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6199.- La settimana Indo-Pacifica degli US

Da Formiche.net, Indo Pacific Salad, A cura di Emanuele Ros
Non succede frequentemente che la strategia di un Paese si dimostri in modo così esplicito come sta succedendo in questa settima per gli Stati Uniti e la loro visione dell’Indo Pacifico. Quell’insieme di interpretazioni dottrinali e pratiche che compone il pensiero americano si sta mostrando davanti ai nostri occhi. Il concetto di “free and open Indo-Pacific”; la creazione di un network di partnership composto da sistemi di alleanze minilaterali e più informali; il ruolo centrale della collaborazione nell’industria militare e quella in settori super cruciali come le nuove tecnologie; il confronto competitivo con la Cina, i meccanismi di guardrail, i rischi della congiunzione Mosca-Pechino; l’infiammabilità dei flashpoint; la necessità di non far percepire eccessivamente il peso della competizione tra potenze a Paesi terzi, più esterni e interessati a un multi-allineamento tattico e strategico. Sono giorni in cui tutti i temi che di solito riguardano la regione si muovono direttamente nelle cronache.Gli appuntamenti Per la prima volta in nove anni, un premier giapponese torna alla Casa Bianca. Proprio mentre questa newsletter arriva nelle vostre caselle, Kishida Fumio discute con Joe Biden dell’alleanza più solida e strategica che caratterizza la presenza americana nell’Indo Pacifico (da tener a mente: il concetto “free and open Indo-Pacific” che Washington utilizza per definire la propria visione globale della regione è mutuato dal pensiero di Abe Shinzo, predecessore di Kishida). Il cuore del viaggio di Kishida è la decisione di rafforzare la già profonda cooperazione militare nippo-americana: lo definiscono in tanti un evento “storico”. Ma domani i due saranno raggiunti dal presidente filippino, Ferdinand Marcos Jr, per un altro storico, inedito incontro americano-centrico del nuovo minilaterale Manila-Washington-Tokyo. La riunione avviene a pochi giorni dalle prime esercitazioni dei tre, e con l’Australia, nel Mare delle Filippine, dove Pechino sta compiendo azioni aggressive nell’ambito delle rivendicazioni sul bacino del Mar Cinese (la risposta della Repubblica popolare non si è fatta attendere: manovre militari sono state organizzate nello stesso teatro e nello stesso giorno, domenica 7 aprile). Nei giorni scorsi si è parlato anche della possibilità di ampliamento dell’Aukus, con Usa, Regno Unito e Australia che accoglieranno nuovi partner nel quadro del “Pillar 2” dell’alleanza (dove non si parlerà di sottomarini, ma di altre tecnologie di difesa e civili). Il Giappone (con il Canada) è in pole position — tanto che si parla già di “Jaukus” — ma in futuro anche le Filippine potrebbero in qualche misura esserne parte. Sempre nei giorni scorsi è arrivato negli Stati Uniti il capo di Stato maggiore della marina taiwanese, Tang Hua, per parlare di pratiche, tattiche, approvvigionamenti e interoperabilità. A proposito di Taiwan, TSMC, il gigante dei chip, riceverà fondi attraverso il Chips and Science Act nell’ambito dell’accordo di partnership industriale con gli Stati Uniti (che vogliono fornire uno scudo politico ai ritardi della mega fabbrica progettata in Arizona, mentre si torna a parlare di “scudo di silicio”). Restando a Taipei, Xi Jinping — che sempre in questi giorni ha ospitato il presidente degli Stati federati di Micronesia Wesley Simina, in visita di Stato in Cina — e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou si sono incontrati con tutti gli onori nella Grande Sala del Popolo (è la prima volta che succede dal 1949 che un leader corrente o ex viene ricevuto con certe attenzioni). Una mossa che pare tesa a mettere in risalto le posizioni più dialoganti presenti a Taipei, spiega Lorenzo Lamperti su China-files. Lamperti, unico giornalista italiano nella capitale taiwanese e tra i massimi esperti del Paese, aggiunge che Pechino sta provando a “squalificare” quelle che considera “forze secessioniste”, a partire da quelle del presidente eletto Lai Ching-te (che si insedierà il prossimo 20 maggio). Non bastasse quanto elencato finora a definire la settimana: nei giorni scorsi Biden ha avuto una conversazione telefonica con Xi, in cui è stato ribadito quella che la Cina chiama “visione di San Francisco” (dal summit di novembre), ma gli Usa insistono di aver dettato i paletti su Taiwan e sulla collaborazione cinese con la Russia. Eppure…I rivali In tutto questo, a Pechino è arrivato Sergei Lavrov. Il ministro degli Esteri russo è stato accolto dal collega Wang Yi (omologo per rango, ma Wang è anche il capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese e tra i più diretti confidenti del leader Xi). Attenzione perché la missione di Lavrov non ha solo funzione tecnica di preparazione della visita di Stato di Vladimir Putin (programmata per maggio), ma porta con sé un grande messaggio politico. Sempre in questi giorni, infatti, la capitale cinese ha ospitato una delegazione americana guidata dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen, la quale ha avvisato di “serie conseguenze” se l’assistenza militare — tramite l’industria della Difesa — di Pechino all’invasione su larga scala russa dell’Ucraina verrà “confermata” (significa che Washington ha più che un sospetto, ma attende il momento giusto per muoversi?). Contemporaneamente, sempre in questi giorni, una delegazione militare cinese è stata ospitata alle Hawaii dal Comando Indo Pacifico del Pentagono: sono stati i primi scambi del genere, military-to-military, dal 2021. Ossia: la Cina manda segnali, accetta forme di dialogo (innanzitutto quelle economiche, con Yellen e altri segretari dei settori finanziario e commerciale), e ora anche quelle militari (fondamentali per evitare incidenti potenzialmente devastanti in zone di sovrapposizione). Tuttavia, spinge sull’asse con Mosca che indispettisce Washington e indispone l’Europa. Valutazione come sintesi estremizzata di tutto ciò fatta da Matt Pottinger e Mike Gallagher: “Gli Stati Uniti non dovrebbero gestire la competizione con la Cina; dovrebbero vincerla”.Il contesto In tutto questo, va tenuto in mente il contesto tracciato da un lavoro prodotto allo Yusof Ishak Institute di Singapore: dai dati emerge che, per la prima volta nella storia, sempre più persone nel Sudest asiatico preferiscono che i loro Paesi si allineino con la Cina piuttosto che con gli Stati Uniti. La fonte dello studio è autorevole e il risultato è un’indicazione chiave non solo per Washington, ma anche per Paesi teoricamente terzi alla competizione diretta che scelgono di avventurarsi nella strategia indo-pacifica dialogando con gli attori regionali e non solo (perché in qualche modo riguarda una percezione condivisa anche nel Global South, e non solo in quello asiatico).

6119.- Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Da Formiche.net, di Ferruccio Michelin, 11/02/2024 – 

Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Il Pentagono racconta come procede la Indo-Pacific Strategy a due anni dal lancio, tra cooperazione nel Quad, impegni storici con Giappone, Australia e Corea del Sud, la centralità dell’India e nuove attività con Filippine e Asean

Nel biennio successivo alla pubblicazione della Indo-Pacific Strategy  da parte dell’amministrazione Biden-Harris, il Pentagono ha lavorato come non mai con alleati e partner per promuovere una visione condivisa di una regione libera e aperta. “Le nazioni dell’Indo Pacifico stanno contribuendo a definire la natura stessa dell’ordine internazionale, e gli alleati e i partner degli Stati Uniti in tutto il mondo hanno un interesse nei suoi risultati”, afferma la strategia in un passaggio che è guida per comprendere l’impegno americano nella regione (e non solo: anche quello europeo descritto nell’ultima edizione di “Indo Pacific Salad” nasce e procede secondo certi cardini).

