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6173.- Inferno nel Sudan, la peggior crisi umanitaria della storia recente

9 milioni di disperati.

La guerra civile del Sudan, scoppiata a seguito del colpo di Stato del generale Hemedti, è diventata la peggiore crisi umanitaria della storia recente, con 9 milioni di profughi.

Da La Nuova bussola Quotidiana, di Anna Bono,  22_03_2024Campo profughi in Chad

Il delirio di onnipotenza, l’ambizione sfrenata, l’insaziabile avidità di due uomini, due generali, hanno sprofondato il Sudan nella peggiore crisi umanitaria del mondo. Il generale Abdel Fattah al-Burhan è il comandante delle forze armate e il presidente del Consiglio superiore che ha assunto il potere dopo il colpo di stato militare del 2021. Ai suoi ordini ha 120mila militari. Il suo avversario è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti, che fino all’anno scorso era il suo vice. È il leader delle Forze di supporto rapido (FSR), un organismo paramilitare composto da circa 100mila combattenti. Lo scorso aprile le crescenti tensioni tra di due generali sono degenerate in conflitto armato. I combattimenti sono iniziati nella capitale Khartoum e nello stato occidentale del Darfur. Nei mesi successivi si sono estesi ad altre regioni.

Le conseguenze della guerra sono di portata apocalittica. Le perdite civili si contano ormai a decine di migliaia. I profughi sono almeno nove milioni, circa 1,7 milioni dei quali rifugiati nei paesi vicini, soprattutto in Ciad e nel Sudan del Sud. Circa 25 milioni di persone, più di metà della popolazione, hanno bisogno di assistenza. Già lo scorso febbraio la situazione era stata definita prossima al punto di non ritorno. “La guerra – aveva ammonito Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi – ha privato gli abitanti del paese quasi di tutto, la loro sicurezza, le loro case e i loro mezzi di sussistenza. Hanno bisogno di aiuto subito, con estrema urgenza o sarà una catastrofe”. Invece gli aiuti hanno tardato ad arrivare, fermati da continui ostacoli, e ancora non hanno raggiunto diverse parti del paese. Le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative hanno dovuto lottare con i funzionari di Port Sudan per ottenere i permessi di transito e soccorrere gli sfollati rifugiati nelle regioni per ora risparmiate dalla guerra. Solo da qualche giorno il governo ha consentito l’uso di tre aeroporti per far atterrare aerei carichi di aiuti e l’ingresso di soccorsi dal Ciad e dal Sudan del Sud. Aveva bloccato quelli dal Ciad sostenendo che gli Emirati Arabi Uniti si servivano dei convogli umanitari per fornire armi alle FSR. Questo ha lasciato senza assistenza gli abitanti del Darfur dove i combattimenti sono più intensi, milioni di persone. Come se non bastasse, a peggiorare la situazione contribuiscono i continui attacchi agli operatori e ai convogli per saccheggiarne i carichi.

All’inizio di marzo la situazione è precipitata. A causa della guerra la produzione agricola è crollata, milioni di persone sono senza raccolti e hanno perso tutto il bestiame. A questo si aggiungono i gravi danni alle infrastrutture, l’interruzione dei flussi commerciali, il vertiginoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. La prospettiva è la fame per milioni di persone: cinque milioni per il momento, ma il numero è destinato ad aumentare.

“Ormai siamo di fronte a uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente” ha dichiarato il direttore delle operazioni e della difesa dell’OCHA, Edem Wosornu, parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 marzo. Ma i contendenti non mostrano nessuna pietà per questa umanità esausta, disperata, tanto spietati da usare la fame come arma di guerra negando l’accesso agli aiuti. Nel corso dei mesi si è delineato un quadro raccapricciante di violenze inflitte senza risparmiare nessuno: torture, stupri di gruppo, attacchi indiscriminati in aree densamente abitate con conseguenti, inevitabili vittime civili e tutti gli altri orrori che caratterizzano le guerre in cui le violenze sui civili sono deliberate e non effetti collaterali dei combattimenti. Nel maggio del 2023 in una sola città, El Geneina, nel Darfur occidentale, da 10mila a 15mila persone di etnia Masalit sono state uccise dalle FSR. Sia i militari governativi che quelli delle FSR sono accusati di crimini di guerra e le FSR si ritiene siano responsabili anche di crimini contro l’umanità e pulizia etnica nel Darfur. 

Per dare sollievo alla popolazione, l’8 marzo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione proposta dalla Gran Bretagna che chiedeva ai contendenti di sospendere i combattimenti nel mese di Ramadan, che quest’anno è iniziato il 10 marzo. Sia al-Burham che Hemedti si sono dichiarati favorevoli a una tregua, ma in realtà finora non hanno deposto le armi neanche per un giorno e tutto fa pensare che non accetteranno presto di sedersi al tavolo delle trattative al quale da mesi si tenta di portarli. Del tutto indifferenti alle sofferenze e ai danni immensi provocati dalla loro guerra, non danno il minimo segnale di voler mettere fine alle ostilità se non con la completa sconfitta dell’avversario.   

Sembra che i soldati dell’esercito governativo per mesi non siano stati pagati, che molti, di entrambi i fronti, combattano in sandali, senza uniformi, il che provoca frequenti perdite da fuoco amico. Può darsi, ma le forze armate sudanesi sono uno degli eserciti africani più forti e le FSR sono ben armate e addestrate. Entrambi i generali inoltre continuano ad arruolare e addestrare nuove reclute e sembra che lo facciano su base etnica, una scelta molto allarmante perché la tribalizzazione dei conflitti in Africa accresce sempre la violenza degli scontri e rende più difficile raggiungere accordi di pace definitivi. Altrettanto preoccupanti, per l’esito della guerra, sono le interferenze esterne. La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza conteneva anche la raccomandazione ai governi di tutti i paesi di “astenersi da interferenze che cercano di fomentare lo scontro e di sostenere invece l’impegno per una pace duratura”.

La richiesta era rivolta agli Stati che stanno sostenendo i due generali e che in effetti, con i loro aiuti militari, deliberatamente contribuiscono a far sì che la guerra continui con conseguenze sempre più dolorose. I più potenti sostenitori del generale Hemedti sono gli Emirati Arabi Uniti e la Russia. Inoltre ha al suo fianco i mercenari russi della compagnia Wagner ai quali, in cambio, consente di sfruttare le miniere d’oro che controlla. L’alleato più forte del generale al-Burhan è l’Egitto. Di recente può contare anche sull’Iran che gli ha fornito armi e servizi di intelligence grazie ai quali ha lanciato una controffensiva dopo settimane di sconfitte e ha riconquistato la città gemella della capitale, Omdurman. Inoltre ha chiesto e ottenuto aiuto dall’Ucraina. I primi militari ucraini, principalmente dell’unità Tymur, sono arrivati in Sudan lo scorso anno in tempo per aiutarlo a lasciare la capitale, ormai circondata dalle FSR, e riparare a Port Sudan. 

A differenza di altri contesti, nei quali dei paesi stranieri, seppure motivati dall’interesse di stabilire rapporti economici e politici proficui, sono intervenuti a sostegno di governi e popoli africani minacciati da gruppi ribelli o jihadisti, in Sudan i militari russi e ucraini e gli Stati schierati su fronti opposti – Egitto, Yemen, Iran, Arabia Saudita, Qatar… – alimentano con il loro sostegno e le loro ingerenze una guerra voluta da due militari al solo scopo di sopraffare l’avversario. Ne approfittano, disposti a prolungarla e a renderla più cruenta – perché questo è il risultato – se serve a conquistare posizioni nel continente africano, incuranti delle conseguenze tanto quanto i generali Hemedti e al-Burhan.

6114.- Genocidio: Hamas risponde alla proposta di un piano di cessate il fuoco a Gaza

Le trattative per il cessate il fuoco si stanno svolgendo fra i due attori che, da opposti lati, vedono nel genocidio in atto la loro ragione di mantenere il potere. E non la chiamiamo guerra, ma genocidio perché l’IDF sta combattendo sopratutto i civili e tanti bambini.

Di Tom Bateman, State Department Correspondent & Kathryn Armstrong in London, BBC News. Nostra traduzione libera.

