Archivi categoria: Politica estera Tunisia

6074.- I dilemmi europei nel Sahel

Dilemmi anche italiani perché la solidarietà attiva che ispira il Nuovo Piano Mattei deve caratterizzare iniziative di entrambi gli imprenditori europei e africani e trovare nell’Unione europea un garante; come dire che l’Italia, da sola, può ben poco. Era scontato che gli interessi che gravitano nel Sahel avrebbero reso il cammino irto di ostacoli. Africa ed Europa sono legate a un destino comune e le missioni francesi e quelle ONU non sembrano gradite alle giunte militari che hanno preso il potere. Ci auguriamo che la diplomazia e la politica italiane sappiano trarre profitto da queste difficoltà e che intensifichino i loro sforzi con progetti concreti.

Degage France terroriste vampire

Degage l’Armèe francaise du sol malien

Da Affari Internazionali, di Bernardo Venturi, 13 Novembre 2023

Modibo Keita International è l’aeroporto di Bamako, capitale del Mali. É adiacente all’Air Base 101, usata dalla Mali Air Force, con alcuni Mig-21F.

Gli aeroporti di Bamako e di Niamey sono affollati di soldati nelle ultime settimane. La Missione di Stabilizzazione Integrata Multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) sta lasciando il paese, con migliaia di effettivi e centinaia di mezzi in movimento, non senza rischi e una logistica complessa. Si sono infatti verificati già sei incidenti da quando le forze di pace hanno lasciato la loro base nel nord di Kidali il 31 ottobre per compiere il viaggio stimato di 350 km verso Gao, per un totale di 39 feriti.

Un ultimo tributo di sangue della missione: con 310 morti in 10 anni è la seconda più letale della storia, seconda sola a Unifil in Libano (332 caduti). Il ritiro della missione era stato chiesto dalla giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goïta, al potere dall’agosto 2020 dopo aver deposto con un golpe il presidente Ibrahim Boubacar Keïta.

La giunta miliare in Mali, dopo aver messo alla porta diversi diplomatici e contingenti militari europei, in primis francesi, ha quindi rinunciato anche a Minusma, benché non sembra in grado di sostituirle adeguatamente. La missione dell’Onu sta lasciando 12 basi nel centro e nel nord del paese, oltre a quella principale di Bamako. La poca collaborazione della giunta militare e il peggioramento delle condizioni di sicurezza hanno accelerato il ritiro e non stanno però permettendo un regolare passaggio di consegne alla autorità maliane.

In questo spazio vacante, i gruppi dell’Accordo Permanente Strategico nel nord del Mali – in predominanza Tuareg– ha dichiarato di avere occupato una base nella regione di Kidali subito dopo l’evacuazione del 31 ottobre scorso. Nel rapporto con i gruppi dell’Azawad rimane infatti un altro nodo critico. Il rapporto con la giunta militare si è progressivamente incrinatoarrivando a scontri armati diretti e mettendo ulteriormente in crisi l’accordo di pace di Algeri del 2015 che aveva messo fine alla guerra con il nord separatista.

La gestione dello spazio e delle basi nel nord del Mali ha però radici più profonde. Dopo l’intervento a fianco del governo di Bamako dalla fine del 2012 con l’Operazione Serval, la Francia non ha mai di fatto passato il testimone alle Fama, l’esercito maliano, tenendo per sé spazi cruciali. Questo approccio, così come altri post-coloniali in ambito politico, sociale e culturale, hanno favorito un sentimento antifrancese e antioccidentale sui quali negli ultimi anni la propaganda russa ha avuto gioco facile a giocare un ruolo incendiario.

Cercasi partner affidabile

Dopo anni passati a rimarcare la priorità del Sahel e a cercare partner credibili, l’Ue e gli stati europei non sanno letteralmente cosa fare. Fino al colpo di stato in Mali del 2020, Bruxelles aveva individuato nel Bamako il partner centrale per la regione. Ma i due colpi di stato nel paese, e soprattutto l’arrivo dei mercenari del Gruppo Wagner, hanno creato un notevole imbarazzo diplomatico, in particolare per la missione di training militare EUTM: restare con il rischio di incrociare i russi o lasciare il paese? Dopo vari tentennamenti e con il Burkina Faso segnato dai due coup d’état nel 2022 e da una crisi istituzionale e di sicurezza fuori controllo, l’Ue ha volto lo sguardo verso il Niger, indicando il presidente nigerino Mohammed Bazoum come il nuovo partner affidabile. Ancora una volta, un colpo di stato sta stravolgendo i piani e Bazoum si trova in stato di fermo dal 26 luglio scorso. Mentre i canali umanitari e di cooperazione allo sviluppo rimangono attivi con il Sahel, la postura politica e diplomatica sembra inseguire più vie d’uscita che strategie.

Riflessione strategica

Intanto Joseph Borrell nelle settimane scorse ha ammesso che i 600 milioni di euro investiti nell’ultimo decennio nelle missioni civili e militari nel Sahel non hanno portato i risultati sperati. Mentre l’Alto Rappresentante non nasconde che anche la missione militare in Niger ha le ore contate, prima di volgere lo sguardo al prossimo “partner fidato” (Mauritania?), servirà una riflessione più approfondita sul rapporto tra Europa e Sahel, a partire anche dagli errori commenti, come quello di dare priorità a un approccio securitario che ha messo in secondo piano quello integrato. Intanto, però, nonostante non venga detto ufficialmente, difficile togliersi l’idea che il Sahel stia diventando una regione sempre meno prioritaria.

Foto di copertina EPA/STR

Cosa intendiamo? In Mali, un valido esempio di quella che chiamiamo soplidarietà attiva sono le operazioni di magazzinaggio su larga scala della logistica Bolloré che possono fornire un servizio di movimentazione e magazzinaggio per conto di fornitori leader a livello mondiale di informazioni. Ma la Francia non è stata soltanto un vampiro. Bolloré è un impresa francese, una holding fondata nel 1822 con sede a Puteaux nella periferia ovest di Parigi, in Francia. Nata come industria cartaria, ha espanso le sue operazioni a molti altri settori, come il trasporto e la logistica, le distribuzione energetica, i film plastici, la costruzione di automobili e i mass media. Gli imprenditori sono la nostra Wagner.

Rémi Ayikoué Amavi è l’amministratore delegato di Bolloré Transport & Logistics Mali dall’agosto 2021.

Di nazionalità beninese, Rémi Ayikoué Amavi è entrato in Bolloré Transport & Logistics nel 2006 presso la filiale della società nella Guinea Equatoriale, dove era responsabile dello sviluppo commerciale delle attività logistiche. Diventa poi Amministratore Delegato nel 2017.

Rémi Ayikoué Amavi è laureato in Management e Strategia aziendale presso l’ENACO-Lille. Utilizzerà la sua esperienza per sviluppare attività logistiche in Mali. In particolare, si avvarrà della rete di Bolloré Transport & Logistics in 109 paesi e dell’esperienza dei suoi dipendenti per migliorare i servizi al Paese.

Circa la Bolloré Transport & Logistics Mali

Bolloré Transport & Logistics Mali è l’operatore leader nei trasporti, logistica e movimentazione. L’azienda, presente anche in Italia, impiega ora più di 200 persone in Mali, in particolare attraverso le sue agenzie a Bamako, Kayes, Sikasso e Kati, e gestisce anche i porti asciutti di Soterko, Faladié e Kali. Bolloré Transport & Logistics Mali attua una politica sociale a beneficio della popolazione maliana, che si riflette ogni anno nel sostegno di numerose azioni di solidarietà nei settori dell’istruzione e della sanità.

www.bollore-transport-logistics.com

6043.- Egitto, Tunisia e Algeria. Il Nordafrica in cerca di una posizione su Israele

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 05/11/2023

Egitto, Tunisia e Algeria. Il Nordafrica in cerca di una posizione su Israele

Per Alessia Melcangi (Sapienza/Acus), la crisi attorno a Israele è un modo per i Paesi nordafricani di marcare posizioni e interessi sul dopo Hamas nella Striscia. Ecco quali

Mentre durante un comizio in Delaware, il presidente statunitense Joe Biden parlava dei “progressi” fatti per negoziare una pausa umanitaria (sotto cui ci sarebbe un progetto di liberazione di prigionieri civili), Hamas bloccava le uscite dal valico di Rafah tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. I miliziani non vogliono che stranieri, persone con doppia nazionalità e i palestinesi feriti lascino il proprio territorio e hanno fermato circa 700 persone che aspettavano di lasciare Gaza, dichiarando che vogliono garanzie che Israele non colpirà le ambulanze che trasportano i feriti e che esse possono lasciare la Striscia di Gaza.

Tutto si lega, anche con interessi comunicativi, all’attacco di venerdì a un convoglio di soccorso davanti all’ospedale al Shifa, che secondo Israele e Stati Uniti trasportava militanti e armi. Il raid è stato fortemente condannato dalle Nazioni Unite ed è l’ultimo episodio sanguinoso e controverso di questo conflitto — scatenato dall’attacco orribile con cui Hamas ha colpito Israele il 7 ottobre, e inasprito dalla violenza della risposta israeliana.

Mentre Hamas rivendica la propria posizione, gli Stati Uniti dicono che l’evacuazione in realtà è stata bloccata perché l’organizzazione palestinese aveva inserito tra i feriti da curare alcuni miliziani (erano circa un terzo) e né Washington né Il Cairo — che sta gestendo la situazione non fosse altro per ragioni di continuità geografica — non erano d’accordo.

Oggi, il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, incontrerà il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, a Ramallah: è il primo contatto ufficiale del genere dall’inizio della guerra. Nei giorni scorsi, Blinken ha espresso il desiderio che un’Anp efficace e rivitalizzata governi e si assuma la responsabilità della sicurezza a Gaza.

È il grande tema del momento: gli Stati Uniti vogliono capire adesso cosa succederà dopo nella Striscia. Ossia, una volta che Israele avrà “dismantle” Hamas dalla Striscia (per usare la scelta semantica israeliana appoggiata dagli americani), a chi toccherà il controllo del territorio? Blinken ne ha parlato ieri in un summit ospitato dalla Giordania, innanzitutto con i padroni di casa e gli egiziani — i due sono gli attori regionali che hanno più presa sui palestinesi — e poi con sauditi, qatarini e libanesi.