Il Pentagono ha prodotto un “Fact-Sweet”, ossia una scheda informativa per fare il punto delle attività a due anni dal lancio della strategia (lo avevo fatto anche nel 2023, dopo il primo anno). La scheda è prodotta dal dipartimento della Difesa del Paese che sta celebrando l’anniversario, dunque tutto è meno che un’informazione scevra da narrazioni e interessi, tuttavia è molto interessante analizzare i contenuti trattati, i toni usati, la priorità. Il punto chiave è questo: !”Il nostro approccio si ispira e si allinea a quello dei nostri amici più stretti”.

Il primo dei punti salienti analizzati riguarda il vertice che ha dato vita ai “Camp David Principles”, l’accordo con cui i leader di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud si sono impegnati ad approfondire la cooperazione trilaterale di difesa (e guardano a successivi segmenti di sviluppo). L’incontro è stato un momento fondamentale del 2023, perché Tokyo e Seul, i principali partner indo-pacifici statunitensi, non erano in rapporti amichevoli e il vertice a tre di Camp David potrebbe aver rivoluzionato la storia (per esempio, si apre un meccanismo di condivisione dei dati di allerta missilistica in tempo reale sulla Corea del Nord).

Poi il rilievo viene spostato sul Quad – il sistema di comunicazione strategica tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone. Per il Pentagono, sta fornendo una maggiore trasparenza marittima attraverso il Partenariato Indo-Pacifico per la Consapevolezza del Dominio Marittimo (Ipmda) potenziando le capacità dei partner di monitorare le loro acque. Nel  corso dell’anno, probabilmente dopo le elezioni Usa2024, ci sarà un nuovo vertice tra i quattro leader, perché l’intesa è ormai istituzionalizzata e in rapida fase di implementazione.

Il ruolo indiano è prioritario non solo nel Quad. Washington e New Delhi stanno accelerando l’integrazione tra i settori industriali della difesa di entrambi i paesi e il dialogo sulle nuove tecnologie iCET, e gli Stati Uniti stanno sostenendo la modernizzazione della difesa dell’India, anche attraverso la coproduzione di motori per jet da combattimento e veicoli corazzati (obiettivo: rompere la profonda dipendenza indiana dalle armi russe, permettere al Subcontinente di avere una dimensione militare-strategica propria moderna per sostenere il confronto con la Cina).

Da qui, restando su un altro dei lati del Quad, l’Unbreakable Alliance tra gli Stati Uniti e l’Australia viene raccontata come “più forte che mai” e in effetti sta realizzando una serie di iniziative chiave di postura strategica, tra cui l’aumento delle rotazioni di bombardieri e caccia statunitensi e di mezzi navali dell’esercito statunitense, la cooperazione ampliata tra le forze marittime e terrestri, la cooperazione potenziata nello spazio e nella logistica, e il proseguimento degli aggiornamenti delle basi chiave. Ovviamente, non può essere tralasciato l’Aukus (che potrebbe anche essere ampliato).

Ultimo lato, quello nipponico: l’alleanza con Tokyo rimane la pietra angolare della pace e della stabilità nell’Indo Pacifico e gli sforzi degli ultimi due anni si sono concentrati sull’aumento del coordinamento dell’alleanza, sul potenziamento della capacità dell’alleanza di dissuadere e, se necessario, rispondere alle minacce, e sull’ottimizzazione della postura delle forze statunitensi in Giappone basata su concetti operativi migliorati e nuove capacità.

Poi viene dato spazio alle Filippine, con cui gli Stati Uniti nel 2023 hanno compiuto significativi progressi per aumentare l’interoperabilità, accelerare lo sviluppo delle capacità e investire in infrastrutture condivise, tra cui in quattro nuovi siti che rientrano nel’Accordo di Cooperazione per la Difesa Potenziata e attraverso oltre 100 milioni di dollari di nuovi investimenti. Davanti al bullismo geopolitico cinese, Washington ha rilanciato l’accordo di cooperazione sulla difesa con Manila.

Infine, l’attività complessa con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (Asean), un insieme di Paesi molto connesso con la Cina (sia sul piano economico sia culturale) con cui Washington lavora più profondamente che mai, anche attraverso programmi di capacity-building e corsi di formazione guidati dal Pentagono. L’Asean è strategicamente fondamentale, perché sono quei Paesi che pressano per evitare che la regione indo-pacifica diventi soltanto un terreno di scontro tra potenze.

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

5712.- Stati Uniti e Cina “vanno alla deriva verso la guerra”: ex presidente di Joint Chiefs

La visita di Antony Blinken a Pechino ha dimostrato l’urgenza di rimodulare i rapporti fra Cina e Stati Uniti, non più nel solo Mare Cinese Meridionale, ma nel mondo e ha detto anche che, dal punto di vista militare, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire la sicurezza di Taiwan senza dover ricorrere alle armi nucleari.

Possiamo dedurre che la strategia di Washington di dominare economicamente e militarmente l’Europa e la Federazione russa per poter affrontare la Cina sia stata un fiasco. Già qui, la leadership degli Stati Uniti non garantisce più l’Occidente rispetto alle potenze asiatiche emergenti e questo sarà molto chiaro, innanzitutto, a Nuova Delhi, a Seoul, Camberra e a Tokio.

Urge un cambio di rotta e sovviene la Dichiarazione di Pratica di Mare del 28 maggio 2002 e denominata NATO-Russia Relations: A New Quality  e, oggi, gli elogi commemorativi di Vladimir Putin e della Duma a Silvio Berlusconi assumono nuovamente il significato di una necessaria normalizzazione fra i rapporti della Federazione russa con la NATO e, forse, l’auspicio di una nuova NATO e di una nuova Ue.

Fishermen in a harbor on Pingtan island, opposite Taiwan, in China's southeast Fujian Province on April 9, 2023. - China was conducting a second day of military drills around Taiwan on April 9, in what it has called a "stern warning" to the self-ruled island's government following a meeting between its president and the U.S. House speaker. (Greg Baker/AFP via Getty Images)

Pescatori in un porto sull’isola di Pingtan, di fronte a Taiwan, nella provincia cinese sud-orientale del Fujian, il 9 aprile 2023. – Il 9 aprile la Cina stava conducendo una seconda giornata di esercitazioni militari intorno a Taiwan, in quello che ha definito un “severo governo dell’isola autogovernato, facendo seguito a un incontro tra il suo presidente e il presidente della Camera degli Stati Uniti. (Greg Baker/AFP tramite Getty Images)

Andrew Thornebrooke

Da Epoch Times. Di Andrew Thornebrooke, 21 giugno 2023. Traduzione libera e note di Mario Donnini.

Gli Stati Uniti stanno andando alla deriva in una guerra con il regime comunista cinese che potrebbe sconvolgere l’ordine globale e distruggere le economie di tutto il mondo, secondo l’analisi di due ex leader militari. Un potenziale conflitto tra Stati Uniti e Cina su Taiwan si tradurrebbe in una catastrofe globale, ma è, tuttavia, o sta diventando uno scenario sempre più probabile, secondo l’ex presidente del Joint Chiefs of Staff Mike Mullen.

“Sono preoccupato perché stiamo andando alla deriva verso una guerra”, ha detto Mullen durante un colloquio del 20 giugno con il think tank del Council on Foreign Relations.

Ha aggiunto che “[Taiwan] è un’isola che si trova al centro di quattro delle cinque principali economie del mondo”. “Inoltre, ha detto, dato che Taiwan produce il 90 percento dei semiconduttori avanzati del mondo, utilizzati in tutto, dai camioncini ai missili ipersonici, un conflitto per l’isola “devasterebbe il globo”.

Mullen ha affermato che gli sforzi degli Stati Uniti per scoraggiare un’escalation verso il conflitto nello Stretto di Taiwan “falliscono da molti anni”.

Mullen non dice come gli Stati Uniti intenderebbero scoraggiare un escalation. ndt.

La Cina “sta costruendo un esercito per affrontare gli Stati Uniti”

Il Partito Comunista Cinese (PCC), che governa la Cina come stato a partito unico, afferma che Taiwan fa parte del suo territorio e deve essere unita alla terraferma con ogni mezzo necessario. I funzionari del PCC hanno quindi minacciato di iniziare una guerra per impedire il riconoscimento internazionale dell’indipendenza de facto di Taiwan.