Boys stand in front of the rubble of a building in Rafah in the Gaza Strip
Le agenzie umanitarie affermano che la situazione a Gaza è catastrofica e sono tra quelle che chiedono un nuovo cessate il fuoco

Hamas afferma di aver dato la sua risposta ad una proposta quadro per un nuovo cessate il fuoco a Gaza.
I dettagli dell’accordo – stabilito da Israele, Stati Uniti, Qatar ed Egitto – non sono stati rilasciati.
In precedenza era stato riferito che sarebbe stata inclusa una tregua di sei settimane, durante la quale più ostaggi israeliani sarebbero stati scambiati con prigionieri palestinesi.
Sia Israele che gli Stati Uniti hanno affermato che stanno rivedendo la risposta di Hamas.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken, che attualmente si trova in Medio Oriente, ha detto che discuterà mercoledì la risposta di Hamas con funzionari in Israele.
Mentre Blinken non ha fornito alcuna indicazione su come gli Stati Uniti vedono la risposta, il presidente Joe Biden l’ha descritta come “un po’ esagerata” – suggerendo che la leadership israeliana non accetterà facilmente ciò che il gruppo chiede.
Un alto funzionario di Hamas ha detto alla BBC che il gruppo ha presentato una “visione positiva” in risposta al quadro, ma ha chiesto alcuni emendamenti relativi alla ricostruzione di Gaza, al ritorno dei suoi residenti alle loro case e alle disposizioni per coloro che erano stati spostato.
Il funzionario ha detto che Hamas ha anche chiesto cambiamenti relativi al trattamento dei feriti, compreso il loro ritorno a casa e il trasferimento negli ospedali all’estero.

La proposta è stata inviata a Hamas circa una settimana fa, ma un rappresentante ha detto all’agenzia di stampa Reuters che aveva tempo fino a martedì per rispondere perché alcune parti della proposta erano “poco chiare e ambigue”.
Il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed Bin Abdulrahman al Thani, ha descritto la risposta di Hamas come “positiva” in generale.
Perché Israele e Hamas combattono a Gaza?
Quali sono le vie d’uscita da questo “momento pericoloso” in Medio Oriente?
Il conflitto a Gaza è stato innescato da un attacco transfrontaliero senza precedenti da parte di uomini armati di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre, in cui sono state uccise circa 1.300 persone e altre 250 sono state prese in ostaggio.
Da allora, secondo il ministero della Sanità della Striscia di Gaza, governata da Hamas e bloccata da Israele ed Egitto dal 2007, da allora sono state uccise più di 27.500 persone.
Hamas è vietata come organizzazione terroristica in diversi paesi.
Durante un cessate il fuoco durato una settimana, alla fine di novembre, 105 ostaggi israeliani e stranieri furono liberati in cambio della detenzione di 240 palestinesi nelle carceri israeliane.
I tempi di un eventuale nuovo accordo potrebbero essere complicati dalle affermazioni diffuse all’inizio di questa settimana da funzionari della difesa israeliani secondo cui l’esercito sta “facendo progressi” nella caccia al leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar.
Tuttavia, il primo ministro Benjamin Netanyahu è sottoposto a forti pressioni interne per ottenere il rilascio degli ostaggi rimasti.
Un crescente senso di crisi regionale si aggiunge anche all’urgenza che Blinken porta nella città israeliana di Tel Aviv, quando arriva alla ricerca di progressi sull’accordo.
Gli Stati Uniti stanno cercando sempre più di arginare l’escalation regionale dopo l’attacco dei droni della scorsa settimana che ha ucciso tre soldati americani in Giordania.
Washington ha reagito con attacchi aerei contro le milizie appoggiate dall’Iran in Siria e Iraq e avverte che ne arriveranno altri.
Gli Stati Uniti vedono un accordo di cessate il fuoco a Gaza come il modo più realistico per ridurre le tensioni all’estero.
Martedì Israele ha confermato che 31 dei 136 ostaggi rimasti a Gaza erano stati uccisi.

Il contrammiraglio Daniel Hagari, portavoce delle Forze di difesa israeliane (IDF), ha detto che le loro famiglie sono state informate e che le autorità continueranno a premere per il ritorno dei restanti prigionieri.
“Questo è un obbligo morale, un obbligo nazionale e un obbligo internazionale e qui è diretta la nostra bussola ed è così che continueremo a operare”, ha affermato Hagari.

L’ONU avverte che il sistema di aiuti potrebbe collassare se i finanziamenti dell’UNRWA venissero trattenuti

Palestinian patients gather at the UNRWA health center to receive medicines as the Israeli attacks continue in Deir Al-Balah, Gaza on January 21, 2024.
Distribuzione dei medicinali in un centro sanitario dell’UNRWA a Deir Al-Balah, Gaza, all’inizio di questo mese

Ha scritto Patrick Jackson che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha descritto l’UNRWA come “perforato con Hamas”, affermando che Israele ha “scoperto che c’erano 13 operatori dell’UNRWA che hanno effettivamente partecipato, direttamente o indirettamente, al massacro del 7 ottobre”.
Ma gli Stati Uniti, il maggiore donatore dell’UNWRA, hanno affermato di voler vedere l’agenzia umanitaria continuare il suo lavoro.
“Non c’è nessun altro attore umanitario a Gaza che possa fornire cibo, acqua e medicine nella misura in cui lo fa l’UNRWA”, ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller.
“Vogliamo che questo lavoro continui, motivo per cui è così importante che le Nazioni Unite prendano sul serio la questione, che indaghino e che ci sia responsabilità per chiunque sia ritenuto coinvolto in atti illeciti”.

6108.- Il capolavoro di Netanyahu, Biden e Hamas vuole un’altra Nurnberg.

Conflitto in Medio Oriente. Dichiarazione di Jonathan Crickx Responsabile della Comunicazione dell’UNICEF per lo Stato della Palestina, durante la conferenza stampa del 2 febbraio al Palazzo delle Nazioni di Ginevra.



Il dato dei 17.000 bambini nella Striscia di Gaza non accompagnati o senza parenti è dell’UNICEF. Corrisponde all’1% della popolazione sfollata complessiva, 1,7 milioni di persone di cui un milione bambini. Sono 17.000 storie strazianti. Moltissimi i mutilati. Naturalmente si tratta di una stima, poiché è quasi impossibile raccogliere e verificare le informazioni nelle attuali condizioni di sicurezza e umanitarie. Non possiamo limitarci a chiedere il cessate il fuoco. Bisogna cambiare il sistema e riaprire Norimberga per chi ha offeso l’umanità.

Da UNICEF.it del 2 febbraio 2024. Di Jonathan Crickx

“Sono tornato da Gaza questa settimana. Ho incontrato diversi bambini, ognuno con la propria storia devastante da raccontare. Di 12 bambini che ho incontrato o intervistato, più della metà aveva perso un membro della famiglia in questa guerra. 3 avevano perso un genitore, di questi, 2 avevano perso sia la madre, sia il padre. Ognuno rappresenta una storia straziante di perdita e dolore.Dietro ognuna di queste statistiche c’è un bambino che sta facendo i conti con questa nuova terribile realtà.

Razan, di 11 anni, era con la sua famiglia nella casa dello zio quando è stata bombardata nelle prime settimane di guerra. Lei ha perso quasi tutti i membi della sua famiglia. Sua madre, suo padre, suo fratello e 2 sorelle sono stati uccisi. Razan è stata ferita a una gamba e gliel’hanno dovuta amputare. Dopo l’intervento, la ferita si è infettata. Adesso sua zia e suo zio si stanno prendendo cura di lei, tutti sono sfollati a Rafah.

Bambini non accompagnati sotto shock

In un centro in cui vengono ospitati e assistiti i bambini non accompagnati, ho visto anche due bambini molto piccoli di 6 e 4 anni. Sono cugini e le loro rispettive famiglie sono state interamente uccise nella prima metà di dicembre. La bambina di quattro anni, in particolare, è ancora fortemente sotto shock.

Ho incontrato questi bambini a Rafah. Temiamo che la situazione dei bambini che hanno perso i genitori sia molto peggiore nel Nord e nel Centro della Striscia di Gaza.

Durante un conflitto, è comune che le famiglie allargate si prendano cura dei bambini che hanno perso i genitori. Ma attualmente, a causa della forte mancanza di cibo, acqua o rifugi, le famiglie allargate sono sotto stress e si trovano in difficoltà a prendersi immediatamente cura di un altro bambino, mentre loro stessi stanno lottando per provvedere ai propri figli e alla propria famiglia. In queste situazioni, l’assistenza provvisoria immediata deve essere resa disponibile su larga scala, mantenendo i bambini in contatto con o rintracciando le loro famiglie in modo che possano essere riunite quando la situazione si stabilizza.

Razan, come la maggior parte dei bambini che affrontano esperienze traumatiche, è ancora sotto shock. Ogni volta che ricorda quegli eventi, scoppia a piangere ed è stremata. La condizione di Razan è ancora particolarmente stressante perchè la sua mobilità è gravemente compromesse e i servizi di supporto specializzato e di riabilitazione non sono disponibili.

Danni alla salute mentale dei bambini

La salute mentale dei bambini è gravemente danneggiata. Presentano sintomi come livelli estremamente alti di ansia persistente, perdita di appetito, non dormono, hanno sfoghi emotivi o panico ogni volta che sentono il rumore dei bombardamenti.

Prima di questa guerra, l’UNICEF riteneva che nella Striscia di Gaza più di 500.000 bambini avessero già bisogno di un supporto psicosociale e per la salute mentale. Oggi, stimiamo che quasi tutti i bambini abbiano bisogno di questo tipo di supporto, più di 1 milione di bambini.