Il percorso previsto è: eliminazione totale di Hamas da Gaza, creazione di una forza di interposizione a guida Onu (composta da militari dai Paesi arabi e forse da qualche nazione europea), portare l’Anp a governare la Striscia sbloccando i fondi finora congelati a Hamas. Su questo percorso però, teoricamente punto di partenza per la successiva definizione di una Stato palestinese, il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, con il collega giordano hanno espresso pubblicamente un’urgenza diversa, sottolinea Alessia Melcangi, docente della Sapienza e analista dell’Atlantic Council.

Il ministro egiziano ha chiesto di “fermare questa follia”, appena dopo l’incontro con Blinken, perché “ogni bomba che cade allontana la pace e crea una nuova generazione di odio”. Per Melcangi, “l’Egitto non può retrocedere di un passo sulla centralità raggiunta nel dossier: se lo fa, rischia di rimetterci praticamente tutto, e quello che Il Cairo sta facendo è gestire un delicato equilibrio tra la difesa della sua posizione storica di riferimento per i palestinesi e il controllo delle piazze in funzione delle elezioni di dicembre”.

Mentre cresce il lavorio diplomatico attorno al piano che sta uscendo dal tour di Blinken, è interessante osservare che la crisi — e la capitalizzazione dei suoi interessi — passano anche dal Nordafrica. Se per l’Egitto è fondamentale essere nella partita in corso e in quella strategica per il futuro, altre nazioni della regione vogliono un proprio spazio e non sempre si muovono con apertura e proattività. 

Recentemente il Parlamento tunisino ha per esempio approvato due dei sei articoli di una legge (al limite dell’antisemitismo) con cui verrebbe criminalizzato la normalizzazione dei rapporti con Israele. C’e stato caos, perché il presidente factotum Kais Saied avrebbe fermato il procedere del voto, temendo che la legge potesse essere troppo dura e complicare gli interessi e la sicurezza della Tunisia. “Saied ha già preso delle posizioni anti-israeliane, che declina in parte anche come anti-occidentali, in passato. In questo caso ha sottolineato infatti la necessità di fare riferimento a un articolo esistente nel codice penale sul reato di tradimento, il quale prevede che ‘chiunque abbia a che fare con l’entità sionista è un traditore del popolo palestinese e colpevole di alto tradimento’, aggiungendo di non accettare ‘contrattazioni, offerte, pressioni o ricatti da parte di soggetti nazionali o stranieri’, come aveva già fatto ad agosto”, spiega Melcangi.

La docente ricorda che non esiste la parola “normalizzazione” nel vocabolario del presidente tunisino, che a luglio dello scorso anno ha contratto le capacità democratiche del Paese concentrando su di sé buona parte del potere. “Ora è evidente che, per usare le sue stesse parole, ‘non è il momento opportuno per impegnarsi in dibattiti inutili o discutere terminologie giuridiche inutili quando i palestinesi sono vittime dei crimini più atroci’, e questa linea ha un senso anche per costruire una posizione propria su questa crisi. Ricordiamoci che Saied fu colui che evocò una cospirazione sionista alla base dell’uragano Daniel che devastò Derna a settembre”.

Se la Libia è anche in questo caso troppo frammentata per poter rappresentare una posizione di rilievo, insieme alla Tunisia c’è un altro Paese nordafricano che si pone in una posizione di chiusura nei confronti di qualsiasi trattativa con Israele: l’Algeria.

Il Parlamento algerino, il 2 novembre, ha votato all’unanimità per fornire al presidente Abdelmadjid Tebboune un’autorizzazione preventiva per entrare in guerra al fianco di Hamas e a “difesa della Palestina”. 

“Il voto è arrivato il giorno dopo l’anniversario della guerra di liberazione dell’Algeria contro il colonialismo francese, e potrebbe esserci anche un aspetto emotivo e un interesse narrativo. Ma Algeri è su una posizione anti-israeliana, tenuta anche in funzione anti-marocchina. Rabat, che ha un contenzioso aperto con l’Algeria, ha infatti aderito agli Accordi di Abramo, normalizzando i rapporti con Israele. Ora Algeri vuole sottolineare le differenze, soprattutto in un momento così sensibile, cercando di diventare il punto di riferimento delle istanze palestinesi e creando così attorno a questo un rafforzamento dello standing internazionale”.

6041 .- Ecco il Piano Mattei che intende rivoluzionare la politica estera italiana

Da La Voce del Patriota, di Cecilia Carapellese, 3 Novembre 2023

Sin dal suo insediamento Giorgia Meloni ha posto come priorità la realizzazione del cosiddetto Piano Mattei, presente tra l’altro anche all’interno del programma di Fratelli d’Italia presentato in occasione delle elezioni del 25 settembre 2022.
La ratio alla base di questo progetto è non solo quella di porre un freno all’annosa questione della migrazione illegale, ma anche e soprattutto quella di creare una partnership strategica che possa produrre effetti benefici sia per l’Italia che per l’Africa, rivalorizzando in particolare questo continente troppo spesso poco o mal sfruttato.

Stando a quanto si legge, i dettagli del Piano arriveranno oggi- 3 novembre- in Consiglio dei Ministri.

Una cabina di regia, presieduta dal presidente del Consiglio e che coinvolgerà anche il Ministro degli esteri, e una struttura di missione, guidata da dirigenti ed esperti, dovrebbero essere il fulcro del progetto ideato e voluto dal premier e dalla maggioranza.
Avrà una durata di quattro anni e potrà essere aggiornato ogni anno, e sarà rendicontato con una relazione al Parlamento.
La premessa sarebbe quella della “necessità e urgenza di potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del continente africano al fine di promuovere lo sviluppo economico e sociale e di prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari.”

Il Piano Mattei, come accennato anche in diverse altre occasioni dal Capo di Governo, intende focalizzarsi su diversi settori, dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, dal sostegno all’imprenditoria (in particolare quella giovanile e femminile), alla ricerca e innovazione, dall’agricoltura e sicurezza alimentare alla promozione dell’occupazione, dell’ istruzione e della formazione professionale, dalla valorizzazione delle risorse naturali alla tutela dell’ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, dall’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture alla valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico (anche nelle fonti rinnovabili). E, ovviamente, un occhio di riguardo in tema di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare.

L’operazione non è facile e i rischi sono molto alti, tenendo anche conto delle numerose crisi politiche e sociali che sono radicate in tutto il territorio africano, e che, drammaticamente, si aggiungono ai due conflitti su larga scala nel blocco russo-ucraino e in quello mediorientale. Per non parlare poi delle influenze sempre più marcate di Cina e Russia, che, a causa anche del disinteresse dell’Europa, hanno preso il potere in Africa.

La sfida in questa fase è dunque molto intensa, perché non solo l’Italia- e più in là si spera anche l’Ue- dovrà riconquistare i partner africani offrendo loro una soluzione a lungo termine, convincendoli di voler costruire un solido rapporto basato sui principi dell’uguaglianza e del rispetto, ma lo dovrà fare con una serie di variabili internazionali che appaiono sempre più difficili da gestire e da disinnescare.
Con il progetto che approda in Cdm il Governo mette in campo tutti gli strumenti che ritiene opportuni e che potrebbero portare al successo dell’iniziativa.
Ed è questo il segnale più potente e tangibile che l’esecutivo di centrodestra può lanciare, a riprova della priorità che viene data al Piano.
È esattamente in questo modo che si intende realizzare, per davvero, una rivoluzione. Una rivoluzione in termini del nostro peso in politica estera e di credibilità internazionale, tenendo sempre in considerazione la necessità di tutela e promozione della sicurezza e della grandezza italiana nel mondo.

5995.- Non solo Iran, ecco chi coccola Hamas

C’è un lungo elenco di Paesi che trasferiscono denaro nelle casse di Hamas: Qatar, Egitto, Algeria e Tunisia. In primis, ovviamente, c’è l’Iran. Conversazione con Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange.

Hamas

Da Startmag, di Marci Orioles, 18 Ottobre 2023

Una finestra di tempo di almeno un anno e mezzo è stata necessaria all’Iran per addestrare, attraverso i propri Guardiani della Rivoluzione ed i fedeli Hezbollah, Hamas alle tattiche militari impiegate il 7 ottobre per sferrare il micidiale colpo a Israele e uccidere 1.400 persone. Se non bastassero i missili fabbricati a Gaza con know-how iraniano, è questa la più vistosa firma degli ayatollah individuata da Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, che in questa intervista a Start Magazine offre un’anatomia di Hamas che passa anche attraverso l’analisi di chi e come lo finanzia e arma.

Che cos’è Hamas?

La definizione che ne fornisce la comunità internazionale è quella di una organizzazione politica fondamentalista sunnita, paramilitare e di stampo terroristico che ha come proprio obiettivo dichiarato quello di arrivare alla soluzione della cosiddetta questione palestinese tramite l’annientamento dello Stato di Israele e l’espulsione degli ebrei dalla terra che rivendica come terra esclusivamente palestinese. Il movimento ha uno slogan fondamentale che abbiamo purtroppo sentito risuonare nelle manifestazioni tenutesi in questi giorni in Occidente ed è “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Praticamente stiamo leggendo lo statuto di Hamas.

Esattamente. Se andiamo a vedere quel documento, carta canta, come si suol dire. Questo è Hamas, che non è sicuramente una organizzazione umanitaria o un movimento politico con il quale si può raggiungere qualche compromesso, come invece è stato possibile con la fazione di Arafat e oggi di Abu Mazen, Fatah.

Hamas si può definire anche un’organizzazione jihadista, che inneggia cioè alla guerra santa?

Hamas fa diretto riferimento al jihad. Le sue radici rimandano in particolare alla tradizione radicale della Fratellanza musulmana, il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna. C’è da dire che all’interno di Hamas convivono anime più o meno estreme, anche se l’organizzazione che abbiamo visto in azione il 7 ottobre, con il suo volto ferocissimo, è figlia di un’evoluzione che sembra aver cancellato quelle differenze.

