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6102.- La famiglia naturale, la base per legami veri

Cacciari parla di “famiglia patogena” sostenendo che bisogna accantonare l’idea di famiglia naturale per superare le tensioni attuali. In realtà è l’innaturale a generare violenza. La natura, invece, è l’alfabeto che regola rapporti veri e appaganti.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Stefano Fontana, 30_11_2023

Il confronto-scontro in corso circa il cosiddetto “femminicidio”, dopo la tragica uccisione di Giulia Cecchettin, è molto incentrato su cosa si ritiene essere una famiglia. Il titolo stesso del Ddl Roccella sul contrasto alla violenza di genere approvato dal Senato in via definitiva parla di “violenza domestica”, qualcosa quindi che si consuma tra le mura di casa. Anche il ridicolo e inconsistente richiamo al “patriarcato” come causa di questi fenomeni ha a che fare con la famiglia, in questo caso la famiglia appunto patriarcale. L’attentato terroristico a Pro Vita & Famiglia testimonia ulteriormente che l’obiettivo è colpevolizzare la famiglia addossandole le responsabilità del “femminicidio”.

L’idea cavalcata è quindi quella della “famiglia patogena”. Sarebbe essa a provocare patologie nei comportamenti, insicurezze, carenze formative, difficoltà di relazioni, ansie e atti di violenza. L’espressione “famiglia patogena” è stata di recente coniata da Massimo Cacciari in un passaggio della trasmissione Otto e mezzo, condotta da Lilly Gruber [vedi QUI]. La famiglia, secondo il professore, è qualcosa di storico, si è sempre evoluta in molte forme e oggi ha completamente abbandonato l’idea di essere qualcosa di naturale. Proprio questo passaggio dalla natura alla storia, da una visione statica e chiusa ad una dinamica e aperta, creerebbe quelle patologie che poi si esprimono anche in forme violente. La soluzione sarebbe di non rivendicare più alcuna caratteristica naturale per la famiglia, perché questo farebbe continuare la tensione attuale, ma di transitare le menti verso una piena accettazione della sua storicità e pluralità di sensi, senza più rimpianti patogeni. A questo le persone vanno aiutate, secondo Cacciari, tramite la scuola in primo luogo e poi tramite gli amici, affinché non si sentano più a disagio nelle nuove forme di famiglia. In questo modo viene appoggiata la politica governativa di introdurre nuovi percorsi di educazione alle relazioni sentimentali e alla diversità.

Avere una storia, tuttavia, non significa essere storia. Ciò vale anche per la famiglia. Essa ha certamente assunto varie forme organizzative e di vita. La famiglia patriarcale – quella che secondo i sostenitori del femminicidio a base familiare esisterebbe tuttora e sarebbe la causa del disastro – non esiste più da tempo. Si tratta però di cambiamenti sociologici perché, anche nel caso della famiglia mononucleare, sempre di famiglia si tratta. La famiglia ha avuto e ha una storia, ma non è storia, perché questo significherebbe che non esista la famiglia ma solo le famiglie, caso per caso. Significherebbe non poterle più chiamare nemmeno con lo stesso nome di famiglie perché non ci sarebbe nessuna struttura universale e permanente che le unifichi, nemmeno per analogia. Significherebbe, infine, che il tempo non sia più il “luogo” in cui ogni famiglia si costruisce, ma solo la successione priva di un senso unitario delle situazioni di vita che, nominalisticamente, chiamiamo famiglia.

L’abbandono della visione naturale della famiglia la trasformerebbe in una semplice aggregazione di cittadini. Come far parte di un circolo del tennis o di un coro amatoriale, la famiglia sarebbe un’aggregazione elettiva, la cui unica motivazione sarebbe la scelta di chi decide di parteciparvi. È stato questo il caso, per esempio, della legge Cirinnà che, legiferando sulle unioni civili, chiama famiglia un’aggregazione di individui. Che differenza c’è tra un’aggregazione di individui e una famiglia? La prima è un accostamento interessato e strumentale di soggetti intesi come unità numeriche che si sommano gli uni con gli altri; la seconda è un’integrazione complementare di un uomo e una donna che cessano di essere individui isolati e di utilizzare criteri strumentali nei loro rapporti, per vivere insieme secondo una regola indisponibile, non più loro ma della coppia-famiglia. Questo non può derivare dalla semplice aggregazione a base volontaristica, con la quale l’individuo non esce mai da sé stesso, ma richiede di rispondere ad un’inclinazione naturale presente in noi ma che non proviene da noi. Questa è precisamente l’idea di natura umana, la quale inclina naturalmente la donna e l’uomo al “coniugio”, alla procreazione e all’educazione della prole.

Se la famiglia varia nei tempi e nei luoghi, come dice Cacciari, per forza diventa patogena. Non, quindi, perché naturale ma perché ridotta a tempo e spazio. La persona è così sperduta e sradicata, dissolta in esperienze prive di continuità e coerenza, dentro le forme aggregative apparentemente più varie ma nella realtà imposte e rese artificialmente naturali. L’innaturale elimina l’indisponibile e, quando su tutto si può mettere le mani, il conflitto e la violenza sono inevitabili. La natura viene interpretata á la Cacciari come qualcosa di astratto e imposto. Invece è la nostra vita libera perché protetta nei suoi elementi indisponibili. La nostra natura è l’alfabeto con cui possiamo avere legami veri, appaganti e privi di violenza.

6100.- Le sciacalle di certa politica lordano la memoria di una povera figlia, mirando allo scranno.

La donna è il simbolo dell’amore, anzitutto materno, ma per tutti è anche il simbolo della libertà con il suo essere libera di scegliere se essere madre, moglie, compagna, lavoratrice. L’emozione suscitata dalla crudeltà dell’assassino e l’intento di non rendersi partecipi di uno scontro, che è già difficile chiamare ideologico, hanno consigliato al Governo di unirsi alle forze dell’opposizione per legiferare a difesa delle donne. Anche se questo ha agevolato le adoratrici di satana, un manipolo ristretto, nella strumentalizzazione dell’omicidio contro ogni struttura naturale di famiglia e società, tuttavia ha consentito di conoscere i pericoli che corre questa società.

Le transfemministe tentano la via della battaglia ideologica parlando di patriarcato, che non sanno cosa sia perché la famiglia patriarcale ha ceduto alla famiglia borghese da lungo tempo. Sono, comunque, libere di copulare con maschi svirilizzati, come e quando desiderano, ma ha colpito la sensibilità degli italiani la sorella della vittima con i simboli di satana sulla felpa, che, a cadavere ancora fresco, tenta il proselitismo, avanti alle telecamere. Libera anche di questo? ma non ora.

Aggressione a Pro Vita: torna il clima degli anni Settanta

L’attacco rivendicato dal collettivo transfemminista non è un esito incidentale, ma l’esito di una campagna politica che con la difesa delle donne dalla violenza ha ben poco a che vedere, ma è invece un chiaro tentativo di assalto ideologico.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Eugenio Capozzi, 29_11_2023

La violenta aggressione alla sede dell’associazione Pro Vita e Famiglia, perpetrata dal collettivo “transfemminista” Non Una di Meno in margine alla manifestazione nominalmente indetta contro la violenza sulle donne sabato scorso 25 novembre a Roma, e ancor più l’agghiacciante rivendicazione di quell’aggressione con un linguaggio che ricorda i peggiori schemi del terrorismo degli anni Settanta, non rappresentano un esito incidentale, ma il logico coronamento della campagna politica di cui quella manifestazione, come molte altre, è stata parte. Una campagna che con il tema della difesa delle donne dalla violenza ha ben poco a che vedere, ma è invece un chiaro tentativo di assalto ideologico e di destabilizzazione politica e culturale.

Occorre riflettere bene su quello che è avvenuto in Italia a partire dal 18 novembre, data del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, uccisa in circostanze atroci dal suo ex fidanzato. Approfittando dell’emozione suscitata da quel singolo episodio di cronaca nera, un consistente blocco politico-mediatico ha messo in piedi un’operazione propagandistica clamorosa – già preparata peraltro da mesi e anni di martellante indottrinamento nello stesso senso in ogni sede della cultura e dell’intrattenimento – in cui l’Italia è stata rappresentata come un inferno per le donne, un Paese “patriarcale” popolato da legioni di maschi violenti, oppressori, dominatori, per cui si è intimato addirittura a tutti gli uomini in blocco di fare mea culpa e chiedere scusa (e molti sventurati, per sfare sfoggio di femminismo, si sono addirittura prestati a questa messa in scena degna dell’Urss di Stalin).

Si tratta di una rappresentazione completamente scollegata dalla realtà quotidiana, dai dati misurabili, dalle statistiche, che convergono al contrario nell’indicare il nostro Paese come uno di quelli in cui in Europa si verificano meno “femminicidi” e stupri. E si tratta di una operazione spudoratamente ipocrita, volutamente strabica, in quanto omette di specificare che una componente statisticamente significativa della violenza sulle donne – in Italia come, ancor più, nei Paesi dell’Europa settentrionale – è legata all’immigrazione da Paesi in cui, al contrario che in quelli europei contemporanei, la condizione femminile si trova in uno stato di soggezione al dominio di una società quella sì “patriarcale” nel senso peggiore e più violento del termine.

Non è un caso se gli episodi di violenza ai danni delle donne che conquistano la “prima pagina” dei media, e attirano legioni di articoli di denuncia, sono esclusivamente quelli che vedono come responsabili uomini italiani autoctoni, laddove invece quelli messi in atto da immigrati vengono sistematicamente svalutati e relegati nelle brevi di cronaca, quando non viene addirittura taciuta la nazionalità del colpevole.

D’altra parte il corto circuito tra questo inorridito coro “antipatriarcale” e il relativismo culturale altrettanto imperante nel “progressismo” nostrano, con le sue propaggini di immigrazionismo selvaggio, è ben evidenziato dal fatto che alla citata manifestazione “femminista” romana il tema della “violenza strutturale contro le donne e le libere soggettività” è stato accoppiato, non si comprende in base a quale contorta logica, ad attacchi violenti contro Israele, al totale silenzio sulle orrende violenze contro le donne perpetrate da Hamas, all’invocazione di ancor più immigrazione, senza minimamente considerare un problema, tra gli altri, il rapporto tra fondamentalismo islamico e assoggettamento femminile.

Tale spregiudicata e disonesta ondata di indottrinamento può essere spiegata,  a mio avviso, secondo due direttrici fondamentali. La prima è la  precisa volontà, da parte dell’opposizione politica saldata al mainstream mediatico e culturale, di colpire con ogni pretesto il governo di Giorgia Meloni, montando e strumentalizzando contro di esso qualsiasi episodio di cronaca: in questo caso, per additare l’attuale esecutivo come responsabile “a prescindere” di ogni sopruso subìto dal genere femminile, in quanto conservatore, di destra, quindi maschilista (benché guidato da una donna, che in tal caso viene persino privata della sua appartenenza di genere, in quanto “traditrice”). La seconda è l’utilizzo di ogni occasione, da parte del compatto blocco sopra citato, per importare e imporre a tappe forzate nel nostro Paese tutti gli aspetti dell’ideologia progressista woke attualmente egemone nei Paesi anglosassoni, fondata sul soggettivismo totale e sul rifiuto di ogni struttura naturale di famiglia e società. Un’importazione che, quando appunto sulla spinta di risposte emotive riesce a superare le resistenze di elementare buonsenso tipiche di Paesi di tradizione cattolica più solida, dotati di strutture familiari più coese, in cui la secolarizzazione radicale è arrivata più tardi e in forma più attutita, provoca smottamenti clamorosi, con contrapposizioni di una violenza inusitata (come è accaduto in altre nazioni in ciò analoghe, come Spagna, Portogallo, Irlanda).

La fusione tra queste due componenti ci aiuta a contestualizzare l’enorme sproporzione tra la natura dei fatti e la spropositata tensione politica che a partire da essi è stata costruita nelle ultime settimane. E soprattutto ci aiuta a comprendere perché certe esagitate manifestanti “anti-patriarcali” abbiano considerato naturale e giustificabile un’esplosione di violenza altrimenti inspiegabile contro un’associazione cattolica che si batte contro l’aborto, l’eutanasia, l’indottrinamento Lgbt nelle scuole, l’utero in affitto.