L’UNICEF e i suoi partner hanno fornito supporto per la salute mentale e psicosociale a oltre 40.000 bambini e 10.000 persone che se ne prendono cura dall’inizio del conflitto. Ho seguito una di queste attività ed è un vero sollievo vedere i bambini giocare, disegnare, ballare, cantare e sorridere. Li aiuta ad affrontare le terribili situazioni che hanno vissuto. Ma ovviamente, questo non è sufficiente quando vediamo la portata dei bisogni.

L’unico modo per garantire questo supporto per la salute mentale e psicosociale su larga scala è un cessate il fuoco. Prima della Guerra, nel 2022, il gruppo di protezione dell’infanzia guidato dall’UNICEF ha fornito supporto a circa 100.000 bambini. È possibile aumentare la portata adesso. Lo abbiamo già fatto in passato. Ma non è possibile nelle attuali condizioni di sicurezza e umanitarie.

Prima di concludere, voglio aggiungere ancora una cosa. Questi bambini non hanno nulla a che fare con questo conflitto, ma stanno soffrendo come nessun bambino dovrebbe mai soffrire. Nessun bambino, indipendentemente dalla religione, dalla nazionalità, dalla lingua, dalla razza, dovrebbe mai essere esposto al livello di violenza visto il 7 ottobre, o al livello di violenza a cui abbiamo assistito da allora.”



6170.- Quando la pietà diviene arma e il sangue piace

Tale e tanta è la sete di vendetta in Palestina che tenere per Israele o per i palestinesi è un insulto all’umanità, ma, come sempre, prevarrà il potere.

L’ONU e il suo “cessate il fuoco” sono ostaggio del veto americano e i palestinesi ammazzati superano i 22.600! i giornalisti? Uno al giorno. E, poi, toccherà agli Hezbollah, al Libano. Lì, c’è il nostro esercito: ci siamo!

Presidente, ascolti la nostra preghiera: “LI FERMI!”

Eravamo alla vigilia del Natale e il Fatto così titolava:

GAZA. Palestinesi accusano soldati israeliani di esecuzioni sommarie. Il portale Middle East Eye riporta testimonianze di palestinesi che denunciano casi diffusi di parenti e amici uccisi nelle loro case e davanti alle famiglie. Da X.

Onu: “Ricevute denunce di esecuzioni sommarie di Israele su 11 palestinesi”. Indagate 19 guardie carcerarie dopo la morte di 19 detenuti.

Israele: “Uccisi oltre 2 mila terroristi dalla fine della tregua”

Dalla fine della tregua a Gaza, le forze israeliane hanno eliminato “oltre 2.000 terroristi” di Hamas. “Ciò è avvenuto dal cielo, dal mare e da terra”, ha affermato il portavoce militare Daniel Hagari. Artificieri militari, ha aggiunto, hanno fatto esplodere il ‘Quartiere dei dirigenti’ politici e militari di Hamas: “Abbiamo distrutto quella vasta rete di tunnel, una struttura di terrorismo strategico realizzata da Hamas nel centro della città di Gaza”. Intanto a Khan Yunis, nel settore sud della Striscia, cinque brigate dell’esercito sono impegnate in combattimenti contro Hamas, “in particolare sotto il livello terrestre”.

Non c’è spazio per i palestinesi in Palestina, nemmeno per i morti.

Media: “Bulldozer israeliani hanno distrutto cimitero”. I bulldozer delle forze israeliane hanno distrutto il cimitero di Sheikh Shaban nel quartiere di as-Saha, nella parte orientale di Gaza. Lo riferisce un corrispondente dal posto di Al Jazeera. “I morti sono stati riesumati e schiacciati sotto i bulldozer”, ha raccontato, “non è la prima volta che le forze di occupazione demoliscono i cimiteri, distruggendo tombe, riesumando i cadaveri e poi mutilandoli”. “Parti dei cadaveri, compresi quelli di bambini, sono chiaramente visibili nell’area”, ha aggiunto.

Esecuzioni sommarie e raid sui campi, a Natale è stata una strage

GAZA. Oltre cento palestinesi uccisi ad Al Maghazi. Lo stadio utilizzato come centro di detenzione. A Rafah non c’è più posto per gli sfollati.

Esecuzioni sommarie e raid sui campi, a Natale è una strage

Un ragazzino tra le macerie del campo profughi di Al-Maghazi – Ap/Mohammed Talatene

Da Il Manifesto, di Michele Giorgio, 9 gennaio 2024 GERUSALEMME

Sami Abu Omar, dopo giorni, finalmente ieri ha risposto al telefono. Che per un abitante di Gaza vuol dire «Sono ancora vivo». «Mi trovo con la mia famiglia ancora nella zona di Mawasi» ci ha detto il cooperante palestinese della ong italiana Acs sfollato nelle settimane passate da Bani Suheila dopo l’inizio dell’offensiva israeliana a Khan Yunis. «Ora – precisa – siamo in 45 tra parenti e amici rimasti senza casa. Le donne vivono in una stanza che abbiamo affittato e noi uomini in una tenda montata in un campo». Abu Omar, nonostante le enormi difficoltà quotidiane che deve superare – «procurarsi il cibo e l’acqua è la priorità ed è sempre più difficile perché gli aiuti umanitari qui a Mawasi arrivano raramente e al mercato costa tutto quattro-cinque volte di più rispetto ai mesi scorsi», ci dice -, continua a lavorare per portare aiuto ai civili. «Con i fondi che arrivano (alle banche di Gaza ancora operative, ndr) – racconta – dall’Acs e varie associazioni italiane compriamo coperte, materassi e beni primari. E siamo impegnati a costruire bagni». La mancanza di gabinetti è una delle difficoltà più gravi che le centinaia di migliaia di sfollati palestinesi devono affrontare, a cominciare dalle donne. «Compriamo lamiere, cemento, mattoni e i sanitari e costruiamo bagni per chi vive nelle tende e in strada, le condizioni igieniche sono spaventose», aggiunge Abu Omar che lancia l’allarme sulle condizioni di vita in rapido peggioramento a Rafah: «Di fronte all’offensiva israeliana i civili scappano dalle città del centro e del sud e si riversano sul confine con l’Egitto, lì ormai ci sono oltre un milione di persone. Non hanno nulla, al massimo possono sperare in una tenda e in un po’ di cibo». A Rafah giungono anche i morti. Ieri ne sono arrivati 80, di uccisi nel nord di Gaza e restituiti da Israele. Sono stati sepolti in una fossa comune.

Il volantino che intima agli abitanti di Wosta di lasciare le loro case

L’avvertimento di Sami Abu Omar trova conferma nelle parole di Gemma Connell, una funzionaria dell’Onu. Spiega che molti palestinesi che hanno seguito l’ordine di lasciare le loro case giunto dall’esercito israeliano – l’ultimo in ordine di tempo è stato dato agli abitanti di Wosta – credendo di trovare la salvezza in aree designate a Rafah, si sono poi ritrovati in zone incredibilmente affollate dove non c’è più spazio per nessuno. «Vanno verso sud con materassi e altri averi in furgoni, camion e automobili. C’è così poco spazio qui a Rafah che le persone semplicemente non sanno dove andare, fuggono da una zona all’altra. È una scacchiera umana» ha spiegato alla Reuters Connell, caposquadra di Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari). Connell ha descritto la morte di un bambino di nove anni di nome Ahmed nell’ospedale di al-Aqsa a Deir Al-Balah, dove sono stati portati molti dei feriti degli ultimi attacchi aerei israeliani. «Quando è stato colpito si trovava in un’area sottoposta a un ordine di evacuazione, era in una zona che avrebbe dovuto essere sicura. Non esiste un posto sicuro a Gaza», ha detto. Il portavoce militare ha ribadito che «Israele agirà contro Hamas ovunque operi, con pieno rispetto del diritto internazionale, distinguendo tra terroristi e civili e prendendo tutte le precauzioni possibili per ridurre al minimo i danni ai civili». Erano tutti «terroristi» i 100, per altre fonti 200, palestinesi uccisi nel fine settimana da bombardamenti aerei violenti nel campo profughi di Maghazi? Il portale palestinese watan.net, riportando testimonianze di residenti nel quartiere di Sheikh Radwan a Gaza City, riferiva ieri di «giovani uccisi sommariamente e gettati in strada senza che le ambulanze fossero in grado di recuperare i loro corpi». A Gaza si parla della trasformazione dello stadio da calcio in un centro di detenzione. I militari israeliani ci avrebbero radunato dozzine di palestinesi, nudi e con le mani legate dietro la schiena, come mostra un video che circola in rete. Tra le persone detenute ci sarebbero medici, insegnanti, giornalisti e anziani. Euro-Med Human Rights Monitor ha inviato un rapporto alla Relatrice speciale dell’Onu, Francesca Albanese, e al Procuratore della Corte penale internazionale in cui denuncia esecuzioni sommarie di prigionieri palestinesi.