Di quanti combattenti dispone Hamas?

Se parliamo delle Brigate Qassam, ossia dell’ala militare di Hamas, vi sono stime che le assegnano una forza compresa fra 30 e 40mila uomini. Ovviamente l’organizzazione nel suo complesso è molto più ampia.

Qual è il budget di Hamas?

Sebbene sia sempre difficile fare un calcolo preciso, il Dipartimento di Stato Usa nel 2020 aveva stimato che il budget di Hamas fosse nell’ordine di parecchie centinaia di milioni di dollari. Questi soldi però solo in parte vanno a finanziare operazioni militari. Ricordo infatti che Hamas fin dal 2006 amministra la striscia di Gaza e dunque eroga tutta una serie di servizi alla popolazione di quel territorio: denaro che va naturalmente al welfare, e serve anche a pagare le pensioni alle famiglie dei martiri. Uno studio non recentissimo ma certo attuale sull’economia di Hamas mise in luce come l’organizzazione fosse estremamente abile a barattare servizi in cambio di lealtà.

Chi è che sostiene finanziariamente Hamas?

C’è un lungo elenco di capitali che trasferiscono denaro nelle casse di Hamas: dai Paesi del Golfo Persico come il Qatar ad alcuni Stati del Nord Africa come l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia. Questi sono gli attori che finanziano direttamente Hamas anche ma non sempre alla luce del sole. Esistono poi altri rivoli di finanziamento che Hamas cattura, fondi che non sono direttamente indirizzati ad Hamas ma che entrano nelle sue casse con un gioco molto sofisticato. È il caso degli interventi umanitari che vengono poi dirottati nei forzieri del gruppo.

Anche i soldi dell’Ue vengono dirottati?

Non solo i soldi, anche i materiali che l‘Ue gli fornisce. Molti dei finanziamenti per progetti destinati ad alleviare la sofferenza del popolo palestinese vengono dirottati nelle casse di Hamas. Succede così che chi si illude di finanziare azioni umanitarie vede i suoi soldi passare ad altre entità e da queste ad Hamas in un gioco perverso di scatole cinesi. Vi fu il caso clamoroso di un acquedotto la cui costruzione fu finanziata dall’Ue: sbucarono poi dei filmati in cui uomini di Hamas si vantato di aver trasformato quei tubi in missili. Per paradosso, anche i soldi degli israeliani finiscono in questo meccanismo.

Chi invece arma Hamas?

L’Iran. Sappiamo che quel Paese, negli anni, ha effettuato massicci trasferimenti non solo di denaro ma anche di tecnologia indirizzata in particolare alla costruzione di un vasto arsenale di razzi molto avanzati. Questo l’Iran non solo non lo nasconde ma se ne vanta apertamente. E così fa Hamas: ricordo che l’anno scorso uno dei suoi leader si vantò di aver ricevuto circa 70 milioni di dollari in assistenza militare dall’Iran. Giusto per capirci, gli oltre 4mila razzi che sono piovuti su Israele il 7 ottobre sono stati fabbricati a Gaza ma con progetti che possono essere fatti risalire all’Iran. Ma l’impronta dell’Iran nell’attacco a Israele si può vedere da altri fattori, ad esempio dall’addestramento che i combattenti di Hamas hanno necessariamente ricevuto per preparare questo blitz, oppure dall’uso dei gliders e da altre tattiche adottate nella fase cinetica dell’attacco.

Quindi anche l’addestramento era iraniano?

Non è stato un addestramento diretto: l’Iran, con l’aiuto di Hezbollah, ha organizzato nei campi libanesi gestiti da consulenti tecnici del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Irgc) dei seminari tattici di addestramento per ufficiali delle brigate Qassam di Hamas che poi sono tornati a Gaza e lì hanno a loro volta addestrato gli operatori. Il tutto nel corso di una finestra di tempo di almeno un anno e mezzo per preparare il piano d’attacco.

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

5794.- Cosa cambia per l’Italia e l’Europa dopo il memorandum con la Tunisia

Tunisia
  • Da Start Magazine, di Marco Orioles, 18 Luglio 2023

L’Italia, dalle parole ai fatti

Il memorandum con la Tunisia ha un approccio globale, che non si limita ai migranti ma include anche l’energia e gli scambi universitari. Conversazione di Marco Orioles con Michela Mercuri, docente di Cultura, Storia e Società dei Paesi musulmani all’Università di Padova.

Dopo un lungo braccio di ferro col presidente Kais Saied, l’Europa – auspice la premier Meloni e il suo collega olandese Mark Rutte – ha siglato con la Tunisia un Memorandum che getta le basi per una nuova stagione di cooperazione tra le sponde Nord e Sud del Mediterraneo anche, o forse soprattutto, sul delicato fronte del contrasto all’immigrazione irregolare. Come si è arrivati alla firma e cosa prevedono gli accordi sono gli argomenti affrontato da Start Magazine in questa conversazione con Michela Mercuri, analista e docente di Cultura, Storia e Società dei Paesi musulmani all’Università di Padova.

Quanto è stato faticoso per Meloni e l’Unione convincere Saied ad accettare che nel Memorandum firmato domenica fosse incluso un capitolo sul contrasto alle migrazioni?

Il Memorandum è stato il frutto di un braccio di ferro tra il premier Meloni, la Commissione europea e Saied. Saied ha alzato la posta soprattutto dall’11 giugno, quando c’era stata la precedente visita del trio Meloni, von der Leyen, Rutte, il cosiddetto team europeo. Ha stretto ulteriormente la presa sugli emigranti subsahariani proprio per ottenere sempre di più, e sembra proprio esserci riuscito, visto che l’Ue ha garantito importanti interventi in campo economico, di investimenti e a livello infrastrutturale.

Cosa succederebbe se Saied non intervenisse sui flussi migratori o magari sobillasse ulteriormente la popolazione contro i migranti subsahariani?

Io credo che adesso Saied farà il possibile per tenere fede agli accordi che sono stati frutto, ripeto, di una contrattazione da cui Saied ha ottenuto abbastanza, almeno per ora. Tutto è però condizionato dall’arrivo del ben più cospicuo finanziamento dell’Fmi per il cui arrivo si è spesa anche l’Europa. Quindi io credo che per ora Saied, pur di ottenere questi fondi, farà per così dire il bravo.

Intanto però la pressione migratoria che origina dalla Tunisia è in continuo aumento.

Il problema è che negli ultimi mesi sono nate nel Paese numerose organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti e che spesso sfuggono anche al controllo di Saied. È più o meno quanto è accaduto in Libia: il modello libico è la rappresentazione plastica di quello che potrebbe succedere e sta in parte succedendo in Tunisia, e cioè che Saied non riesca più a controllare quelle organizzazioni che potrebbero operare al di fuori del suo controllo e ovviamente di quello dell’Ue.

Nel frattempo si argina la situazione con la firma di un Memorandum che allarga il campo della cooperazione tra Europa e Tunisia. In cosa consiste?

Per l’approccio con cui è stato costruito, questo Memorandum mi ricorda molto il partenariato euro-mediterraneo risalente al lontano 1995. È un approccio globale, che non riguarda solo i migranti, per cui l’Europa ha stanziato comunque oltre 100 milioni di euro finalizzati a coordinare le operazioni di ricerca e soccorso (cosiddette Sar) Il Memorandum tocca infatti altri aspetti, tra cui l’assistenza microfinanziaria alle imprese tunisine con una dotazione iniziale di 150 milioni di euro destinati a salire più avanti a 900. C’è poi lo sforzo per convincere l’Fmi a erogare i quasi 2 miliardi di dollari richiesti di cui il Paese ha un estremo bisogno. Sono poi previsti altri tipi di investimenti.

Quali?

Quelli ad esempio sulle energie rinnovabili: sono stati stanziati 300 milioni in progetti per l’energia verde. Sono stati poi stanziati 65 milioni per incrementare i contatti tra il popolo tunisino e quelli europei, investendo ad esempio in interscambi universitari col progetto Erasmus. Quindi è un approccio davvero globale, anche se bisognerà capire quanto di ciò che è stato messo sulla carta sarà realizzabile, per creare un’effettiva collaborazione con quello che continua ad essere un Paese instabile, a rischio default e nel quale operano numerose organizzazioni criminali.

Quali sono le potenzialità inesplorate della cooperazione tra sponda Nord e Sud del Mediterraneo?

Non dobbiamo dimenticare che sotto la Tunisia c’è molto di più: c’è l’Africa, ossia un continente in grande difficoltà che sta vivendo una crisi dovuta a fattori come la siccità e la penuria di grano. Ma è un continente che ha tantissime risorse. Il problema è che, proprio per questo, l’Africa è sempre stata depredata. Come Giorgia Meloni ha detto in una recente conferenza, l’Africa non è affatto povera, ma è depredata. Se noi riuscissimo ad attuare un approccio non predatorio verso quei Paesi da cui partono i migranti che raggiungono l’Italia, sicuramente si potrebbe favorire una cooperazione in forme che gioverebbero ad entrambe le sponde del Mediterraneo.

5690.- Sulla Tunisia si misura l’Unione europea. Lavoriamo per un Piano Mattei allargato.

Dalle parole ai fatti! Con William Burns ad Atene e Giorgia Meloni a Tunisi, nel Mediterraneo gli Stati Uniti e l’Italia marciano su un solo binario.