Ciò avviene, evidentemente, perché a quanti hanno sposato la campagna ideologica di criminalizzazione dell’Italia come Paese “patriarcale” non importa nulla di promuovere una prevenzione fattuale ed efficace delle violenze sulle donne. Essi vogliono soltanto colpire in ogni modo la famiglia naturale, la paternità e la maternità, la fecondità. Il loro nemico sono innanzitutto i cristiani, e tutti coloro che continuano a mantenere in piedi la continuità della nostra civiltà con le sue radici. Il loro obiettivo, in sintonia con i fanatici woke che essi scimmiottano, è quello di ridurre la società a una somma disgregata di individui isolati, anaffettivi, diffidenti gli uni degli altri, incapaci di qualsiasi relazione solida, dediti soltanto ossessivamente alla ricerca di gratificazioni egotistiche ed effimere.

6093.- Vogliono imporre l’educazione affettiva e sessuale in salsa Gender nelle scuole dei nostri figli.

Nel nome di Giulia e con una legge vogliono rafforzare la confusione nell’identità sessuale di bambini e adolescenti con corsi e attività ideologiche nelle scuole, con la “carriera alias” e i “bagni neutri”. Si autoincensano perché, per la prima volta, sono tutti d’accordo, ma sono senza vergogna. Politici come Zan, Boldrini, Schlein, Cirinnà e tutti i media di sinistra, con i loro servi nelle TV, stanno barbaramente strumentalizzando il tragico omicidio di Giulia Cecchettin per i loro piani politici. Si chiama sciacallaggio. Cosa dire del governo che tiene il bordone? Il Governo e il partito di maggioranza devono onorare i voti, rispettare gli elettori e non accompagnare questo bombardamento mediatico che aumenta l’emulazione. Il Governo possiede gli strumenti per difendere la libertà educativa della famiglia: li adoperi!

Rispettare le deviazioni non vuol dire insegnarle.

Provita&famiglia scrive:

Ogni giorno in centinaia di scuole italiane si svolgono lezioni, attività, corsi su “affettività e sessualità” profondamente intrisi di ideologia Gender.

L’ideologia Gender confonde i bambini sulla loro identità sessuale. Afferma che il sesso biologico maschile o femminile non determina l’essere uomini o donne, perché le persone, anche i bambini, possono scegliere la propria “identità di genere” sulla base dei propri “sentimenti”.

Uomo, donna, transgender, genderfluid, pangender, agender… le “identità di genere” sono infinite.

Gran parte di questi progetti nelle scuole sono spesso promossi o gestiti da attivisti dei collettivi omosessuali e transessuali (LGBT), gruppi politici che mirano a diffondere tra i più giovani la loro ideologia sulla famiglia, sulla sessualità, il matrimonio, i figli, l’utero in affitto.

Ora si aggiunge l’ennesima follia, la cosiddetta “carriera alias”: su pressione del movimento LGBT le scuole permettono ai ragazzi di scegliere il nome maschile o femminile con cui essere chiamati e nominati in tutti i documenti, a prescindere dal loro sesso biologico. 

Di conseguenza, le scuole aprono dei “bagni neutri” dove ragazzi e ragazze possono accedere a prescindere dal loro sesso biologico.

Il diritto dei genitori di educare i propri figli sulla base dei convincimenti familiari viene totalmente scavalcato.

Questo sopruso, questo enorme lavaggio del cervello di massa nelle scuole italiane – finanziato con i soldi pubblici di tutti i contribuenti – deve cessare!

Firma subito la petizione per chiedere al Parlamento di approvare una legge che vieti l’indottrinamento gender nelle scuole dei figli degli italiani rispettando il diritto di priorità educativa della famiglia!

6087.- L’educazione dei figli si fa dentro il rapporto vivo che si chiama famiglia. Non bastano le leggi e la scuola.

Riporto qui l’articolo di Leonardo Lugaresi che potete leggere sul Blog di Sabino Paciolla perché provo nausea per la strumentalizzazione del fatto tragico che ne sta facendo la politica di sinistra, le esperte di violenza, palesemente in cerca di carriera, insieme ai mezzi d’informazione. Ho ascoltato una dotta esposizione del prof. Umberto Galimberti che apprezza l’evoluzione sociale della donna in contrapposizione a quella dell’uomo. Certamente, ma sempre non condivido questo rapportare la donna all’uomo perché la donna mia non è un sosia dell’uomo che deve rincorrere. È il simbolo della libertà: libertà di essere madre, moglie, compagna, lavoratrice, rimarrà una società maschilista, quella della donna sarà una perenne rincorsa. Volendo esemplificare attraverso le vittorie del femminismo, dico che si è anteposto il diritto all’aborto al diritto a poter sostenere la maternità. Così, non condivido la fiducia nella legge o nel corpo insegnante, intendendolo tutto, di saper educare all’affettività. Ripetiamoci che l’educazione dei figli si fa dentro il rapporto vivo che si chiama famiglia. Non bastano le leggi, i sociologi, la scuola, figuriamoci le cutrettole.

Vittima e assassino.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla, 22 novembre 2023

Vittima e assassino. Il caso di Giulia Cecchetin.
Giulia Cecchetin, casa (ANSA)

Poco ho letto e poco ho ascoltato a proposito dell’assassinio di Giulia Cecchettin. La coltre di chiacchiere invereconde e futili e il tanfo di strumentalizzazione ideologica che ho scorto e “annusato” intorno a quel dolore tremendo, sono bastati a farmi stare lontano. Mi tengo dunque all’essenziale, che è: compassione e preghiera per la vittima e per le persone a lei più vicine; e compassione e preghiera, di senso e di segno diverso, ma forti e convinte, per l’assassino e la sua famiglia.

Solo una cosa mi permetto di aggiungere – e se è una banalità penso che non farà gran danno, tanto è grande il mucchio di quelle che già si stanno dicendo. La solfa del patriarcato, che tanti in questi giorni ripetono come pappagalli, proprio non si può sentire tanto è sciocca.

«La patologia di chi ha ucciso Giulia non si chiama patriarcato. Il problema è molto più serio»

Lasciamo da parte il fatto che la cultura del patriarcato, in sé e per sé, come categoria dell’antropologia culturale, è una cosa seria, rispettabile e complessa. (E va a sapere se, sul piano storico, è anche più antica del matriarcato come pensava Maine a metà dell’Ottocento, o più recente come voleva Bachofen negli stessi anni. Ma queste son cose da professori. E chissà se, sul piano valoriale, il patriarcato è complessivamente meglio o peggio del matriarcato. Ma queste son cose da filosofi).

Lasciamo da parte anche il fatto che, qualunque cosa sia stata e qualunque giudizio se ne possa dare, il patriarcato è comunque una cosa morta e sepolta da tempo. Di patriarchi non se ne vedono più in giro da tempo immemorabile (a parte il fatto che non tutti saremmo disposti a considerarli in blocco una manica di delinquenti: alcuni di noi, ad esempio, pensano che Abramo, “nostro padre nella fede”, non fosse poi così male). Di più: noi siamo nel tempo sventurato in cui mancano i padri (gli “assenti inaccettabili”, come titolò felicemente un suo libro Claudio Risé: epiteto con cui mio figlio ogni tanto amabilmente si rivolge a me). Altro che patriarchi.

No, c’è una ragione ben più profonda e drammatica per cui quelle chiacchiere si rivelano non solo stupide ma anche maligne, ed è che distraggono dal fissare ciò che, se lo guardassimo con occhi onesti, sarebbe evidente: cioè che Filippo Turetta, l’assassino, ha fatto quello che ha fatto perché non è stato capace di sopportare una perdita. Anche senza sapere niente della sua storia, delle circostanze, degli antecedenti remoti e immediati del delitto, anche senza “aver letto le carte” come dicono gli avvocati, di questo possiamo essere certi.

E la seconda cosa fondamentale che l’esperienza ci dice è che non si tratta di un caso isolato, bensì di un fenomeno sociale: tante, troppe persone (uomini e donne, non è questo il vero punto) oggi non sono più capaci di sopportare una perdita, o meglio la perdita, quella della cosa / persona (o delle cose / persone) a cui hanno legato la propria consistenza umana: alcuni uccidono per questo, altri si uccidono, altri danno di matto o cadono in depressione … la fenomenologia è la più varia, e tocca ai competenti indagarne e chiarirne le forme e le dinamiche. A tutti, ma proprio a tutti, tocca invece interrogarsi seriamente sul perché. Perché non siamo più in grado di perdere qualcosa? E come si esce da questa selva oscura? Non c’è qualcosa che non si può perdere?

Leonardo Lugaresi

I “mea culpa” dei maschi, le leggi, i corsi a scuola «non sono risposte feconde di cambiamento, si ha paura di andare a fondo della questione: il rapporto senza alterità. Sempre più grave e diffuso». Intervista a Vittoria Maioli Sanese

Caterina Giojelli, 21/11/2023

Giulia Cecchettin e Filippo Turetta
Giulia Cecchettin e Filippo Turetta (foto Ansa)

Come le matriarca proteggono i figli di fronte alla vita. Questa nota trae soltanto spunto dalla vicenda tragica di Giulia e si riferisce all’intenzione della politica di voler risolvere problemi esistenziali e caratteriali con una legge. La pretesa della politica di far fronte ai femminicidi con una legge merita una riflessione. Il riferimento della legge al crescendo di queste tragedie farà capo sulla prevenzione, mentre l’aspetto sanzionatorio deve per forza di cose basarsi sui fatti compiuti. Il compito di preparare i giovani alla vita nei suoi aspetti affettivi resta della famiglia. Per famiglia matriarcale intendo quella in cui la madre e, comunque, la donna ha una posizione di privilegio, di potere nella vita famigliare e di protezione ossessiva verso i figli maschi.

I “mea culpa” dei maschi, le leggi, i corsi a scuola «non sono risposte feconde di cambiamento, si ha paura di andare a fondo della questione: il rapporto senza alterità. Sempre più grave e diffuso». Intervista a Vittoria Maioli Sanese

Appena è stato ritrovato il suo corpo senza vita e arrestato il suo ex fidanzato, Giulia Cecchettin è diventata subito «la vittima numero 105», il «centocinquesimo femminicidio dall’inizio dell’anno». Governo e opposizione hanno annunciato «subito una legge antiviolenza», politici e studenti «subito corsi di affettività e sessualità a scuola», esperti e giornalisti «subito la campagna di sensibilizzazione per riconoscere i segnali d’allerta».

E gli uomini hanno iniziato subito a pubblicare i loro «mea culpa», dal vicepremier Tajani («come uomo chiedo scusa a tutte le donne, a cominciare da mia moglie e da mia figlia per quello che fanno gli uomini») a Piero Pelù («mi vergogno di essere uomo»), fino a Gianni Cuperlo («il problema siamo noi uomini»), tesi fatte proprie da influencer e utenti di ogni risma e pubblicate a tutto spiano su internet, giornali, social network. «Ma quando si prende la china del mea culpa generalizzato non si arriva affatto al problema, che è molto più profondo, non si arriva a nessun cambiamento», spiega a Tempi la psicologa della coppia e della famiglia Vittoria Maioli Sanese, da oltre cinquant’anni alle prese con le relazioni uomo-donna (qui avevamo già affrontato con lei il tema della violenza e delle molestie) e genitori-figli.

Si sono levate migliaia di voci e sono stati dedicati centinaia di articoli a Giulia Cecchettin, barbaramente uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta. Cosa l’ha colpita di più?

La totale difesa dei genitori del ragazzo, il «nostro bravo ragazzo», che ripetevano «non capiamo come possa essere successa una cosa del genere», «non aveva dato mai nessun problema». Perché era evidente fin dall’inizio che il loro ragazzo era l’autore di un delitto. Questa impossibilità di affrontare la verità dice che per anni i genitori hanno censurato, o non sono stati capaci di vedere, tutti i segnali che probabilmente il ragazzo mandava, oppure che li hanno visti senza capirne la pericolosità. Ma per arrivare a un omicidio significa che è in corso una patologia molto importante.