La Vigilia di Natale nella zona centrale e meridionale di Gaza è stata una delle notti più sanguinose degli ultimi due mesi. Mentre i palestinesi piangevano le loro perdite, il primo ministro israeliano Netanyahu ha promesso di continuare la guerra «fino alla distruzione di Hamas», incurante delle pressioni che giungerebbero dall’estero. Hanno confermato le sue parole il ministro della Difesa Gallant e il capo di stato maggiore Halevi, aggiungendo che l’offensiva a Gaza andrà avanti per mesi se non per anni. È probabile però che nelle prossime settimane Israele ritiri da Gaza una buona parte delle sue forze per proseguire la guerra con attacchi più circoscritti ma non meno letali e distruttivi. I comandi israeliani riferiscono ogni giorno di «successi» contro Hamas, di «eliminazione» di decine di combattenti del movimento islamico e di altre organizzazioni, della scoperta e distruzione di gallerie sotterranee. Hamas però non pare sconfitto o almeno non così danneggiato come si dice. Video diffusi dalla sua ala militare, le Brigate Qassam, mostrano agguati contro soldati e mezzi corazzati. Ieri sono stati comunicati i nomi di altri militari morti in combattimento, sono oltre 160 dalla fine di ottobre quando è cominciata l’offensiva di terra, di cui una ventina negli ultimi quattro giorni. Intanto il gabinetto di guerra israeliano vuole dagli Usa altri elicotteri da combattimento Apache fondamentali per l’appoggio alle truppe sul terreno, riferisce Yediot Ahronot. Washington non ha ancora dato il via libera ma, sottolinea il giornale, ha garantito il più grande aiuto militare a Israele negli ultimi 50 anni. «Senza di esso l’esercito non avrebbe potuto a combattere fino ad oggi», aggiunge. Alcune fonti parlano di 230 aerei cargo colmi di armi e munizioni e altri equipaggiamenti militare giunti in Israele negli ultimi 80 giorni.

Intanto quello che nelle scorse settimane era stato uno descritto come uno scherzo, poco alla volta si rivela una realtà. Un video mostra soldati a Gaza che espongono uno striscione della Harey Zahav, una delle principali società immobiliari israeliane nella costruzione di insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata. La scritta e i disegni annunciano cinque progetti di colonie ebraiche a Gaza che si richiamano a quelle che furono evacuate nel 2005 con il piano di ridispiegamento voluto dal premier scomparso Ariel Sharon.

Una carovana di coloni per «tornare» nella Striscia

Le carovane di coloni in marcia, pronte a occupare anche la Striscia.

6167.- Il dramma dei siriani

Dopo la guerra, i missili israeliani, il sisma, le scandalose, disumane sanzioni occidentali, i ribelli, che Stati Uniti (CIA) e Arabia Saudita finanziano e addestrano dal 2013, anche il Programma alimentare mondiale dell’Onu semina fame fra i siriani, popolo dignitoso. «Le sanzioni sono disumane» dichiara padre Francesco Patton, custode di Terra Santa, «e trovo scandaloso che in un momento così tragico, non si sia capaci di rimuovere o sospendere le sanzioni. In Siria la gente sta morendo». 

L’Onu taglia gli aiuti alla Siria. Il vescovo di Homs: «Così moriamo»

Dopo gli ultimi tagli drastici da parte del Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu, più di cinque milioni di siriani rischiano la fame. Una decisione «terribile e ingiusta» per mons. Jacques Mourad. E, al contempo, permangono le sanzioni alla Siria.

 Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Luca Volontè, 5 gennaio 2024Un'immagine della guerra in Siria, 2023 (AP by LaPresse)

La forte denuncia di questi giorni di monsignor Jacques Mourad, arcivescovo siro-cattolico di Homs, è quasi passata inosservata, tra le festività e le gravissime notizie di continui attentati, vendette, massacri che infiammano il mondo, in particolare il Medio Oriente. Tuttavia, l’abbandono della Siria da parte del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite, l’abbandono del popolo di un Paese massacrato dalla guerra interna, occupato da varie potenze straniere (Stati Uniti e Turchia in primis), nel quale imperversano l’Isis e altre bande di tagliagole, sostenute anche da alcuni Paesi europei, desta preoccupazione.

Il Programma alimentare mondiale ha annunciato, all’inizio dello scorso dicembre, di voler interrompere dall’1 gennaio 2024 il suo principale programma di assistenza alimentare in Siria a causa della carenza di fondi, mantenendo solo alcuni programmi di aiuto minori. È stata la settima volta che il Pam ha annunciato una riduzione degli aiuti alla Siria; l’ultimo annuncio risaliva al 13 giugno 2023, quando il Pam ha tagliato l’assistenza alimentare a circa 2,5 milioni di persone, quasi la metà dei 5,5 milioni di abitanti assistiti fino ad allora.

«Il popolo siriano è condannato a morire senza poter dire nulla», ha detto l’arcivescovo Mourad in un’intervista a Vatican News pubblicata lo scorso 3 gennaio, a proposito della drammatica situazione che il Paese sta attraversando a causa della guerra che imperversa da 13 anni. In particolare, ha ricordato mons. Mourad, con la cancellazione del piano di aiuti alimentari delle Nazioni Unite in Siria, più di cinque milioni di persone che dipendevano da questi aiuti saranno spinte sull’orlo della morte, una decisione «terribile e ingiusta», che condanna un popolo, come quello siriano, che non ha modo di far sentire la propria voce. Oltre che dalla guerra, la Siria è stata gravemente colpita anche dal terremoto del febbraio 2023, soprattutto nelle zone di confine con la Turchia.

Pur riconoscendo che la Chiesa e le organizzazioni non governative che operano in Siria hanno fatto moltissimo per rispondere ai bisogni urgenti della popolazione durante gli anni di guerra, secondo il presule siriano, con la cessazione dell’assistenza umanitaria da parte delle Nazioni Unite, di cui beneficiavano buona parte dei siriani, rimangono poche speranze per evitare che la gente inizi a morire di fame. Chiesa e organizzazioni umanitarie internazionali infatti non sono in grado di provvedere a tutte le persone bisognose di aiuto, una realtà aggravata dal fatto che è molto difficile inviare denaro al Paese dall’estero, a causa delle sanzioni imposte al Paese dall’Onu, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.

All’indomani dei forti terremoti che avevano colpito a febbraio 2023 la Turchia meridionale e la Siria settentrionale, gli appelli a revocare le sanzioni alla Siria erano diventati virali sui social media; alcuni Paesi, tra cui Venezuela, Cina, Russia e Cuba e alcuni esperti delle Nazioni Unite avevano chiesto la revoca o l’alleggerimento delle sanzioni unilaterali sulla Siria. Sul fronte opposto, i funzionari degli Stati Uniti e dell’Unione Europea e i sostenitori delle sanzioni avevano affermato che le sanzioni includevano eccezioni umanitarie e non avevano alcun effetto sulle operazioni umanitarie in Siria, sottolineando che gli stessi Paesi occidentali che impongono sanzioni alla Siria sono anche i maggiori finanziatori delle operazioni delle agenzie dell’Onu in Siria.

Ebbene, ora che il programma alimentare delle Nazioni Unite ha ridotto drasticamente gli aiuti alla Siria per un’asserita mancanza di fondi, per l’UE e gli USA torna di attualità l’abolizione di tutte le sanzioni nei confronti della Siria e cade ogni ipocrita giustificazione per mantenere l’occupazione straniera di parte del territorio, ricco di pozzi petroliferi, come da tempo affermato dal Cato Institute.

Tanto più ingiustificabile è l’atteggiamento di mantenere sanzioni e tagliare sostegni alimentari per affamare il popolo siriano e impedirne la ripresa sociale, economica e civile. «Come possiamo fare, come può vivere il popolo siriano? Ci sono già molte famiglie siriane che mangiano una volta al giorno, solo una volta al giorno. Abbiamo dimenticato cos’è il riscaldamento, perché non possiamo comprare olio o legna da ardere, abbiamo dimenticato cos’è l’acqua calda, abbiamo dimenticato cos’è una società», ha denunciato con forza l’arcivescovo di Homs, che ha chiesto: «Perché vogliono far morire questo popolo? Non è possibile che il mondo intero abbandoni il popolo siriano, cosa abbiamo fatto di male per essere condannati a morire?».

A raccogliere il grido di dolore e preoccupazione di mons. Mourad è stata la Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre. Regina Lynch, presidente esecutivo della fondazione, ha dichiarato che nel 2024 la Siria sarà uno dei principali Paesi serviti dall’organizzazione: «In Siria non possiamo parlare di persecuzione in sé, ma stiamo entrando nel tredicesimo anno di guerra, c’è ancora molto conflitto e il terremoto ha reso tutto ancora più difficile. C’è sempre il rischio che la Siria esca dal radar; quindi, è importante per noi continuare a concentrarci sulla Siria e ricordare alla gente cosa sta accadendo lì».