Meloni ha fatto da apripista: domenica tornerà in Tunisia con Ursula von der Leyen e Rutte

Da Il Secolo d’Italia dell’8 Giu 2023 13:25 – di Adriana De Conto. Adriana ci consenta di chiamare presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Meloni Ursula von der Leyen Tunisia

Il presidente del Consiglio Meloni ha fatto da apripista, la Tunisia è uno snodo cruciale dell’emergenzia migratoria. Così Ursula von der Leyen domenica mattina sarà in missione a Tunisi con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte.  A Tunisi è previsto un incontro con il presidente Kais Saied sui temi della migrazione e della cooperazione economica e energetica. Lo ha annunciato la Commissione europea. Per il presidente del Consiglio italiana si tratta della seconda visita nel paese nordafricano in pochi giorni. Dopo quella dello scorso 6 giugno a Tunisi con oggetto lo sblocco dei fondi del Fmi in cambio di riforme e diritti.  Insomma, qualcosa si muove in Tunisia, grazie al pressing del governo italiano. Grasse risate, se pensiamo che solo poche ore fa sinistra e giornaloni d’appoggio strillavano il solito ritornello: la Meloni non porta a casa nulla

Missione a tre in Tunisia: Ursula von der Leyen, Meloni e Rutte

Invece porta a casa un risultato essenziale: l’avere messo la questione tunisina al centro dei riflettori europei.  A dare notizia della missione a tre in Tunisia è stato il portavoce capo della Commissione europea Eric Mamer, durante il briefing con la stampa a Bruxelles. Von der Leyen, Meloni e Rutte incontreranno il presidente tunisino Kais Saied. Le discussioni riguarderanno le “relazioni bilaterali” tra Ue e la Tunisia, in particolare “un accordo di cooperazione in materia di economia, energia e migrazioni”. Un tema sul quale il premier Meloni ha da tempo acceso i riflettori. Meloni aveva dato al presidente Saied la sua disponibilità a tornare presto in Tunisia, “anche insieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen”, aveva detto. Alle parole seguono atti concreti.

Tunisia cruciale per l’Italia

“Per l’Italia è cruciale mantenere alta l’attenzione sulla situazione tunisina– rileva il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi- intervenendo a Lussemburgo nel Consiglio Affari Interni- . Come testimonia la missione del presidente Giorgia Meloni e la nostra richiesta di avere un punto specifico anche in occasione del prossimo Consiglio Europeo”.  Il ministro ha ricordato che la Tunisia è sempre più anche un Paese di transito dell’immigrazione irregolare, non solo di partenza.

5434.- Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice di Monteforte.

Non solo gasdotti e non solo oleodotti, anche le reti e i sistemi informativi che vedete richiedono misure di prevenzione dagli atti terroristici e dai danneggiamenti dei cavi a causa della pesca a strascico e ancoraggio nelle zone vietate

Nel Potere Marittimo la sommatoria funzionale delle componenti è, come sempre, maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. La capacità di protezione delle infrastrutture sottomarine strategiche nel Mediterraneo che garantiscono il trasporto delle informazioni e l’approvvigionamento energetico italiano è una di queste componenti. L’Italia ha recepito la direttiva europea Network and Information Security, Nis, per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e la Guardia Costiera e la Terna SpA hanno implementato un protocollo di collaborazione. Il controllo del Canale di Sicilia e la cooperazione con le marine della costa africana e di tutto il Mediterraneo si pongono fra i cardini del sistema difesa Italia e rappresentano un invito ulteriore a ricercare la comunanza fra i Paesi rivieraschi attraverso il mare. Il futuro dell’Italia “è” nel Mediterraneo.

Da Formiche.net, di Gaia Ravazzolo | 09/10/2022 – 

Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice

Le Forze armate tornano a guardare al dominio marittimo e alla sua sicurezza, anche in risposta alla crescente vulnerabilità delle infrastrutture strategiche sottomarine preposte a provvedere all’approvvigionamento energetico. Per proteggere tali infrastrutture “bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido” secondo l’ammiraglio Sanfelice di Monteforte

L’attenzione delle Forze armate sta tornando sulla dimensione marittima e sottomarina. Dopo il danneggiamento del Nord Stream è stato lanciato un allarme globale sulla vulnerabilità delle reti energetiche subacquee, accolto anche dal nostro Paese. Proprio la scorsa settimana infatti l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, ha parlato di un piano lanciato in accordo con il ministro Lorenzo Guerini per aumentare le misure di tutela a protezione delle infrastrutture strategiche nel Mediterraneo che garantiscono l’approvvigionamento energetico italiano, a partire dal Canale di Sicilia. Impegno ribadito anche nei dibattiti del Trans-regional seapower symposium di Venezia. Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici.

Il nostro Paese riconosce il Mediterraneo allargato quale principale area di riferimento strategico. Quale ritiene dovrebbero essere le priorità nazionali per permettere all’Italia di assumere un ruolo da protagonista nella regione? 

La massima priorità, affinché il Paese conservi il proprio livello di benessere, è la salvaguardia del commercio internazionale marittimo. Insieme al commercio ci sono le infrastrutture marittime quali oleodotti, gasdotti, cavi sottomarini legati alla connettività ecc. Il desiderio italiano è di voler giocare un ruolo da protagonisti in quest’area e per farlo c’è un solo modo: adottare la strategia del “fratello maggiore”. Dunque, essere benevoli verso tutti e favorire le sinergie nella regione, come si fece una quindicina di anni fa favorendo lo scambio di informazioni virtuali per tutta l’area del Mediterraneo, organizzato proprio dalla Marina militare italiana. Ne è un esempio il caso dell’Algeria, che abbiamo supportato per anni e che ora ci sostiene a sua volta attraverso le forniture energetiche. Parallelamente a questo, vi sono le riunioni periodiche a carattere biennale del Trans-regional seapower symposium proprio per conoscere e riunire insieme i capi delle Marine militari dell’area, per cercare di instaurare nuove collaborazioni e sinergie, in un’ottica di scambio reciproco.

La centralità del Mediterraneo è un elemento strategico non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa e la Nato. Ci sarà bisogno di implementare sinergie con gli alleati. L’Italia può ambire a una posizione di leadership di queste probabili iniziative future, e come?

Nell’ambito europeo l’Italia è già una potenza in questo senso. Mentre nella cornice Nato occupiamo una posizione più defilata. Questo perché disponiamo di un livello di forze nelle tre dimensioni – terrestre, aerea, marittima – che è considerato dai nostri alleati inferiore rispetto a quello che potremmo esprimere, non in senso qualitativo ma quantitativo. Quindi, nell’Alleanza Atlantica siamo ancora un po’ “al traino” degli altri. Mentre in Europa possiamo influenzare in modo più significativo la politica comunitaria. Ciò nonostante, vi è da fare una precisazione. Ultimamente con questa nuova attenzione al dominio marittimo prevale un sentimento di giusto orgoglio nazionale e il conseguente desiderio di avere una posizione preminente rispetto agli altri. Tuttavia, ad oggi quello che dovrebbe prevalere è il sentimento e la voglia di sopravvivenza economica, e non solo fisica.

Al recente simposio di Venezia, il capo di Stato maggiore della Marina, Enrico Credendino, ha parlato della necessità di un approccio olistico per garantire la sicurezza delle vie marittime. C’è necessità di superare una sorta di sea-blindness che colpisce il sistema Italia. Che ruolo dovranno avere le forze navali nazionali in questo senso?

Il ruolo delle forze navali nazionali è da una parte quello di prevenire le crisi e sedarle, e dall’altra proteggere sia il commercio sia le infrastrutture strategiche. Questo fa parte di un approccio olistico perché le Forze armate, e in particolare le Forze della Marina militare, non sono più occupate solo nel portare avanti battaglie navali ma sono impegnate a creare una situazione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile.

Quali sono gli strumenti a disposizione del nostro Paese e della Marina militare per provvedere alla protezione di cavi e pipeline in modo da continuare a garantire la connettività e l’approvvigionamento energetico?

Sono 1.500 km di cavi sottomarini che saranno sorvegliati dalla Guardia Costiera e da Terna SpA

In primo luogo è necessaria una sorveglianza particolare nelle zone di passaggio di tali infrastrutture critiche, che dovrà inevitabilmente essere ampliata e ingrandita nella sua portata. Per adesso stiamo puntando alle infrastrutture subacquee più vicine e quindi si dovrà pensare e provvedere un po’ a tutte quelle infrastrutture che esistono nell’area. In secondo luogo bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido. Siccome non è possibile prevenire le minacce in modo completo al 100%, si dovranno creare delle capacità di intervento rapido per fermare eventuali conseguenze e ripercussioni dovute a sabotaggi o guasti.

Di fronte alla crescente rilevanza della dimensione marittima e sottomarina, è importante puntare sull’innovazione. Che ruolo può giocare in questa dimensione la componente unmanned?

Le Marine dispongono e impiegano la componente unmanned ormai da vent’anni, non è qualcosa di nuovo. Tuttavia, solo nell’ultimo periodo si sta ampliando ed espandendo sempre di più. Innanzitutto, la componente unmanned è stata usata, e viene usata ancora oggi, per la “guerra di mine”. Così da sminare le aree di mare che sono state minate in passato. Poi vi sono degli altri sistemi subacquei, di più recente introduzione al servizio, quali i sommergibili, che possono lanciare dei droni a guida remota e non solo. In questo quadro bisogna però considerare anche i sistemi che possono agire ed essere sopra la superficie, dal momento che finalmente si stanno sviluppando i droni lanciabili e recuperabili dal mare. Dunque, la componente unmanned per la Marina non è certamente una novità, ma ricopre un ruolo molto rilevante. D’altronde è molto più pratico mandare un mezzo unmanned a sorvegliare le aree che ospitano infrastrutture critiche, piuttosto che dispiegare un elicottero con quattro persone a bordo.

5208.- La NATO crea nuovi obiettivi in Italia e in Germania. Erdogan: mano libera sul popolo Curdo

Aggiornato 30 giugno 2022.

Insieme ai tedeschi, saremo il primo obiettivo russo della guerra nucleare voluta da Biden. Ripeto: Insieme ai tedeschi, saremo il primo obiettivo russo della guerra nucleare voluta da Biden.

Al summit NATO, Draghi a coperto con una dichiarazione sciocca sui curdi la delicatezza degli argomenti guerreschi di Biden e Stoltenberg!

Lo schieramento di armi nucleari, ipersoniche, a medio raggio americane fa dell’Italia un bersaglio atomico, obbligato e prioritario per la Russia e deve essere approvato con referendum e dal Parlamento.

Turchia, Svezia e Finlandia hanno firmato un memorandum d’intesa sulla pelle del popolo curdo. Lo riferisce l’agenzia turca Anadolu.

Un popolo senza diritti e senza patria. Il suo motto: Non abbiamo altri amici che le nostre montagne.