Sui giornali è stato dato un nome a questa “patologia”: Filippo ha ucciso perché è un uomo, lo dicono gli uomini stessi.

Allora gli uomini, così come chi scrive che il problema sono gli uomini, ancora una volta non hanno capito il problema. Non hanno capito che l’uccisione di Giulia e quella di altre donne prima di lei costringe a rispondere a domande di fondo. E cioè: cosa vuol dire essere uomini? Dove si esprime la nostra mascolinità? Chi è la donna per noi? In questo clima saturo di prese di posizione sul femminicidio iniziano a comparire delle domande molto serie, ma se vengono sistemate con i «non capiamo come possa essere successo» o i «mea culpa» generalizzati, come se tutti gli uomini potessero diventare un Filippo, allora non cambierà nulla. Perché queste non sono risposte feconde di cambiamento. Sono risposte che accomodano le coscienze invece di portare a guardare il nocciolo della questione: come stiamo trattando il nostro “umano” oggi. Non solo le donne, l’altro. Anche questo mi ha colpito molto.

Lei pensa che l’annuncio immediato di una legge, l’inasprimento delle pene, la guida per riconoscere “i segnali spia”, i corsi su affettività e sessualità cambieranno la situazione? La Svezia, come ha ricordato il ministro Roccella, ha un tasso di violenza contro le donne e un numero di femminicidi più alto rispetto all’Italia eppure ha l’educazione sessuale nelle scuole. E il numero di femminicidi è maggiore nei paesi europei più progressisti e meno patriarcali dell’Italia.

Io penso che gli annunci siano la conferma di come andiamo alla ricerca di soluzioni immediate e mai prese dal “dentro di sé”. Mi riferisco alle soluzioni demandate a Stato, politica, magistratura. Possiamo fare tutte le leggi del mondo, ma se manca il passaggio dentro di sé, il cambiamento della persona, non succederà nulla di significativo. Perché trovare la risposta chiude la persona, trovare le soluzioni chiude, chiude sempre. Il cambiamento nasce dal mantenere viva la domanda, dalla ricerca, dall’andare a fondo. Sembra che oggi in Italia si abbia paura di andare a fondo del problema, che ci si accontenti di come viene “letto” il problema. Un problema molto più serio di quanto lo percepiamo se crediamo bastino i corsi a scuola per affrontarlo.

La scuola non è un luogo adeguato?

La scuola è sempre stato il primo partner privilegiato della famiglia nella crescita dei ragazzi. Per un ragazzo è “significativo” incontrare quel maestro piuttosto che un altro, quell’ambiente piuttosto che un altro eccetera, soprattutto nell’età adolescenziale. Ma non possiamo interrogarci su quale sia il compito specifico della scuola senza interrogarci su quale sia quello della famiglia. Oggi questo rapporto scuola-famiglia è in crisi: non sappiamo come dovrebbe essere o cosa dovrebbe diventare perché la famiglia ha perso la sua identità. È diventata un luogo di benessere. Un luogo dove si risponde ai bisogni dei propri figli, punto. E questo è un problema serio. Che non si risolve a scuola.

Cosa c’entra con l’assassinio di Giulia?

Forse per deformazione professionale ho visto subito il sentimento di possesso estremo che il ragazzo portava avanti nel rapporto con la sua fidanzata: la sola idea che lei prendesse una laurea prima di lui, aprendosi ad altri orizzonti, lo mandava in crisi. Per lui la vita di Giulia dimostrava che la sua valeva poco. La ragazza era un modello di efficienza, capacità e sicuramente di temperamento e volontà a cui lui non poteva arrivare. Questo è considerato uno dei rapporti più patologici che esistono: il rapporto in cui manca l’alterità, in cui l’altro non è “un altro”, ma ha solo una funzione in relazione a me stesso. La domanda che dovremmo farci allora è questa: come mai un ragazzo così giovane aveva già questo tipo di rapporto? Perché aveva questa esigenza profonda di ammazzare? Certamente questo omicidio non nasce da un raptus improvviso, ma è maturato nel tempo, ed era esplicita l’intenzione di uccidere fino a travolgere la coscienza del ragazzo. Fino a distruggere quello che di umano e sano portava dentro di lui. Un tipo di amore che niente ha a che vedere con l’amore. Perché?

Perché è figlio del patriarcato, scrivono i giornali.

No assolutamente, non sono d’accordo. Un ragazzo così giovane e possessivo non è figlio del patriarcato, ma, come molti, figlio del narcisismo. Lavoro con molti genitori e insisto da tantissimi anni su questo aspetto: quello del figlio guardato, concepito, riconosciuto, come funzione propria. Il figlio bravo, perfetto, riuscito perché se così non fosse “significa che noi abbiamo sbagliato tutto”. Questo narcisismo che diventa intollerabilità del proprio limite, intollerabilità della frustrazione, perfino di avere un figlio che ha un po’ di problemi, consegna al genitore un’idea di figlio assolutamente fuori dalla realtà. Un figlio pensato “come dovrebbe essere” che soppianta il figlio reale da conoscere, da capire, e soprattutto da aiutare. Io non credo che questo sia frutto del patriarcato, ma di un estremo narcisismo. Molto, molto presente oggi. Tant’è vero che si manifesta con la “protezione totale” che si ha verso i bambini fin da quando sono molto piccoli, il sentimento meno genitoriale che possa esistere.

Perché la protezione non è un sentimento genitoriale?

Perché comunica al figlio una falsità totale: a te, figlio, non deve succedere nulla. Non deve succedere una sgridata degli insegnanti, non deve succedere che una ragazza ti dica di no. Devi stare bene. Sicuramente è molto pericoloso che la famiglia sia diventata il luogo del benessere mentre la tecnologia, la rete, i nuovi media (Tempi ne aveva parlato con la dottoressa Sanese quindr) si sono impossessati del potere di dire al ragazzo chi è, e chi sarà l’uomo che deve diventare. Ogni rapporto porta con sé la domanda: chi sei tu per me? Soprattutto quello uomo-donna. Ma la risposta per le nuove generazioni è stata appaltata e affidata a internet. A una “intelligenza artificiale” deturpante l’umano. Io mi stupisco sempre di come i genitori non si accorgano di questo, travolti dalla paura di far sentire i propri figli diversi dagli altri, che possiedano meno degli altri, che debbano affrontare più dolore o fatica degli altri. Questo dice molto dell’incapacità dei genitori di affrontare la sconfitta e la frustrazione. Ma la protezione è un velo che nasconde tutto ciò che lievita prepotentemente dentro il cuore e la mente di un ragazzo. Fino a diventare patologia.

Molti stanno invitando i genitori di figli maschi ad educarli, rieducarli, al rispetto delle donne, propongono linee guida, letture.

Io mi rifiuto di dire ai genitori che cosa devono fare, perché l’educazione non si fa con i princìpi, ma dentro un rapporto vivo. Siamo abituati a ritenere il nostro pensiero e il nostro giudizio assoluto, senza ricercare un punto di riferimento e di confronto, senza sentire l’esigenza di dialettizzarlo con qualcuno. E la scomparsa di questa esigenza di confronto credo sia uno dei frutti del narcisismo di cui parlavamo prima. Certamente dovremmo rispondere a questa domanda: nella nostra famiglia si esercita la dignità? Si ha la coscienza della propria dignità? Questa è una domanda fondamentale. Perché io vedo nella sparizione di un’esperienza di dignità in famiglia l’impossibilità per i ragazzi di riconoscerla. Ogni intervento fatto a scuola, o nell’adolescenza, resterà un intervento intellettuale se la dignità non si è fatta esperienza e carne quotidiana in famiglia. A cosa serve “capire” che si devono rispettare le donne se non si è fatta esperienza di questo rispetto? Il cambiamento non può che essere dato dall’unità di mente e cuore con la vita quotidiana: in una parola, dall’esperienza di un altro accanto a noi.

6080.- Il papà di Giulia: “L’amore vero non umilia, non picchia, non uccide” 

Meglio una legge che la famiglia? Schlein: “Facciamo fare un passo in avanti al paese. Basta patriarcato”, “subito una legge nelle scuole”. Immediato il tentativo di sostituire lo Stato alle famiglie. Sappiamo bene quale amore sia coltivato dalla sinistra e cosa vorrebbero insegnare nelle scuole.

La segretaria del Pd parla di “cultura tossica del patriarcato e della sopraffazione” che “ha attecchito anche nei più giovani. Se non ci occuperemo di educazione al rispetto e all’affettività sin dalle scuole non fermeremo mai questa mattanza. E non basterà mai aumentare solo leggi e punizioni che intervengono dopo le violenze già compiute: serve l’educazione, serve la consapevolezza”.

La legge non sostituirà mai la famiglia. Ma quale patriarcato? Perché non chiamare in causa anche il possesso delle matriarca sui figli maschi? L’orrore non concede di chiamare vittime entrambi questi nostri ragazzi, ma colpisce che nessuno dei due abbia trovato un aiuto, un confidente con cui condividere il proprio malessere. Si chiama in causa la politica. Se la famiglia non basta, in questa nostra società ci sarebbe già una regola per l’amore, anzitutto fraterno ed è il messaggio di Cristo e mi domando: “A cosa serve oggi avere una chiesa cattolica, addirittura uno Stato, un tempio nel centro di ogni quartiere, di ogni paese e anche di più; che cosa insegnano a questi preti-amministratori, spesso imprenditori della ristorazione e dai quali a volte è più sano che i giovani stiano distanti?” Quanti di loro conoscono le nostre case? E i frati, sintesi meravigliosa dell’umano con la fede nel divino, esistono ancora? Vidi un’altra società, più ricca di sentimenti, di condivisioni, di circoli e di ritrovi. Oggi, le chiese non sono più il ritrovo domenicale né i caffè alla sera e le case comunali non hanno un luogo per i cittadini. Ricevono uno alla volta, per appuntamento, se ricevono. Troppi fra noi, non solo giovani, sono soli.
Vergogna per l’informazione aver diffuso urbi et orbi particolari agghiaccianti, senza alcun rispetto. Serve una legge anche qui o è questione di educazione e di sensibilità?

Cecchettin, Meloni: “Notizia straziante”. Schlein chiede “subito una legge”, Valditara: “È pronta” 

Da Il Secolo d’Italia del 19 Novembre 2023, di Stefania Campitelli.

“Facciamo fare un passo in avanti al paese. Basta patriarcato”. Così Elly Schlein alla notizia del ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, rivolgendosi alla premier per approvare subito una legge “che introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia”. Proposito condiviso dal governo. “Apprezzo che l’onorevole Schlein condivida con noi l’idea di educare al rispetto nelle scuole contro la violenza e la cultura maschilista. Già ci stiamo lavorando”, risponde a stretto giro di posta il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. “Dopo aver consultato associazioni studentesche, associazioni dei genitori, sindacati, ordine degli psicologi la proposta è pronta e verrà nei prossimi giorni presentata ufficialmente”.

Cecchettin, Meloni: una notizia straziante

La premier Giorgia Meloni sui social esprime la sua vicinanza alla famiglia della ventitreenne uccisa dal suo ex fidanzato, accusato di tentato omicidio e cercato dall’Interpol. “Ho seguito con apprensione gli aggiornamenti sul caso”, scrive la premier. “E, fino alla fine, ho sperato in un epilogo diverso. Il ritrovamento del corpo senza vita di Giulia è una notizia straziante. Ci stringiamo al dolore dei suoi familiari e di tutti i suoi cari. Mi auguro sia fatta presto piena luce su questo dramma inconcepibile. Riposa in pace”.

Schlein: subito una legge nelle scuole

La segretaria del Pd parla di “cultura tossica del patriarcato e della sopraffazione” che “ha attecchito anche nei più giovani. Se non ci occuperemo di educazione al rispetto e all’affettività sin dalle scuole non fermeremo mai questa mattanza. E non basterà mai aumentare solo leggi e punizioni che intervengono dopo le violenze già compiute: serve l’educazione, serve la consapevolezza”.