Ora, al G7 o nel prossimo Parlamento europeo, è auspicabile che il governo italiano prenda l’iniziativa, affinché si compiano passi decisi per liberare la Siria da sanzioni omicide dell’intero popolo.

Il 90% dei siriani vive sotto la soglia di povertà e l’Onu taglia gli aiuti

L’ economia della Siria si basa sul settore estrattivo, incentrato sul petrolio (Qarah Shuk, Suwaidiyya, Rumilan, Tayyem), che costituisce oltre il 60% delle esportazioni. un oleodotto collega i campi petroliferi del NE con Homs e con il porto di Baniyas, mentre nella parte meridionale del paese passa l’oleodotto al-Qatif-Sayda. Gli Stati Uniti estraggono il petrolio siriano nelle regioni del Nord controllate dai ribelli ostili al regime.

Nel 2023 i Paesi donatori non si sono impegnati a sufficienza per fronteggiare l’emergenza umanitaria in Siria, dove, dopo oltre 12 anni di guerra e il terremoto che causò decine di migliaia di vittime, manca l’elettricità e l’acqua potabile è distribuita soltanto per poche ore alla settimana, ma per 11 milioni di siriani è un sogno.

Terremoto in Siria

Circa un anno fa, l’Italia è diventata il primo Paese dell’Unione Europea a inviare aiuti ai terremotati in Siria: una squadra composta da 50 operatori, tra pompieri e sanitari, quattro ambulanze e 13 pallet di attrezzature mediche, diretti nelle città di Lattakia, Aleppo, Hama e Tartous attraverso la distribuzione organizzata dalla Mezzaluna rossa siriana (Sarc). Una goccia in un mare. In giugno si calcolava che 12 milioni di siriano fossero alla fame.

Facciamola questa guerra, se proprio dobbiamo e facciamola finita con questa disumanità.

6155.- “Due anni e mezzo fa,” Israele e la Corte Penale Internazionale

La furia e la speranza: l’indagine della Corte Penale Internazionale in Palestina

di redazione Pagine Esteri, 19 aprile 2021… 2021 e il genocidio continua.

Siamo sicuri che con governi diversi, con alleati diversi, palestinesi e israeliani non potrebbero convivere? Come mai, su 8-9 milioni di israeliani, quasi 2 milioni di cittadini sono arabi di Israele, gli arabi del ’48. Costituiscono la più grande minoranza etnica del paese e praticano varie religioni: musulmana sunnita, cristiane di varie confessioni e druse. Sono gli israeliani di etnia araba, figli e nipoti dei palestinesi residenti in quello che divenne territorio di Israele, quelli che, appunto, non presero parte all’esodo palestinese nel 1948.

La furia e la speranza: l’indagine della Corte Penale Internazionale in Palestina

di Romana Rubeo*

Pagine Esteri, 19 aprile 2021  –  Venerdì 9 aprile era la data fissata dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per ricevere una risposta da Israele in merito alla possibile indagine su crimini di guerra perpetrati nei territori palestinesi occupati. Dopo la notifica ufficiale, inviata agli inizi di marzo, Tel Aviv aveva, infatti, un mese di tempo per informare la Corte di eventuali procedimenti “sui propri cittadini relativamente ai crimini indicati dall’articolo 5 dello Statuto di Roma”, e chiedere una eventuale sospensione dell’indagine.

In questi trenta giorni, il dibattito in Israele è stato piuttosto serrato. Alcuni analisti spingevano affinché Tel Aviv dismettesse la sua condotta intransigente e illustrasse alla Corte la disponibilità a collaborare e a fornire le basi per una eventuale sospensione. Altri, invece, si facevano portatori di quella che, da sempre, sembra essere la linea israeliana: non riconoscere la giurisdizione della Corte e chiudersi a ogni forma di collaborazione.
Dopo una serie di riunioni tra ministri e alti funzionari governativi che non hanno dato un esito certo, nella giornata di giovedì il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha comunicato, a ridosso del termine ultimo previsto, che Israele non ha intenzione di riconoscere l’autorità del Tribunale dell’Aia e che “respinge totalmente” l’accusa di aver commesso crimini di guerra. Netanyahu ha aggiunto che la CPI “non ha il potere di avviare un’indagine contro Israele”, facendo riferimento alla mancata adesione di Tel Aviv allo Statuto di Roma, istitutivo della Corte. Una linea, questa, che non costituisce affatto uno strappo rispetto alla condotta tenuta sin dal primo annuncio della possibile apertura di un’inchiesta.

La procuratrice della CPI, Fatou Bensouda.

L’indagine
Il 20 dicembre del 2019, la procuratrice capo della CPI, Fatou Bensouda, dichiara in una nota ufficiale che vi sono elementi sufficienti per affermare che “siano stati commessi o siano tuttora commessi crimini di guerra in West Bank, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza”.
Al paragrafo 94 della nota della CPI – che non persegue gli Stati, bensì i singoli individui – si fa riferimento a crimini di guerra presumibilmente commessi da membri dell’esercito israeliano o da membri dei gruppi armati di Hamas.
Le reazioni, però, sono molto diverse. Hamas, il movimento di resistenza islamico che governa la Striscia di Gaza dal 2006, si dice subito pronto a collaborare con la Corte. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ribadisce questa intenzione, a più riprese, anche esprimendo la volontà di “accelerare” il procedimento. Israele, al contrario, avvia, sin dalle prime ore, un’intensa attività tesa a fermare l’indagine, sia sul fronte giuridico sia su quello diplomatico.
Da un punto di vista giuridico, la questione dirimente sembra essere quella della giurisdizione della Corte. Può la Palestina essere considerata uno Stato? La CPI ha la giurisdizione territoriale indispensabile per indagare, sulla base dell’articolo 12(2)(a) dello Statuto di Roma?
Sebbene la Palestina avesse già aderito allo Statuto di Roma nel gennaio del 2015 e avesse, dunque, accettato la competenza della Corte, è su questi interrogativi che fanno leva le obiezioni tese a fermare l’indagine e le pressioni esercitate sul Tribunale dell’Aia, in modo più o meno diretto, da parte di Tel Aviv.

da pixabay

Le pressioni sulla Corte
Come previsto dall’articolo 15 dello Statuto di Roma, quando vi sono elementi sufficienti per procedere con un’indagine, alla Corte vengono presentate le relazioni e le osservazioni di Stati, organi delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative e non governative, e degli amici curiae, i quali, non avendo in linea teorica alcun interesse diretto, esprimono un suggerimento o un punto di vista.
Questa fase è stata usata da Israele per esercitare un’intensa attività di lobbying, tesa a fermare il procedimento sul nascere con il pretesto della mancata giurisdizione. Nel febbraio scorso, ad esempio, la Germania ha chiesto e ottenuto lo status di amicus curiae e ha presentato alla Corte una relazione che ricalcava apertamente la visione di Tel Aviv. Nella nota fatta recapitare all’Aia da Berlino si afferma che la giurisdizione della Corte “non si estende ai territori palestinesi occupati. L’articolo 12 dello Statuto di Roma presuppone che vi sia uno ‘stato’ (che) la Palestina non possiede e non ha mai posseduto.”
Il caso della Germania appare eclatante perché, come fatto strumentalmente notare anche nella relazione, si tratta di un Paese “fermo sostenitore della Corte”, ovvero, di uno dei suoi principali finanziatori. Tuttavia, il governo tedesco non è il solo ad agire in tal senso: lo stesso faranno anche Austria, Repubblica Ceca, Brasile, Uganda, Australia e Ungheria. La natura politica e non giuridica di queste osservazioni si può rilevare dalla semplice constatazione che, in passato, alcuni tra questi Paesi avevano già riconosciuto la Palestina come uno stato secondo il diritto internazionale.
Il 30 aprile scorso, dopo aver analizzato i rapporti e le osservazioni di organizzazioni, amici curiae, rappresentanti legali delle vittime e Stati, in una nota della procuratrice Bensouda, la Corte ribadisce che vi sono elementi sufficienti per avviare l’indagine. Chiede, tuttavia, alla Camera Preliminare di esprimersi in merito alla questione della giurisdizione.
Le pressioni non si fermano. Nel giugno scorso, il governo degli Stati Uniti impone sanzioni alla procuratrice capo Bensouda e a un altro ufficiale, Phakiso Mochochoko. L’allora Segretario di Stato Mike Pompeo annuncia anche che gli Stati Uniti procederanno a una restrizione relativa ai visti per alcuni individui “coinvolti nel tentativo della CPI di indagare su funzionari statunitensi”.
Ufficialmente, infatti, la ragione delle sanzioni risiede nell’indagine condotta sui crimini di guerra commessi in Afghanistan, ma gli Stati Uniti non fanno mai mistero del fatto che sia anche un tentativo di colpire l’altra inchiesta, quella sui territori palestinesi occupati. Il 12 giugno, infatti, Pompeo dichiara: “Siamo anche molto preoccupati dalla minaccia posta dalla Corte nei confronti di Israele. È ovvio che la CPI abbia preso di mira Israele per ragioni di natura esclusivamente politica”.
Per quanto l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Corte non fosse mai stato particolarmente collaborativo – ricordiamo infatti che neanche Washington ha mai aderito allo Statuto di Roma – le sanzioni costituivano un precedente allarmante. L’amministrazione di Joe Biden ha di recente deciso di rimuoverle, pur ribadendo la sua ferma opposizione a un’indagine che possa colpire potenziali criminali di guerra israeliani.
Il 5 febbraio scorso, comunque, è arrivata la tanto attesa dichiarazione della Camera Preliminare che ha deciso, a maggioranza, che “la giurisdizione territoriale della situazione in Palestina, stato membro dello Statuto di Roma, si estende ai territori occupati da Israele dal 1967, ovvero Gaza e la West Bank, ivi inclusa Gerusalemme Est”.