Questa NATO è orrida. Con Biden, è venuta meno la simpatia fraterna che ci ha legato agli Stati Uniti. La Svezia per entrare nel business NATO rimanda ai turchi i profughi curdi che aveva accolto. La condizione di Erdogan per l’ingresso della Svezia nella Nato era riconoscere che i curdi sono terroristi e estradarli In Turchia, accettando di fatto una persecuzione etnica. I curdi sono quelle persone per loe quali battevano i cuori dell’l’Occidente, a partire dagli Stati Uniti e noi con loro. Ricordate le donne combattenti di Kobane? Ottenuto il prezzo del ricatto, la Turchia ha ritirato il veto all’ ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia. Ora, Erdogan potrà far massacrare o, più probabilmente, gassare, i curdi come ha sempre desiderato. Pur di riuscire a controllare la Federazione Russa i paladini dei diritti umani sbandierati dall’ Occidente rinunciano al loro e al nostro onore. Avanti così Biden e avanti Erdogan! ma l’orrore non finisce qui: Il presidente del Consiglio Draghi appoggia l’ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia, approvando la consegna del popolo curdo (I curdi, sì, che hanno combattuto per la ns LIBERTÀ, non l’Ucraina). Draghi s’inchina al Sultano Erdogan, che lui stesso aveva chiamato dittatore e che, da oggi, è diventato statista; ma, ammettiamolo: L’avessimo noi un Erdogan!

Biden al summit Nato annuncia più truppe anche in Italia, e dove? a Pisa? Cade il veto turco a Svezia e Finlandia.

Ci occupano; ma non ci avevano liberato?

Pisa. 70 ettari di bosco che a breve saranno sacrificati per una base militare pro USA. Non siamo in Corea, ma IN TOSCANA NEL 2022, NEL “PARCO DI SAN ROSSORE”. La base militare sarà realizzata con i fondi del PNRR dopo l’ok del presidente Mario Draghi. E qui che faranno base i sistemi mobili lanciamissili ipersonici della Lockheed Martin?

Un bosco patrimonio della Regione Toscana tra i più belli d’Italia trasformato in base militare del Patto Atlantico o Patto Leonino.

San Rossore. Sarà questa la nuova base dei missili ipersonici nucleari con lancio da piattaforme terrestri mobili, prodotti dalla Lockheed Martin; missili con gittata tra 500 e 5500 km: un vero pericolo per la Russia!

mercoledì 29 Giugno 11:17 – di Vittorio Giovenale

summit Usa, Biden

Gli Stati Uniti dispiegheranno “difese aree aggiuntive e altre capacità in Germania e Italia”. Lo ha annunciato il presidente americano Joe Biden, parlando del rafforzamento della presenza militare statunitense in Europa in un breve incontro con il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, prima dell’inizio del summit di Madrid. “Oggi annuncio che gli Stati Uniti miglioreranno la loro postura di difesa in Europa per rafforzare la nostra sicurezza e rispondere alle sfide”, ha detto il presidente americano. Nel concreto, dagli Usa arriveranno altre truppe e mezzi nel continente.

“Qui in Spagna lavoreremo con il nostro alleato per aumentare i cacciatorpediniere che abbiamo nella base navale di Rota, che passeranno da quattro a sei – ha annunciato Biden – In Polonia creeremo una sede per rafforzare la nostra collaborazione con la Nato. Avremo una brigata a rotazione di tremila soldati e altri tremila anche in Romania, manderemo due squadroni nel Regno Unito e difese aree addizionali e altre capacità in Germania e Italia”. Traduciamo il messaggio volutamente ermetico. Per difese aree addizionali possiamo intendere batterie di missili PATRIOT a difesa delle armi nucleari USA, per esempio, delle basi di Ghedi e Aviano, mentre per altre capacità possiamo intendere i nuovi sistemi missilistici ipersonici a raggio intermedio,  guidati dai sistemi satellitari della Forza Spaziale degli Stati Uniti annunciato dal C.S.M. dell’US ARMY generale McConville.

Lo schieramento di queste armi nucleari, ipersoniche, a medio raggio fa dell’Italia un bersaglio atomico obbligato e prioritario per la Russia e deve essere approvato con referendum e dal Parlamento.

Il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e l’Agenzia di ricerca del Pentagono avevano già annunciato della decisione degli Stati Uniti (non dell’Italia) di schierare in Europa (si parlava di una probabile prima base in Polonia o Romania) missili ipersonici armati di «vari carichi bellici», ossia di testate nucleari e convenzionali. Si tratta di missili con lancio da piattaforme terrestri mobili, prodotti dalla Lockheed Martin, ossia missili con gittata tra 500 e 5500 km della categoria che era stata proibita dal Trattato sulle forze nucleari intermedie firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, stracciato dal presidente Trump nel 2019.

Certamente, secondo le specifiche tecniche fornite dalla Darpa, “questo nuovo sistema” permette ad armi ipersoniche plananti, con propulsione a razzo e velocità di 10.000 km/h, di colpire con rapidità e precisione bersagli di importanza critica e prioritaria, penetrando moderne difese aeree nemiche, dove, per nemiche, Biden e Stoltenberg intendono i russi. 

Al summit Nato l’annuncio dell’ingresso di Svezia e Finlandia

“I leader oggi prenderanno anche la storica decisione di invitare Finlandia e Svezia a diventare membri della Nato, sulla base dell’accordo raggiunto ieri tra Finlandia, Svezia e Turchia: si tratta di un accordo positivo per la Finlandia, la Svezia, la Turchia e per tutti noi”. Lo ha detto il segretario della Nato Jens Stoltenberg arrivando al summit organizzato nella periferia di Madrid.

La mediazione in extremis di Stoltenberg ha infatti convinto Erdogan a ritirare il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia, dopo settimane d’impasse. I tre Paesi hanno firmato un memorandum d’intesa sulle richieste turche e Ankara può davvero dirsi soddisfatta: “Abbiamo avuto quello che chiedevamo, piena cooperazione” contro i curdi del PKK e i loro alleati, ha fatto sapere la presidenza turca. “Con l’ingresso di Stoccolma e Helsinki nell’Alleanza saremo tutti più sicuri”, ha esultato Stoltenberg. Non solo. Il presidente americano Joe Biden è arrivato nella capitale spagnola annunciando un nuovo sforzo per la sicurezza euroatlantica: un rafforzamento “a lungo termine” dell’impegno militare Usa nel vecchio mondo, in particolare “nei Paesi Baltici, nei Balcani” e in generale “sul fianco orientale dell’Alleanza”.

Gli annunci nel dettaglio arriveranno nel corso del vertice ma appare chiaro che un blocco importante di quei 260mila effettivi in più a disposizione del comando supremo saranno degli Usa. Un inasprimento della tensione con Mosca (e in parte anche con Pechino).

Lo spessore di uno statista:

Non è uno sciocco! Contento di sviare il discorso dai missili in Italia… dite se sbaglio?
Giornalista: “L’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato vale la consegna dei Curdi -che ci hanno aiutato a combattere Isis- al ‘dittatore’ Erdogan, come lei stesso lo aveva definito?” Draghi prima gira sui tacchi poi risponde: “È un argomento importante. Fate questa domanda a Svezia e Finlandia“.

Vertice Nato, Stoltenberg

“Abbiamo appena completato un summit che ha portato a decisioni profonde”, ha detto Stoltenberg

Dal fianco sud rischi per tutti gli alleati “Questa mattina abbiamo affrontato le questioni di sicurezza in Medio Oriente, Nord Africa e Sahel: i rischi che provengono da quest’area hanno un impatto su tutti gli alleati. Abbiamo inoltre ribadito che il terrorismo è una delle minacce principali alla nostra sicurezza. Inoltre per la prima volta abbiamo approvato un pacchetto di aiuti alla Mauritania e alla Tunisia”. Lo ha detto Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, al termine del summit di Madrid. 

Supporto a lungo termine per l’Ucraina. Altri 800 milioni di armi per la guerra alla Russia.. la guerra in Europa!

A Madrid nasce ufficialmente il fondo per l’innovazione della Nato. Con un miliardo di euro di capitalizzazione, servirà a finanziare start-up e PMI ad alto contenuto tecnologico sul territorio dell’Alleanza. “È il primo fondo di venture capital al mondo di questo tipo”, ha detto il segretario Jens Stoltenberg. “Dobbiamo mantenere la nostra spinta tecnologica, ora che Cina e Russia ci sfidano in questo settore chiave”, ha precisato. Il fondo è sostenuto da 22 Paesi Nato, tra cui l’Italia, che è stata rappresentata alla cerimonia di firma dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Osserviamo:

Da una parte, il presidente statunitense assicura: “Sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo che serve”, cioè, finanzia la guerra; da un’altra, con la sua politica ha favorito la concentrazione dei BRICS contro il dollaro; meglio tardi che mai, denuncia la crescita del terrorismo in Nord Africa e nel Sahel, infine, in un clima di inflazione senza freni e di rallentamento della crescita, che vede a rischio gli utili e i multipli societari, finanzia la crescita di start-up e PMI. C’è un pò di confusione a Washington.

Le basi Nato in Italia

Sarebbero circa 111 le Basi USA o mantenute attive per gli USA e circa 135 le testate nucleari, dopo il trasferimento in Italia di quelle della base di Incirlik, in Turchia, voluto da Erdogan. Può darsi che l’accordo sulla pelle dei curdi abbia rivisto queste posizioni del governo turco.

Gli USA hanno potuto stabilire le loro Basi, in Italia – e continuano indisturbati a mantenerle e ad aumentarle – sulla base di: 1) Le clausole segrete della «Convenzione d’Armistizio» del 3 Settembre 1943; 2) Le clausole segrete del «Trattato di pace» imposto all’Italia, il 10 Febbraio del 1947 (Parigi); 3) Il «Trattato NATO» firmato a Washington il 4 Aprile 1949, entrato in vigore il 1 Agosto 1949; 4) L’«Accordo segreto USA-Italia» del 20 ottobre 1954 (Accordo firmato esclusivamente dai rappresentanti del Governo di allora e mai sottoposto alla verifica, né alla ratifica del Parlamento); 5) Il «Memorandum d’intesa USA-Italia» o «Shell Agreement» del 2 Fe

Le basi militari degli o per gli Stati Uniti d’America in Europa, Mediterraneo e Medioriente, con o senza copertura NATO (elenco indicativo, aggiornato al 2005)

a cura di Alberto B. Mariantoni (**)

Nelle pagine che seguono sono elencati gli stabilimenti e le basi militari operative o a disposizione degli Stati Uniti d’America (1) insediati nel Continente europeo, nel Bacino Mediterraneo e nell’Area mediorientale, con o senza copertura NATO.

Basi USA in Europa (2)

Da Nord a Sud, tra le più importanti:

  • ISLANDA: NAS Keflavik (Reykjanes – US-Navy – US-Air Force).
  • Estonia, LETTONIA, Lituania: attualmente sono in costruzione almeno 22 Basi militari e 6 Basi navali NATO (3), su controllo statunitense (Mare Baltico – US-Air Force; US-Navy; US-Army; NSA (4)).
  • NORVEGIA: Sola Sea Air Base (US-Air Force); Stavanger Air Base (US-Air Force); Flesland Air Base (Bergen – US-Air Force).
  • GRAN BRETAGNA: (all’incirca 30 basi – US-Air-Force, US-Navy, US-Army) – nome della base: Lakenheath (località: Lakenheath; provincia o regione: Suffolk – US-Air Force); Mildenhall (Mildenhall, Suffolk – US-Air Force); Alcombury (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Molesworth (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Thrapston (Huntingdon, Cambridgeshire – US-Air Force); Upwood (Ramsey, Cambridgeshire – US-Air Force); Fairford (Fairford, Gloucestershire – US-Air Force); Feltwell (Thetford, Norfolk – US-Air Force); Croughton (Croughton, Northamptonshire – US-Air Force); senza contare le Basi di supporto logistico di: Barford St John (US-Air Force); Bicester (US-Air Force); Chelveston/Rushden (US-Air Force); Eriswell (US-Air Force); Ipswich (US-Air Force);Newbury (US-Air Force); Newmarket (US-Air Force); Stanton (US-Air Force);Thetford (US-Air Force);Yildenhall (US-Air Force); London (US-Navy); St. Mawgan (US-Navy); Hythe (US-Army).
  • OLANDA: Soesterberg Air Base (US-Air Force); Eygelshoven (US-Army); Brunssum (US-Army); Schinnen(US-Army); Vriezenveen (US-Army); Rotterdam (US-Navy – US-Army); più altri 4 insediamenti (5).
  • BELGIO: Bruxelles (Comando Nato); Mons (SHAPE Headquarters – Forze alleate in Europa – US-Army); Chievres (80º Air Support Group – US-Air Force); Brasschaat (Brasschaat – US-Air Force); Gendebien (US-Army); Kleine Brogel Air Base (US-Air Force); Florennes Air Base (US-Air Force); Anversa (US-Navy); più una decina di altri insediamenti.
  • LUSSEMBURGO: Sanem(Esch-Alzette – US-Army); Bettembourg (Luxemburg – US-Army).
  • DANIMARCA: Thule Air Base (Thule, Groenlandia); Karup Air Base (Karup – US-Air Force).
  • GERMANIA: (all’incirca 70 basi – Air-Force, US-Navy, US-Army – con una presenza di all’incirca 60.000 militari) – La maggior parte delle Basi USA sono concentrate nelle regioni di: Baden-Wuerttemberg, Renania-Palatinato, Assia e Baviera. Tra le sedi dei Comandi più importanti figurano:
    • Ramstein (6) (Ramstein, Rheinland-Pfalz – US-Air Force): da questo Comando dipendono i Sub-comandi di: Brasschaat (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg); Patton Barracks (7) (Heidelberg, Baden-Wuerttemberg); Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg); Giebelstadt (Giebelstadt-Wuerzburg, Bayern); Grafenwoehr (Grafenwoehr, Bayern); Hohenfels-CMTC (Hohenfels-Regensburg, Bayern); Katterbach Barracks (Ansbach, Bayern); Storck Barracks (Illesheim, Bayern); Schweinfurt-Conn Barracks (Schweinfurt, Bayern); Armstrong Army Heliport (Buedingen, Hessen); Hanau-Fliegerhorst (Hanau, Hessen); Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen); Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen); Geilenkirchen (Teveren, Nordrhein-Westfalen); Ramstein (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Sembach (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz); nonché le Basi aere di: Ramstein-Landstuhl (Ramstein, Rheinland-Pfalz); Rhein-Main Frankfurt, Spangdahlem (Spangdahlem, Rheinland-Pfalz), Büchel e Siegenburg-Mühlausen;
    • Heidelberg (8) (località: Heidelberg; regione: Baden-Wuerttemberg – US-Army) – Divisioni: 1st Armored Division, Weisbaden; 1st Infantry Division, Wurzburg; 2nd Brigade, 1st Armored Division, Buamholder; 7th Army Reserve Command (ARCOM), Schwetzingen; Corpi d’Armata: Vº Corps, Heidelberg; Comandi: U.S. Army Europe (USAREUR); Combat Maneuver Training CenterLandstuhl Regional Medical Center; nonché le caserme: Hammonds BarracksCampbell BarraksTompkins BarracksStem BarracksHammond Barracks – più 10 altri insediamenti della US-Army;
    • Brasschaat (9) (Mannheim-Sandhofen, Baden-Wuerttemberg), con le seguenti caserme: Coleman BarracksSpinelli BarracksTurley BarracksSullivan BarracksFunari Barracks – più altri 11 insediamenti US-Army nella stessa regione;
    • Stuttgart (Stuttgart-Echterdingen, Baden-Wuerttemberg – US-Army), con le seguenti caserme: Kelley BarracksRobinson BarracksPatch Barracks– più altri 13 insediamenti US-Army;
    • Hanau (Hanau, Hessen – US-Army), con le seguenti caserme: Argonen BarracksFliegerhorst BarracksPionier BarracksUtier BarracksWolfgang BarracksYorkhof Barracks – più altri 6 insediamenti US-Army;
    • Wiesbaden (Wiesbaden-Erbenheim, Hessen), Comando Intelligence Militare – più altri 9 insediamenti US-Army;
    • Rhein-Main (Frankfurt/Main, Hessen) – almeno 2 insediamenti US-Army e 2 US-Air Force;
    • Einsiedlerhof (Kaiserslautern, Rheinland-Pfalz) con le seguenti caserme: la GE-642 Armoured-Forces BarracksDanner BarracksPulaski BarracksRhine BarracksKleber Barracks – più altri 8 insediamenti US-Army e 4 US-Air Force;Inoltre i Distaccamenti: Pendleton Barracks di Giessen (US-Army); Sheridan Barracks di Garmisch (US-Army); Larson Barracks di Kitzingen (US-Army); Johnson Barracks di Nürnberg (US-Army); Rose Barracks di Bad Kreuznach (US-Army); Pond Barracks di Amberg (US-Army); Warner Barracks di Bamberg (US-Army); Storck Barracks di Windsheim (US-Army); Smith Barracks di Baumholder (US-Army); McCully Barracks di Mainz (US-Army); Ledward Barracks di Schweinfurt (US-Army); Amstrong Barracks di Dexheim (US-Army); Anderson Barracks di Büdingen (US-Army); l‘Eliporto di Landstuhl (US-Army), ecc.
  • POLONIA: Krzesiny Air base (regione di Poznan – US-Air Force); Gdansk (facilità portuali – US-Navy).
  • FRANCIA (10): Istres Air Base (Marsiglia – Base logistica e di rifornimento US-Air Force), nonché Marsiglia e Tolone (facilità portuali – US-Navy).
  • UNGHERIA: Taszár Air Base (Pecs/Paych – US-Air Force); Kaposvar Air Field (UH-60 Black Hawk helicopters e 127º Aviation Support Battalion – US-Army).
  • ITALIA: circa 111 Basi USA (11) (US-Air Force, US-Navy, US-Army, NSA) e NATO. Alcune tra le basi USA o italiane a disposizione degli USA, da Nord a Sud della Penisola:
    • Cima Gallina (BZ): Stazione telecomunicazioni e radar dell’US-Air Force (USAF).
    • Aviano Air Base (Pordenone, Friuli – US-Air Force): la 16ma Forza Aerea ed il 31º Gruppo da caccia dell’Aviazione U.S.A. e dei Marines.
    • Roveredo in Piano (PN): Deposito armi e munizioni USA ed istallazione US-Air Force.
    • Monte Paganella (TN): Stazione telecomunicazioni USAF.
    • Maniago (UD): Poligono di tiro a disposizione dell’US-Air-Force (USAF).
    • S. Bernardo (UD): Deposito munizioni dell’US-Army.
    • Ciano(TV): Centro telecomunicazioni e radar USA.
    • Solbiate Olona (MI – Comando NATO Forze di pronto intervento – US-Army).
    • Ghedi (BS): Base dell’US-Air-Force (USAF).
    • Montichiari (BS): Base aerea (USAF).
    • Remondò (nel Pavese): Base US-Army.
    • Vicenza: Comando SETAF, Sud Europe Task Force; Quinta Forza aerea tattica (USAF); Deposito di testate nucleari.
    • Camp Ederle (provincia di Vicenza): Q.G. NATO; Comando SETAF dell’US-Army; un Btg. di obici ed Gruppo tattico di paracadutisti USA.
    • Tormeno (San Giovanni a Monte, Vicenza): depositi di armi e munizioni.
    • Longare (Vicenza): importante deposito d’armamenti.
    • VeronaAir Operations Center (USAF). e Base NATO delle Forze di Terra del Sud Europa; Centro di telecomunicazioni (USAF).
    • Affi(VR): Centro telecomunicazioni USA.
    • Lunghezzano (VR): Centro radar USA.
    • Erbezzo (VR): Antenna radar NSA.
    • Conselve (PD): Base radar USA.
    • San Anna di Alfaedo (VE): Base radar USA.
    • San Gottardo, Boscomantico (VE): Centro telecomunicazioni USA.
    • Candela-Masazza (Vercelli): Base d’addestramento dell’US-Air-Force e dell’US-Army, con copertura NATO.
    • Finale Ligure (SV): Stazione di telecomunicazioni dell’US-Army.
    • Monte Cimone (MO): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Parma: Deposito dell’USAF con copertura NATO.
    • Bologna: Stazione di telecomunicazioni del Dipartimento di Stato Americano.
    • Rimini: Gruppo logistico USA per l’attivazione di bombe nucleari.
    • Rimini-Miramare: Centro telecomunicazioni USA.
    • Potenza Picena (MC): Centro radar USA con copertura NATO.
    • La Spezia: Centro antisommergibili di Saclant.
    • San Bartolomeo (SP): Centro ricerche per la guerra guerra sottomarina.
    • Camp Darby (tra Livorno e Pisa): 8º Gruppo di supporto USA e Base dell’US Army per l’appoggio alle Forze statunitensi al Sud del Po, nel Mediterraneo e nell’Africa del Nord.
    • Coltano (PI): importante base USA/NSA per le telecomunicazioni; Deposito munizioni US-Army; Base NSA.
    • Pisa(aeroporto militare): Base saltuaria dell’USAF.
    • Monte Giogo (MS): Centro di telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Talamone (GR): Base saltuaria dell’US-Navy.
    • La Maddalena-Santo Stefano (Sassari): Base atomica USA, Base di sommergibili, Squadra navale di supporto alla portaerei americana «Simon Lake».
    • Monte Limbara (tra Oschiri e Tempio, Sassari, in Sardegna): Base missilistica USA.
    • Sinis di Cabras (SS).: Centro elaborazioni dati (NSA).
    • Isola di Tavolara (SS): Stazione radiotelegrafica di supporto ai sommergibili della US Navy.
    • Torre Grande di Oristano: Base radar NSA.
    • Monte Arci (OR): Stazione di telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Capo Frasca (OR): eliporto ed impianto radar USA.
    • Santulussurgiu (OR): Stazione telecomunicazioni USAF con copertura Nato.
    • Perdas de Fogu (NU): base missilistica sperimentale.
    • Capo Teulada (CA): da Capo Teulada (CA) a Capo Frasca (OR): all’incirca 100 km di costa, 7.200 ettari di terreno e più di 70.000 ettari di zone Off Limits: poligono di tiro per esercitazioni aeree ed aeronavali della US NAVY e della Nato.
    • Decimomannu (CA): aeroporto Usa con copertura Nato.
    • Salto di Quirra (CA): poligoni missilistici.
    • Capo San Loremo (CA): zona di addestramento per la Sesta flotta USA.
    • Monte Urpino (CA): Depositi munizioni USA e NATO.
    • Rocca di Papa (Roma): Stazione telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Monte Romano (VT): Poligono saltuario di tiro dell’US-Army.
    • Gaeta (LT): Base permanente della Sesta Flotta USA e della Squadra navale di scorta alla portaerei «La Salle».
    • Casale delle Palme (LT): Scuola telecomuncicazioni NATO su controllo USA.
    • Napoli: Comando del Security Force del corpo dei Marines; Base di sommergibili USA; Comando delle Forze Aeree USA per il Mediterraneo.
    • Napoli-Capodichino: Base aerea dell’US-Air-Force.
    • Monte Camaldoli (NA): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Ischia(NA): Antenna di telecomunicazioni USA con copertura Nato.
    • Nisida: Base US-Army.
    • Bagnoli: Centro controllo telecomunicazioni Usa per il Mediterraneo.
    • Agnano (nelle vicinanze del famoso ippodromo): Base dell’US-Army.
    • Cirigliano.(NA): Comando delle Forze Navali USA in Europa.
    • Licola(NA): Antenna di telecomunicazioni USA.
    • Lago Patria (CE): Stazione telecomunicazioni USA.
    • Giugliano (vicinanze del lago Patria, Caserta): Comando STATCOM.
    • Grazzanise (CE): Base utilizzabile dall’USAF.
    • Mondragone (CE): Centro di Comando USA e NATO sotterraneo antiatomico.
    • Montevergine (AV): Stazione di comunicazioni USA.
    • Pietraficcata (MT): Centro telecomunicazioni USA/NATO.
    • Gioia del Colle (BA): Base aerea USA di supporto tecnico.
    • Punta della Contessa (BR): Poligono di tiro USA/NATO.
    • San Vito dei Normanni (BR): Base del 499º Expeditionary Squadron; Base dei Servizi Segreti: Electronics Security Group (NSA).
    • Monte Iacotenente (FG): Base del complesso radar Nadge.
    • Brindisi: Base navale USA.
    • Otranto: Stazione radar USA.
    • Taranto: Base navale USA; Comando COMITMARFOR; Deposito USA/NATO.
    • Martina Franca (TA): Base radar USA.
    • Crotone: Stazione di telecomunicazioni e radar USA/NATO.
    • Monte Mancuso (CZ): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Sellia Marina (CZ): Centro telecomunicazioni USA con copertura NATO.
    • Sigonella (CT): importante Base aeronavale USA (oltre ad unità della US-Navy, ospita diversi squadroni tattici dell’US-Air-Force: droni GlobalHawk, elicotteri del tipo HC-4, caccia F18 e A6 Intruder, nonché alcuni gruppi di F-16 e F-35 equipaggiati con bombe nucleari del tipo B-43, da più di 100 kilotoni l’una!).
    • Motta S. Anastasia (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Caltagirone (CT): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Vizzini (CT): Diversi depositi USA.
    • Isola delle Femmine (PA): Deposito munizioni USA/NATO.
    • Punta Raisi (Aeroporto): Base saltuaria dell’USAF.
    • Comiso (Ragusa – insediamento US-Air Force).
    • Marina di Marza (RG): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Monte Lauro (SR): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Sorico: Antenna NSA.
    • Centuripe (EN): Stazione di telecomunicazioni USA.
    • Niscemi (Sicilia): Base del NavComTelSta (stazione di comunicazione US-Navy).
    • Trapani: Base italiana, USAF/US NAVY con copertura NATO.
    • Pantelleria: Centro telecomunicazioni US-Navy e Base aerea e radar NATO.
    • Lampedusa: Base della Guardia costiera USA; Centro d’ascolto e di comunicazioni NSA.
  • SPAGNA: NAS Rota (Rota, Cadice – US-Navy – US-Army); Moron Air Base (Moron de la Frontiera, Siviglia – US-Air Forces); Torrejon Air Base (US-Air Force); Zaragoza Air Base (US-Air Force); San Vito (US-Air Force); nonché le Basi navali di appoggio e di facilità portuarie di: AlicanteBarcellonaBenidormCartagenaMalagaPalma de Maiorca (US-Navy).
  • PORTOGALLO: Horta (Falai Island, Azores – US-Navy); Lajes Field Air Base (Terceira Island, Azores – US-Air Force); San Miguel (Azores – US-Air Force); Villa Nova (Azores – US-Air Force); Santa Maria (Azores – US-Air Force); Praia Da Victoria (Azores – US-Air Force); San Jorge (US-Navy); più una decina di distaccamenti della US-Navy e della US-Army (Azores).
  • BOSNIA ERZEGOVINA: Camp Comanche (Tuzla – US-Army); Camp Eagle (Tuzla – US-Army); Camp Dobol (US-Army); Camp McGovern (Brcko – US-Army).
  • KOSSOVO: Camp Bondsteel (Urosevac – US-Army).
  • MONTENEGRO: Camp Monteith (Gnjilane – US-Army).
  • MACEDONIA: Camp Able Sentry (Skopje – US-Army).
  • ROMANIA: Costanza (Mar Nero – US-Navy – US-Air Force); Mihail Kogalniceanu Air Base (US-Air Force); Agigea (in costruzione – US-Navy); Babadag (in costruzione – US-Army).
  • BULGARIA: Sarafovo Air Base (Burgas – Gruppo del 49º Expeditionary Corp – US-Air Force); Camp Sarafovo (US-Army); Bezmer e Novo Selo (due basi in costruzione – US-Army).
  • GEORGIA: Base navale (informale) di Supsa (Mar Nero – US-Navy).
  • GRECIA: Iraklion/Eleusis(Atene – US-Navy); Hellenikon Air Base (nei pressi di Atene – US-Air Force); Aktion (Costa ionica – US-Air Force); Souda Bay (Chania, Creta – US-Navy); nonché le Basi appoggio e di facilità portuaria di Corfù e Rodi (US-Navy).
  • CIPRO GRECA: Nicosia (base logistica saltuaria – US-Air Force); Larnaca (facilità portuarie – US-Navy).

Occorre aggiungere le facilitazioni di attraversamento dello spazio aereo, di atterraggio, di rifornimento e di supporto logistico accordate – de iure o de facto – agli aerei ed agli elicotteri militari dell’US-Air Force (com’è accaduto nel corso della guerra di aggressione all’Iraq nel 2003), dalla Svizzera, dall’Irlanda, dall’Austria, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Slovenia, dalla Croazia, dalla Georgia, ecc. (e le facilità d’ormeggio e di rifornimento permanenti o saltuarie concesse all’US-Navy da Marocco, Tunisia, Gibilterra e Malta).

Basi USA nel Vicino Oriente ed Oceano Indiano

  • TURCHIA: Ankara (Comando US-Air Force); Batman Air Base (US-Air Force); Buyuk-Cigli Air Base (US-Air Force); Incirlick-Adana (39º Air Expeditionary Wing – US-Air Force); nonché le Basi aeree di IzmirCorluKonyaDiyarbakir eMus (US-Air Force) ele Basi di appoggio e di facilità portuaria di IstambulIzmirMersin e Iskenderun (US-Navy) – più una decina di altri insediamenti US-Army.
  • CIPRO TURCA: Famagosta (US-Navy); Rizocarpaso (NSA)
  • EGITTO: Cairo (3º NavMedRschu – US-Navy); Alessandria (US-Navy); Hurgada (Mar Rosso – US-Navy);
  • ISRAELE: Haifa (US-Navy).
  • Inoltre, tra le più importanti:
  • IRAQ: 14 Basi permanenti («enduring» military bases – con la presenza di all’incirca 110.000 uomini – US-Army); Baghdad Air Base (US-Air Force); più le Speciali Basi di: Bashur(Kurdistan – US-Army); Talil (nei pressi dell’Aeroporto di Baghdad – US-Air Force); Base H-1 (deserto occidentale iracheno – US-Army); Nassiriya (Sud del paese – US-Army).
  • GIORDANIA: Muafaq Salti (US-Army);
  • Kuwait: Ahmed al-Jaber Air Base (US-Air Force); Ali Al Salem Air Base (US-Air Force); Camp Doha (US-Air Force); Camp Udairi (Kuwait-City – US-Army); Camp Doha (Ad-Dawhah – Quartier Generale della 3ª Armata – US-Army), Ali al-Salem (US-Army);
  • Arabia Saudita: Prince Sultan Air Base (alla periferia di Riad – US-Air Force); King Abdul Aziz Air Base (Dhahran – US-Air Force); Eskan Village Air Base (US-Air Force); King Fahd (Taif – US-Air Force); King Khaled (Khamis Mushayt – US-Air Force); Al-Kharj (US-Air Force); Exmouth(US-Navy); più 5 istallazioni US-Army.
  • Emirati Arabi Uniti: Al Dhafra/Sharjah (763º Squadrone dell’Expeditionary Air Refueling – US-Air Force); Al Dhafra Air Base (Abu Dhabi – US Air Force).
  • Qatar: Al Udeid (US-Air Force); Al-Sayliyah (US-Air Force);
  • Oman: Thumrait (305º Squadrone dell’Air Expeditionary Force – US-Air Force); Dhuwwah/Masirah Island (US-Air Force); Seeb (US-Air Force); Salalah (US-Air Force);
  • Bahrein: Sheik Isa (Sitrah, Golfo Arabo-Persico – US-Air Force); Muharraq Air Field (US-Air Force); Juffar (Quartier Generale della Vª Flotta americana – US-Navy).
  • YEMEN: B ase navale di Aden (US-Navy).
  • Gibuti: (Corno d’Africa): Le Monier Barracks (US-Air Force); Gibuti/Le Monier (US-Navy).
  • Azerbaigian: KurdamirNasosnayaGuyullah (3 Basi aeree in corso di ammodernamento/realizzazione – US-Air Force).
  • Kirghizistan: Manas/Ganci (regione di Bishkek – US-Air Force); Qarshi Hanabad (86ª Rapid Deployment Unit – US-Army)
  • Uzbekistan: Kandabad Air Base (Karshi – US-Air Force); Karshi Barracks (10ª Divisione di montagna – US-Army).
  • Tagikistan: Tagikistan Air Base (US-Air Force); KhojandKulyabTurgan-Tiube (3 Basi US-Air Force e US-Army, in trattativa per la loro costruzione).
  • Afghanistan; Mazar-e-Sharif Air Base (US-Air Force); Pul-i-Kandahar (Kandahar Air Field – US-Air Force), Shindand Air Base (Heart – US-Air Force); Khost Air Base (Paktia – US-Air Force); Bagram (Charikar, Parvan – BAF – US-Air Force); Kandahar (101ª Airborne Division – US-Army); Asadabad (US-Army); Heart (US-Army); Gardez (Paktia – US-Army); Mazar-e-Sharif (Task Force 121 – US-Army); Nimrouz (US-Army – in costruzione); Helmand (US-Army – in costruzione) – nonché le Basi di OrgunShkin e Sharan (provincia di Paktika – US-Army).
  • Pakistan: Dalbandin Air Base (US-Air Force); Jacobabad Air Base (US-Air Force); Pasni (US-Air Force); Shahbaz Air Base (US-Air Force); Jacobabad Camp (US-Army); Khowst (US-Army).
  • Diego Garcia: (Oceano Indiano): Diego Garcia Air Base (US-Air Force); Diego Garcia (Naval base and support facilities – US-Navy).

Basi «Echélon» in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente

Gestite e coordinate dal Comando generale statunitense della NSA (National Security Agency) di Fort Meade (nel Maryland), organizzate in cooperazione con i servizi segreti britannici GCHQ (Government Communications Head Quarters), canadesi CSE (Communications Security Establishment), australiani DSD (Defence Signals Directorate) e neo-zelandesi GCSB (Government Communications Security Bureau), e spesso mimetizzate sotto le mentite spoglie di banali imprese di telecomunicazioni private, le Basi d’ascolto, di spionaggio elettronico e d’elaborazione dati del programma Echélon (che già dispone – oltre alle usuali “stazioni” di spionaggio che sono integrate nella normale rete diplomatica e consolare statunitense nel mondo – di una ventina di satelliti spia della National Reconaissance Office – del tipo KeyholeMercurySigintParsaeComintOrion/VortexMentorTrompet, ecc. – e di una trentina di Boeing RC-135 che giorno e notte – da centinaia di chilometri, nel cielo – sono in grado di intercettare, registrare e controllare qualsiasi comunicazione radio, telefonica, fax, cellulare ed internet, e persino fotografare e decifrare, con altissima risoluzione – come nel caso dei satelliti «Advanced KH-11» e «KH-12» – persino l’indirizzo di una cartolina postale) coprono praticamente l’intero pianeta, con all’incirca 4.000 ‘antenne’ disseminate nei diversi paesi del mondo. In Europa, le principali Basi del programma Echélon – che agiscono sotto l’egida dei Comandi regionali USA di Morenstow e di Menmith Hill, in Gran Bretagna, e di Bad Aibling, in Germania (Baviera) – sono installate nelle seguenti località (da Nord a Sud): in Islanda: Keflavik; in Lituania: Vilnius; in Estonia: Tallinn; in Lettonia (Latvia): Ventspils; in Finlandia: Santahamina; in Svezia: Karlskrona, Muskö e Lovön; in Norvegia: Borhaug, Jessheim, Fauske/Vetan, Randaberg, Kirkenes, Skage/Namdalen, Vardo e Vadso; in Gran Bretagna: Belfast (Irlanda du Nord), Brora e Hawklaw (Scozia), Chicksands, Culm Head, Cheltenham, Digby, Menwith Hill, Irton Moor, Molesworth, Morwenstow, Londra (Palmer Street); in Danimarca: Aflandshage, Almindingen, Dueodde-Bornholm, Gedser, Hjorring, Logumkloster; in Olanda: Amsterdam e Viksjofellet; in Germania: Frankfurt, Bad Aibling, Ahrweiler, Hof, Achern, Bad Münstereifel, Darmstadt, Braunschweig, Husum, Monschau, Mainz, Rheinhausen, Stockdorf, Pullach, Vogelweh; in Francia: Parigi (GIX: Global Internet Exchange), Strassburgo e Grenoble; in Austria: Neulengbach e Konigswarte; in Svizzera: Merishausen e Rüthi; in Croazia: isola di Brac ed aeroporto di Zagreb-Lucko; in Bosnia-Erzegovina: Tuzla; in Spagna: Playa de Pals, Pico de las Nieves (Grande Canaria), Manzanares e Rota; in Portogallo: Terceira Island (isole Azores); a Gibilterra (Gibraltar); in Albania: Tirana, Durazzo (Durrës) e Shkodër; in Grecia: Iráklion (Creta); nell’isola di Cipro: Ayios Nikolaos; in Turchia: Istanbul, Izmir, Adana, Agri, Antalya, Diyarbakir, Edirne, Belbasi, Sinop, Strait, Samsun; in Israele: Herzliyya (Q.G. dell’Unità 8200), Mitzpah Ramon, Monte Hermon, Golan Heights Monte Meiron; nel Pakistan: Parachinar; nel Kuwait: Kuwait-City e l’isola di Faylaka; in Arabia Saudita: Araz, Khafji; negli Emirati Arabi Uniti: Az-Zarqa, Dalma, Ras al-Khaimah e sull’isola di Sir Abu Nuayr; nell’Oman: Abut, Khasab, isole di Goat e di Masirah, penisola di Musandam; nello Yemen: isola di Socotra.


Note

*. Il testo è ricavato dal saggio “Dal ‘Mare Nostrum’ al ‘Gallinarium Americanum’. Basi USA in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente”, apparso nella rivista di studi geopolitici Eurasia, diretta da Tiberio Graziani, alle pp. 81-94 del fascicolo 3 del 2005.

**. Alberto Bernardino Mariantoni, politologo, scrittore e giornalista, è specialista in economia politica, islamologia e religioni del Medio Oriente. È stato collaboratore di Panorama e corrispondente permanente presso le Nazioni Unite di Ginevra.

1. Elenco aggiornato a giugno 2005.

2. Come riporta il sito web Kelebek in un articolo intitolato Hiroshima, Italia. Le nostre armi di distruzione di massa, Hans Kristensen, uno specialista del Natural Resources Defense Council (NRDC) ed autore di un rapporto sulle armi atomiche in Europa, ha rivelato al quotidiano «L’Unità» (10.02.2005) che sul nostro Continente ci sarebbero attualmente “ben 481 bombe nucleari, dislocate in Germania, Gran Bretagna, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. In Italia ve ne sono 50 nella base di Aviano e altre 40 in quella di Ghedi Torre, in provincia di Brescia”.

3North Atlantic Treaty Organization.

4National Security Agency

5. Per «insediamenti», bisogna intendere: medi e piccoli acquartieramenti militari, basi per il lancio di missili, depositi (per carri armati, automezzi, artiglieria, munizioni e pezzi di ricambio), stazioni d’ascolto e/o radio, nonché villaggi, ospedali, centri di riposo e di svago per il personale civile e militare statunitense che è permanentemente basato nel paese.

6. Sede del Quartier Generale della US-Air Force.

7. Caserma o acquartieramento importante (in inglese: «Barracks»).

8. Sede del Quartier Generale dello US-Army.

9. Quando è citato soltanto il nome della città, in neretto, trattasi di sede di Comando regionale.

10. Nonostante che la Francia, dal 7 Agosto 1966, rifiuti ufficialmente di ospitare Basi USA o NATO.