Nonostante ciò, il regime non ha mai controllato nessuna parte dell’isola, che è governata da un governo democraticamente eletto.

Il PCC ha aumentato la sua aggressività sia contro Taiwan che contro gli Stati Uniti negli ultimi anni, inviando spesso aerei da combattimento e navi militari nelle acque e negli spazi aerei vantati da Taiwan per molestare le forze statunitensi e taiwanesi nella regione.

Garantire la continua sicurezza di Taiwan è un “interesse vitale per gli Stati Uniti”, ha affermato Mullen. Scoraggiare un’invasione dell’isola da parte del PCC, tuttavia, richiederà agli Stati Uniti di intraprendere azioni coraggiose contro il regime il prima possibile.

“Chiaramente, la Cina, oggi, è molto più aggressiva, molto più coercitiva dal punto di vista militare, diplomatico, economico e politico”, ha detto Mullen.

“Riequilibrare ciò significa che dovremo compiere passi piuttosto aggressivi che, in un momento di forti tensioni, potrebbero essere interpretati nel modo sbagliato”.

Tale stato di cose accentua ancora più l’instabilità, dato che la leadership militare statunitense ha riferito che il PCC sta sviluppando le sue forze armate per superare il livello delle difese statunitensi nella regione.

Parla l’ammiraglio in pensione Harry Harris

Questo è quanto l’ammiraglio in pensione Harry Harris, che in precedenza era stato comandante del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, ha riconosciuto durante l’evento del Council on Foreign Relations.

“Stanno costruendo il loro esercito per affrontare gli Stati Uniti, i nostri militari e quelli dei nostri amici, alleati e partner”, ha detto Harris.

Avendo questo in mente, Harris ha affermato che impedire a poteri come il PCC di divorare governi più piccoli e democratici diventa vitale per prevenire il sovvertimento dell’ordine in tutto il mondo.

Harris non realizza o non vuole accettare che, rispetto a ieri, gli Stati Uniti non hanno la stessa capacità i sostenere il loro ordine mondiale. ndt.

“Se permettiamo a un grande paese autocratico di farsi strada con paesi democratici più piccoli, ad esempio Ucraina e Taiwan, l’ordine mondiale globale come lo conosciamo è finito. Potrebbe fare bene “, ha detto Harris.

“Ci sono 24 milioni di taiwanesi che vogliono vivere la loro vita proprio come facciamo io e te. Non vogliono vivere in un sistema comunista governato da un paese che sta commettendo un genocidio contro il proprio popolo e brutalizzando Hong Kong per portarlo sotto il dominio cinese”.

Tuttavia, ha detto Harris, difendere Taiwan dall’invasione del PCC comporterebbe perdite in vite umane e tesori mai visti dalla seconda guerra mondiale. Con questo in mente, ha detto, gli americani dovrebbero considerare fino a che punto sono disposti a sacrificare per preservare la democrazia.

Il Nuovo Ordine Mondiale sta procedendo ovunque verso lo stato di sorveglianza di modello cinese, una nuova era del controllo sociale e questa non è democrazia. ndt.

“Il costituente più importante è il popolo americano perché sono i tuoi figli e le tue figlie che combatteranno e moriranno per Taiwan se andiamo in guerra contro la Cina”, ha detto Harris.

Hualien Air Force base

Qui, i soldati dell’aeronautica sgombrano la piazzola di un caccia F-16V, armato, durante un’esercitazione alla base dell’aeronautica militare di Hualien nella contea di Hualien, Taiwan, il 17 agosto 2022. (Sam Yeh/AFP tramite Getty Images)

Biden Admin prende tempo, cercando la pace con il PCC

I commenti di Mullen e Harris si collocano sulla scia di un nuovo tentativo dell’amministrazione Biden di stabilizzare i rapporti con un PCC sempre più belligerante.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha visitato Pechino durante il fine settimana, dove ha incontrato il leader del PCC Xi Jinping.

Non sono stati raggiunti progressi durante i due giorni del segretario nella Cina comunista, ma il leader del PCC Xi Jinping ha affermato che l’incontro è stato un “progresso” e, secondo quanto riferito, i due hanno convenuto che un conflitto aperto tra le nazioni sarebbe stato catastrofico.

Antony Blinken è tornato da Pechino a mani vuote, ma il suo tentativo ha dimostrato a Xi Jinping che Washington non ha in mano le carte per un intervento tradizionale a favore di Taiwan. Nel contempo, la Cina appaggia le pretese argentine sulle Malvines. Il livello del pericolo nucleare nel mondo si è alzato. ndt.

Blinken è il funzionario statunitense di più alto livello a mettere piede in Cina da quando il presidente Joe Biden è entrato in carica nel 2021 e il primo segretario di stato a visitarlo dal 2018, quando il suo predecessore, Mike Pompeo, ha visitato la Cina per un giorno.

Blinken aveva precedentemente affermato che il suo viaggio in Cina mirava a costruire sulla “discussione produttiva” di Biden e Xi a novembre, quando i due leader si sono incontrati a margine del vertice del G-20 a Bali, in Indonesia.

Tuttavia, il suo viaggio originariamente programmato in Cina a febbraio è stato rinviato in risposta alla scoperta di un pallone di sorveglianza cinese che sorvolava diversi stati, che è stato abbattuto dall’esercito americano.

All’epoca, Blinken ha affermato che l’incidente “ha creato le condizioni che minano lo scopo del viaggio”.

Yang Tao, un alto funzionario del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato dopo i colloqui che la Cina continuerà il suo blackout delle comunicazioni militari fintanto che continueranno le sanzioni statunitensi sulle tecnologie critiche e sui personaggi del PCC.

Alla domanda sui progressi compiuti dalle due parti, Yang ha affermato che la Cina e gli Stati Uniti hanno concordato di prevenire un’ulteriore spirale discendente nelle relazioni. Il ministro degli Esteri cinese, ha aggiunto, visiterà gli Stati Uniti in futuro.

Biden ha detto più tardi, il 19 giugno, che pensa che le relazioni tra i due paesi siano sulla buona strada e ha indicato che sono stati compiuti progressi durante il viaggio di Blinken.

Dopo l’incontro, il massimo diplomatico del PCC, Wang Yi, ha affermato che “la Cina non ha spazio per compromessi o concessioni” sulla questione di Taiwan.

La Cina è entrata in guerra molto tempo fa, ma gli Stati Uniti non se ne sono accorti. Scriveva Grant Newsham su Epoch Times il 17 settembre 2021.

Chinese regime leader Xi Jinping begins a review of troops from a car during a military parade at Tiananmen Square in Beijing on Oct. 1, 2019. (Greg Baker/AFP/Getty Images)

Xi Jinping passa in rivista le truppe durante una parata militare in Tiananmen Square in Beijing il 1° ottobre 2019. (Greg Baker/AFP/Getty Images).


5143.- Grazie alle isole Fiji, l’avanzata di Pechino nel Pacifico è saltata sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

Da Formiche.net, di Gabriele Carrer | 30/05/2022 – 

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

La riunione tra il ministro Wang e gli omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma dell’annunciato ampio accordo, dalla pesca alla sicurezza. Pesano i dubbi delle Fiji e di altri Stati della regione sul progetto di Pechino per un’ordine globale alternativo a guida americana

Non sembra essere partita come Pechino sperava l’offensiva diplomatica nel Pacifico guida da Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, per raccogliere consenso e sostegno all’iniziativa di sicurezza con cui il presidente Xi Jinping è deciso a costruire un ordine globale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti.

La riunione ministeriale nella capitale figiana Suva con Wang e i suoi omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma di un nuovo accordo di vasta portata che avrebbe dovuto coprire moltissimi settori, dalla sicurezza alla pesca. La Cina cercava un accordo che riguardasse anche il libero scambio e la cooperazione tra forze di polizia. Ma Qian Bo, ambasciatore cinese alle Fiji, è stato costretto ad ammettere che alcune nazioni hanno espresso preoccupazioni su elementi specifici della proposta. “Non imponiamo mai nulla agli altri Paesi, tanto meno ai nostri amici in via di sviluppo e ai piccoli Paesi insulari”, ha aggiunto il diplomatico respingendo le preoccupazioni di alcuni Stati.