da pixabay

La furia di Tel Aviv
La nota della Corte Preliminare, nel mettere teoricamente la parola “fine” alla questione relativa alla giurisdizione, fa tirare un sospiro di sollievo a quanti temevano la possibilità di un’ulteriore frammentazione dell’elemento territoriale palestinese, applicando la giurisdizione della Corte a tutti i territori occupati. Al contempo, però, manda su tutte le furie Israele.
Netanyahu afferma che la decisione è frutto di “puro antisemitismo”. “La Corte, che è stata istituita per prevenire atrocità come l’Olocausto nazista contro il popolo ebraico, adesso prende di mira l’unico e solo Stato del popolo ebraico”, dichiara in un video diffuso sui suoi canali social.
Gabi Ashkenazi, Ministro degli Esteri israeliano, la descrive come un “fallimento morale e legale” e invoca una reazione forte e decisa in una serie di tweet pubblicati il 3 marzo. Tra le figure più critiche vi è anche l’attuale Ministro della Difesa Benny Gantz che ha rivestito il ruolo di Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano dal 2011 al 2015, quindi anche durante la sanguinosa operazione contro Gaza del 2014, inserita tra i possibili oggetti dell’indagine.
È proprio Gantz a fare esplicito riferimento a “gruppi di lavoro operativi in più (sedi) che stanno tentando di influenzare la CPI”. Quando la Reuters gli chiede quanti israeliani potrebbero essere eventualmente coinvolti in un’indagine, Gantz risponde “diverse centinaia” e non dismette i toni militari, sostenendo che “non ha mai avuto paura di attraversare le linee nemiche”. Il Ministro della Difesa continua, scendendo nel dettaglio e sostenendo che Tel Aviv fornirà assistenza anche sulla possibilità, per le persone eventualmente indagate, di viaggiare all’estero. Il timore evidente, infatti, è quello che potrebbero essere diramati mandati di cattura internazionali contro cittadini israeliani.
Dalle dichiarazioni, si evince che Israele sta agendo su più fronti: da un lato, la furia, lo sdegno e la chiusura a qualsiasi forma di cooperazione; dall’altro, una strategia tesa ad agire dietro le quinte per proseguire nel tentativo di esercitare pressioni sull’Aia, sulla procuratrice uscente e, possibilmente, sul nuovo procuratore Karim Khan, che succederà ufficialmente a Bensouda il 15 giugno prossimo.
Una strategia, questa, abbracciata anche dal Presidente israeliano, Reuven Rivlin, che agli inizi di marzo ha visitato vari Paesi europei chiedendo agli “amici (di Israele) di contrastare gli abusi della Corte dell’Aia contro i nostri soldati e cittadini”.
D’altra parte, già nel giugno scorso, Israele aveva individuato 200-300 alti funzionari, ufficiali militari e dei servizi segreti, che potevano essere possibili obiettivi dell’indagine; nella lista, figurano nomi noti e altisonanti, tra cui proprio quelli di Gantz e Netanyahu.

da pixabay

L’ambito dell’indagine
Il prossimo passo della Corte Penale Internazionale dovrebbe essere l’individuazione dei possibili criminali di guerra e la costituzione dei casi. Il dottor Triestino Mariniello, esperto di diritto internazionale e membro del team legale che rappresenta le vittime di Gaza, ci spiega che ora “la procuratrice dovrebbe chiedere alla Camera Preliminare di emanare mandati di arresto o di comparizione almeno relativamente ai crimini inseriti finora nell’indagine”.
Al momento, questi crimini sono incentrati su tre filoni principali.
In primis, la guerra contro Gaza del 2014, definita da Israele “Operazione Margine Protettivo” che, come ricorda il giornalista palestinese Ramzy Baroud, “ha ucciso oltre 2.200 palestinesi – in massima parte civili – e 71 israeliani, in massima parte militari”, distruggendo completamente “17.000 abitazioni e altri edifici, tra cui ospedali, scuole e fabbriche”.
Il secondo filone riguarda le azioni dei militari israeliani contro i civili inermi palestinesi durante la cosiddetta Grande Marcia del Ritorno, imponente mobilitazione popolare avviata nel marzo del 2018 (e sospesa circa due anni dopo) per porre all’attenzione della comunità internazionale i temi del diritto al ritorno – sancito dal diritto internazionale ma mai concesso alla popolazione palestinese – e del blocco che attanaglia Gaza da ormai 15 anni. In quell’occasione, centinaia di civili palestinesi sono stati uccisi dai cecchini disposti lungo la linea di demarcazione che separa la Striscia da Israele, e migliaia sono stati feriti, alcuni in modo irreversibile.
Ancora più complesso dal punto di vista giuridico risulta essere il terzo filone dell’inchiesta, quello relativo agli insediamenti coloniali. In effetti, se nei primi due casi Israele potrebbe dimostrare di aver avviato dei procedimenti interni contro presunti criminali di guerra, non potrebbe far valere la stessa giustificazione sul crimine relativo alla costruzione degli insediamenti che, come sostiene anche l’esperto di diritto internazionale Nick Kaufman sulle pagine di Haaretz, “è in atto ormai da molti anni e non è definita come reato nella legislazione israeliana”.
L’ambito dell’indagine sui territori palestinesi occupati potrebbe, in realtà, essere più esteso. Secondo l’articolo 5 dello Statuto di Roma, che definisce la competenza della Corte, questa può indagare sui seguenti crimini: di genocidio, contro l’umanità, di guerra, di aggressione.
Nel procedimento avviato, si fa, di fatto, riferimento solo alla fattispecie dei crimini di guerra, mentre, come sottolinea il dottor Mariniello, “non si menzionano i ‘crimini contro l’umanità’ che sono invece ampiamente documentati, come sostenuto dalle vittime. Non si fa riferimento agli attacchi sistematici posti in essere dalle autorità israeliane contro la popolazione civile nella West Bank, a Gerusalemme Est e Gaza, né tantomeno al Blocco sulla Striscia”.
Questa situazione, tuttavia, potrebbe cambiare. “La definizione dell’ambito dell’indagine”, prosegue infatti il dottor Mariniello, “non è vincolante. La procuratrice può decidere, in qualsiasi momento, di includere altri crimini”.

In cerca di giustizia
Per comprendere il significato fattuale e simbolico che questa indagine potrebbe rivestire, è sufficiente limitarsi a osservare le reazioni delle due parti, non solo in quelle, già analizzate, delle classi dirigenti, ma anche, più in generale, tra la popolazione e la società civile.
Molti israeliani percepiscono l’indagine come frutto di un pregiudizio su basi politiche; al contrario, i palestinesi non hanno mai celato l’entusiasmo nei confronti di un procedimento che, pur negli inevitabili limiti e ritardi, rappresenta sicuramente una pietra miliare.
“Questa decisione,” commenta Raji Sourani, Direttore Generale del Palestinian Centre for Human Rights, “sta a significare che la comunità internazionale non accetterà più che i civili di Gaza possano essere soggiogati da Israele, e rifiuterà il blocco disumano e le brutali operazioni militari”. La speranza, prosegue Sourani, è che si possa “porre fine all’impunità per i gravi crimini che minacciano pace e sicurezza”.
Se, come spiega il professor Richard Falk, ex Inviato dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, la lotta di liberazione di un popolo non passa solo dalla forza delle armi, ma anche da tutto l’apparato concettuale e simbolico che si riesce a mettere in campo, le speranze dei palestinesi sono sicuramente comprensibili e l’attenzione sulle vicende della Corte dovrebbe riguardare tutti coloro che, in varie vesti, si ergono a paladini dei diritti umani.

*Romana Rubeo è una giornalista italiana, caporedattrice del The Palestine Chronicle

L’articolo è stato pubblicato il 15 aprile 2021 dal sito centroriformastato.it

6041.- Per i crimini di Vladimir Vladimirovich Putin e Ms Maria Alekseyevna Lvova-Belova sì! e per quelli di Benjamin Netanyahu e Joe Biden no!