Valditara: la legge è pronta, presto alle Camere

Come in occasione del film di Paolo Coltellesi, C’è ancora domani”, Schlein torna a rivolgersi a Meloni. “Almeno su questo lasciamo da parte lo scontro politico e proviamo a far fare un passo avanti al Paese. Approviamo subito in Parlamento una legge”. Una richiesta che non cade certo nel vuoto: il governo è al lavoro da tempo in questa direzione. La prevenzione e la battaglia culturale contro la violenza sulle donne è stata una delle priorità dell’agenda dell’esecutivo fin dall’insediamento. ”Condivido in pieno l’appello della Schlein”, dice a sua volta il sottosegretario all’Istruzione Paola Frassinetti. “Abbiamo già inserito nelle linee guida la cultura del rispetto e dell’affettività e ribadiamo che va insegnata a scuola. Bisogna demolire una cultura retrograda che ancora persiste. E spiegare bene ai giovani che il possesso e l’amore sono due cose diverse”.

5803.- Un voto contro la bestemmia della maternità.

L’utero in affitto è la bestemmia della maternità. E’ noto da tempo che, dal punto di vista biologico, qualcosa del figlio resti nella madre, e viceversa, anche dopo la recisione del cordone ombelicale, a conferma del fatto che la maternità (concetto che sempre più sta virando nell’ambito della pura percezione emotiva) ha a che fare con vincoli che sono profondamente significativi dal punto di vista biologico.

Utero in affitto reato universale, un buon primo sì

Approvato a Montecitorio il testo che qualifica come reato la maternità surrogata, anche se commesso all’estero. Ora passa al Senato. Il Ddl è raggirabile ma la sua ratio è positiva. E ricorda che gli esseri umani non sono cose.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Tommaso Scandroglio, 28_07_2023

Il testo che qualifica la pratica della maternità surrogata come reato universale è passato due giorni fa alla Camera. Ora l’attende l’esame da parte del Senato. Già oggi, ex lege 40/2004, la pratica dell’utero in affitto è reato se compiuta sul suolo italiano. Se passasse la legge, qualsiasi cittadino italiano che all’estero affittasse l’utero di una donna, per portarsi a casa un bebè, potrebbe finire dietro le sbarre. Già a suo tempoavevamo commentato il testo di legge. Qui vogliamo aggiungere qualche altra riflessione.

La ratio della bozza è da giudicarsi sicuramente in modo positivo, però, come si dice, fatta la legge trovato l’inganno. Uno dei possibili raggiri al dispositivo della legge si potrebbe realizzare in questo modo. La donna che affitta l’utero potrebbe comparire agli occhi dello Stato italiano come la compagna straniera di chi in realtà e lontano dagli occhi dei giudici italiani ha affittato l’utero, compagna che è rimasta incinta a seguito di fecondazione artificiale e che avrebbe poi deciso di non riconoscere il figlio, una volta nato, perché in rotta con il (falso) compagno. Niente utero in affitto quindi, ma solo una storia di amore da cui è nato un figlio e che poi è naufragata. In tal modo il committente-falso compagno potrebbe tornare in Italia figurando legittimamente come unico genitore. Il quale unico genitore poi potrebbe trovare una “nuova” compagna (o “nuovo” compagno, se gay), la quale non sarebbe altro che la vera partner del committente maschio, pronta ad adottare il bambino. Un giochino che si può fare anche se quest’ultima fosse la moglie (il diritto non vieta di avere amanti ingravidate).

Altro escamotage valido solo per i conviventi, etero o omo che siano. La legge che verrà punisce unicamente i cittadini italiani. Basta quindi che uno dei membri della coppia sia straniero e il gioco è fatto: quest’ultimo/a si reca in un Paese dove è legale la maternità surrogata per i single oppure non è vietata per i single (seppur in quest’ultimo caso le garanzie per diventare padre o madre siano assai più fragili). Il/la finto/a single, avuto il bambino, torna in Italia con il neonato che potrà essere adottato dal vero partner (a patto che non sia il marito o la moglie) rimasto sul suolo patrio. Trucchi forse non esperibili in tutti gli Stati dove è legale o meramente tollerata la maternità surrogata, ma che in qualche nazione un po’ più permissiva possono dare i loro frutti. Insomma, con un po’ di impegno è possibile farla franca.

Nessuna legge è perfetta, soprattutto sul piano dell’efficacia, ossia sul piano della produzione concreta degli effetti previsti dal testo di legge. Ciò detto, questo Ddl da una parte restringe di molto il raggio d’azione di chi voleva diventare genitore affittando la cavità uterina delle donne all’estero e, su altro fronte, lancia un messaggio chiaro di carattere antropologico: le persone non sono cose. Non lo è innanzitutto il nascituro, nemmeno quando – caso più teorico che reale – il bambino fosse donato e non venduto. Perché i bambini non si vendono né si regalano. I bambini non sono pacchi, nemmeno pacchi-dono.

Nella maternità surrogata il bambino è un prodotto che, prima del processo di filiazione per conto terzi, può essere selezionato in base alle caratteristiche somatiche e caratteriali, scegliendo la donna che venderà l’ovocita; può essere eliminato con l’aborto se è difettoso; può essere sostituito entro due anni dalla nascita se muore; può essere ritirato in deposito se i committenti tardano a recuperarlo causa guerre, epidemie o per problemi di lavoro.

Non è una cosa la donna che affitta le sue viscere, spesso spinta dalla disperazione. Perché la donna gestante diviene un oggetto quando le si attacca un transponder per sapere dove si trova, quando le si impone un certo regime alimentare e un certo stile di vita, vietandole addirittura di avere rapporti sessuali durante la gravidanza, quando non le viene permesso di sapere alcunché sul bambino che porta in grembo. È una cosa che, in alcuni contratti, deve essere mantenuta in vita qualora fosse in coma fino a quando il bimbo non vedrà la luce (cosa assai giusta), per poi staccarle la spina perché non più utile (cosa assai ingiusta).

Sono cose anche gli stessi committenti che, scegliendo di pagare per diventare genitori, non potranno mai diventarlo, perché scadranno al rango di acquirenti, degradando la paternità e la maternità, nonché la stessa filiazione, ad un affare economico, con contratti, terze parti gestanti, intermediari e avvocati.

Il Ddl che è passato mercoledì alla Camera ricorda a ciascuno di noi tutto questo. E non è poco.

5703.- “Una Famiglia Radicale”, di Eugenia Roccella

Aggiornato il 18 giugno 2023

Gli stracci di Mario

La storia della creazione della donna si rivolge agli allocchi dei tempi che furono. Il movimento femminista persegue il raggiungimento della parità con i diritti dei maschi. Assume per presupposto l’inferiorità della donna e la sua subalternanza verso l’uomo, perciò, si rivolge alle ignoranti. Invece, la donna non è un surrogato dell’uomo perché è di qualità superiore.

La donna è la madre del futuro. La donna, nella sua vita, sia libera di essere compagna, moglie, madre, lavoratrice, per questo, è il simbolo della libertà. Il rapporto fra la donna e la libertà presuppone la sacralità della maternità.

Poter uccidere il proprio io che è in grembo, se non è una necessità estrema: mors tua vita mea, non è una scelta di vita o di libertà, ma un lutto. La donna non è una fattrice. Le pratiche anti concezionali sono note e alla portata di tutte. Chi predica l’aborto libero è, senz’altro, alla ricerca del sesso più vile e, di certo, un’assassina in pectore.

Affittare il proprio utero, partorire e separarsi dalla creatura con cui si è condivisa per mesi la propria vita e che la scienza afferma che porterà le tracce di voi stesse, non è una scelta; è la bestemmia della maternità.

Per contro, chi non è certo della propria mascolinità o chi ha fallito nell’educare la propria sessualità e ne fa propaganda per comportamenti collettivi, ostentando una falsa femminilità, è tristemente ridicolo.

La scienza che studia le applicazioni delle cellule staminali è riuscita a produrre in laboratorio una vita simil umana. Entro i limiti della bioetica è medicina, oltre, è un delitto contro l’umanità.

Centro Rosario Livatino, 17 giugno 2023Eugenia Roccella

Una grande donna, ora, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità.

1. “Una famiglia radicale” è il titolo del libro scritto da Eugenia Roccella, oggi Ministro della Repubblica per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, che l’editore Rubbettino ha pubblicato nei primi mesi del presente anno.

L’Autrice lo definisce un “romanzo”. Non si tratta, infatti, della biografia della propria famiglia, bensì della riflessione del percorso di vita dei suoi vari membri, nonché di se stessa. Il romanzo non ha le pretese di riflettere in modo esatto gli aspetti particolari della realtà storica; non la nega, ma prende dai fatti reali lo spunto per indagare sulla ricerca del senso della vita che i protagonisti hanno faticosamente, per l’intera esistenza, compiuto.

In questa dimensione, che si colloca a metà strada tra il romanzo moderno, in cui i personaggi restano inchiodati al loro destino storico, e il romanzo pre-moderno, ove essi appaiono anche sotto un profilo ideale, magari storicamente mai realizzato, che rappresenta però l’aspirazione nobile della loro anima, Eugenia Roccella si muove con commovente  maestria, riscattando nel ricordo anche gli aspetti più bui delle persone che ella ha teneramente amato lungo la sua ricca ed appassionata esistenza.

2. Vi sono personaggi e luoghi che rappresentano l’incarnazione dell’ideale. Il principale tra questi è Eugenio Roccella, il nonno paterno, notaio in Riesi, fonte di sapienza e di scienza per tutta la famiglia.

Uomo antico – ove il termine non designa la cronologia, bensì lo sguardo sul mondo che viene dall’eterno -, egli esercita con scienza e coscienza la missione del giureconsulto. Non è soltanto il registratore degli scambi immobiliari, bensì l’esperto in umanità che conferisce la forma giuridica della stabilità e della pace alle tumultuose pretese di potere e di ricchezza degli uomini e delle donne di ogni tempo.

Per questo motivo Eugenio Roccella è un’autorità che tutti in Sicilia riconoscono.

La sua attività non conosce riposo; pur amorevolmente piegato verso la sposa, i figli e i parenti, che ama e sostiene, egli fa della grande casa familiare il luogo degli affetti e del lavoro, in quell’unità tra pubblico e privato che caratterizzava la cultura di un mondo ancorato all’antropologia in cui le varie sfere dell’attività umana non erano tra loro separate, come se ciascuna di esse fosse un cassetto da aprirsi e da chiudersi a seconda dei giorni e delle ore.

Egli infatti considera tutte le attività, pubbliche e private, avvinte tra loro per la formazione e per la crescita della coscienza.

Vero compito, quest’ultimo, di ogni uomo e di ogni donna che non aspira al potere, al denaro, al successo, bensì a quella sapienza che, consapevolmente o senza piena consapevolezza, è dono che Dio fa all’uomo giusto.

3. A lui può applicarsi l’inizio del Salmo 119: “Beati immaculati in via, qui ambulant in lege Domini”.

Quando il boss mafioso che domina protervo sul territorio di Riesi gli offre la sua protezione, egli ha la dignità di rispondergli: “…non abbiatevene a male, favori non ne voglio da nessuno, nemmeno da voi”[1]; quando i suoi figli Franco ed Enzo portano la famiglia sull’orlo della bancarotta, tra le folli spese elettorali per la politica dell’uno e le enormi perdite al gioco dell’altro, Eugenio Roccella vende il patrimonio, salda i debiti contratti con gli usurai e, alla fine, esaurito il suo dovere verso se stesso, chiama nel suo studio la nipote amatissima, allora diciassettenne, e le dice: “Adesso, Eugenia, ho finalmente sistemato tutto, non ci sono più debiti, vi lascio tranquilli. Posso morire”[2].

4. Riesi è il luogo dell’infanzia felice di Eugenia.

Non perché il paese – che la madre di Eugenia definiva “paesazzo senza attrattive”[3] – avesse qualcosa di particolarmente significativo alla luce dei canoni della modernità, bensì perché in esso scorreva lenta e rassicurante una vita di relazioni e di rapporti autenticamente personali: “La comunità, familiare e amicale, includeva tutti, anche anziani e disabili, e ogni anomalia e stranezza individuale era assorbita”[4].  