Nel corso di un’insolita conferenza stampa con il ministro Wang, durata mezz’ora e conclusa con i giornalisti che urlavano le domande mentre i protagonisti lasciavano il podio, il primo ministro figiano Frank Bainimarama ha spiegato che “come sempre, mettiamo al primo posto il consenso tra i nostri Paesi in ogni discussione su nuovi accordi regionali”. Le Fiji “continueranno a cercare un terreno fertile per le nostre relazioni bilaterali”, ha aggiunto ringraziando il ministro Wang per “lo spirito di collaborazione”. Ma Bainimarama ha detto di aver cercato, e non trovato, un impegno più importante da parte della Cina sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

Proprio la posizione figiana sembra aver fatto saltare l’intesa. Anche perché nei giorni scorsi le Fiji avevano deciso di aderire in qualità di membro fondatore all’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, un nuovo meccanismo lanciato dal presidente statunitense Joe Biden nel recente viaggio in Asia per compensare il fallimento dell’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership con i Paesi asiatici e anticipare l’offensiva diplomatica cinese. “Il futuro dell’economia del XXI secolo sarà in gran parte scritto nell’Indo-Pacifico” e il meccanismo “contribuirà a promuovere una crescita sostenibile per tutte le nostre economie”, aveva dichiarato Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, accogliendo la decisione del governo figiano. “Gli Stati Uniti ringraziano il primo ministro Bainimarama e si augurano di approfondire la nostra partnership a beneficio dei nostri Paesi, delle isole del Pacifico e dell’Indo-Pacifico”, aveva aggiunto.

Ma altri Paesi nella regione avevano espresso preoccupazioni. David Panuelo, presidente degli Stati Federati di Micronesia, aveva messo in guardia le nazioni dal firmarlo temendo che potesse scatenare una nuova guerra fredda. Surangel Whipps Jr., presidente di Palau (che non ha legami diplomatici con la Cina e riconosce Taiwan) aveva avvertito i leader del Pacifico che patti commerciali e di sicurezza ad ampio raggio con la Cina avrebbero potuto avere conseguenze dannose. Ha anche auspicio che la regione abbia imparato dai traumi del passato: “Vogliamo avere pace e sicurezza nella regione e non vogliamo rivivere quello che abbiamo vissuto durante la Seconda guerra mondiale, quindi quando vediamo questo tipo di attività ci preoccupiamo”.

È saltato, dunque, quell’accordo multilaterale che prevedeva l’addestramento degli ufficiali di polizia del Pacifico da parte della Cina, la collaborazione in “sicurezza tradizionale e non tradizionale” e l’allargamento della cooperazione giudiziaria. Oltre a ciò la Cina vorrebbe sviluppare congiuntamente un piano per la pesca, aumentare la cooperazione nella gestione delle reti internet della regione e creare istituti e aule Confucio. A Pechino rimangono accordi bilaterali più piccoli firmati con i Paesi del Pacifico e “un proprio documento di posizionamento” sulle relazioni nella regione che la diplomazia cinese presenterà come dichiarato da Wang in conferenza stampa. “E in futuro, continueremo ad avere discussioni e consultazioni continue e approfondite per creare un maggiore consenso”, ha aggiunto il ministro degli Esteri.

Una figuraccia diplomatica per Pechino. “Gli Stati Uniti concludono sempre gli accordi in anticipo. È davvero imbarazzante!”, ha commentato Derek J. Grossman, esperto di sicurezza nazionale e Indo-Pacifico, della Rand Corporation. La propaganda cinese si è subito mossa per tentare di rimediare. Il Global Times, megafono in lingua lingua, ha pubblicato un articolo che sostiene che i Paesi insulari del Pacifico non saranno usati da nessuno per diventare fronti di competizione tra grandi potenze. Come a dire: o con noi, o con nessuno. Questa almeno è l’intenzione della propaganda di Pechino.

Ma il flop diplomatico cinese rappresenta una vittoria per gli Stati Uniti, con Kurt Campell, coordinatore dell’Indo-Pacifico al Consiglio per la sicurezza nazionale, impegnato nella strategia per la regione anche in questi mesi di guerra in Ucraina. “La Cina è l’unico Paese che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più, il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”, ha detto nei giorni scorsi Antony Blinken, segretario di Stato americano, nell’atteso discorso sulla politica dell’amministrazione Biden verso la Cina. “La visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali che hanno sostenuto gran parte del progresso mondiale negli ultimi 75 anni”, ha aggiunto. Per Pechino è soltanto disinformazione per “contenere e sopprimere lo sviluppo della Cina e sostenere l’egemonia statunitense”, utilizzando le parole di Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri.

Se la sicurezza ha sostituto lo sviluppo come la parola chiave della politica estera della Cina, gli Stati Uniti sembrano voler “puntare su iniziative economiche riconoscendo l’importanza dell’agenda di prosperità, e non soltanto di sicurezza, verso i Paesi più piccoli e quelli in via di sviluppo, dove si concentrerà in futuro il confronto” tra le due superpotenze, come ha spiegato recentemente Alessio Patalano, professore di War & Strategy in East Asia presso il King’s College London, a Formiche.net. L’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e il caso delle Isole Salomone lo dimostrano. Le iniziali difficoltà cinesi potrebbero rappresentano un piccolo segnale che la strada è quella giusta.

(Nella foto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il primo ministro figiano Frank Bainimarama, Twitter @FijiPM)

4977.- Stati Uniti e Gran Bretagna annunciano l’azzeramento delle importazioni di petrolio dalla Russia

Commento all’articolo precedente. Aggiornato 9 marzo 2022.

Russia e Ucraina troveranno una composizione dei rispettivi interessi se la NATO si ritirerà nei suoi confini. Washington e Londra, invece, intendono sfruttare questa occasione alla quale hanno contribuito non poco. A chi dobbiamo la crisi energetica? É forse finito il petrolio, o il gas? Chi paga per i morti, per la povertà che ci è stata inflitta, non si sa perché? Cosa ne facciamo di un’America che semina gli alleati di laboratori per la guerra biologica e che cerca la guerra? L’annuncio del blocco di tutte le importazioni petrolifere e di energia dalla Russia giunge mentre sembra aprirsi una speranza di pace ed è una sentenza di morte per molte attività. Commentare questo annuncio significa dare il benservito, ma non si può, all’amministrazione Biden.

9 marzo 2022

Joe Biden annunciando il blocco di tutte le importazioni petrolifere e di energia dalla Russia, ha dichiarato : «Non intendiamo finanziare questa guerra», riferendosi alle risorse che Mosca può ricavare da vendite di energia per sostenere le operazioni militari. Non intendiamo finanziare questa guerra, ma dimentica di avere armato l’Ucraina per tre miliardi di dollari, mentre bombardava il Donbass e di avere appena venduto 250 carri armati alla Polonia.

La stretta Usa sull’energia ha avuto un immediato effetto sui mercati delle materie prime che hanno subito raggiunto costi insostenibili, con enorme sollievo degli italiani e di tutti gli europei che non hanno risorse energetiche con cui compensare l’allegro bellicismo di Biden. Siamo sempre più convinti che la determinazione di agire di Biden sia un danno anche per noi europei, per la pace e per la prosperità dell’Occidente.