Ma di quale Corte internazionale di giustizia stiamo parlando? Leggiamo:

Dalla Corte Penale Internazionale. Press Release: 17 Marzo 2023

Ucraina: i giudici della CPI emettono mandati di arresto contro Vladimir Vladimirovich Putin e Maria Alekseyevna Lvova-Belova

ICC HQ

Il 17 marzo 2023, la Camera preliminare II della Corte penale internazionale (“CPI” o “la Corte”) ha emesso mandati di arresto per due persone nel contesto della situazione in Ucraina: Vladimir Vladimirovich Putin e Maria Alekseyevna Lvova-Belova.

Il signor Vladimir Vladimirovich Putin (cognome veneto), nato il 7 ottobre 1952, presidente della Federazione russa, è presumibilmente responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina al territorio russo Federazione (ai sensi degli articoli 8, comma 2, lettera a), punto vii) e 8, comma 2, lettera b), punto viii), dello Statuto di Roma). I crimini sarebbero stati commessi nel territorio occupato dall’Ucraina almeno a partire dal 24 febbraio 2022. Vi sono fondati motivi per ritenere che Putin abbia una responsabilità penale individuale per i suddetti crimini, (i) per aver commesso gli atti direttamente, insieme ad altri e/o attraverso altri (articolo 25(3)(a) dello Statuto di Roma), e (ii) per non aver esercitato adeguatamente il controllo sui subordinati civili e militari che hanno commesso gli atti, o ne hanno permesso la commissione, e che erano sotto il suo effettivo controllo autorità e controllo, in forza della responsabilità superiore (articolo 28, lettera b), dello Statuto di Roma).

La sig.ra Maria Alekseyevna Lvova-Belova, nata il 25 ottobre 1984, commissaria per i diritti dell’infanzia presso l’ufficio del presidente della Federazione Russa, è presumibilmente responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa (ai sensi degli articoli 8(2)(a)(vii) e 8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma). I crimini sarebbero stati commessi nel territorio occupato ucraino almeno a partire dal 24 febbraio 2022. Vi sono fondati motivi per ritenere che la sig.ra Lvova-Belova abbia una responsabilità penale individuale per i suddetti crimini, per aver commesso i fatti direttamente, insieme ad altri e/o attraverso altri (articolo 25, paragrafo 3, lettera a), dello Statuto di Roma).

La Camera Preliminare II ha ritenuto, sulla base delle richieste dell’accusa del 22 febbraio 2023, che vi sono ragionevoli motivi per ritenere che ciascun sospettato sia responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione e di quello di trasferimento illegale di popolazione dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa, a danno dei bambini ucraini.

La Camera ha ritenuto che i mandati siano segreti al fine di proteggere le vittime e i testimoni e anche di salvaguardare le indagini. Tuttavia, consapevole che le condotte oggetto della presente fattispecie sarebbero tuttora in corso, e che la conoscenza da parte dell’opinione pubblica dei mandati può contribuire a prevenire la commissione di ulteriori reati, la Camera ha ritenuto che sia nell’interesse della giustizia autorizzare la Cancelleria di rendere pubblica l’esistenza dei mandati, il nome degli indagati, i reati per i quali i mandati sono emessi e le modalità di responsabilità stabilite dalla Camera.

I predetti mandati di arresto sono stati emessi a seguito delle istanze presentate dalla Procura il 22 febbraio 2023.

Immagine

ICC President Judge Piotr Hofmański

Video statement of ICC President Judge Piotr Hofmański:

YouTube (for viewing) NO COMMENT


6140.- Gaza. Quando il troppo è troppo.

Prima, i soldati ammazzano tre ostaggi, per sbaglio. Ieri:

Gaza, gli israeliani attaccano la parrocchia della Sacra Famiglia: due donne uccise. Comunicato del Patriarcato Latino di Gerusalemme.

Di Sabino Paciolla | Dicembre 17th, 2023. Di seguito, nella mia traduzione, il comunicato del Patriarcato Latino di Gerusalemme.

Card. Pierbattista Pizzaballa patriarca di Gerusalemme - Ammar Awad / Reuters
Card. Pierbattista Pizzaballa patriarca di Gerusalemme – Ammar Awad / Reuters

Intorno a mezzogiorno di oggi, 16 dicembre 2023 16, un cecchino dell’IDF (militari israeliani, ndr)

Sì, prima di ammazzare queste due poverette, un cecchino dell’Esercito israeliano aveva sparato a tre ostaggi che tenevano in mano una bandiera bianca. E, così, per quanto riguarda gli ostaggi, sono sei quelli ammazzati in un solo giorno da queste vittime del nazismo. Non è che ne hanno imparato i metodi?

ha ucciso due donne cristiane all’interno della parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, dove si è rifugiata la maggior parte delle famiglie cristiane dall’inizio della guerra. Nahida e la figlia Samar sono state uccise a colpi di arma da fuoco mentre si dirigevano al Convento delle Suore. Una è stata uccisa mentre cercava di portare in salvo l’altra. Altre sette persone sono state colpite e ferite mentre cercavano di proteggere gli altri all’interno del complesso della chiesa. Non è stato dato alcun avvertimento, non è stata fornita alcuna notifica. Sono stati uccisi a sangue freddo all’interno dei locali della Parrocchia, dove non ci sono belligeranti.

Nelle prime ore della mattina, un razzo lanciato da un carro armato dell’IDF ha preso di mira il Convento delle Suore di Madre Teresa (Missionarie della Carità). Il Convento ospita oltre 54 disabili e fa parte del complesso ecclesiastico, segnalato come luogo di culto fin dall’inizio della guerra. Il generatore dell’edificio (l’unica fonte di elettricità) e le risorse di carburante sono state distrutte. La casa è stata danneggiata dalla conseguente esplosione e dal massiccio incendio. Altri due razzi, lanciati da un carro armato dell’IDF, hanno preso di mira lo stesso convento e hanno reso la casa inabitabile. Le 54 persone disabili sono attualmente sfollate senza possibilità di utilizzare i respiratori di cui alcuni di loro hanno bisogno per sopravvivere.

Inoltre, a seguito dei pesanti bombardamenti avvenuti nella zona, la notte scorsa tre persone sono rimaste ferite all’interno del complesso della chiesa. Inoltre sono stati distrutti pannelli solari e cisterne per l’acqua, indispensabili per la sopravvivenza della comunità.

Insieme nella preghiera con tutta la comunità cristiana, esprimiamo la nostra vicinanza e il nostro cordoglio alle famiglie colpite da questa insensata tragedia. Allo stesso tempo, non possiamo non esprimere il fatto che non riusciamo a comprendere come un simile attacco possa essere stato realizzato, tanto più che tutta la Chiesa si prepara al Natale.

Il Patriarcato latino di Gerusalemme segue con grande preoccupazione questa situazione in evoluzione e fornirà ulteriori informazioni, se necessario.

Patriarcato Latino di Gerusalemme

Concludendo: Netanyahu e Biden hanno passato il segno e più non basta l’olocausto a perdonare tanto orrore.

Leggevo di Putin, l’altro ieri, che ha avuto un colloquio lungo e aspro con Netanyahu sul genocidio dei gazesi. Poi, abbiamo saputo dei tre uccisi per errore dall’esercito israeliano. Erano tre ostaggi. Oggi leggo di un’insensata tragedia ai danni della comunità cristiana di Gaza. Sembra che la vita conti solo per alcuni e non per tutti. nRicordiamo che la Corte penale internazionale, credo in febbraio 2023, ha emesso due mandati di arresto nei confronti di Vladimir Vladimirovich Putin e Maria Alekseyevna Lvova-Belova.

Gli illeciti contestati sono stati il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa[articoli 8(2)(a)(vii) e 8(2)(b)(viii) dello Statuto di Roma], reati che il presidente russo avrebbe commesso personalmente e insieme ad altri. A quando una sentenza per Netanyahu e per il suo mentore Biden?

6138.- GAZA. Popolazione alla fame, prezzi alle stelle. Gli aiuti vengono distribuiti solo in parte

L’Onu comunica che alcune consegne limitate di aiuti sono avvenute nell’area di Rafah ma ma nel resto di Gaza la distribuzione è in gran parte interrotta, a causa dell’intensità dei bombardamenti.

GAZA. Popolazione alla fame, prezzi alle stelle. Gli aiuti vengono distribuiti solo in parte

della redazione Pagine Esteri, 15 dicembre 2023

La gente di Gaza non ha più pane, deve fare i conti con prezzi che sono aumentati anche di 50 volte e spesso deve macellare asini per sfamarsi. Ciò mentre i camion con gli aiuti alimentari ed umanitari della Mezzaluna rossa e delle Nazioni unite non riescono a raggiungere numerose aree della Striscia di Gaza, in particolare a nord, a causa dei bombardamenti israeliani. L’ufficio umanitario delle Nazioni Unite Ocha ha comunicato che alcune distribuzioni limitate di aiuti sono avvenute nell’area di Rafah, vicino al confine con l’Egitto, dove si stima che viva quasi la metà della popolazione di Gaza di 2,3 milioni di abitanti.

“Nel resto della Striscia di Gaza, la distribuzione degli aiuti è in gran parte interrotta, a causa dell’intensità delle ostilità e delle restrizioni alla circolazione lungo le strade principali”, si legge in un comunicato.

Secondo i civili palestinesi, spingere la popolazione di Gaza alla fame sarebbe uno degli obiettivi dell’offensiva militare israeliana. “Gli israeliani ci hanno costretto a lasciare le nostre case, poi le hanno distrutte e ci hanno portato al sud dove possiamo morire sotto le loro bombe o di fame”, ha dichiarato uno sfollato a giornalisti locali. Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, ha detto che persone affamate fermano i camion degli aiuti per prendere cibo e mangiarlo subito.

Youssef Fares, giornalista di Jabalia, nel nord, dice che i beni di base, come la farina, sono ormai così difficili da trovare che i prezzi sono aumentati da 50 a 100 volte rispetto a prima della guerra. “Stamattina sono andato in cerca di un pezzo di pane e non l’ho trovato. Al mercato sono rimaste solo caramelle per i bambini e qualche barattolo di fagioli, il cui prezzo è salito di 50 volte”, ha scritto su Facebook. “Ho visto qualcuno che macellava un asino per darlo ai membri della sua famiglia”, ha aggiunto.

Tutti i camion degli aiuti entrano a Gaza attraverso il valico di Rafah con l’Egitto, ma prima devono essere ispezionati da Israele. Da quando le consegne sono iniziate il 20 ottobre, le ispezioni avvengono al valico di Nitzana tra Israele ed Egitto, costringendo i camion a fare il giro da Rafah a Nitzana e ritorno. Ciò causa forti ritardi nell’ingresso degli aiuti nella Striscia.

Mercoledì sono entrati a Gaza 152 camion di aiuti, rispetto ai circa 100 del giorno precedente, ma è solo una frazione di ciò che è necessario per affrontare la catastrofe umanitaria in corso. Due giorni fa Israele ha avviato ulteriori ispezioni al valico di Kerem Shalom. Potrebbe fare una differenza significativa se Israele lasciasse passare i camion direttamente a Kerem Shalom, ma ha scelto di non farlo.

Dal 7 ottobre, giorno dell’attacco compiuto dal movimento islamico Hamas nel sud di Israele (1200 morti, in maggioranza civili), i bombardamenti e l’offensiva di terra delle forze armate israeliane hanno provocato circa 19mila morti tra i palestinesi, in prevalenza civili, tra cui migliaia di bambini e donne. Pagine Esteri

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6129.- Gaza, ultime notizie: Israele sta allagando con acqua di mare i tunnel di Hamas. E gli ostaggi? L’Onu approva risoluzione per cessate il fuoco a Gaza

Israele inizia a pompare acqua dal mare nei tunnel di Gaza. Una misura che doveva attendere il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi prigionieri nei tunnel. Il cinismo in queste guerre è senza limiti. Vuoi che abbiano deciso che muoiano gli ostaggi con tutti i terroristi?

L’isolamento di Israele e degli Stati Uniti in tutto il mondo è palese. Australia, Canada e Nuova Zelanda sostengono gli sforzi per un cessate il fuoco sostenibile a Gaza. Oggi i primi ministri dei tre Paesi in un comunicato congiunto , hanno dichiarato: “Siamo allarmati per la diminuzione dello spazio sicuro per i civili a Gaza. Il prezzo della sconfitta di Hamas non può essere la continua sofferenza di tutti i civili palestinesi”. Ma un cessate il fuoco non può essere unilaterale e Hamas deve rilasciare tutti gli ostaggi e smettere di usare i civili palestinesi come scudi umani, hanno aggiunto.

Le notizie del 12 dicembre 2023 tratte da Ilsole24ore, da un articolo a cura di Angela Manganaro e Vittorio Nuti

  • L’esercito israeliano ha iniziato a pompare acqua di mare nel vasto complesso di tunnel di Hamas a Gaza, parte di un intenso sforzo per distruggere l’infrastruttura sotterranea che ha sostenuto le operazioni del gruppo: lo scrive in esclusiva il Wall Street Journal, citando dirigenti Usa informati sulle operazioni dell’esercito israeliano.
  • Assemblea Onu approva risoluzione per immediato cessate il fuoco a Gaza. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a stragrande maggioranza per chiedere un cessate il fuoco umanitario a Gaza in una forte dimostrazione di sostegno globale per porre fine alla guerra tra Israele e Hamas. La votazione mostra anche il crescente isolamento degli Stati Uniti e di Israele. 153 i sì, 10 i contrari e 23 gli astenuti. Il sostegno è stato superiore a quello della risoluzione del 27 ottobre che chiedeva una “tregua umanitaria” che porti alla cessazione delle ostilità. Nell’occasione furono 120 i voti a favore, 14 i contrari e 45 gli astenuti.
  • Assemblea Generale Onu boccia emendamenti Usa e Austria. L’Assemblea Generale dell’Onu ha bocciato i due emendamenti proposti da Austria e Usa che non hanno raggiunto la maggioranza richiesta di due terzi. L’emendamento dell’Austria, nel paragrafo in cui si domanda il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, aggiungeva la citazione “detenuti da Hamas e altri gruppi”, e poi chiedeva la garanzia “immediata” dell’accesso umanitario. Mentre quello degli Usa chiedeva di “respingere inequivocabilmente e condannare l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la presa degli ostaggi”. 
  • Il presidente dell’Assemblea Generale Onu Dennis Francis, aprendo la sessione speciale di emergenza, ha parlato di un “deterioramento devastante della situazione umanitaria a Gaza”. “Stiamo assistendo ad un assalto ai civili e alla profonda mancanza di rispetto per le leggi umanitarie umanitarie – ha aggiunto – anche la guerra ha delle leggi”. “La violenza deve finire, serve un cessate il fuoco umanitario immediato, è l’unico primo passo realistico da intraprendere per allentare le tensioni – ha detto – Abbiamo una sola priorità, salvare vite”. 
  • Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, vede compromessa la sua campagna elettorale e commentando la situazione in Medio Oriente durante una raccolta fondi a Washington, secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, ha rilasciato alcune dichiarazioni: “Israele sta cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo”. Ha sottolineato che Netanyahu “deve rafforzare e cambiare” il governo israeliano per trovare una soluzione a lungo termine al conflitto israelo-palestinese. “Deve cambiare e cambiare il suo governo, non potrà dire “no” a uno Stato palestinese in futuro.” Benjamin “Netanyahu è un buon amico, ma credo debba cambiare.

10 soldati israeliani morti a Gaza in imboscata

Adnkronos, Mercoledì 13 Dicembre 2023

Gaza, Israele:

I militari israeliani hanno confermato la morte di dieci soldati in un’imboscata complessa a Shejaiya, a est di Gaza City. Sette soldati un comandante di battaglione, un maggiore e un colonnello sono stati uccisi con Ied o sono stati colpiti dal fuoco proveniente dagli edifici. Fra questi, il Guardian scrive che c’è il tenente colonnello Tomer Greenberg, un comandante della Brigata Golani, che il 7 ottobre, aveva salvato due gemelli neonati a Kfar Aza dopo l’uccisione dei loro genitori, e adesso è morto nel tentativo di recuperare quattro soldati feriti. Greenberg e altri militari.

Anche il Times of Israel “Mentre erano impegnati in perlustrazioni per ripulire gli edifici nel cuore della casba di Shejaiya, una zona considerata affollata e piena di obiettivi terroristici, c’è stata una grande esplosione in uno degli edifici e diversi soldati del 13esimo battaglione sono rimasti feriti”, ha fatto sapere la Brigata Golani. Secondo i rapporti, i soldati si stavano avvicinando a un edificio quando sono stati attaccati, con colpi esplosi da un palazzo alto, ed è così iniziato uno scontro a fuoco durante il quale sono stati colpiti da granate e da una carica esplosiva che ha provocato il ferimento di quattro militari, rimasti così isolati dal resto dell’unità. E quando altri soldati sono arrivati in soccorso del primo gruppo, si è verificata un’altra esplosione. Anche un terzo gruppo, che cercava di avvicinarsi per recuperare i feriti, è stato colpito dall’esplosione di uno ied. Le Idf hanno fatto sapere che fra i caduti a Gaza dall’inizio dell’operazione di terra 20 sono morti a causa di fuoco amico o di incidenti (13 sono stati scambiati erroneamente per “terroristi”).

Forti piogge sulla Striscia e per gli sfollati le condizioni sono sempre più estreme. La maggior parte degli israeliani considera ancora necessario il conflitto, ma sui social media ci sono israeliani che si interrogano se l’escalation nelle operazioni di terra possa essere collegata al pressing degli Usa per ridurre l’intensità dei raid aerei.