Le innumerevoli amiche di infanzia che giocavano e si confidavano con lei, senza distinzione di età anagrafica e di classe sociale, costituivano quell’ambiente familiare gioioso che, in attesa serena delle asprezze della vita futura, creava una “atmosfera di intimità femminile e calore domestico”[5], in cui Eugenia trovava la sua felicità.

5. Spiccano nel romanzo le figure del padre e della madre della protagonista. L’esistenza di entrambi traluce con vivezza nel chiaroscuro tra gli ideali nobili che essi desideravano realizzare e le difficoltà concrete che si sono a loro frapposte per impedirglielo.

La narrazione è impregnata di profonda pietas filiale; non nasconde le tristezze e le amarezze, ma le trasfonde in un destino che la Provvidenza è capace di riscattare.

Le difficoltà sorte dalle loro inadeguatezze personali mai sono giudicate come “colpe”, ma sempre come effetto di un intreccio di fattori, sociali ambientali e personali, che – senza annullare la responsabilità individuale – gravano sulla persona in guisa spesso insuperabile.

Per comprendere il tema nulla è forse più efficace che ricordare la Degnità VIII della Scienza Nuova (1744) di Giambattista Vico “Questa medesima Degnità congionta con la settima e ‘l di lei corollario [Degnità che suona che vi è diritto in natura e che l’umana natura è socievole] pruova che l’uomo abbia libero arbitrio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che da Dio è aiutato naturalmente con la divina provvedenza, e soprannaturalmente dalla divina grazia”[6].

Vanno considerati la debolezza del libero arbitrio, che raramente riesce a trasformare in virtù le passioni; ma v’è anche l’ausilio sul piano naturale della Provvidenza – e della Grazia, per coloro che sono consapevolmente credenti -, che fa rifulgere come gemme anche gli slanci generosi dell’anima rivolti al bene, anche se la persona non perviene con compiutezza al fine desiderato.

6. Così è per l’indomita passione politica di Franco Roccella; così è per la dedizione appassionata alla causa della libertà delle donne, condotta sotto la fascinazione inquietante di Marco Pannella, di Wanda Raheli, madre di Eugenia, che coinvolse, nel turbinio del post-’68, anche la figlia nelle battaglie del Partito Radicale, tra cui quella per la libertà dell’aborto.

Il padre “era molto netto, sul tema, per lui l’aborto era un omicidio”. Per la madre, sulla scia dell’opinione di Pannella: “lo zigote non era ancora un essere umano, la donna sì, e dunque si doveva necessariamente privilegiare la sua scelta”[7].

L’Autrice, al di là dell’opinione sua e dei suoi genitori degli anni ’70 e ’80, svolge nel testo una riflessione sul rapporto tra la donna e la maternità che esprime la cifra dei traumi che la maternità subisce in tempi di mercificazione della persona.

La riflessione suggerisce anche un consapevole e rinnovato rispetto della vita umana nascente nel grembo materno, ovvero avviata verso il suo termine naturale.

Riporto integralmente la testimonianza di Eugenia:

Un ginecologo cattolico, Adriano Bompiani, disse una volta che le donne sono disposte a tutto per avere un figlio, e disposte a tutto per non averlo. È così. L’ho capito anche pensando a mia madre. Se una donna rifiuta il minuscolo esserino che è entrato dentro di lei senza chiedere il permesso, se lo vive come un alieno ostile che le cresce in seno e prende possesso del suo corpo contro la sua volontà, è disposta a rischiare la vita, a uccidersi e ucciderlo, pur di cacciarlo via da sé. La maternità ha un suo lato oscuro, non è tutta luce. Mettere al mondo una vita, sentire un altro corpo che cresce nel tuo, richiede di fare ordine nel groviglio di pulsioni e sentimenti appassionati, violenti e contraddittori che si scatenano. Le femministe sostenevano che l’aborto “esula dal territorio del diritto”, ma è vero anche per la maternità, che la cultura patriarcale non ha mai saputo e voluto pensare, a cui ha eretto un mito fasullo per evitare di riconoscerle importanza e centralità. La cittadinanza, nelle democrazie occidentali, è costruita sul concetto di individuo, che etimologicamente significa che non si divide, ed esclude, quindi, le donne. Il corpo materno infatti si divide, per nove mesi è due in uno, creature distinte in un unico corpo. Il risultato è che una donna non è cittadina, non è soggetto di diritti se non appiattendo la differenza e lasciandosi assimilare al maschio-individuo, svalorizzando il potere di generare e confinandolo nel privato”[8]. 

Condivido le sagge parole di Eugenia, ma desidero sottolineare che lo scivolamento verso il riduzionismo materialista della maternità e della donna trova il suo apice nella cultura dell’illuminismo e del liberalismo, che degrada la donna a mera riproduttrice o a mero oggetto di soddisfazione del genere maschile, oscurando l’immenso valore metafisico della maternità.

7. Il filo d’oro dell’esistenza dell’Autrice è la fede. Lungo questo filo si scorge evidente l’opera della Provvidenza, che la Grazia perfezionerà in lei nell’epoca della maturità.

Eugenia racconta il suo battesimo. Fu decisivo, per superare l’ostacolo dei genitori non credenti, l’irremovibile fermezza della zia paterna Sarina, unica devota cristiana in famiglia, che l’aveva amorevolmente allevata ed educata in Riesi nei primi quattro anni di vita: “Prima di venire a Roma la bambina deve essere battezzata”[9]: ella impose così la sua volontà ai genitori recalcitranti.

E il seme della Grazia divina fruttificò silenziosamente nel suo cuore. Alla scuola pubblica in Roma, durante le “medie”, scoprì l’ora di religione e, grazie a un giovane e solerte sacerdote, di fronte al Crocifisso esposto sul muro dietro la cattedra, le resistenze contro la fede si indebolirono ed ella la scoprì consapevolmente presente in se stessa.

Sedeva nei primi banchi, con la croce davanti agli occhi: “Era un’immagine dolorosa, di sacrificio e morte, ma anche di amore estremo, umano e comprensibile, straordinariamente consonante con quello che sentivo”[10].

Da un moto spontaneo della sua anima scaturì la decisione di fare la prima comunione. In Eugenia era nata la precisa sensazione che Gesù fosse presente qui e ora, accanto a lei[11].

Fu per lei impossibile spiegare alla mamma che non le “… bastava più entrare nella Casa di Gesù come un’ospite furtiva, che voleva aprirgli la porta di casa mia, parlargli a tu per tu, come ormai avevo cominciato a fare timidamente” [12].

8. L’impegno con il gruppo radicale per l’approvazione della legge che liberalizzò l’aborto e la militanza nel Movimento di Liberazione della Donna occuparono gli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo.

Il nume tutelare di queste battaglie fu Marco Pannella, di cui ella e, ancor più la madre, divennero seguaci.

Ma quel tempo finì ben presto.

L’8 marzo 1981, dopo aver festeggiato in piazza la giornata della donna, la “madre lanciò un grido, portandosi la mano alla testa, e cadde per terra”[13]. Era stata vittima di un’emorragia cerebrale; un aneurisma aveva rotto l’arteria basilare. L’episodio apparve simbolico a Eugenia: “Il filo esile del suo equilibrio interiore era stato tirato fino a spezzarsi”[14].

Wanda fu portata per un’operazione estrema in Canada. I danni dell’operazione furono devastanti. La donna uscì dall’operazione in coma profondo. Poi, giorno dopo giorno, con grande fatica, la madre riemerse dal sonno profondo del coma e riprese quell’esistenza consapevole che sembrava essersi perduta per sempre nel silenzio.

Eugenia accudiva la madre come una bimba appena nata: sapendo che poteva rimanere in quella condizione per sempre, le preghiere rimanevano ancora un fatto solitario e tutto personale della giovane figlia[15].

Nella vicinanza accudente, Eugenia riprese il colloquio con Cristo, colloquio mai veramente troncato, ma vissuto fino ad allora come una relazione furtiva e clandestina, come se si trattasse di un peccato intellettuale:

“Il Dio in croce, che avevo voluto dimenticare, con la malattia di mia madre era tornato con prepotenza nella mia vita. Tu mi hai messo una mano sulla testa, e io l’ho scansata, mi hai protetta, e io ho fatto finta di poter fare da sola, anch’io come tanti. Ma tutto questo non mi rende felice. Il mondo radicale è stato il mio, ma non è più così. Aiutami a capire. E aiutami a tenere in vita la mia mamma-figlia, questa bambina persa nel silenzio[16].

Nell’assistenza alla madre in coma, trascorsa per lunghi mesi accanto a lei, Eugenia scoprì la differenza evidente tra la vita e la morte. “La vita” – insegna l’Autrice – “è il calore di un corpo che in condizioni di incoscienza nasconde il proprio mistero, ma la persona è lì, tutta intera”[17].

9. Gli ultimi anni di vita di Franco Roccella furono segnati dal tracollo fisico e da una grave forma di depressione.

Nel 1979 Pannella lo fece eleggere tra le fila dei radicali, aprendo la loro lista a candidati che non appartenevano, come Franco, al gruppo storico dei radicali. 

Ma l’ingresso al Parlamento fu cagione di nuove tristezze. Speculando sui debiti dell’amico, Pannella lo tradì in modo ignobile.

L’Autrice lo racconta nelle ultime pagine del libro, ove, riferendo che ella stava tutta dalla parte del padre, ne riscatta mirabilmente la memoria. Ella ne rivede l’immagine “avvolto nella sua strana, infantile innocenza, incapace di fare il male consapevolmente”[18].

Ella stava dalla parte del padre perché lo amava, ma anche perché “era tenero, smarrito, isolato, perché era perdente”[19].

Le riflessioni di Eugenia, a questo punto del libro, inseguita dalla memoria del padre, si fanno stringenti e vanno al cuore della tragedia della posmodernità.

Franco Roccella era stato tra i primi, nell’esaltazione del dopoguerra, “a perseguire un’idea di felicità individuale modellata sulla rincorsa del desiderio, e tra gli ultimi a fare i conti con il fantasma del dovere morale”[20].

Eugenia rimedita sulla sua esperienza di militante radicale. Si era illusa allora che “libertà e responsabilità crescessero insieme, che la responsabilità accompagnasse automaticamente l’espansione degli spazi di libertà personale”[21].

Ciò non corrisponde al vero: quel vero che Eugenia ha riscoperto nella sua esistenza con estrema lucidità. La consapevolezza dei doveri verso gli altri si oscura nella coscienza di colui che desidera per sé “diritti” sempre più assoluti, che finiscono, “invece di salvarci la vita”[22], di opprimerci “fino ad impedirci di respirare in libertà”[23].

L’esistenza paterna è per Eugenia Roccella la metafora della ricerca appassionata del bene che si allontana sempre più nella misura in cui la persona, incerta e insicura, non si affida, nel piccolissimo spazio del suo libero arbitrio, alla guida sicura di Chi, nel suo amore senza limiti per gli uomini, ha offerto se stesso per la salvezza di tutti.

Mauro Ronco

5702.- Scienza: ottenuti embrioni umani sintetici per lo studio delle malattie genetiche

Dove vogliamo arrivare?

“Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali)”, affermano i ricercatori. Un passo che pone seri dubbi di natura bioetica e legale.

 15/06/2023Scienza: ottenuti embrioni umani sintetici per lo studio delle malattie genetiche

Getty

Incubatore per la creazione di embrioni in un esperimento sui topi Condividi

Un team di scienziati ha creato embrioni umani sintetici utilizzando cellule staminali in un progresso rivoluzionario che elude la necessità di ovuli o spermatozoi. 

Lo riporta un’esclusiva del Guardian che riprende l’annuncio di Magdalena ernicka-Goetz, scienziata dell’Università di Cambridge e del California Institute of Technology, in occasione del meeting annuale dell’International Society for Stem Cell Research a Boston. “Possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule (staminali embrionali)”, ha detto la ricercatrice all’incontro.