E che dire e che sarà del North Stream 2, il gasdotto al centro della crisi tra Russia e Ucraina? Il gasdotto, di proprietà della compagnia energetica russa Gazprom, è costato 11 miliardi di dollari e si estende sui fondali del Mar Baltico per oltre 1.200 km, dall’ovest della Siberia alla Germania. Il progetto Nord Stream è nato nel 1997 per portare il gas naturale russo in Germania senza attraversare i Paesi baltici, quelli del gruppo di Visegrad – Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria, Bielorussia e, appunto, l’Ucraina. É stato completato nel settembre del 2021, in dieci anni. Il gasdotto è in pressione, ma non è ancora operativo, in attesa del via libera da parte degli enti regolatori tedeschi e della Commissione Ue. Il nuovo gasdotto raddoppia la capacità di Nord Stream 1 portandola a 110 miliardi di metri cubi di gas all’anno. La posizione di Washington è stata chiara: “Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro il Nord Stream 2 non deve andare avanti”: Quindi, bisogna che Putin invada l’Ucraina. La posizione Usa è stata sempre ostile al progetto per motivi di concorrenza ed è stata ribadita dal presidente Biden al cancelliere tedesco Scholz, a Washington. Dalle ultime notizie, sembra che per la Germania sia una posizione difficile da mantenere.

Le strutture di approdo del gasdotto "Nord Stream 2" sono raffigurate a Lubmin, nel nord della Germania, martedì 15 febbraio 2022.
Qui, le strutture di approdo del gasdotto “Nord Stream 2” sono raffigurate a Lubmin, nel nord della Germania, martedì 15 febbraio 2022.
Un cartello che recita "Nord Stream 2 Committed. Affidabile. Sicuro." è appeso sopra una mappa dipinta del gasdotto Nord Stream 2 a Lubmin, Germania, 16 novembre 2021.
North Stream 2 si compone di circa 100.000 singoli tubi, ciascuno di 12 m di lunghezza.

Per la sottosegretaria americana Victoria Nuland, il gasdotto è morto e «non sarà mai resuscitato». E l’Ue, supina, ragiona per sganciarsi dal gas russo. Significa che l’amministrazione USA vuole erigere una nuova cortina di ferro e non vuole il progresso dei popoli europei. Logica vorrebbe, invece, che l’Unione europea si adoperasse per accrescere la cooperazione con la Federazione Russa, in un clima di coesistenza pacifica, anziché tramare per l’espansione della NATO. Invece, l’Ordine Internazionale, citato da Mario Draghi alla Camera, sta usando l’Unione europea come un vassallo. Le crescenti sanzioni verso la Russia, per un verso, ma verso l’Europa, per un altro, unite agli impegni per la corsa agli armamenti che ne deriva, fanno crescere il numero di quanti chiedono di indirizzare diversamente la politica europea, di essere elettori partecipi in quella nazionale e di concludere sia l’esperienza dell’Alleanza Atlantica sia dell’anomalia istituzionale europea diretta dalla finanza mondiale. Ne va del progresso sociale dei popoli dell’Eurasia e della civiltà del mondo intero.

Gli osservatori italiani sono sconcertati dalla mancanza di gradimento che Mario Draghi e Mattarella stanno riscuotendo in Europa e, più in generale, in politica estera. Del resto, anche in Italia, queste due figure devono la loro presenza in politica ai voti di un Parlamento che loro stessi tengono in carica o, meglio – per stare in linea con i tempi -, in terapia intensiva. Francia e Germania, senza Draghi, hanno fatto non uno ma 100 passi indietro sulla questione ucraina e hanno iniziato con la Cina un percorso per arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto in corso che non potrà non garantire le legittime richieste di sicurezza russa, come dichiarato oggi.

Rincari dell’energia potrebbero adesso anche dare nuovo impeto alla produzione domestica americana. Ricordiamo che il petrolio russo, è di buona qualità, ma pesante e meno facile da lavorare rispetto ai petroli leggeri “più flessibili” (le raffinerie sono tarate per un tipo di petrolio. Quelle italiane lavoravano il “light” libico, finché…). 
    In tanti preferiscono non rischiare acquistando l’”Ural” dei russi o, per ora, non vogliono farlo. C’è l’eccezione della  Shell , che, profittando del momento, ha acquistato un carico “in svendita”, a prezzi molto inferiori alle quotazioni di mercato. Il petrolio russo, l’”Ural”, normalmente, costava 5-6 volte meno di quello di scisto americano.  Della crisi del petrolio “Ural” approfitta chi può, come l’Arabia Saudita che ha alzato il costo del proprio oro nero. Il gruppo Shell dunque ha speculato, pagando 28,5 dollari in meno del prezzo di mercato del Brent, arrivato a 113 dollari al barile. I rincari, allo stesso tempo in cui incidono sull’economia, complicano qualunque agenda ambientale promessa da Biden e dai democratici a favore di una riduzione del ricorso a fonti fossili. Richiamiamo Donald Trump?

Venendo all’escalation del rischio e posto che venga dalla Russia, in Ucraina sono stati trovati laboratori che producevano armi di distruzione e agenti patogeni e che le Forze Speciali Russe stanno analizzando. Non potendosi più negare l’evidenza, il vicesegretario di Stato americano Victoria Nuland, che ne aveva negato l’esistenza, è stata costretta a dichiarare in un’audizione del Congresso: “Ci sono strutture di ricerca biologica in Ucraina e temiamo che la Russia ne prenderà il controllo”.

Alla fine le armi chimiche illegali non c’è le aveva Saddam, ma gli alleati degli americani. Che sorpresa! Non ce lo saremmo mai aspettato.

L’ultima notizia è che Londra si è allineata dietro gli americani e che ha bloccato l’import di petrolio russo; fa pensare che l’obiettivo della Brexit era che Londra passasse dall’Unione europea all’Unione americana.

Washington, il gasdotto Nord Stream 2 è morto e sepolto in fondo al mare
North Stream 2 è essenziale per l’Europa e per la Russia. Non è essenziale che l’Ucraina sia un membro della NATO.

Per fortuna c’è la Cina. Pechino “si oppone con forza alle sanzioni unilaterali che non hanno fondamento nel diritto internazionale: lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian pronunciandosi sul blocco all’import di petrolio e gas russo annunciato da Biden in risposta all’invasione “voluta” da Mosca dell’Ucraina. “Provocherà solo serie difficoltà all’economia e alle persone, e aggraverà divisioni e confronto“, ha aggiunto Zhao nel briefing quotidiano, ricordando che “Cina e Russia hanno sempre mantenuto buone relazioni di cooperazione energetica e continueranno a farlo anche su giacimenti di petrolio e gas, nel rispetto reciproco”. Spingere la Russia nell’orbita cinese è un errore strategico; se non è l’obiettivo di chi ha scelto Pechino per suo guardiano del mondo.

A proposito, anche l’attacco a Pearl Harbour, che scatenò  l’odio e la guerra verso il Giappone, fu deciso dall’imperatore dopo la chiusura di Washington alle trattative sull’espansione giapponese nel Pacifico. Il Giappone, povero di territorio, controllava Thailandia, Hong Kong, Malesia, Indonesia, Birmania e Filippine e voleva espandersi in Cina. 

4465.- Taiwan e Cina sul filo del rasoio. Ma Xi Jinping si modera.

Esistono le condizioni per una guerra nel teatro IndoPacifico? Mai dire mai.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Stefano Magni

Colloqui al vertice fra Cina e Ue e fra Cina e Usa, sul pomo della discordia principale: Taiwan. Il Paese, di fatto indipendente, non è riconosciuto ufficialmente da nessuno. Ma, anche per merito del peggioramento dei rapporti con Pechino, informalmente ha più contatti con l’Ue e con gli Usa. La crisi cresce, ma Xi Jinping smorza i toni. Per la crisi interna.

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Taiwan, la festa nazionale del 10 ottobre

Taiwan e Cina, senza l’accento sulla “e”. Taiwan è Cina, con l’accento sulla “è”. È tutta in questa differenza la crisi ormai quasi secolare fra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, che in questi ultimi tre mesi sta vivendo una notevole recrudescenza, con colloqui a livello internazionale per cercare di placare la tensione, ma anche esercitazioni militari veramente minacciose.

“Taiwan è Cina” è la tesi del Partito Comunista Cinese: dichiarandosi il vincitore della guerra civile (1945-49) rivendica il possesso di tutto il territorio cinese, non ammette l’esistenza di un territorio separato, occupato, nella ritirata, dalle ultime divisioni nazionaliste cinesi nel 1949. “Taiwan e Cina” è invece l’obiettivo del Partito Progressista Democratico, la sinistra di Taiwan, che non rivendica più lo status di unico governo cinese legittimo, come era tipico dei nazionalisti, ma chiede di formalizzare un’indipendenza che già c’è di fatto. Taiwan e la Cina sono separate da uno stretto braccio di mare, ma fra loro c’è un abisso. La prima è una delle più promettenti democrazie orientali, all’avanguardia nelle nuove tecnologie ed è un Paese libero, in cui tutti i diritti sono garantiti. La seconda, come è noto, è sotto il più grande regime comunista del mondo, un regime che ha saputo rinnovarsi e stare al passo coi tempi, ma sempre estremamente repressivo e dotato della capacità di controllare strettamente i suoi cittadini.

La recrudescenza della crisi, in questi mesi, è dovuta al peggioramento generale delle relazioni fra la Cina e le democrazie occidentali, soprattutto dopo la diffusione (dalla Cina) del Covid-19. La tensione più forte è fra Cina e Australia, con quest’ultima che ha deciso, con il trattato Aukus, di dotarsi anche di sottomarini a propulsione nucleare. Ma anche con gli Usa stessi (nonostante il cambio di presidenza, da Trump a Biden) e con l’Ue, le relazioni sono più tese del solito.

Innanzitutto con l’Ue, il 15 ottobre (domani, per chi legge), è previsto un incontro virtuale fra Charles Michel, presidente del Consiglio europeo e il presidente cinese Xi Jinping. Il pomo della discordia è la Lituania. La piccola repubblica baltica ha aperto nella capitale Vilnius una nuova rappresentanza diplomatica di Taiwan. E il dettaglio che Pechino considera grave è che porti il nome di “Taiwan”, che per Pechino non deve esistere. Per il prossimo mese, è prevista una visita di una delegazione taiwanese in Lituania e in altri Paesi dell’Europa centrale. E in dicembre, invece, è in agenda una visita di un gruppo parlamentare lituano sull’isola “ribelle”, guidato da Matas Maldeikis (capo del gruppo di amicizia Taiwan-Lituania). Ma le relazioni pericolose fra Ue e Taiwan non si limitano alla sola Lituania. La Francia stessa è nel mirino dopo che, lo scorso 10 ottobre, una delegazione parlamentare francese, guidata dal senatore Alain Richard ha visitato l’isola. E l’Ue, nel suo insieme, non ha affatto terminato i colloqui con il governo di Taipei, per un accordo bilaterale sugli investimenti. Anche martedì 12 ottobre la presidente Tsai Ing-wen ha “incontrato” in remoto le massime cariche europee per questo motivo.

Il braccio di ferro con gli Usa, invece, assume tinte decisamente più forti, perché in ballo ci sono anche questioni militari, non solo diplomatiche e commerciali. Secondo le rivelazioni del quotidiano Wall Street Journal, uno dei più attenti sull’Asia orientale, una ventina di consiglieri militari statunitensi, appartenenti a forze speciali e al corpo dei Marine, sarebbero ancora presenti a Taiwan per addestrare le truppe di terra locali. La presenza americana, piccola e non ufficiale, è motivata dalla preoccupazione per l’atteggiamento ostile cinese, ma anche dalla condizione stessa delle forze di difesa taiwanesi. Forse cullati dall’illusione di una pace con Pechino, infatti, nei primi 15 anni dei 2000, i governi precedenti di Taipei hanno trascurato gli investimenti nella difesa. Nonostante negli ultimi sei anni vi sia stato un po’ di recupero, l’esercito taiwanese rischia di non costituire più un deterrente sufficiente a scoraggiare un’azione di forza cinese. La presenza americana ha però provocato l’ira di Pechino, che ha affidato a un editorialista del Global Times, dunque un giornale in inglese e semi-ufficiale, le dichiarazioni più bellicose: la presenza di truppe statunitensi sull’isola è una “linea rossa che non deve essere passata” e in caso di guerra, gli americani “saranno i primi ad essere eliminati”. Eppure un canale diplomatico resta aperto. Non è ancora stata fissata la data, ma è comunque previsto un incontro telefonico fra il presidente Biden e Xi Jinping entro la fine dell’autunno.

Lo scorso 6 ottobre, il ministro taiwanese della Difesa Chiu Kuo-cheng ha affermato che la Cina sarà in grado di lanciare un attacco su “vasta scala” contro l’isola entro il 2025. E lo ha detto nel bel mezzo di un’escalation di esercitazioni molto bellicose e realistiche. Oltre a manovre di sbarco sulla costa di fronte a quella di Taiwan, ben 150 aerei cinesi, fra cui anche bombardieri H-6 capaci di portare testate nucleari, hanno sorvolato le acque vicine a Taiwan, a ridosso del suo spazio aereo (che non è riconosciuto come un confine ufficiale, ma come un’area di difesa aerea esclusiva).

Xi Jinping, nel suo discorso del 9 ottobre, però, ha menzionato l’aspirazione ad una “riunificazione pacifica”, dando per scontato che avverrà. Ma non ha menzionato né minacciato l’uso della forza militare. Secondo il politologo Walter Russel Mead (il cui editoriale sul Covid in Cina, pubblicato sul Wall Street Journal nel febbraio 2020, aveva provocato l’espulsione dalla Cina di tre giornalisti del quotidiano economico), si tratta di una pausa di riflessione, dettata dalla debolezza economica cinese. La crisi del colosso immobiliare Evergrande, la crisi energetica che impone un razionamento e provoca blackout in tutto il Paese, la ripresa di focolai pandemici in una nazione che aveva dichiarato debellato il Covid già nell’aprile del 2020, sono tutti segnali di forte debolezza. Che impone prudenza. Xi Jinping sa che, in una congiuntura come questa, non può permettersi di avere troppi nemici. Ma, come avverte lo stesso politologo americano, “Questa è una pausa, non è un cambio di direzione”.

4410.- Scenari di guerra, un nuovo modo per difendere Taiwan

Di Stephen Bryen & Shoshana Bryen, The Epoch Thimes, 13 OTTOBRE 2021

La portaerei di classe Nimitz Uss John C. Stennis nel Mare delle Filippine, il 18 giugno 2021. (Lt. Steve Smith/Us Navy via Getty Images)

Gli Stati Uniti vincerebbero la battaglia per salvare Taiwan dalla Cina? Non secondo una serie di simulazioni e giochi di guerra del Pentagono. Nel tentativo di capire cosa accadrebbe se le forze statunitensi venissero in difesa di Taiwan, il Pentagono ha infatti stabilito che gli Stati Uniti potrebbero essere sconfitti e sicuramente subirebbero pesanti perdite di personale ed equipaggiamento.

Tra gli strateghi militari, c’è persino un dibattito sul fatto che le portaerei statunitensi, generalmente ritenute fondamentali per il soccorso di Taiwan, siano oggi vulnerabili ai missili cinesi e possano essere distrutte da lunghe distanze, forse fino a 1.000 miglia o più.

Ma non è sempre stato così.

Nel 1996, la Cina ha condotto una grande «esercitazione» missilistica e ha iniziato a radunare le truppe, suggerendo che l’«esercizio» fosse una copertura per un’invasione di Taiwan.

Stephen Bryen era a Taipei insieme a R. James Woolsey, ex capo della Central Intelligence Agency all’inizio dell’amministrazione Clinton, e all’ammiraglio Leon «Bud» Edney, che solo quattro anni prima era stato vice capo delle operazioni navali statunitensi. Hanno sentito la paura e l’ansia diffondersi rapidamente sull’isola.

Si sono chiesti cosa stesse facendo Washington e tutti e tre hanno preso i telefoni per spingere il Pentagono e la Casa Bianca ad agire. Fino a quel momento, il presidente Bill Clinton, insieme al Consiglio di Sicurezza Nazionale, non era stato disposto a rispondere, principalmente perché voleva migliorare i legami con la Cina e ampliare il commercio reciprocamente vantaggioso. Mentre il pericolo cresceva e incombeva, e la situazione si avvicinava a un punto terribile, Clinton alla fine ha inviato due task force di portaerei.

Con le portaerei che si dirigevano a Taiwan, i cinesi hanno fatto marcia indietro. Anche se non sappiamo tutto, è probabile che i cinesi abbiano stimato che in uno scontro con gli Stati Uniti, e specialmente con i caccia sulle portaerei, un’invasione sarebbe fallita. In ogni caso, per portare le sue truppe a Taiwan, la Cina non aveva allora i mezzi da sbarco di cui aveva bisogno, e faceva affidamento su navi commerciali che potevano essere abbastanza facilmente affondate dagli aerei statunitensi.

Ma da quella situazione, la Cina ha capito che per conquistare Taiwan aveva bisogno di migliorare significativamente la sua marina e l’aeronautica, acquisire navi da sbarco difendibili e trovare un modo per colpire le portaerei americane. La Cina ha avuto 25 anni per risolvere questi problemi e lo ha fatto costruendo aerei da combattimento molto moderni (compreso il furtivo J-20) e bombardieri nucleari, navi da sbarco come le navi anfibie a ponte largo di classe Yushen Tipo 075 che possono trasportare soldati, elicotteri, veicoli corazzati e missili killer.

Nella categoria carrier-killer c’è il Dong Feng (East Wind) Df-21D, un missile antinave a combustibile solido a due stadi con una gittata di 900 miglia o più. Quest’arma può essere guidata al suo obiettivo da satelliti e droni, e si dice che abbia un veicolo di rientro manovrabile (testata) che lo rende difficile da sconfiggere. Le versioni future del Df-21D potrebbero anche avere più testate mirate in modo indipendente (Mirv), aggiungendo letalità al Df-21D e rendendolo ancora più difficile da fermare.

Gli Stati Uniti stanno schierando incrociatori Aegis e nuovi tipi di missili intercettori come Sm-3 (Rim-161 Standard Missile 3) e Sm-6 (Rim-174 Standard Extended Range Active Missile) e i radar Aegis sono stati migliorati. Questi sistemi più recenti sono solitamente inclusi con le task force carrier e potrebbero essere in grado di fermare un attacco Df-21D, ma non è chiaro se possa fermare uno swarming attack di Df-21D.

La Cina si prepara da un lato e guarda gli Stati Uniti dall’altro. Non è chiaro a che punto e con quali strategie, la Cina giungerebbe alla conclusione di poter attaccare con successo le portaerei statunitensi. Sfortunatamente, lo stesso vale da parte americana: non è chiaro se gli Stati Uniti potrebbero fermare un attacco missilistico anticarro cinese e non lo sapremo davvero fino a quando non accadrà.

Ma anche se i carrier potessero passare, l’aviazione cinese è molto più capace di quanto non fosse 25 anni fa. La Cina sta lavorando per migliorare le sue capacità stealth e raggiungere il livello dell’F-22 americano anche più dell’F-35, che è più un aereo tattico ed è meno furtivo dell’F-22.

A differenza degli Stati Uniti, la Cina non è un Paese democratico con una stampa libera e social media liberi. Se i pianificatori cinesi sono disposti a perdere 400 aerei e decine di navi in ​​quella che credono sarà una missione di successo per sconfiggere gli Stati Uniti, questo farà parte dei loro calcoli.

Ma quando il presidente chiede ai pianificatori del Pentagono cosa aspettarsi se ci impegniamo a sostenere Taiwan, riceverà alcune cattive notizie che potrebbero causare una grave reazione interna. Gli potrebbe essere detto che una portaerei potrebbe affondare o che potremmo perdere da 50 a 75 aerei da combattimento. Ciò significa che il presidente deve considerare la possibilità di una risposta pubblica a migliaia di vittime e miliardi di hardware perso.

Molto dipende dal coraggio, politico e morale, del presidente. Ma l’istinto a Washington sarebbe probabilmente un tentativo urgente di spingere Taiwan in un negoziato con la Cina che finirebbe con Taiwan che diventa cinese. In pratica, arrendersi. Ciò solleverebbe gli Stati Uniti dai guai, ma sarebbe un terribile segnale per gli alleati in Asia, che penserebbero che il cielo sta davvero cadendo e che non c’è speranza di aiuto da parte degli americani.

A meno che non si trovi un’altra formula.

Alla fine la pacificazione porterà alla guerra mondiale: è impossibile credere che la Cina si accontenterebbe di ingoiare Taiwan. Non va dimenticato che la Cina ha una rabbia insaziabile nei confronti del Giappone e di ciò che le forze giapponesi hanno fatto alla Cina negli anni ’30 e ’40: i milioni che furono massacrati e l’uso della guerra batteriologica e chimica da parte del Giappone contro i civili, principalmente cinesi.

Lo stupro di Nanchino del 1937-38 o il massacro di Nanchino, che potrebbe aver ucciso fino a 300.000 cinesi, principalmente civili, è una delle tante atrocità non vendicate che la Cina ricorda. Una volta che la Cina avrà scacciato gli americani, il Giappone sarà il prossimo obiettivo e i giapponesi lo sanno, motivo per cui il Giappone definisce una possibile invasione di Taiwan una «minaccia esistenziale».

Ma ecco che gli alleati nel Pacifico possono impedire l’invasione solo con una strategia completamente nuova, volta a dissuadere la Cina dall’attaccare Taiwan. Invece di fare affidamento su vettori lontani e aspettare che i cinesi creino un incidente o una provocazione per innescare un conflitto, dobbiamo prendere provvedimenti per cambiare il gioco ora rafforzando Taiwan.

Il modo migliore e più veloce sarebbe creare un unico comando militare di Taiwan che includa Giappone, Stati Uniti e Taiwan. Infatti non esiste oggi un meccanismo di comando di coordinamento con Taiwan o il Giappone. L’attuale approccio americano, farlo da soli, non è praticabile. Il Giappone ha F-35 e F-15, una piccola ma buona marina e ottimi sottomarini. Taiwan ha modernizzato gli F-16 e i caccia ‘fatti in casa’ Ck-F-1. Tutti questi devono essere usati per bloccare la Cina, ma devono operare in modo coordinato. Ad esempio, dobbiamo coordinare l’identificazione delle risorse di amici o nemici (Iff) in modo da poter operare in modo efficiente contro il nemico e non ucciderci a vicenda.

Un’unica struttura di comando farebbe sapere alla Cina di avere un problema significativamente più grande tra le mani rispetto al solo Taiwan, e che Stati Uniti, Giappone e Taiwan hanno accesso e supporto da più basi a Taiwan, a Okinawa e in Giappone. Con questo tipo di sfida, la Cina non può sperare di isolare Taiwan e spaventare gli americani.

Inoltre, in un conflitto, le basi aeree e navali, in particolare in Giappone e Okinawa (comprese le basi americane, giapponesi e congiunte) dovrebbero essere a disposizione dell’aeronautica e della marina di Taiwan. Questo cambia il gioco in due modi: Taiwan potrebbe operare da basi al di fuori dell’isola, il che significa che gli attacchi cinesi diretti a Taiwan non assicureranno una vittoria cinese, e la Cina si troverebbe di fronte a minacce provenienti da più basi e significative risorse aeree e navali coordinate dagli alleati.

Con un sistema multibase e di supporto per affrontare la Cina e un comando comune, la strategia cinese si sgretola.

Il Pentagono dovrebbe eseguire nuove simulazioni con un unico comando militare e più basi che sostengano reciprocamente lo sforzo per bloccare un’invasione cinese di Taiwan. Data la potenziale natura rivoluzionaria suggerita qui, il regime in Cina capirebbe che è contenuto, proprio come la Nato ha contenuto con successo l’Urss dal 1949 fino al suo crollo nel 1991.

L’attuale amministrazione deve capovolgere il suo approccio politico di ritirata e pacificazione globale, che alla fine porterà alla guerra, e adottare una nuova strategia per affrontare la Cina prima che sia troppo tardi.

Il dott. Stephen Bryen è considerato un leader di pensiero sulla politica di sicurezza tecnologica, essendo stato insignito per due volte della più alta onorificenza civile del Dipartimento della Difesa, la Distinguished Public Service Medal. Il suo libro più recente è «Sicurezza tecnologica e potere nazionale: vincitori e vinti».

Shoshana Bryen è direttore senior del Jewish Policy Center di Washington, Dc

Le opinioni espresse in quest’articolo sono degli autori e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

Articolo in inglese: A New Way to Defend Taiwan

4356.- AUKUS e le lezioni per l’Unione europea

I sottomarini per l’Australia e le lezioni per l’Europa

Su Analisi Difesa del 20 settembre 2021, lo storico e analista Gianandrea Gaiani, Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno, titola “AUKUS, i sottomarini per l’Australia e le lezioni per l’Europa”. Ribadiamo che la lezione numero uno che gli europei devono trarre dall’AUKUS e annessi, è che devono, assolutamente e senza indugio, nominare una Assemblea Costituente, per dare luogo a una qualche forma istituzionale di nazione europea. Altrimenti, sarà superfluo parlare di rapporti interni alla NATO e schierarsi con l’asse anglo-americano non sarà un’opzione, ma una necessità, cui aderiranno in ordine sparso.

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Sono almeno tre gli elementi di valutazione che emergono dalla crisi tra la Francia e le potenze anglosassoni che hanno dato vita all’alleanza AUKUS con l’annuncio della rinuncia australiana ai 12 sottomarini francesi tipo Barracuda (convenzionali) previsti dal contratto del 2016 a cui ora sono sari preferiti battelli a propulsione nucleare da realizzare con gli anglo-americani.

Il primo riguarda il rafforzamento dell’asse strategico tra le potenze anglosassoni evidente in ogni angolo del mondo. Nel Pacifico l’AUKUS ripropone il blocco delle potenze occidentali vincitrici della Seconda guerra mondiale che, allargato a India e Giappone nell’ambito del QUAD, si pone come argine alla crescente potenza cinese Cina.

Un segnale che si aggiunge a quelli ormai molto evidenti in ambito NATO di una linea anglo-americana-canadese che si presenta ormai come traino dell’Alleanza Atlantica rispetto a vicende spinose come la crisi con la Russia e gli aiuti militari che le potenze anglo-sassoni forniscono all’Ucraina, stato non membro della NATO, alimentando le tensioni con Mosca.

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Del resto, al di là delle dichiarazioni ufficiali, molti militari e diversi governi europei hanno espresso malumori per come gli alleati anglosassoni hanno gestito “da padroni” il ponte aereo da Kabul che ha posto fine alla partecipazione al conflitto afghano.

Il secondo elemento, che resta parzialmente sotto traccia, riguarda il fatto che l’emarginazione a sorpresa della Francia dalla commessa multimiliardaria per i sottomarini australiani rappresenta uno schiaffo grave a Parigi e al suo ruolo di potenza nucleare peraltro ben presente con truppe e territori d’oltremare negli oceani Indiano e Pacifico.

Le potenze anglo-sassoni non si sono limitate a evitare di coinvolgere la Francia nell’alleanza nell’Indo-Pacifico ma hanno utilizzato l’annuncio a sorpresa della nascita dell’AUKUS per comunicare con brutalità a Parigi lo stop a una fornitura militare che certo non stava progredendo nella direzione migliore (ma anche quella per le fregate britanniche alla Marina Australiana procede con forti ritardi e aumenti di costo) ma che avrebbe dovuto venire negoziata, discussa e annunciata con ben altri metodi. Specie tra alleati, ammesso che questo termine oggi abbia ancora un senso.

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Di fatto le tre potenze anglosassoni hanno messo a punto in segreto anche dagli alleati occidentali (e infatti l’esclusione del Canada dall’intesa sta costando dure critiche al premier Trudeau) la costituzione dell’AUKUS e il “siluro” ai sottomarini francesi: un programma che sembrava da tempo destinato a fallire per le difficoltà tecniche e finanziarie insite nel trasformare in convenzionale un sottomarino progettato per la propulsione nucleare, per i problemi a rendere compatibili sistemi da combattimento ed elettronica americani su battelli francesi e per l’inadeguatezza di fondo  dell’industria australiana della Difesa rispetto a programmi così ambiziosi.

Inadeguatezza che peraltro sarà ancora più manifesta con il programma che prevede di realizzare ora almeno 8 sottomarini a propulsione nucleare con tecnologia fornita da Gran Bretagna e Stati Uniti.

L’umiliazione che Londra, Canberra e Washington hanno voluto infliggere alla Francia spiega la reazione di Parigi (che abbiano raccontato nei dettagli) dove si parla addirittura di mettere in discussione i rapporti interni alla NATO.

Con la sua dura risposta Parigi sottolinea con orgoglio il ruolo di potenza indipendente e risponde senza timori riverenziali a chi minaccia, per giunta con arroganza e pessime maniere, i suoi interessi nazionali e industriali.

Anzi, Parigi contrattacca proprio nel settore delle commesse militari “invadendo” un mercato della Difesa da sempre quasi esclusivamente statunitense come quello della Corea del Sud, come ha raccontato il sito Formiche.net. 

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L’ambasciatore francese a Seul ha detto in conferenza stampa che Parigi intende condividere la tecnologia delle portaerei e dei sottomarini a propulsione nucleare con la Corea del Sud, tecnologie che consentirebbero a Seul una maggiore autonomia strategica dagli Stati Uniti e di bilanciare nel Pacifico la crescente presenza di battelli di questo tipo cinesi, russi, presto australiani e in futuro anche indiani e probabilmente giapponesi.

Di certo l’AUKUS ha aperto la corsa ai sottomarini nucleari d’attacco (SSN) il cui valore strategico è abbinato a un formidabile business finanziario: un contesto in  cui tutte le potenze competitive in termini di prodotti e tecnologie cercheranno di acquisire quote di mercato.

Infine, l’orgogliosa reazione francese contro l’asse anglosassone, ben rappresentata dalle dichiarazioni di fuoco del ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian (nella foto sopra), potrebbe forse scuotere i partner europei che proprio in queste settimane hanno rispolverato il tema “sempre-verde” del cosiddetto “esercito europeo”.

La tentazione di schierarsi con l’asse anglo-americano, emarginando la Francia, percepibile in diverse nazioni europee inclusa l’Italia, non aiuterebbe il disegno di un’Europa della Difesa e confermerebbe la volontà di non emanciparci dal ruolo di meri gregari.

Certo la Francia ha sempre fatto di tutto per ostacolare il “made in Italy”, specie nella Difesa, ma non sono certo stati gli unici a farlo. Meglio infatti non dimenticare, per restare in Australia, che nella commessa per le nuove fregate la gara è stata vinta nel 2016 dalle Type 26 britanniche (nella foto sotto), esistenti solo sulla carta e già in ritardo sul programma, nonostante la Royal Australian Navy avesse espresso la preferenza per le Fremm di Fincantieri.

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Quanto all’Europa è difficile non notare che l’annuncio della costituzione dell’’AUKUS è giunto in contemporanea con la definizione dell’impegno strategico dell’Unione Europea nella regione dell’Indo-Pacifico in cui, oltre alla cooperazione economica e commerciale coi partner regionali, l’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell ha annunciato che la Commissione europea intende “esplorare modi” per un dispiegamento delle forze navali “potenziato” da parte degli Stati membri dell’Ue.

La vicenda AUKUS sembra quindi confermare come le potenze anglosassoni concepiscano sé stesse come unico motore strategico dell’Occidente, considerando gli alleati europei e NATO come utili gregari, acquirenti dei loro prodotti per la Difesa, ma da tenere ben lontani dai centri e dai processi decisionali così come dai più grandi contratti militari che hanno ovvi riflessi industriali e geopolitici.

Un’amara realtà che è giusto criticare senza illudersi di poterla modificare, che gli europei devono oggi necessariamente accettare e digerire ma che dovrebbe indurli poi a guardare oltre.