ci sono gli estremisti a dare man forte al sistema.

La Repubblica è fondata sul Lavoro! o, forse, lo era?

Non c’è Libertà senza Dignità, non c’è Dignità senza un Lavoro.

Articolo 1

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (senza alzare le mani).

Anche la Costituzione per la Repubblica Sociale Italiana, all’Art. 9, diceva “La Repubblica è fondata sul lavoro.” Che il lavoro sia fascista?

Articolo 17

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

Articolo 38

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.

Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

L’assistenza privata è libera.

I sindacati, le ACLI cosa dicono?