L’obiettivo della scienziata e del suo team è quello di avere un modello, molto simile agli embrioni nelle prime fasi dello sviluppo umano, per lo studio delle malattie genetiche e delle cause biologiche degli aborti ricorrenti. Tuttavia, il lavoro di ernicka-Goetz solleva anche seri problemi etici e legali. 

Le strutture ottenute dalle cellule staminali, scrive il quotidiano britannico, non hanno un cuore pulsante o l’inizio di un cervello, ma includono cellule che normalmente andrebbero a formare la placenta, il sacco vitellino e l’embrione stesso.

I dettagli completi del lavoro del laboratorio Cambridge-Caltech devono ancora essere pubblicati su una rivista scientifica. Ma, parlando alla conferenza, Zernicka-Goetz ha descritto la coltivazione degli embrioni a uno stadio appena superiore all’equivalente di 14 giorni di sviluppo per un embrione naturale.

Non vi è alcuna prospettiva – spiega il quotidiano britannico – a breve termine che gli embrioni sintetici vengano destinati all’uso clinico. Sarebbe inoltre illegale nel Regno unito impiantarli nell’utero di una paziente e non è ancora chiaro se queste strutture abbiano il potenziale per continuare a maturare oltre le prime fasi di sviluppo.

Gli scienziati hanno motivato questa ricerca sostenendo che gli serve per comprendere meglio i meccanismi di sviluppo genetici, alla luce dei limiti che sono normativamente posti nella coltivazione degli embrioni umani, che è oggi di 14 giorni.

In precedenza, il team di Zernicka-Goetz e un gruppo rivale presso l’Istituto Weizmann in Israele avevano già dimostrato che le cellule staminali dei topi potrebbero essere indotte ad autoassemblarsi in strutture embrionali precoci con un tratto intestinale, l’inizio di un cervello e un cuore pulsante.

Da allora, è in corso una gara per tradurre questo lavoro in modelli umani e diversi team sono stati in grado di replicare le primissime fasi di sviluppo. Queste ricerche sui topi, tuttavia, non sono riuscite finora a portare allo sviluppo di una creatura completa.

5701.- Londra, la condanna di una donna scatena la lobby dell’aborto libero

Il disprezzo per la bioetica e per la maternità segnano il punto di non ritorno della società umana. Si accompagnano con la creazione in laboratorio di un essere simil-umano artificiale, che integralmente umano non è, ottenuto riprogrammando cellule staminali e che non ha avuto necessità di ovuli o spermatozoi.

Da La Nuova Bussola Quoticiana, 17 giugno 2023, di Patricia Gooding-Williams

Il drammatico caso di Carla Foster, in carcere per aver praticato l’aborto chimico in casa all’ottavo mese di gravidanza, è il pretesto per la richiesta di aborto fino alla nascita. Ignorando le cause dolorose e le conseguenze tragiche di quel gesto.

English

Nel Regno Unito la lobby abortista è tornata sul piede di guerra. Per oggi, sabato 17 giugno, il British Pregnancy Advisory Service (BPAS), il Women’s Equality Party e la Fawcett Society hanno organizzato una marcia dalle Royal Courts of Justice fino a Westminster per chiedere che in Gran Bretagna sia riformato l’Abortion Act del 1967, al grido di: “È tempo di agire adesso”. Lo scopo è rendere legale abortire in qualunque momento fino alla nascita. L’occasione di questa protesta è data da un recente caso di cronaca che ha fatto molto discutere: «Questa settimana una donna in Inghilterra è stata condannata a 28 mesi di carcere per aver interrotto la gravidanza ricorrendo a pillole abortive», si legge nel sito che pubblicizza l’evento. La donna cui si fa riferimento è Carla Foster, dello Staffordshire, che ha tolto la vita alla sua bambina procurandosi illegalmente delle pillole durante il lockdown nel maggio 2020.

Ovviamente, il comunicato dei gruppi abortisti non menziona la terribile sofferenza causata dall’aborto: né la bambina di otto mesi, chiamata Lily, uccisa e fatta nascere morta né ciò che è accaduto da allora a Carla, ancora tormentata da incubi e dal ricordo del volto di sua figlia morta dopo averla partorita. Soprattutto, la storia di Carla e quella di molte altre che hanno scelto l’aborto presentano un elemento in comune: donne alle prese con una gravidanza inattesa, che vivono situazioni disordinate, spesso da sole, in cerca di una soluzione rapida a una situazione apparentemente senza rimedio, trovandosi poi ferite permanentemente dalla morte dei loro figli.

Eppure i pochi limiti rimasti a impedire l’aborto libero vengono rimossi uno dopo l’altro e il risultato è un aumento vertiginoso del numero di aborti. Secondo le statistiche ufficiali del governo britannico, nel 2021 ci sono stati 214.256 aborti tra le donne residenti in Inghilterra e Galles, il numero più elevato da quando è entrato in vigore l’Abortion Act. Paradossalmente, l’aumento maggiore si è registrato durante la pandemia. Mentre i fondamentali diritti di ogni cittadino erano violati sistematicamente, il diritto di una donna ad abortire era uno dei pochi universalmente sostenuti. In particolare, l’introduzione degli aborti fai-da-te in casa – che in Gran Bretagna si possono ottenere facilmente con una telefonata, basandosi sulla fiducia e senza alcuna forma di controllo – hanno garantito che il servizio “sanitario” proseguisse senza interruzioni durante la crisi legata al Covid. La “pillola per posta” introdotta durante il lockdown permette di interrompere in casa le gravidanze fino a 10 settimane, dopo di che si suppone che la procedura venga portata a termine in clinica. Un metodo propagandato come un successo a tal punto che è tuttora in vigore.

Secondo un comunicato del MSI Reproductive Choices UK, uno dei principali operatori di aborti, la pandemia di Covid-19 non solo ha avuto un impatto sul numero, ma anche sul metodo per abortire. «L’aborto medico precoce a domicilio è la procedura più comune, con il 52% di tutte le donne che nel 2021 hanno abortito prendendo entrambe le compresse a casa. La percentuale di aborto medico nel suo complesso ha rappresentato l’87% degli aborti». Tuttavia, le statistiche non menzionano le donne vulnerabili e spaventate che ricorrono a un sistema con tali lacune da favorirne l’abuso. Come è anche evidente dalla storia di Carla Foster.

Carla aveva già tre figli, uno dei quali disabile, prima di trovarsi nuovamente incinta nel 2019. All’inizio del lockdown era tornata dal partner da cui si era separata, con in grembo il figlio di un altro. Soffrendo di enormi “crisi di panico”, aveva tentato di nascondere la gravidanza a entrambi gli uomini. Secondo il tribunale, tra febbraio e maggio 2020 aveva effettuato ricerche su: “Come nascondere il pancione in gravidanza”, “come abortire senza andare dal medico” e “come perdere un bambino al sesto mese”. A maggio 2020, ormai all’ottavo mese, Carla contattò il BPAS, un grande fornitore di servizi abortivi. In base alle false informazioni riferite da lei, il BPAS mandò a Carla le compresse per un aborto medico, considerandola incinta di sette settimane. In realtà, la bambina non ancora nata – chiamata Lily – era ben oltre il limite legale di 24 settimane, quando in Gran Bretagna non è più così facile abortire poiché a quello stadio è possibile la sopravvivenza fuori dal grembo. Ma durante il travaglio Carla è stata colta dal panico e ha fatto due chiamate di emergenza ai paramedici. Al loro arrivo, la bambina era già stata partorita e non respirava. Gli sforzi per rianimarla sono falliti e Lily è stata dichiarata morta 45 minuti dopo. L’autopsia ha stabilito che la bambina aveva fra le 32 e le 34 settimane e che era nata morta a causa dell’uso, da parte della madre, di farmaci abortivi. La tragica storia di Carla è diventata così di dominio pubblico.

Lunedì scorso, 12 giugno, Carla Foster è stata mandata in carcere per il suo delitto dal giudice Pepperall della Crown Court di Stoke-on-Trent. Inizialmente la Foster è stata accusata di infanticidio, accusa che ha respinto. In seguito si è dichiarata colpevole di un altro capo di imputazione (sez. 58 dell’Offences Against the Person Act del 1861), cioè di aver fatto ricorso a farmaci o mezzi per procurare l’aborto, imputazione accettata dall’accusa. Quindi è stata condannata a 28 mesi, 14 dei quali li trascorrerà in carcere e il resto in libertà condizionata.

La sentenza del giudice Pepperall (qui la proclamazione della sentenza) ha scatenato un acceso dibattito sull’aborto nel Regno Unito, dividendo l’opinione pubblica britannica tra sostenitori e oppositori pro e contro l’aborto di Carla. Ci si chiede però, come mai la lobby abortista non sia stata chiamata a rendere conto del suo ruolo nella vicenda. Al contrario, sulla scia di questa tragedia, la loro risposta è quella di marciare a Londra invocando leggi ancora più permissive per le donne che decidono di abortire il proprio bambino.

Il fatto è che tre ragazzi sono stati lasciati soli senza la madre, che una bambina è stata uccisa e che Carla, dopo che avrà scontato la sua pena, resterà a vita con il rimorso per quanto accaduto. L’aborto è la scelta della morte di un bambino da parte di sua madre. La straziante realtà è che agli abortisti piace parlare di scelta ma nello stesso tempo impediscono alle donne tutto ciò che può farle scegliere. Lo scandaloso arresto di Isabel Vaughan Spruce e padre Gough per aver recentemente pregato in silenzio ne è la prova. A nessuno importa cosa stessero pensando o cosa passasse per la loro mente, il fatto è che la loro presenza ricorda alle donne che ci sono altre possibilità che gli abortisti non vogliono.

5674.- La Suprema Corte sulle questioni poste da Zagrebelsky circa la maternità surrogata

Aggiornato 4 giugno 2023

Zagrebelsky: “La maternità surrogata è vietata perché è sempre un male, non è un male perché è vietata”.

E noi, meno sinteticamente, argomentiamo:

“Dai punti di vista etico e sociale, mascolinizzare la donna portandola a rincorrere la parità nei diritti maschili è sbagliato, almeno quanto porre il sesso binario e l’amore sullo stesso altare. Questo errore, malevolmente e sapientemente voluto, è simboleggiato dal femminismo lesbico; non pone in equilibrio mascolinità e femminilità ed è alla radice della crisi in cui versa l’umanità.

Le tre religioni monoteiste  imposero l’immagine di una divinità maschile centrale, trina, a cui attribuire l’origine dell’universo e di tutte le cose create. Non hanno inteso riconoscere il valore della donna. Anche il cristianesimo con la Madre di Dio, introduce una creazione complessa, di natura umana, ma santificata e pura, per accogliere la natura divina del Figlio di Dio; quindi e per certi versi, divina. Si potrebbe sostenere che sia ai limiti della blasfemia, ponendosi in concorrenza con l’immagine di un Dio, padre, uomo, onnipotente, infallibile.

“Il modello piramidale maschile della società religiosa coincise in ogni suo punto con il modello politico istituzionale, e infine fino a non pochi anni fa, con il modello della famiglia tradizionale in senso stretto.
La decostruzione antropologica delle religioni è il primo passo che aiuta a riconsiderare l’identità maschile e femminile in termini del tutto nuovi.”

La donna è semplicemente donna. Il paragone con l’uomo, frutto della Genesi 2, è mal posto: “Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo..”. Introduce un livello di sudditanza gerarchica. Invece, anche strutturalmente, la donna è superiore all’uomo. Socialmente, deve poter essere “sempre” libera di scegliere se essere compagna, moglie, madre o lavoratrice. Anche quando sceglie di essere una lavoratrice, non per questo discende alla parità con l’uomo. La donna è, perciò, il simbolo della Libertà e, sopratutto nella maternità, incarna il simbolo sacro dell’Amore. Madre e bambino non sono né saranno mai un ‘oggetto’ contrattuale”.

MAG 26, 2023

Gustavo Zagrebelsky

Su “La Repubblica” del 25 maggio 2023, di Gustavo Zagrebelsky. Seguii l’ex Presidente della Corte Costituzionale in una associazione veneziana troppo orientata politicamente per non più di due volte. Ciononostante ne apprezziamo il valore per i confronti che viene a creare.

BREVI RIFLESSIONI A MARGINE DELL’INTERVENTO DI GUSTAVO ZAGREBELSKY SULLA MATERNITÀ SURROGATA

Su “La Repubblica” del 25 maggio 2023, Gustavo Zagrebelsky espone una sua articolata critica nei confronti della proposta di legge sul cosiddetto “reato universale” chiamato a sanzionare (oltre quanto già previsto dalla legge 40/2004) la pratica della maternità surrogata.

Il ragionamento di Gustavo Zagrebelsky si muove lungo quattro direttrici differenti.

In primo luogo: secondo il noto costituzionalista, la pratica della maternità surrogata, che per la maggior parte delle volte è a titolo oneroso, può essere sanzionata proprio per evitare «la riduzione d’ogni realtà dell’esistenza a merce commerciabile», sebbene questo tipo di sanzioni non tiene conto del fatto che nei Paesi poverissimi la pratica della surrogazione a pagamento costituisce «l’occasione se non del benessere, almeno della sopravvivenza».

In secondo luogo: la pratica della maternità surrogata non può essere ridotta soltanto alla sua dimensione commerciale, esistendo anche quella cosiddetta “altruistica” che si dovrebbe considerare sostenuta dalla stessa eticità e giuridicità di fondo che sorregge la donazione di organi.

In terzo luogo: sanzionare penalmente la pratica della maternità surrogata, sempre secondo Zagrebelsky, non tutelerebbe l’interesse del minore che in tale contesto dovesse nascere, poiché non si possono far pagare ai minori innocenti le eventuali responsabilità delle azioni degli adulti.

Infine: laddove il legislatore non dovesse porre in essere misure idonee alla tutela dei minorenni che deve essere bilanciata con l’interesse dell’ordinamento a sanzionare la maternità surrogata, sarebbe la Corte Costituzionale a intervenire sul tema disciplinando motu proprio la questione.

Fin qui le tesi di Zagrebelsky, a cui, però non si possono non muovere dei rilievi critici che in ragione della loro complessità e articolazione devono necessariamente essere sintetizzati.

Per ciò che riguarda il primo spunto delle riflessioni dell’ex Presidente della Corte Costituzionale almeno due puntualizzazioni sembrano opportune.

La circostanza per cui l’ordinamento intervenga con sanzioni penali per evitare che una parte della realtà, per di più la più intima, la più sacra come la maternità, la più archetipica delle fenomenologie relazionali della natura umana, non diventi un qualunque servizio commerciabile non rappresenta un immotivato irrigidimento normativo di un legislatore conservatore e legalistico, ma esprime la dimensione “minima” ed essenziale della giuridicità intrinseca di un ordinamento di uno Stato di diritto concretamente fondato sulla tutela della dignità quale cifra della persona, cioè di quella entità morale (e quindi giuridica) che per definizione è indisponibile (per legge, per contratto o per sentenza, come, infatti, testimonia la comune ratio di fondo del divieto della pena di morte, o del divieto di tortura, o del divieto di riduzione in schiavitù).

Ritenere inoltre che non si debba sanzionare la pratica della maternità surrogata poiché nei Paesi poverissimi essa è unica fonte di sostentamento per le donne significa introdurre il principio utilitaristico che dapprima si era escluso reputando fondata la sottrazione di parti dell’esistenza dalle categorie delle merci commerciabili.

Prendendola sul serio e seguendo la linea della medesima logica di Zagrebelsky, allora, si potrebbe legalizzare anche la vendita del sangue o del midollo osseo, o la vendita degli organi, e, perché no?, magari la vendita o l’affitto del voto elettorale.

E perché allora sanzionare certi tipi di attività e proventi della criminalità organizzata o delle associazioni mafiose nazionali e internazionali laddove esse, specialmente in certi territori poverissimi del meridione, storicamente costituiscono – in assenza della capacità dello Stato di creare adeguati mezzi di sussistenza – una rete economico-finanziaria in grado di permettere la sopravvivenza delle locali popolazioni?

Zagrebelsky dovrebbe dar conto, prima ancor di quelle etiche, di queste incongruenze logiche del suo pensiero.

Per ciò che riguarda la variante cosiddetta altruistica che Zagrebelsky caldeggia, includendola impropriamente all’interno delle cosiddette “donazioni samaritane”, tre profili sono da attenzionare.

In primis: la gratuità non è quasi mai presente nella pratica della maternità surrogata, come comprova l’ampia contrattualistica diffusa nei Paesi in cui è legalizzata e come altresì comprova anche e soprattutto il vastissimo e altamente remunerativo nonché prodromico e parallelo mercato mondiale della procreazione che si fonda su un fiorente scambio commerciale di embrioni o gameti, come attesta, per esempio, il mercato globale del liquido seminale che attualmente vale circa 4,74 miliardi di dollari con un trend in crescita del 5.2%, verso i 4,86 miliardi di dollari che si prospetta raggiunga nel 2027.[1]

Secondariamente, la gratuità non significa necessariamente autentica liberalità o sottrazione alla logica commerciale, poiché oltre lo strumento monetario ci potrebbero essere – come talvolta, infatti, ci sono – altre forme di corrispettivo per il servizio prestato dalla gestante (pagamento dei vestiti, dei farmaci, delle visite mediche e così da parte della coppia committente) che, come nel caso della permuta, renderebbero comunque a titolo oneroso lo scambio fra le parti.

In terzo luogo: non soltanto anche le cosiddette “donazioni samaritane” costituiscono un problema etico-giuridico non indifferente, ma la maternità surrogata certamente non rientra tra queste poiché le prime sono legate all’urgenza e alla necessità della tutela del diritto alla vita di chi riceve l’organo donato, mentre la seconda è priva di tali requisiti in quanto la coppia committente non è in pericolo di vita come chi attende un rene o un polmone.

Inoltre, le donazioni samaritane rappresentano una eccezione – nel quadro etico-giuridico di riferimento – al principio di indisponibilità del proprio corpo, mentre la maternità surrogata tende a diventare una pratica non eccezionale, ma comune e senza considerare peraltro che le pratiche di procreazione assistita – di cui la maternità surrogata inevitabilmente si serve – non sono mai del tutto esenti da rischi per la salute della donna, come è oramai e già da tempo ampiamente noto nella letteratura scientifica.[2]

Insomma, la maternità surrogata e le donazioni samaritane sono due pratiche profondamente e radicalmente distanti e distinte, dal punto di vista pratico, scientifico ed etico e quindi anche giuridico.

Per ciò che riguarda l’interesse del minore chiamato in causa da Zagrebelsky, bisognerebbe distinguere l’ambito penalistico da quello civilistico.

La risposta penalistica, con la relativa sanzione apprestata dal legislatore, infatti, costituisce un presidio di tutela non soltanto nei confronti della donna, ma anche del nascituro o del nato tenendo focalizzato in massimo grado ben più del suo “semplice” interesse, ma il suo diritto di essere considerato per ciò che egli è, ovvero non una res di un contratto a titolo oneroso o gratuito, ma un soggetto di diritto munito di inviolabili diritti naturali, tra cui primariamente spicca il suo diritto di essere riconosciuto sempre e comunque come persona e non come qualcosa che può essere compravenduto, scambiato, permutato o consegnato.

In questo scenario si dovrebbe, inoltre, dar conto della sorte di quell’antico principio di diritto – base ordinata e ordinante per la certezza dello stesso ordinamento – della indisponibilità dello status personale.

Questo tema lega l’ambito penalistico a quello civilistico, per cui la mancata trascrizione degli atti di nascita stranieri per coloro che sono nati attualmente all’estero tramite le pratiche di maternità surrogata non rappresenta un abuso giuridico che l’ordinamento compie nei confronti dei minori non tutelando i loro interessi e facendo loro scontare le “colpe dei padri”, ma rappresenta l’applicazione del principio di coerenza logica e assiologica dell’ordinamento giuridico per cui non si può “sanare” civilmente qualcosa che non soltanto contrasta con norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ma che per di più è intrinsecamente anti-giuridico poiché fondato sulla violazione del principio di indisponibilità dell’essere umano.

Si tratta di preoccupazioni -e non di ipocrisie- ben presenti anche ai giudici della Corte di Cassazione, che nella sentenza resa a Sezioni Unite, nr. 38162/2022, si ribellano, proprio in nome della difesa della dignità della donna e del concepito, alla logica del fatto compiuto.

“Dalle primissime battute, invece di recitare il mantra dell’impotenza del diritto interno di fronte alla violazione dei diritti umani e della priorità della cura dei minori hic et nunc (e pace per quelli che verranno) squarcia il velo, per la prima volta in un consesso di massima istanza, su quel che un Rapporto del 2019 del Consiglio per i diritti umani delle nazioni unite ha definito le «systemic abusive practices» del mercato della discendenza: «Nella gestazione per altri non ci sono soltanto i desideri di genitorialità, le aspirazioni e i progetti della coppia committente. Ci sono persone concrete. Ci sono donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con i loro diritti inalienabili annullati o sospesi dentro procedure contrattuali. Ci sono bambini esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status e, quindi, sulla loro identità nella società».  (…)

In questo contesto, il richiamo al significato oggettivo della principio-dignità da parte di S.U. 38162/2022 è insieme un esercizio di umiltà e una professione di fiducia nella forza del diritto: «il nostro sistema vieta qualunque forma di surrogazione di maternità, sul presupposto che solo un divieto così ampio è in grado, in via precauzionale, di evitare forme di abuso e sfruttamento di condizioni di fragilità»” (Così Valentina Calderai, in “Back to the basics. Indisponibilità dei diritti fondamentali e principio di dignità umana dopo Sezioni Unite n. 38162/2022, in Giustiziainsieme, 15.3.2023).

Infine, emergono le difficoltà del monito lanciato da Zagrebelsky in riferimento all’intervento della Corte Costituzionale.

Proprio un costituzionalista dovrebbe inorridire dinnanzi alla eventualità che la Corte Costituzionale decida di sostituirsi al legislatore, come sempre più spesso accade e che la qualifica, soprattutto dal caso della celebre sentenza n. 242/2019 sul caso Cappato, più come un secondo organo del potere legislativo che come vertice del potere giurisdizionale.

Da tempo immemore, senza dubbio, si discute del cosiddetto “creazionismo giudiziario”, della sua legittimità, della sua portata, della sua effettività, ma la sua diffusione non può automaticamente coincidere con la sua legittimazione, specialmente quando esso riguarda temi eticamente sensibili su cui peraltro il Parlamento si è già espresso e intende ancora esprimersi esercitano – pur con tutti i suoi limiti e difetti – le sue naturali funzioni.

Se il “colonialismo giudiziario”, di cui la Corte Costituzionale si è oramai resa protagonista principale – con la copertura di certa dottrina – è ciò che davvero Zagrebelsky si augura, sarebbe più coerente, più intellettualmente avvincente e più giuridicamente corretto che elaborasse una nuova teoria della commistione dei poteri e che disegnasse una nuova architettura istituzionale e costituzionale in cui si può, e perfino si deve, fare a meno del Parlamento i cui compiti sarebbero esclusivamente assorbiti dalla magistratura in genere e dalla Corte Costituzionale in particolare.

Le tesi di Zagrebelsky, nonostante la sua autorevolezza, sono dunque da rigettare nel merito e nel metodo, ricordando peraltro, in conclusione, che spesso – come nel caso della maternità surrogata – una pratica non è un male perché è vietata, ma, semmai, è vietata proprio perché è un male.

Aldo Rocco Vitale

La Suprema Corte ha già risposto alle questioni poste da Zagrebelsky sulla maternità surrogata

GIU 1, 2023. Dal Centro Studi LivatinoBambolotti con codici a barre su carrelli della spesa

Il riconoscimento automatico della genitorialità intenzionale non realizza l’interesse del minore, ma quello degli adulti.

Nella sentenza delle sezioni unite n. 38162 del 30 dicembre 2022 le risposte alle questioni sollevate nell’intervento di Gustavo Zagrebelsky sulla maternità surrogata.

Questo sito ha già dedicato un garbato e pregevole intervento di replica alle considerazioni svolte dal professor Gustavo Zagrebelsky, sul quotidiano La Repubblica dello scorso 25 maggio, in merito al dibattito in corso nell’opinione pubblica sulla valutazione della pratica della maternità surrogata da parte dell’ordinamento e sulla condizione giuridica dei nati a seguito della violazione del divieto previsto dalla legge italiana.

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Sul primo punto – e cioè sulla valutazione della surrogazione di maternità da parte dell’ordinamento e, in particolare, sulla proposta del professor Zagrebelsky di riservare una diversa considerazione alle ipotesi in cui la maternità surrogata si presenterebbe come <<atto gratuito di solidarietà umana>> della donna – nel citato intervento di replica, oltre a diversi puntuali rilievi critici, sono state opportunamente ricordate le importanti affermazioni contenute in una recente sentenza della Suprema Corte, la n. 38162 del 30 dicembre 2022, pronunciata a sezioni unite: una sentenza importante, con la quale il professor Zagrebelsky non ha però ritenuto di doversi confrontare.

In quella sentenza si afferma chiaramente che <<nel nostro sistema costituzionale la dignità ha una dimensione non solo soggettiva, ancorata alla sensibilità, alla percezione e alle aspirazioni del singolo individuo, ma anche oggettiva, riferita al valore originario e non rinunciabile di ogni persona>> e che <<la dignità ferita dalla pratica di surrogazione chiama in gioco la sua dimensione oggettiva>>.

Si comprende allora la scelta del legislatore italiano, il quale – così si esprimono i giudici della Suprema Corte – <<nel disapprovare ogni forma di maternità surrogata, ha inteso tutelare la dignità della persona umana nella sua dimensione oggettiva, nella considerazione che nulla cambia per la madre e per il bambino se la surrogazione avviene a titolo oneroso o gratuito>>. Sempre secondo le sezioni unite, infatti, <<indipendentemente dal titolo, oneroso o gratuito, e dalla situazione economica in cui versa la madre gestante (eventuale stato di bisogno), la riduzione del corpo della donna ad incubatrice meccanica, a contenitore di una vita destinata ad altri, ne offende la dignità, anche in assenza di una condizione di bisogno della stessa e a prescindere dal concreto accertamento dell’autonoma e incondizionata formazione del suo processo decisionale>>.

Di qui le sezioni unite hanno dedotto la conseguenza secondo cui <<non è… consentito al giudice, in sede di interpretazione, escludere la lesività della dignità della persona umana… là dove la pratica della surrogazione della maternità sia il frutto di una scelta libera e consapevole della donna, indipendentemente da contropartite economiche e revocabile sino alla nascita del bambino>>.

Ma, forse, il riferimento alla dimensione “anche oggettiva” della dignità umana accolta nel “sistema costituzionale” consente di formulare anche l’ulteriore deduzione secondo cui neppure al legislatore sarebbe consentito un esito come quello prospettato, e cioè la legittimazione di quella che per il professor Zagrebelsky sarebbe invece una “distinzione fondamentale”: la distinzione tra maternità surrogata realizzata in virtù di <<un contratto di prestazione dietro un corrispettivo>> e maternità surrogata quale <<atto gratuito di solidarietà umana>> dal quale la donna <<non si aspetta di ricavare alcun vantaggio economico>>.

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La decisione delle sezioni unite del 30 dicembre 2022 contiene poi spunti argomentativi di notevole interesse anche sull’altra questione affrontata dall’intervento del professor Zagrebelsky: la condizione giuridica dei nati da madre surrogata in violazione del divieto previsto dalla legge italiana.

È bene chiarire anzitutto l’argomento del professor Zagrebelsky. L’illustre giurista critica apertamente la “logica compromissoria” accolta dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 272 del 2017 e n. 33 del 2021 e fatta propria anche dalla stessa Suprema Corte nella sentenza n. 12193 del 2019, pronunciate sempre a sezioni unite: quella logica posta a fondamento della soluzione per cui l’accertamento estero della genitorialità puramente intenzionale del committente privo di legame biologico col nato da madre surrogata deve considerarsi senz’altro contrario all’ordine pubblico, mentre il rapporto in atto tra i due potrebbe comunque essere formalizzato ex post attraverso il ricorso alla procedura di adozione in casi particolari, e dunque a seguito di un accertamento giudiziale concreto della sua conformità al superiore interesse del minore.

In effetti, nella sentenza n. 33 del 2021, la Corte costituzionale muove dall’idea che <<l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco>>. Diversamente <<si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona>>.

Di conseguenza, sempre secondo il Giudice delle leggi, <<gli interessi del minore dovranno essere… bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le sezioni unite civili della Corte di cassazione [il riferimento è alla sent. cit. n. 12193 del 2019], allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti>>.

L’esclusione della trascrizione sarebbe così il prodotto di un “bilanciamento” tra l’interesse del bambino e la legittima finalità di reprimere la pratica della surrogazione di maternità. La necessità di preservare la coerenza della scelta proibizionista dell’ordinamento imporrebbe, in altri termini, un “affievolimento” – è appunto questa l’espressione utilizzata dalla Suprema Corte nella sent. cit. del 2019 – dell’interesse del minore. E questo “affievolimento” si realizzerebbe escludendo l’automatismo della trascrizione, ma consentendo la formalizzazione del rapporto in atto attraverso l’adozione in casi particolari.

Anche la Corte di Strasburgo sarebbe sulla stessa linea. La Corte costituzionale ricorda infatti come anche quel Giudice <<riconosce… che gli Stati parte [della Convenzione europea dei diritti dell’uomo] possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi>>.

Ebbene, in questa “logica compromissoria” il professore Zagrebelsky riconosce ora <<un corto circuito logico assai grave>>. E ciò non solo perché essa finisce per accreditare l’idea che il male sia tale perché è vietato (e non che una determinata condotta sia vietata perché è male), ma soprattutto perché <<fa subire il male degli adulti a esseri innocenti>>, <<fa pagare a loro “le colpe dei padri”>>.

Scrive il professor Zagrebelsky: <<I bimbi comunque concepiti e messi al mondo non hanno chiesto nulla, sono totalmente innocenti. Il male sommo è quello inferto agli innocenti>>. E quindi si chiede: <<[I nati da madre surrogata] non hanno il diritto alla protezione più ampia possibile, compresa l’accoglienza a pieno titolo presso coloro che li hanno comunque voluti?>>. La domanda è retorica. La soluzione che si vuole accreditare è evidentemente quella del riconoscimento automatico anche della genitorialità puramente intenzionale del committente privo di legame biologico col nato da madre surrogata attraverso la trascrizione integrale dell’atto di nascita o del provvedimento giurisdizionale estero.

***

Naturalmente l’idea per cui non è consentito far <<subire il male degli adulti a esseri innocenti>> non può non essere condivisa. È fuori discussione, del resto, la radicale incompatibilità con la Grundnorm personalista posta a fondamento dell’edificio costituzionale di qualsiasi forma di strumentalizzazione della persona. D’altra parte, anche nella più recente sentenza delle sezioni unite – la cit. sent. n. 38162 del 30 dicembre 2022 – non viene certo accolta l’idea che i bambini debbano scontare la colpa degli adulti. E ciò neppure attraverso un “affievolimento” dei loro diritti fondamentali. Ogni “logica compromissoria” è chiaramente messa al bando dalla Suprema Corte.

Nella motivazione della decisione in questione si legge infatti che <<il nato non è mai un disvalore e la sua dignità non può essere strumentalizzata allo scopo di conseguire esigenze general-preventive che lo trascendono. Il nato – proseguono i giudici delle sezioni unite – non ha colpa della violazione del divieto di surrogazione di maternità ed è bisognoso di tutela come e più di ogni altro. Non c’è spazio per piegare la tutela del bambino alla finalità dissuasiva di una pratica penalmente sanzionata. Il disvalore della pratica di procreazione seguita all’estero non può ripercuotersi sul destino del nato. Occorre separare la fattispecie illecita (il ricorso alla maternità surrogata) dagli effetti che possono derivarne sul rapporto di filiazione e in particolare su chi ne sia stato in qualche modo vittima>>.

Parole chiarissime, che coincidono pienamente con la prospettiva indicata dal professor Zagrebelsky. Anche le sezioni unite escludono insomma l’ipotesi di un “affievolimento” dell’interesse del minore finalizzata a contemperarne la realizzazione con la legittima finalità di reprimere la pratica della surrogazione di maternità. E riconoscono pertanto che anche l’interesse del minore <<concorre a formare l’ordine pubblico internazionale>> e che il primo principio non può certo funzionare come un controlimite rispetto al limite rappresentato dal secondo.

Le sezioni unite confermano nondimeno la soluzione già accolta nel 2019. Non c’è in ciò nessuna contraddizione. Secondo le sezioni unite, infatti, l’accertamento estero di una genitorialità puramente intenzionale non è trascrivibile non più solo perché <<il riconoscimento ab initio… dello status filiationis del nato da surrogazione di maternità anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realtà per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante>>, ma anche – e soprattutto – perché <<l’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi>>.

Si tratta di un approfondimento argomentativo decisivo. Ciò che le sezioni unite riconoscono ora con chiarezza è che, in caso di nascita da una madre surrogata, l’interesse del bambino non si realizza affatto attraverso il suo inserimento automatico in quello indicato da Zagrebelsky come il <<nucleo famigliare che ha voluto promuovere la sua nascita>>. Questa soluzione – affermano ora con chiarezza le sezioni unite – <<non realizza la pienezza di tutela del minore>>.

L’automatico riconoscimento della genitorialità intenzionale già accertata all’estero asseconderebbe piuttosto un “progetto genitoriale” che si realizza attraverso una pratica “degradante”: una pratica che – anche questo è un dato decisivo, che risulta ora con chiarezza dalla lettura della sentenza di dicembre del 2022 – non strumentalizza solo la donna, ma anche il nato. E che finisce perciò per compromettere anche il rapporto dei committenti con quest’ultimo.

La formalizzazione del rapporto in atto con il committente privo di legame biologico può allora realizzarsi solo in quella che le sezioni unite indicano come una “logica rimediale”: a seguito di un accertamento giudiziale concreto della sua conformità al superiore interesse del minore.

Nella decisione della Suprema Corte si legge infatti che <<l’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale>>, laddove <<una diversa soluzione porterebbe a fondare l’acquisto delle genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata>>.

La Suprema Corte, del resto, non manca di evidenziare come sarebbe proprio questa la “strada” già indicata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 33 del 2021, <<non… quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialità degli adulti che ricorrono all’estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento>>.

Le sezioni unite rammentano infatti che, con la cit. sent. n. 33 del 2021, <<la Corte costituzionale… non ha avallato la tesi di un accertamento ab initio di una genitorialità puramente intenzionale in tutti o in taluni casi di nascita da una madre surrogata>>. D’altra parte, <<se avesse considerato praticabile questa soluzione al fine di garantire l’interesse alla stabilità affettiva del nato da maternità surrogata, la Corte costituzionale si sarebbe espressa diversamente, accogliendo le questioni di legittimità prospettate o pronunciando una sentenza di rigetto interpretativa>>.

Per le sezioni unite, insomma, la “logica compromissoria” che il professor Zagrebelsky ritiene di poter rimproverare alle decisioni della Corte costituzionale in tema di condizione giuridica dei nati da madre surrogata – una logica che lascia comunque l’amara impressione di una qualche forma di strumentalizzazione – era stata già superata nei fatti nell’ultima decisione della stessa Corte costituzionale, che pure l’aveva ancora riproposta a parole. Il fatto che la Corte costituzionale non abbia accolto la soluzione prospettata dal giudice rimettente attesta infatti in maniera inequivocabile come anche per essa l’accertamento automatico di una genitorialità puramente intenzionale già accertata all’estero non sia una soluzione davvero capace di attuare il superiore interesse del minore.

Emanuele Bilotti, Ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma