Archivi categoria: Politica estera Arabia Saudita

6182.- Israele è l’avamposto dell’Occidente nel Mediterraneo Orientale.

C’è l’Iran al centro della politica americana nel Medio Oriente e alle spalle le due grandi potenze asiatiche, Cina e India, due per ora, che si fanno strada fra i Paesi arabi per sboccare in Mediterraneo. In Mar Rosso, gli Houthi godono dell’appoggio dell’Iran e sono contro Israele, contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Hanno di fronte l’Arabia Saudita. Ci troviamo in un momento decisivo senza uno stratega e, sul genocidio di Netanyahu, i governi arabi chiedono aiuto alla Cina.

Israele è il numero uno del Mediterraneo Orientale, l’avamposto dell’Occidente, è il “cavallo” per noi europei; ma Netanyahu guarda al suo orto, non guarda lontano, semina morte, odio e la sua guerra chiama l’antisemitismo e la vendetta. Combatte Hamas, stuzzica gli Hezbollah, ma, senza di essi, il suo potere vacillerebbe. Se così è, gli Stati Uniti devono porre un freno a Netanyahu. Gli Accordi di Abramo erano la strada giusta. Ma è l’Arabia Saudita il “re” per noi, per Israele, per il Medio Oriente e il 20–21 maggio Donald Trump incontrerà il re Salman e altri ufficiali sauditi a Riyadh. Dio voglia Donald, che tu sia il presidente e che “re” Mohammad bin Salman veda lontano. Se proseguirà la normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita, se ha le carte per ridefinire le dinamiche regionali in Medio Oriente, nel viaggio di Trump c’è molto di più di una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita: Anche la fine della guerra e la stabilità nel Mar Rosso e, perché no? in Libia. E non dimentichiamo che, nel 2018, proprio Trump, da presidente Usa, aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, contro il parere dell’Ue. Affermò che avrebbe negoziato un accordo più forte. Per Israele è importante che questo avvenga. La nostra domanda è, ora: “Saranno Riyadh e Teheran a ridefinire le dinamiche del Medio Oriente?”

Israele deve dialogare con tutto il mondo arabo, ma anche l’Europa deve far sentire il suo peso. Può farlo? e, sopratutto, può farlo con la Germania alla fame, la Francia di Macron in crisi politica, una guerra in Mar Rosso e un’altra con la Russia? Non può farlo e non può contare sul sostegno degli Stati Uniti per l’economia, che hanno privata scientemente del gas e dei mercati russi. Non può contare su Biden per un cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza, ma il Mediterraneo ha bisogno di pace, non di Netanyahu, non di Biden e nemmeno di Erdoĝan: Pace!

Fonte Immagine: AP Photo/Vahid Salemi

L’America chiede a Netanyahu una conversione sulla via di Riad

Da Huffpost, di Janiki Cingoli, 16 Gennaio 2024

La missione di Blinken rilancia lo Stato palestinese, per coinvolgere gli arabi nella ricostruzione di Gaza. Il governo di destra si ribellerebbe alla soluzione a due Stati. Ma per Bibi è il costo politico per ottenere il premio della normalizzazione saudita che insegue da anni e del fronte unico contro l’Iran. E per la sua sopravvivenza politica, che oggi appare compromessa.

La missione che Antony Blinken, segretario di Stato americano, ha effettuato in Medio Oriente a inizio gennaio, la quarta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, è stata giudicata con scetticismo dalla maggior parte degli analisti internazionali. Tuttavia, David Ignatius, editorialista principe del Washington Post, dà una interpretazione differente. Egli sottolinea come l’esponente statunitense abbia rovesciato l’abituale itinerario delle sue missioni, che iniziava da Israele per poi continuare nelle maggiori capitali arabe.

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

4342.- Un altro perché l’Europa deve farsi Stato, potenza e seconda gamba della NATO.

Cosa (non) dice il rapporto dell’Fbi sull’Arabia Saudita e gli attentatori dell’11 settembre

Rapporto Fbi

di Giuseppe Gagliano, Start Magazine.

Cosa dice il rapporto dell’Fbi, declassato con un ordine esecutivo di Biden, sugli attacchi terroristici dell’11 settembre. Il punto di Giuseppe Gagliano

Con un ordine esecutivo del presidente Joe Biden, sabato scorso l’FBI ha declassificato un rapporto dell’FBI – il ventesimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre – che mostrava che c’erano legami tra ex rappresentanti del governo saudita e i dirottatori.

Sebbene il rapporto di 16 pagine, datato 4 aprile 2016, sia stato censurato, contiene importanti dettagli su un’indagine dell’FBI sul sostegno fornito da un funzionario consolare saudita e un sospetto agente dell’intelligence saudita a Los Angeles ad almeno due dei uomini che hanno dirottato aerei di linea commerciali l’11 settembre 2001.

Intitolato ENCORE Investigation Update, Review and Analysis, il rapporto dell’FBI esamina i collegamenti e le testimonianze dei testimoni riguardanti l’attività del sospetto agente dell’intelligence Omar al-Bayoumi e afferma che era profondamente coinvolto nel fornire “assistenza di viaggio, alloggio e finanziamento” per aiutare i due dirottatori, Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar.

Il rapporto afferma che quello che era stato precedentemente descritto nel rapporto ufficiale della Commissione sull’11 settembre del 2004 come un “incontro casuale” tra al-Bayoumi e i due futuri dirottatori era in realtà un appuntamento prestabilito e ben orchestrato in un ristorante.

Il documento dell’Operazione Encore, nome in codice dell’indagine dell’FBI, dice anche che il diplomatico saudita e funzionario per gli affari islamici Fahad al-Thumairy aveva “incaricato” un associato di aiutare al-Hazmi e al-Mihdhar quando erano arrivati a Los Angeles e avevano detto che gli uomini erano “due persone molto significative”.

Al-Hazmi e Al-Mihdhar erano due dei cinque terroristi che hanno dirottato il volo 77 dell’American Airlines dall’aeroporto internazionale di Washington Dulles all’aeroporto internazionale di Los Angeles e hanno fatto volare il Boeing 757 sul Pentagono, uccidendo tutti i 64 a bordo e altre 125 persone nell’edificio.

Il foro causato nel Pentagono dal Boeing 757. Alcune foto mostrano chiaramente come i danni alla base del Pentagono si estendano per circa 35 metri (un 757 è largo 38 metri.

Il report dell’FBI è il primo di quelli che dovrebbero essere rilasciati in risposta all’ordine esecutivo del 3 settembre firmato dal presidente Biden sulla “declassificazione di alcuni documenti relativi agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001”. L’ordine di Biden affermava: “Le informazioni raccolte e generate nell’indagine del governo degli Stati Uniti sugli attacchi terroristici dell’11 settembre dovrebbero ora essere divulgate, tranne quando le ragioni più forti possibili consigliano diversamente”.

Questo è il primo riconoscimento ufficiale degli Stati Uniti che esisteva una relazione tra individui legati al governo dell’Arabia Saudita e gli attentati avvenuti vent’anni fa, attacchi che sono diventati la base per crimini di guerra internazionali contro l’Afghanistan e l’Iraq, consegne a siti neri, torture e detenzione a tempo indeterminato a Guantanamo Bay, nonché un attacco a numerosi diritti fondamentali contenuti nella Costituzione degli Stati Uniti. È significativo che un documento dell’FBI stia ora confermando ciò che è ampiamente noto dal 2001.

I familiari delle persone uccise l’11 settembre hanno risposto al documento dell’FBI con dichiarazioni schiette. Brett Eagleson, il cui padre è morto al World Trade Center, ha dichiarato: “Oggi segna il momento in cui i sauditi non possono fare affidamento sul fatto che il governo degli Stati Uniti nasconda la verità sull’11 settembre”. Terry Strada del gruppo 9/11 Families United ha dichiarato: “Ora i segreti dei sauditi sono stati svelati, ed è ormai tempo che il Regno riconosca il ruolo dei suoi funzionari nell’uccidere migliaia di persone sul suolo americano”.

Jim Kreindler, che rappresenta le famiglie che fanno causa all’Arabia Saudita, ha affermato che il rapporto convalida il loro caso. “Questo documento, insieme alle prove pubbliche raccolte fino ad oggi, fornisce un modello di come al-Qaeda ha operato all’interno degli Stati Uniti con il sostegno attivo e consapevole del governo saudita”.

Una dichiarazione dell’ambasciata saudita afferma: “Non è mai emersa alcuna prova che indichi che il governo saudita o i suoi funzionari fossero a conoscenza dell’attacco terroristico o fossero in qualche modo coinvolti nella sua pianificazione o esecuzione. Qualsiasi accusa che l’Arabia Saudita sia complice negli attacchi dell’11 settembre è categoricamente falsa”.

Le amministrazioni di George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump hanno tutte bloccato l’accesso pubblico a qualsiasi documento dell’FBI riguardante il coinvolgimento dell’Arabia Saudita con al-Qaeda sulla base del rischio di “un danno significativo alla sicurezza nazionale” degli Stati Uniti. Tuttavia, l’esistenza dell’operazione Encore, che risale al 2007, è stata rivelata in un rapporto investigativo basato in gran parte su fonti anonime statunitensi pubblicate da ProPublica nel gennaio 2020.

Le rivelazioni contenute nel documento declassificato sollevano molte altre domande sul ruolo dell’Arabia Saudita e delle agenzie di intelligence statunitensi negli eventi dell’11 settembre.Infatti non solo i sauditi al-Thumairy e al-Bayoumi hanno facilitato i due dirottatori dell’11 settembre in California, ma sia al-Hazmi che al-Mihdhar vivevano nella casa del principale Informatore dell’FBI nella comunità musulmana di San Diego.

La connessione saudita è così delicata non solo perché coinvolge il principale alleato degli USA nel mondo arabo, ma perché gli intimi legami tra le agenzie di intelligence saudite e statunitensi sollevano interrogativi preoccupanti su come sia stato possibile che nessuno nella CIA, nell’FBI o in altri le agenzie fossero a conoscenza dei piani dei dirottatori, anche se molti di loro erano stati sotto sorveglianza da parte della CIA ed erano nelle liste di controllo dell’FBI mentre entravano e si spostavano liberamente negli Stati Uniti. Insomma accanto al fallimento della guerra in Afghanistan questi documenti rivelano l’incredibile debolezza degli Stati Uniti proprio nel settore dell’intelligence dimostrando per l’ennesima volta come l’America sia un gigante dai piedi di argilla e come l’Europa debba incominciare a provvedere in modo autonomo alla propria difesa svincolandosi da un alleato debole e inaffidabile.

3380.- Il conflitto in Nagorno-Karabakh può portare alla destabilizzazione del Caucaso.

Camilla Canestri: “Ad una settimana di distanza dell’inizio delle ostilità tra le forze azere e armene nella regione contesa tra i due Paesi di Nagorno-Karabakh, la principale città dell’area, Stepanakert, è stata bombardata dall’Azerbaigian, il 3 ottobre. Questo è quanto ha denunciato il portavoce Ministero della Difesa armeno, Artsrun Hovhannisyan, il quale ha affermato che le forze azere stanno colpendo obiettivi civili con i propri missili.

Da parte sua, il Ministero della Difesa di Baku ha invece affermato che le forze armene stanno attaccando con missili lanciati da postazioni a Stepanakert le città di Terter e Horadiz, nel distretto di Fizuli. Oltre a questo, l’Azerbaigian ha anche denunciato che la seconda maggiore città del Paese, Ganja, dove vivono circa 300.000 persone, e altre aree civili sono state colpite da razzi e bombardamenti sferrati dall’Armenia. Quest’ultima ha però smentito l’accusa ma il presidente dell’autoproclamata Repubblica di Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan, ha rivelato che sono state le sue forze a distruggere una base militare a Ganja e ha aggiunto che: Le unità permanenti collocate nelle maggiori città dell’Azerbaigian sono, da oggi in poi, un obiettivo dell’esercito di difesa.

Più Paesi e organizzazioni internazionali hanno chiesto alle parti di tornare al dialogo, prima fra tutte la Russia. La Turchia, invece, è stato l’unico Paese ad adottare una posizione risoluta in appoggio all’Azerbaigian ed è stata accusata dall’Armenia e dalla Francia di aver rifornito le forze azere di mezzi, armi e uomini. In particolare, il presidente francese Emmanuel Macron, il 2 ottobre, ha accusato Ankara di aver portato in Azerbaigian militanti jihadisti reclutati in Siria.

l principale centro del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, è sotto bombardamento da parte dalle forze azere. Allo stesso modo, la città di Ganja, nell’Ovest dell’Azerbaigian, è stata colpita da razzi e attacchi aerei, ampliando i confini del terreno di guerra. La capitale del Nagorno-Karabach è, nuovamente, senza corrente elettrica.

I mercenari di Erdogan

La RIA Novosti russa lo ha confermato e ha citato fonti informate dell’opposizione siriana secondo cui 93 mercenari siriani sono stati uccisi negli scontri del Karabakh di recente, spingendo un nuovo lotto da inviare in Azerbaigian dalla Turchia.

Una delle fonti ha detto all’agenzia che “i corpi di 53 mercenari sono stati trasferiti in Siria domenica … quindi, il bilancio totale delle vittime dei mercenari siriani ha raggiunto 93”.

Ieri, l’Osservatorio siriano ha indicato che le compagnie di sicurezza turche e l’intelligence turca hanno continuato a trasferire e addestrare un gran numero di membri delle fazioni filo-turche a combattere in Azerbaigian, poiché il numero di elementi in arrivo lì è aumentato a circa 1.200 combattenti.

Secondo il monitor, i mercenari siriani sono stati ingannati sul loro spiegamento, poiché originariamente era stato detto loro che avrebbero protetto i giacimenti petroliferi vicino alla regione del Karabakh. Questi mercenari sono allettati dalla paga maggiore dell’80% rispetto a quella percepita in Siria. “Ho registrato il mio nome più di una settimana fa per andare in Azerbaijan … per uno stipendio di due $ 2.000 al mese per un periodo di tre mesi”, ha detto uno di loro a un’agenzia.

La fonte ha detto che un terzo gruppo di mercenari siriani, compresi 430 membri, è partito sabato scorso per la zona di conflitto in Karabakh.

Da parte loro, Turchia e Azerbaigian hanno negato la presenza di combattenti siriani nel conflitto in Karabakh. Addirittura, il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ha chiesto alla Francia di scusarsi per le dichiarazioni del presidente Emmanuel Macron riguardo al trasferimento di militanti siriani a Baku per partecipare alle ostilità in Karabakh.

Aliyev ha detto in un’intervista ad Al Arabiya: “Non ci sono mercenari … Abbiamo un esercito di 100.000 soldati … Chiedo alla Francia di scusarsi e di essere responsabile”.

Esattamente, In precedenza, il presidente francese aveva dichiarato che 300 militanti siriani erano stati trasportati in aereo, attraverso la città turca di Gaziantep, a Baku.

La NATO chiede un cessate un fuoco in Nagorno-Karabakh

Scrive Maria Grazia Rutigliano per Sicurezza Internazionale: Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha chiesto di imporre un cessate in fuoco in Nagorno-Karabakh, mentre il bilancio delle vittime continua a salire nell’enclave separatista nel Caucaso meridionale. 

La Turchia, nel frattempo, ha sollecitato l’alleanza a chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione, che secondo il diritto internazionale rientra nella sovranità dell’Azerbaigian ma è popolata e governata dall’etnia armena. Parlando a fianco del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ad Ankara, il 5 ottobre, Stoltenberg ha affermato che non esiste una soluzione militare al conflitto sul Nagorno-Karabakh. “È estremamente importante che trasmettiamo un messaggio molto chiaro a tutte le parti, queste dovrebbero smettere immediatamente di combattere, dovremmo sostenere tutti gli sforzi per trovare una soluzione pacifica e negoziata”, ha dichiarato Stoltenberg. La Turchia ha condannato quella che considera l’occupazione armena del Nagorno-Karabakh e ha giurato piena solidarietà con l’etnia turca dell’Azerbaigian. Cavusoglu ha affermato che la NATO dovrebbe anche chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione.

I combattimenti nella contesa regione del Caucaso meridionale del Nagorno-Karabakh sono iniziati il 27 settembre, con entrambe le parti che si accusano a vicenda di aver attaccato l’altro. Secondo le autorità locali, 80 militari sono stati uccisi e quasi 120 feriti in Artsakh, il nome ufficiale della repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabach, per via dell’attacco azero. Baku, da parte sua, afferma che l’offensiva è una risposta a bombardamenti effettuati dalle forze armene lungo la frontiera, una versione definita “menzognera” dalle autorità armene. L’Armenia sostiene le aspirazioni d’indipendenza dell’Artsakh dall’inizio degli anni ’90. Tale entità statale non è riconosciuta dalla comunità internazionale ed è fortemente osteggiata dall’Azerbaigian e dal suo alleato turco. A seguito degli scontri del 27 settembre l’Artsakh ha imposto la legge marziale e una mobilitazione generale. L’Azerbaigian ha proclamato la mobilitazione parziale e la legge marziale in alcuni dipartimenti e ha chiuso i suoi aeroporti a tutto il traffico internazionale a eccezione della Turchia, che si è impegnata a sostenere Baku.

Ieri, 4 ottobre, l’Azerbaigian ha dichiarato che sarebbe pronto a cessare le sue operazioni nel Nagorno-Karabakh qualora l’Armenia proponesse un programma per il ritiro delle sue truppe dalle città della regione contesa, secondo quanto annunciato dal presidente azero, Ilham Aliyev. “La nostra condizione per un cessate il fuoco è che l’Armenia proponga un’agenda temporanea per il ritiro delle truppe dai territori azeri occupati nel Nagorno-Karabakh, un ritiro non promesso solo a parole, ma attuato nei fatti, specificando quali territori verrebbero liberati e in quali giorni”, ha dichiarato Aliyev. “Condividiamo il punto di vista secondo cui il problema con l’Armenia dovrebbe essere risolto attraverso il dialogo, ma deve esserci un fondamento per questo. Il Primo Ministro armeno deve dichiarare la sua adesione agli accordi precedenti, secondo i quali i territori del Nagorno-Karabakh erano riconosciuti come territori azeri occupati”, ha aggiunto il presidente azero.

Nel caso in cui non si raggiungesse un cessate il fuoco, prosegue Aliyev, le operazioni azere continuerebbero e Baku cercherebbe di stabilire normali relazioni con il popolo armeno dopo aver liberato le sue terre. “Cercheremo di ripristinare le normali relazioni con il popolo armeno dopo la liberazione dei nostri territori occupati. Cercheremo di tornare a rapporti di buon vicinato, anche se non sarà facile”, ha dichiarato il presidente. Il primo ottobre, Pashinyan ha accusato la Turchia di coordinare l’offensiva militare dell’Azerbaigian, suggerendo che Ankara sia tornata nel Caucaso meridionale “per continuare il genocidio armeno”. 

3378.- La guerra aperta tra Azerbaigjian e Armenia e non solo. Non sarà una nuova Siria.

La Repubblica di Armenia è uno Stato asiatico indipendente del Caucaso meridionale confina con la Turchia a ovest, la Georgia a nord, l’Azerbaigian e la repubblica de facto dell’Artsakh (già Nagorno Karabakh) a est, l’Iran e l’exclave azera del Naxçıvan a sud. Da un punto di vista storico-culturale, il paese è tuttavia generalmente considerato Europeo ed è un membro del Consiglio d’Europa. Il conflitto esploso negli anni ’90 portò in Azerbaigian 86mila profughi di origine azerbaigian, cosiddetti “interni”, provenienti dal Nagorno Karabakh. A questi si aggiunse circa un milione di altri azeri espulsi dall’Armenia e dai distretti azerbaigiani adiacenti alla regione del Nagorno Karabakh. 

Questa guerra, cosiddetta congelata, almeno dall’aprile 2016, ma non più, tra Azerbaigjian e Armenia dura, ormai, da anni, da quando l’Azerbaigjian si rese indipendente dall’URSS. La regione del Nagorno-Karabakh, a sua volta, si distaccò dall’Azerbaijan, dando inizio a una guerra di basso tono fra l’Azerbaigjian e l’Armenia, schieratasi con il Nagorno-Karabakh, e finita, per modo di dire, con l’armistizio del 1994, mai seguito da un trattato di pace. La guerra che ha ripreso vigore, vede per la prima volta l’impiego di armamenti pesanti e il bombardamento delle città da parte dell’aviazione, particolarmente dalla parte azera.

Questa volta, dietro le reciproche accuse dei torti subiti e le aspirazioni, c’è, un regista straniero ed è Erdogan che sta seminando instabilità e conflittualità un pò dovunque, sostenendole con l’esercito irregolare gestito dal suo stato maggiore (tra parentesi, NATO): così, in Siria, in Libia e altrove, dove operano i Fratelli musulmani. Stiamo parlando del progetto neo-ottomano di Recep Erdogan, portato avanti con l’ambiguità tipica di quei popoli, che ha già guadagnato alla Turchia la fascia di territori del Nord della Siria, preceduta dalla diaspora del popolo curdo.

Dovremmo citare le primavere arabe, le correnti dell’Islam, nate intorno all’interpretazione del Corano, come il salafismo, purista del ritorno alle origini, il wahabismo, che e’ la religione di Stato dell’Arabia Saudita. Non ci sono solo la divisione fra Sunniti e Sciiti e le confraternite sufi, portatrici di un Islam moderato e quelle radicali. Dicono gli islamici, tutti: C’è un solo Dio (tawhid); ma , se il Corano è l’incarnazione del Dio e il Corano e la Sunna possono essere interpretati individualmente (“Itjihad”), di Corano ce n’è più d’uno. La politica del partito Akp di Erdoğan tende, o tendeva ad accrescere l’influenza della religione di Maometto sulla vita dei turchi, ma è stata “percepita negativamente”, in quanto diretta a “ripristinare i caratteri originali, oscurantisti della fede coranica” e a “instaurare nel Paese il wahabismo radicalizzato, cioè, la radice del terrorismo di matrice religiosa.

In questo contesto religioso, l’instabilità e la conflittualità nella regione del Medio Oriente e del Mediterraneo Orientale, in Libia, nel mare greco e di Cipro, sono la condizione che consente all’aspirante sultano di gestire la politica interna turca e portare avanti il suo progetto fra Stati Uniti, Russia e Iran. Siamo, infatti, ai confini della Russia, che, perciò, lavora per la pace fra Armenia e Azerbaijan, mentre, ovviamente, la guerra incontra il favore degli Stati Uniti.

Gli armeni, cristiani ed indoeuropei, erano nel 2015 e sono ancora l’ostacolo più evidente da eliminare per portare a termine il sogno, fra il religioso e il nazionalista, di un immenso territorio che dal Mediterraneo arrivasse fino allo Xinjiang cinese. La memoria del genocidio è anche l’ostacolo da superare per ricomporre la pacifica coesistenza fra i popoli del Caucaso meridionale e l’Armenia. Le ostilità sono state precedute dall’atterraggio di due trasporti militari turchi Ilyushin Il-76 nella base aerea israeliana di Uvda, seguiti da altri due pochi giorni dopo, che hanno scaricato rifornimenti per le forze azerbaigiane.

Il tracciamento degli Il-76 turchi atterrati ad Uvda, in Israele.
Un elicottero d’attacco armeno. In questa fase del conflitto, l’aviazione armena ha dichiarato di aver abbattuto 5 aerei e due elicotteri azeri.

La politica di Erdogan, che nega di armare gli azeri, ma li arma e li rifornisce, rafforza e spinge l’Azerbaijan all’intransigenza, ponendo condizioni inaccettabili per giungere al negoziato, come lo sgombero dei territori del Nagorno-Karabakh, che gli azeri considerano “occupati” dagli armeni; così, il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev in un’intervista ad “Al Arabiya”. L’Armenia, invece, ha raccolto gli appelli alla Pace di Putin, Trump, Macron e dell’Unione europea e ha offerto la sua disponibilità. Nei giorni scorsi, il 29 settembre, un F-16C turco, penetrato nello spazio aereo armeno, ha abbattuto un Sukoi Su-25, uccidendo il pilota. Si è trattato di un coinvolgimento aperto, anche se è improbabile che Erdogan voglia ripetere la guerra di conquista fatta in Siria. È improbabile, Erdogan nega e smentisce, ma Macron ha dichiarato di essere certo che la Turchia ha schierato in Azerbaijan le sue milizie islamiche: risultano almeno 300 unità provenienti dalla Siria, e ci sono conferme russe.

I rottami del Sukoi armeno abbattuto dai turchi nei cieli armeni.

L’ipotesi peggiore vedrebbe la destabilizzazione del Caucaso, come già in Siria. Ancora una volta, russi e turchi sarebbero in guerra nel Caucaso, ma Erdogan non può permettersi di guastare i suoi rapporti con Putin, che gli permette di sostenere la pressione dell’Occidente. C’è, poi, come abbiamo visto, Israele, neutrale a parole, che vende armi all’Azerbaijan (Si parla del 60 per cento degli armamenti degli azeri, “droni suicidi”, in particolare), fa da ponte per quelle turche e ne riceve gran parte del petrolio che utilizza e c’è l’Iran. Da marcare il fatto che l’Armenia ha ritirato il suo ambasciatore a Tel Aviv. Per Israele, l’Azerbaijan è un alleato strategico e un’ottima base in chiave anti Iran. L’Iran, da qualche anno, sarebbe in buoni rapporti con la Turchia e, però, sostiene le ragioni degli armeni. Ce n’è che basta.

Il conflitto ha visto in azione il sistema missilistico russo Buratino TOS-1 lancia razzi da 220 mm.

Ricordiamo che l’Armenia è legata alla Russia dall’Alleanza per la Difesa collettiva, insieme a Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan, CSTO. L’alleanza è strategica per la Russia e questo rappresenta un freno importante per Erdogan. L’alleanza difensiva CSTO è anche collegata all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che riunisce Russia, Cina, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan e si occupa di temi come cooperazione, sviluppo e sicurezza in Asia Centrale. Questi paesi hanno stipulato accordi intergovernativi, interdipartimentali, interregionali e commerciali che coprono la cooperazione in vari settori, tra cui energia, agricoltura, difesa e tecnologia. Ecco che il conflitto nella Repubblica di fatto dell’Artsakh, che chiamiamo ancora Nagorno-Karabakh assume una ben diversa dimensione e che la stabilità geopolitica della regione ha in Vladimir Putin un nume protettore. l’Armenia ha anche l’appoggio dell’India e, naturalmente, quello del Pakistan. C’è più di una ragione per prolungare le ostilità, ma a nostro avviso, sono molte di più quelle che vedono gli attori attorno ad un tavolo di trattative. Il problema, come ormai quasi sempre, sono Netanyahu e Erdogan. Ancora una volta, l’Unione europea, benché principale partner commerciale dell’Azerbaijan, si dimostra incapace di recitare una parte efficace in politica estera, questa volta a sostegno della pace e di Putin. Attenderemo la rielezione di Trump?

Gli israeliani avrebbero fornito un sistema per neutralizzare gli S-300 armeni.

Gli armeni non hanno dimenticato il loro genocidio perpetrato dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causò circa 1,5 milioni di morti. Il massacro, sistematico condotto dal Movimento dei Giovani turchi, iniziò a Istambul la notte del 24 aprile 1915, fu seguito da deportazioni in massa, e viene tuttora commemorato in quella data, a Jerevan, capitale e più popolosa città dell’Armenia.

Da un lato, il progetto neo-ottomano di Recep Erdogan è palesemente in contrasto con la stabilità geopolitica della regione voluta da Mosca, da un altro, visti anche gli sviluppi della Via della Seta per Baku, Erdogan potrebbe aver costretto azeri e armeni a venire a una soluzione militare o politica che sia.

Uno sguardo al futuro

La moderna Baku è il simbolo di uno sviluppo economico sostenuto soprattutto dallo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche.
Baku è la più grande città della Transcaucasia

Baku, modernissima capitale e centro del commercio dell’Azerbaigian, sotto il livello del mare e bagnata dal Mar Caspio. Baku propone il moderno scalo di Alat per diventare un hub dell’Eurasia sulla nuova Via della Seta, che non sia solo punto di transito.

Il conflitto fra azeri e armeni deve concludersi con una soluzione ispirata alla reciproca convivenza perché siamo in una regione cruciale per lo sviluppo dei commerci. “Agenzia Nova” ci dice che l’Italia è presente e si è assicurata il progetto del Corridoio meridionale del gas, prevalendo su una grande concorrenza internazionale, per aggiudicarsi le forniture dal giacimento Shah Deniz 2”. l’Italia è stata definita dal portavoce del ministero degli Esteri Azerbaigian Hikmat Hajiyev“ uno dei principali partner” dell’Azerbaigian, soprattutto a livello economico. “Abbiamo un dialogo strategico nel settore energetico, ma stiamo anche espandendo le aree di partnership a livello politico, economico, umanitario”. La solidarietà tra Italia ed Azerbaigian è saldissima e datata: numerosi i contatti tra gli istituti sanitari specializzati, tra le equipe mediche locali e tra le rappresentanze diplomatiche dei due paesi. In luglio, l’istituto Spallanzani di Roma ha sottoscritto un accordo di collaborazione con le aziende ospedaliere azere.

Vedi anche i nostri: 1202, 1650, 2248, 2249, 2703, 3204, 3370.

3352.- UN CAMMINO DI PACE: GRAZIE DONALD TRUMP!

Libia, Sarraj ufficializza le sue dimissioni entro fine ottobre

  1. 18 Settembre 2020. Di Francesco Bussoletti, da Difesa e Sicurezza, Politiche
Libia, Sarraj Ufficializza Le Sue Dimissioni Entro Fine Ottobre

Sarraj ufficializza in un discorso in tv le sue dimissioni entro la fine di ottobre

Fayez Sarraj lo ha confermato: lascerà la guida del GNA entro ottobre. Lo ha fatto in un breve discorso televisivo in cui ha sottolineato gli sforzi fatti per riconciliare le diverse visioni in Libia e per riunificare le istituzioni dello stato. Secondo il premier di Tripoli, però, il clima è rimasto altamente polarizzato, rendendo ogni tentativo molto difficile. A proposito ha denunciato che “qualcuno” ha contato sulla guerra contro Khalifa Haftar per imporre la sua agenda nel paese africano e il Consiglio Presidenziale è stato obbligato a fare molte concessioni per evitare l’inasprimento del conflitto. Sia a livello interno sia esterno. Nonostante ciò, è riuscito a raggiungere una tregua stabile con l’Est, tramite Agila Saleh, che ha posto le basi per la ripresa del processo politico. Si attendono ora le reazioni dei partner del governo riconosciuto e di quelli di Bengasi.

Il capo del GNA lascerà una volta che si sarà il nuovo Consiglio Presidenziale, formato da un elemento per ognuna delle tre regioni libiche. Haftar dovrà “liberare” il petrolio, mentre si attende il nuovo inviato speciale ONU

L’annuncio delle dimissioni di Sarraj, che comunque manterrà i poteri fino alla costituzione del nuovo esecutivo, apre nuovi scenari per il futuro della Libia. Innanzitutto sblocca il dialogo avviato tra GNA e l’Est, in quanto i partner di Haftar perdono oggi l’arma principale per frenare il processo. Inoltre, obbligherà il Generale a liberare effettivamente i giacimenti e i terminal petroliferi, pena la condanna dei suoi stessi alleati. Ora la palla passa all’ONU, che dovrà nominare al più presto il nuovo inviato speciale. Questo sarà strategico per mettere d’accordo le parti sulla necessità di un nuovo Consiglio Presidenziale, formato da un elemento di ogni regione libica (Tripolitania, Fezzan e Cirenaica). Il tema, infatti, sarà probabilmente quello principale, insieme a un cessate il fuoco duraturo, al prossimo round di negoziati a Ginevra. Di conseguenza, per quella data è auspicabile che questa figura sia stata già nominata e sia operativa. Da sottolineare, la decisione definita dall’ONU “coraggiosa” del premier, Fayez al-Sarraj, di dimettersi. Il governo di Tripoli ha chiesto alle Nazioni Unite di sostenere il popolo libico nell’organizzazione di un referendum costituzionale. Chi vede in questa decisione l’inizio di un cammino incerto e chi vede una speranza di pace.

Cavusoglu: Ankara e Mosca prossime a un accordo politico in Libia

17 SETTEMBRE 2020 

Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha dichiarato che la Turchia e la Russia giungeranno presto ad un accordo per il cessate il fuoco e ad una soluzione politica in Libia. Nel frattempo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha esortato le parti coinvolte nel conflitto libico a rispettare l’embargo sulle armi e a ritirare i mercenari stranieri (Luiss).

Le politiche espansioniste di Erdogan sono giunte al termine e, così, penso, la sua carriera politica. Anche l’Egitto è intervenuto per stabilizzare la Libia

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. Lunedì, 7 settembre, Shoukry ,ha avuto un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri del Marocco, Sameh Shoukry e Nasser Bourita, incentrato sugli sviluppi della crisi libica. 

Dall’Agenzia Nova era giunta notizia che l’Egitto ha stabilito i primi contatti diretti con gli esponenti di Fayez al Sarraj ricevendo al Cairo una delegazione di alto livello composta da membri dell’Alto Consiglio di Stato della Libia (il “Senato” libico) e da deputati “ribelli” della Camera dei rappresentanti che si riuniscono a Tripoli (e non a Tobruk, in Cirenaica, dove ha sede il parlamento), più altre “figure legali” esterne ai due organismi.

Al Cairo, LNA del generale Khalifa Haftar è stato portatore di una proposta che fa della città strategica di Sirte una “linea rossa” che le forze di Tripoli sostenute dalla Turchia non possono sorpassare, pena un intervento militare diretto egiziano a sostegno dell’LNA.

Domenica 13 settembre, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry aveva espresso il sostegno assoluto del suo Paese a tutti gli sforzi volti a risolvere il conflitto in Libia, comprese le consultazioni intra-libiche in Marocco. Aveva dichiarato: “La Turchia cerca politiche espansive”.

Durante una conferenza stampa con la sua controparte armena, Zahrab Mnatsakanyan, Shoukry aveva confermato che l’Egitto sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una soluzione alla crisi in Libia e non ha riserve su nessun partito libico che partecipa al processo politico.

Il ministro Shoukry aveva ribadito l’adesione dell’Egitto alla ricerca di una soluzione politica libica-libica sotto l’egida delle Nazioni Unite, sottolineando la necessità di garantire l’integrità territoriale del Paese e di rispettare le pertinenti risoluzioni internazionali.

l presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il 20 giugno, si era dichiarato pronto a qualsiasi missione, ma a fine agosto, ha accolto con favore le dichiarazioni di cessate il fuoco del Consiglio Presidenziale e dalla Camera dei Rappresentanti dello Stato della Libia definendole, su Twitter, “un passo importante” verso il raggiungimento di una “soluzione politica”.

Fermezza e diplomazia

Shoukry ha detto che l’Egitto “è intervenuto per stabilizzare la situazione militare in Libia”. Rivolto alla Turchia, ha rilevato, allo stesso tempo, che ci sono stati “interventi stranieri a servizio delle politiche espansionistiche in Libia”, puntualizzando che c’erano “quelli che portano in Libia combattenti stranieri e organizzazioni terroristiche”. Ha accusato Erdogan di perseguire “politiche espansive e destabilizzanti nella regione. “ Infine: “La cosa più importante sono le azioni, non le dichiarazioni”, ha detto, aggiungendo: “Se le dichiarazioni turche non coincidono con le azioni, non hanno valenza alcuna”.

Questo allinearsi all’ONU, sta a dimostrare la non disponibilità dell’Egitto ad essere trascinato in un conflitto armato da Erdogan e la sua adesione alla politica di pacificazione della Libia e del Medio Oriente condotta con determinazione da Trump. Possiamo affermare che Donald Trump è senza dubbio il miglior leader dell’Occidente di questa epoca e che la sua politica interpreta il desiderio di pace e prosperità dei popoli mediterranei.

Né al Sarraj né Haftar hanno vinto

I libici si sono riuniti in un certo numero di città e villaggi nella parte nord-occidentale e meridionale del paese per celebrare il 51 ° anniversario della “Rivoluzione Al-Fateh”, che, nel 1969, portò al potere il defunto leader Muammar Gheddafi.
Numerose le bandiere verdi e le immagini di Gheddafi e dei suoi figli, incluso Khamis Gheddafi, ucciso durante gli eventi del 2011.

I centri nevralgici del problema del Mediterraneo Orientale rimangono la sicurezza di Israele e il destino del popolo palestinese.

Tuttavia, la normalizzazione dei rapporti con la Siria, da parte di Israele richiede un prezzo che possiamo definire troppo elevato; quanto meno per un Netanyahu.

Il primo ministro marocchino, Saad Eddine El-Othmani, leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Pjd)

Andando alle consultazioni intra-libiche tenute nella città di Bouznika, in Marocco, sotto l’egida delle Nazioni Unite, è stato molto apprezzato il clima favorevole creato da quel governo. Il primo ministro marocchino, Saad Eddine El-Othmani, ha rifiutato, tuttavia, qualsiasi normalizzazione dei rapporti con Israele, anche dopo che Tel Aviv ha annunciato la normalizzazione dei rapporti con gli Emirati Arabi Uniti.

Di fronte a una riunione del Partito per la giustizia e lo sviluppo, El-Othmani ha sottolineato che “il Marocco rifiuta qualsiasi normalizzazione con l’entità sionista perché questo rafforza la sua posizione nel continuare a violare i diritti del popolo palestinese”.

Il Marocco ritiene che sia necessaria una soluzione a due stati con la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme est come capitale.

Il Marocco e Israele hanno avviato relazioni di basso livello nel 1993 dopo che è stato raggiunto un accordo di pace tra i palestinesi e Israele. Ma Rabat ha congelato le relazioni con Israele dopo lo scoppio della rivolta palestinese nel 2000.

Queste dichiarazioni sono venute prima di una visita di Jared Kushner, consigliere senior e genero del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nella regione, e dopo che gli Emirati Arabi Uniti e Israele avevano raggiunto il recente accordo.

Il ritiro della Turchia dalla Libia e lo smantellamento delle milizie libiche e dei reparti irregolari turchi sarà condizione per la realizzazione del processo di pace, da cui scaturirà la soluzione politica globale. Si avviano a una possibile soluzione molti problemi nel Mediterraneo. Tutto questo fervore diplomatico ha il suo apice nell’accordo arabo-israeliano voluto da Trump e dovrà essere seguito da una regolamentazione dell’immigrazione verso l’ Europa.

2593.- IL SISTEMA RUSSO S-400 È IN STATO DI ALLERTA IN SIRIA PER AFFRONTARE I CACCIABOMBARDIERI ISRAELIANI F-35

Questa settimana, le SAA hanno intercettato drone israeliani – e, se no, di chi? – in volo, di notte, sul suburbio di Aqraba, a Damasco. Sabato mattina, su Jabal Al-Sheikh ( Monte Hermon), in prossimità delle alture occupate del Golan, hanno intercettato drone armati con cluster bombs.

Il cielo di Aqraba, a Damasco, è stato illuminato a giorno dall’esplosione del drone

Finché l’instabilità della politica interna israeliana vedrà un partito fazioso fare da ago della bilancia fra i due schieramenti, nessuno in grado di prevalere, avremo poche speranze di vedere il Medio Oriente virare su un cammino di pace. Più i sistemi d’arma avanzati russi e americani sono messi direttamente a confronto, più paesi arabi giocheranno allo scoperto, meno spazio di manovra resterà alla diplomazia. L’ipotesi che il ricorso alle armi contro i campi petroliferi dell’Aramco sia stato un espediente della politica saudita, anziché una scelta strategica dell’Iran, non cambia il fatto che il conflitto siriano stia evolvendo a livello mondiale. Per il bene anche di Israele, qualcuno deve porre un freno a Netanyahu. Bene e come sempre puntuale, Putin ha alzato il livello di allerta nei cieli siriani. Quando avremo finalmente una Costituzione europea, allora, avremo modo di far pesare anche noi la nostra parola in politica estera.

By News Desk -2019-09-21, via Beirut

Sbarco di una batteria di S-400.

Le forze armate russe in Siria hanno messo in allarme il loro sistema di difesa aerea S-400 per far fronte alle potenziali incursioni dell’aeronautica israeliana all’interno del paese, secondo quanto riferito dall’analista della difesa e dall’autore Babak Taghvaee. Ricordiamo che il sistema siriano S-300PM2 è in grado di essere gestito dal sistema S-400.

Una fonte delle forze armate russe ha riferito che l’aeronautica israeliana è stata intercettata e impedita dal condurre attacchi aerei in aree dove è presente l’Esercito arabo siriano (SAA).

In particolare, l’aeronautica russa ha schierato i suoi jet Su-35 nelle aree che, si dice, siano prese di mira dagli aerei da combattimento israeliani; ciò ha presumibilmente impedito a quest’ultimi di eseguire i loro strike.

Secondo Taghvaee, l’aeronautica russa potrebbe o avrebbe consentito a Israele di attaccare Hezbollah e obiettivi iraniani in Siria; tuttavia, adotta un approccio diverso quando si tratta dell’esercito arabo siriano (SAA).

Inoltre, i russi, mettendo in stato di allerta le loro batterie SAM S-400 per controllare gli F-35I e gli F-16I dell’Israelian AirForce, hanno anche autorizzato la Syria Arab Air Defense Force a far fuoco con le sue batterie SAM S-300PM2 contro i jet da combattimento di Israele!

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Comunque, i russi hanno sempre dato il via libera a Israele per attaccare obiettivi IRGC e Hezbollah in Siria, ma sembra che non possano tollerare attacchi aerei contro la Sirian Arab Army in Latakia e, specialmente, vicino alla base navale di Tartus e alla base aerea di Hmeimim.

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20 settembre, 2019

Inoltre, Taghvaee ha messo in evidenza gli incidenti più recenti in cui, secondo quanto riferito, i caccia russi hanno intercettato e impedito agli aerei da combattimento israeliani dal bombardare la Siria, il 18 e 19 settembre.

Da una fonte delle forze armate siriane si è avuta confermache l’esercito russo ha adottato un approccio più aggressivo verso questi attacchi aerei. L’abbattimento

La fonte militare siriana ha affermato che le forze armate russe hanno adottato questo livello di approccio per proteggere i loro reparti in Siria, che sono tutti situati in aree controllate dall’esercito siriano.

Questa notizia è stata particolarmente enfatizzata dai media russi ed è stata recentemente discussa nella pubblicazione Independent Arabia, secondo la quale l’Aeronautica russa ha già intercettato gli aerei da combattimento israeliani in tre occasioni dalla fine di agosto.

Né da parte di Israele né della Russia sono giunti commenti riguardo a queste affermazioni, ma i rapporti sono stati resi pubblici poco dopo l’incontro del presidente russo Vladimir Putin con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, a Sochi, secondo i quali Mosca ha rifiutato di consentire a Tel Aviv di farla da padrone nello spazio aereo della Siria.

L’esercito siriano intercetta un sospetto drone israeliano, carico di bombe a grappolo.

By News Desk -2019-09-210

Sabato mattina, l’esercito arabo siriano ha intercettato un drone carico di bombe a grappolo sulla regione di Jabal Al-Sheikh (Monte Hermon) vicino alle alture del Golan occupate.

Le forze armate siriane hanno affermato che il drone apparteneva alle forze di difesa israeliane (IDF), aggiungendo chegli israeliani hanno monitorato da vicino il loro spazio aereo fin dal momento del recente confronto nella regione del Golfo Persico.

Israele non ha voluto commentare questa intercettazione né il precedente abbattimento di un drone sul sobborgo di Damasco di Aqraba, avvenuto all’inizio di questa settimana.

Non bastasse, le agenzie di intelligence siriane hanno scoperto un deposito di armi, munizioni, medicine, cibo e attrezzature prodotte in Israele, nel villaggio di Barika alla periferia di Quneitra.

Israele ha preso il controllo delle alture del Golan dalla Siria durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967 e si è annesso il territorio nel 1981, sebbene la decisione non sia stata riconosciuta dalle Nazioni Unite. Nel 2018, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che esorta Israele a ritirare immediatamente le sue forze dal territorio occupato. Di diverso avviso è l’amministrazione Trump, vincolata dalla politica sionista.

Gli F-16 turchi pattugliano i cieli siriani al posto degli F-22 USA.

Il Ministero della Difesa turco ha dichiarato in un tweet che lunedì 2 caccia F-16 appartenenti alla Turk Ava Kuvletteri sono entrati nello spazio aereo siriano lunedì pomeriggio, restandovi per due ore prima di rientrare, nello spazio aereo turco. I due F-16 appartenevano all’Operazione Inherent Resolve (CJTF-OIR)”. Sono trascorse solo due settimane da quando Ankara e gli Stati Uniti hanno implementato la loro zona di sicurezza nella regione settentrionale della Siria.

Pace per la Syria.

2586.- ATTACCO ARAMCO: un “false flag” di troppo

Maurizio Blondet  17 Settembre 2019  

E’ accaduto nei giorni di Purim, quando il popolo di Israele celebra in maschera  i precedenti stermini che ha attuato con successo. A cominciare da quello raccontato da Libro di Ester, che giustamente Gilad Atzmon ha definito il primo manuale per l’infiltrazione  ebraica di una superpotenza.

Ester  seduce l’imperatore persiano Assuero, e  lo induce a concedere agli ebrei l’autorizzazione reale per uccidere i loro nemici  – ciascuno i suoi –   per prevenire un genocidio  degli ebrei  del tutto immaginario.  Uccisero  75 mila “nemici”   del popolo fra cui abitavano, e per la gioia i giudei si ubriacarono tanto da “non distinguere più  Mardocheo da Aman, da  ottenebrare la coscienza del loro crimine.

Per la festa di Purim si celebra il massacro

Anche quest’anno a Purim,  dove  ci si maschera, alcuni ebrei hanno vestito i loro bambini da Twin Tower  squarciate dagli aerei,  il trionfale false flag a cui devono seguenti 20 anni di guerre  e  stermini sferrati dagli Usa ai loro nemici anche solo  potenziali.  Alla lista dei nemici da distruggere,  manca ancora l’Iran, su cui si appuntano le brame ossessive  genocide  dei sionisti.

Veniamo all’attacco ai giganteschi impianti di raffinazione dell’Arabia Saudita, che ha dimezzato  la produzione del regno di Bin Salman. Gli Houti yemeniti lo hanno rivendicato; ovviamente, Mike  Pompeo ha accusato l’Iran.  L’inviato dell’Onu ha detto che non è chiaro  chi abbia colpito.

L’attacco è stato messo a segno non con un drone, ma con uno sciame di droni teleguidati e missili da crociera: dieci dicono gli yemeniti, ma le foto satellitari mostrano 17 punti d’impatto.  Sono stati  distrutti deliberatamente e  con precisione gli impianti di stabilizzazione,  il procedimento intermedio della distillazione. Certi impianti sono “a doppia ridondanza”: sono stati colpiti entrambi.  “Chi  l’ha fatto ha una conoscenza dettagliata  del processo di raffinazione  e sue conseguenze”.

Un attacco chirurgico e competente

Per di più,  i fori dei grandi serbatoi ovoidali  mostrano che l’attacco è venuto da Ovest, non da Est  da dove sarebbero  partiti i droni  yemeniti o iraniani. Ragion per cui DEBKA, l’organo di disinformazione del Mossad, ha proclamato che gli iraniani hanno colpito sì, ma dall’Irak.

Colpiti da Ovest.

Un simile attacco a sciame richiede una tale sofisticazione di  tele – guida su video, immagini satellitari e GPS, ed una così completa conoscenza della  immensa area delle raffinerie,  e dei processi di raffinazione da colpire per infliggere danno,  che dovremmo solo ammirare i tribali yemeniti per l’eccezionale livello raggiunto dai loro laureati militari.

Tanto più se, come dice una fonte non confermata,  le  fittissime  batterie   mobili di  missili Patriot  comprati dall’Arabia Saudita alla  Raytheon , supposti capaci di neutralizzare simili attacchi,  sono stati accecati preventivamente – da  piccoli  droni-giocattolo, in libera vendita, che sono stati mandati a  sfracellarsi (e sfracellare)  sui  radar dei Patriot.

Un  simile scacco  totale  dei Patriot – coi prevedibili contraccolpi negativi del  marketing Raytheon  –  porterebbe ad escludere almeno che siano stati gli americani ad  operare il false flag.  Non a caso, Vladimir Putin ha subito offerto a Ryiad di venderle i S-400: una punta di chutzpah che deve  aver preso dalla frequentazione dell’”amico Bibi”.

Ovviamente, l’amico Bibi e le  sue forze armate  sono perfettamente in grado di  mettere a segno un’operazione così sofisticata. Bisogna  pensare a  un disperato che affronta elezioni che teme davvero di perdere, il che lo consegnerebbe alla magistratura  israeliana  che lo persegue per gravi corruzioni. Un disperato abbandonato in pochi giorni da John Bolton (licenziato da Trump) e dai coniugi Adelson,  i miliardari suoi grandi sostenitori  storici, che ormai vanno dicendo che Netanyahu e consorte  sono clinicamente pazzi.

Al saudita, dopotutto, conviene

Ma può aver fatto questo, Bibi, al  quasi alleato saudita?  All’utile Mohamed Bin Salman? Attenzione, il saudita  ha bisogno estremo di un rincaro del prezzo del greggio  per  aumentare i  suoi profitti;  un bisogno frustrato  dal protettore USA, che pretende da anni che  il regno esageri nell’estrazione petrolifera per tenere basso il prezzo, per vari motivi geopolitici (fra cui infliggere danno alla Russia, al Venezuela,  all’Iran…). Ora, dopo l’attacco, ecco che il greggio rincara del 20 per cento. Ed ora si stabilizza al 12, che probabilmente compensa alquanto l’entità della (supposta) perdita;  ma  soprattutto offre al reuccio un concreto pretesto per dimezzare il suo ritmo di estrazione, il che significa far durare del doppio le sue riserve residuali sotto la sabbia, di cui si  dice che non ne resti più tanto. Si aggiunga il vantaggio economico: il valore della ARAMCO, l’azienda petrolifera di Stato che  Trump vuole che sia privatizzata e quotata a Wall Street,   è  stato rimandato;  la sua importanza per  la clientela occidentale viene aumentata; e lo stesso valore geostrategico dell’Arabia diventa più pesante nella scarsità.

Senza contare che l’avanzare della recessione mondiale  sta inducendo consumi minori di petrolio a livello mondiale, con prevedibile crollo dei prezzi. Crollo per il momento scongiurato.

Né va  sottovalutato il vantaggio per l’America stessa. Se non per la sua industria di armamento,  per i suoi petrolieri. Oggi gli USA sono il maggior produttore mondiale di greggio, ma l’estrazione americana  (da scisti)  non diventa  redditizia finché  il Brent non sale almeno a 60 dollari il barile. Con la recessione europea (Germania  anzitutto) alle porte, erano prevedibili  cali della domanda e quindi del prezzo. L’attacco “yemenita”   è venuto a puntino   per “sostenere” il corso del greggio a livello mondiale.

Il  rincaro del petrolio implica anche un rafforzamento del dollaro: sono richiesti dai mercati per acquistare greggio, e  i titoli del Tesoro Usa  vanno a ruba in caso di crisi pre-bellica e destabilizzazione, perché sono considerati “I più sicuri del mondo”.

Per  l’ex militare Gordon Duff (Veterans  Today)   bisogna valutare che  il ventennio di destabilizzazione israeliana  dei suoi vicini, innescato dal false flag  dell’11 Settembre, è al capolinea.  Ed è finita male per Netanyahu,.  La Russia garantisce la Siria e la stabilizza. L’ISIS, l’armata usata da Sion e Ryad,  è sconfitto.  L’Iran  è il vincitore geopolitico.  La visita di Netanyahu a Mosca s’è risolta in un  fallimento.  L’amico  Bolton, il super-guerrafondaio  al servizio di Sion,  è fuori della Casa Bianca.  L’Arabia Saudita starebbe cercando un modo di finirla con la guerra allo Yemen, che lo dissangua e che non riesce  a vincere. “Un disastro per la politica di Israele nell’area, che è far durare tutte le guerre attorno allo stato ebraico. Traete  voi le  conclusioni.

2289.- In Libia abbiamo perso ancora: e con Haftar vincono Egitto, Arabia e Francia

Avevamo un patto con Gheddafi, ma … la verità è che i governi cagoia non mantengono i patti e nemmeno sanno difendere i loro interessi. Si nascondono dietro le soluzioni politiche, le road map dell’ONU, le promesse di Washington, che ha sempre fatto e farà i “casi” suoi; ma le palle sul piatto della bilancia non le mettono mai. Al Sarraj è solo. Da domani, autocritiche e accuse e l’hanno prossimo andremo a carità da Macron. Fossi l’ENI, farei le valige, come ha fatto Fiat.

Avevamo scommesso sul governo di Tripoli e su Sarraj, ma l’abbiamo lasciato a bagnomaria, auspicando soluzioni politiche mentre Haftar ammassava un esercito per marciare su Tripoli. Ora che il generale sostenuto da Al Sisi sta prevalendo, il nostro ruolo nell’ex colonia rischia di finire per sempre.

LNA WAR INFORMATION DIVISION / AFP

L’aspetto paradossale di questa ennesima crisi libica sta nel coro che da ogni parte si leva a favore di una “soluzione politica”. L’hanno chiesta Italia, Usa, Francia ed Emirati Arabi Uniti in una dichiarazione congiunta. L’ha quasi implorata l’Onu, sia tramite Ghassan Salamè, inviato speciale per la Libia, sia tramite Antonio Guterres, il segretario generale che nelle scorse ore si trovava a Tripoli. L’hanno sollecitata la Russia, l’Unione Europea, il G7. Nessuno che spieghi, però, come si possa ottenere una “soluzione politica” quando sul terreno opera una forza militare ben organizzata e meglio armata che, non a caso, confida nella “soluzione militare”.

Stiamo parlando, ovviamente, dell’Esercito nazionale libico guidato da Khalifa Belqasim Haftar, ex generale di Gheddafi, ex insorto anti-Gheddafi e ora candidato autorevolissimo al ruolo di Gheddafi 2 la vendetta. Haftar, come le plurime identità dimostrano, non è affatto digiuno di politica. Ma si è garantito il dominio della Cirenaica, ha ottenuto il controllo del Fezzan e infine ha lanciato l’Opa definitiva su Tripoli e sull’intera Libia perché quando ha qualcosa da dire si fa precedere da un congruo numero di missili e veicoli blindati, che riescono quasi sempre a essere piuttosto convincenti.

In più, Haftar ha alleati potenti che fanno sul serio. L’Egitto dell’altro generale Al Sisi, che non lesina armi e aiuti di ogni genere. L’Arabia Saudita che gli garantisce l’appoggio di alcuni clan importanti della regione di Tripoli. Con lui anche qualche Paese di quelli che tengono i piedi in due scarpe e che in questi giorni, di fronte al colossale pernacchio che Haftar ha fatto alla comunità internazionale (la sua offensiva è partita con il segretario generale dell’Onu in visita a Tripoli, in pratica alla vigilia della conferenza di pace che avrebbe dovuto svolgersi in Libia su iniziativa delle stesse Nazioni Unite), prova forse qualche imbarazzo ma intanto comincia a valutare i futuri incassi. Gli Emirati che hanno fornito i denari e la Francia che ha messo armi, istruttori militari e intelligence a disposizione del nuovo Gheddafi.

Se tu, governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj che sei l’unico riconosciuto dalle istituzioni internazionali, proponi la famosa “soluzione politica” e quegli altri vogliono la “soluzione militare”, hai un solo modo per uscirne: o meni più forte (e poi, naturalmente, spieghi quant’è bella la soluzione politica) oppure ti fai guardare le spalle da qualcuno bello grosso. Al-Sarraj non ha avuto il randello per difendersi e difendere il proprio Governo e nessuno è corso davvero in suo soccorso.

La crisi forse terminale di Al-Sarraj è anche la crisi dell’ambizione italiana di avere un ruolo importante nella Libia di oggi e di domani. Perché il nostro Paese, nei secoli fedele, ha creduto nella road map di stabilizzazione tracciata dall’Onu e, a parole, apprezzata e approvata da tutti. Compresi quelli, come la Francia, che sottobanco hanno l’impossibile per farla fallire e lasciarci in braghe di tela con i flussi migratori, il petrolio e le questioni di sicurezza legate agli incroci tra, appunto, flussi, petrolio e terrorismo.

Secondo costume patrio finiremo ad autoflagellarci per le scelte sbagliate in politica estera.D’altra parte una buona metà del Paese criticò a suo tempo il Trattato di Bengasi per l’amicizia italo-libica, firmato da Berlusconi con Gheddafi, una mossa che, per poterla ripetere, oggi saremmo pronti a baciarci i gomiti.

Prima che parta la solita litania, sarà meglio chiarire tra noi pochi ma basilari concetti. A certo livelli, la politica estera (altrimenti detta: difesa dell’interesse nazionale nell’agone internazionale) non si può fare con le buone intenzioni. La Francia di Sarkozy, nel 2011, fece politica estera con una guerra che, di fatto, distrusse la Libia. Noi, invece di opporci, ci accodammo.

La crisi forse terminale di Al-Sarraj è anche la crisi dell’ambizione italiana di avere un ruolo importante nella Libia di oggi e di domani

Nel gennaio 2017 il Governo Gentiloni, per opera del ministro degli Interni Minniti, siglò il famoso accordo con Tripoli per la stabilizzazione del Paese, il contrasto al traffico di esseri umani e la cooperazione contro il terrorismo. Apriti cielo, quel patto è tuttora considerato una pagina buia nella storia del Paese, quando il vero schifo è aver fatto troppo poco per implementarlo, rafforzando per prima cosa il Governo di Al-Sarraj. In quell’accordo si ipotizzava anche di aiutare il governo di Tripoli a mettere sotto controllo il confine con il Niger che invece, in questi ultimi anni, è stato usato proprio da Haftar come un rubinetto per regolare a piacimento l’afflusso di migranti africani verso il Mediterraneo. Però quando si parlò, nel gennaio del 2018, di una missione militare italiana in Niger con un paio di centinaia di soldati, ci fu un’altra sollevazione di popolo, come se fossimo alla vigilia di una spedizione coloniale.

Insomma. Le missioni militari no. Gli accordi solo con i Governi belli pulitini. Se c’è un Governo che piace a noi e pure all’Onu, tipo Al-Sarraj, lasciamolo pure a bagno maria.Mettiamoci che non abbiamo sufficiente potenza economica su cui far leva e che i nostri alleati tradizionali, primi fra tutti gli Usa, ci usano e poco più, e non resta che chiedersi con che cosa vorremmo farla, questa benedetta politica estera. Distribuendo pizze?

Nel 2016, quando Giulio Regeni fu assassinato al Cairo dagli sgherri dei servizi di sicurezza, l’Italia aprì una crisi diplomatica con l’Egitto e richiamò l’ambasciatore. Tempo mezz’ora e al Cairo sbarcava il presidente francese Hollande, che firmò 30 accordi commerciali e concesse una serie di prestiti con cui Al Sisi fece incetta di armi francesi

Tornando alla Libia c’è una lezione che dovremmo meditare. Nel 2016, quando Giulio Regeni fu assassinato al Cairo dagli sgherri dei servizi di sicurezza, l’Italia aprì una crisi diplomatica con l’Egitto e richiamò l’ambasciatore. Tempo mezz’ora e al Cairo sbarcava il presidente francese Hollande, che firmò 30 accordi commerciali e concesse una serie di prestiti con cui Al Sisi fece incetta di armi francesi. Guarda caso oggi Francia ed Egitto sono alleati nel sostenere Haftar. Nel 2017, invece, quando l’Italia rimandò il proprio ambasciatore al Cairo, quasi tutti scrissero che era uno scandalo, una mossa sbagliata che non avremmo mai dovuto compiere. Nobile atteggiamento, pensando a Regeni. Ma pensando agli africani che Haftar spediva verso Nord per lucrare sul traffico e mettere in crisi Tripoli? Quanti ne saranno morti nella sabbia o in mare? E pensando a quanto potrebbe costare all’Italia intera perdere la preminenza sul mercato del greggio libico?

Certo, fa schifo ragionare così sapendo quali torture e sofferenze dovette affrontare Giulio Regeni. E ne chiediamo perdono alla famiglia. Ma la politica estera è questa roba qua, anche. Meglio saperlo. Tradotto negli eventi di queste ore vuol dire una cosa semplice. Se noi Italia, Usa, Onu, Ue, non siamo in grado o non vogliamo sostenere Al-Sarraj fino in fondo, concretamente, seriamente, meglio lasciar perdere. Togliamoci di mezzo e lasciamo fare a Haftar. Con un Gheddafi, in fondo, abbiamo già trattato. E almeno avremo evitato alla Libia un’altra inutile guerra.

2135.- Il Qatar esce dall’OPEC

La guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina è stata al centro del G20 di Buenos Aires. Il mercato dell’energia contribuisce e subisce gli effetti di questa guerra. L’uscita dall’OPEC del Qatar, che fu il primo paese ad aderirvi ed è il maggior produttore di gas naturale in assoluto porta con se una serie di considerazioni anche politiche. Suggerisco la lettura di questo articolo tratto da “Lεnta.ru”, 3 dicembre 2018. Traduzione libera di Mario Donnini.

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Foto: Hasan Jamali / AP

Il Qatar annuncia il ritiro dall’OPEC per concentrarsi sulla produzione di gas naturale liquefatto. Il gas russo corre il rischio di deprezzarsi. È un annuncio vantaggioso per l’Ucraina

Il Qatar ha deciso di lasciare l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) dal 1 ° gennaio 2019. L’intenzione di ritirarsi dal cartello petrolifero ha detto che il ministro dell’Energia e il presidente della compagnia petrolifera di stato di Qatari (gestisce tutti gli asset petroliferi e del gas del Qatar – “Lenta.ru”) Saad al-Kaabi. Il motivo dell’abbandono del cartello è il desiderio di aumentare la posizione dello stato sui mercati mondiali, in particolare per concentrarsi non sull’industria petrolifera, ma sulla produzione di gas naturale liquefatto (GNL).

L’industria del gas per il Qatar è più promettente del petrolio

Spiegando le ragioni per cui ha lasciato il cartello, Saad Al-Kaabi ha dichiarato che lo stato intende concentrarsi sull’industria del gas: “Il Qatar cerca di concentrarsi sui piani per sviluppare e aumentare la produzione di gas naturale dagli attuali 77 a 110 milioni di tonnellate nei prossimi anni”. Attualmente, il Qatar è solo l’undicesimo in termini di produzione di petrolio all’interno dell’OPEC, producendo circa 600.000 barili al giorno, ovvero circa il due percento della produzione mondiale di petrolio. Ma il Qatar è il più grande esportatore di gas naturale liquefatto (GNL) nel mondo e il secondo più grande esportatore di gas dopo la Russia, in linea di principio nel mondo. Alla fine del 2017, il Qatar ha fornito 103,4 miliardi di metri cubi di GNL e 18,4 miliardi di metri cubi di gasdotto.

La decisione potrebbe avere connotazioni politiche.

Una ragione informale per lasciare l’OPEC è il conflitto politico tra il Qatar e il leader del cartello, l’Arabia Saudita. Le autorità di sette stati arabi hanno interrotto le relazioni diplomatiche con il Qatar nel giugno 2017, lo stato è stato accusato di collaborare con i terroristi, e tutto perché le autorità del Qatar hanno uno “sguardo speciale” sull’Iran. Oltre all’Arabia Saudita, le relazioni diplomatiche con il Qatar sono state infrante: il Bahrain, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, lo Yemen, l’Unione delle Comore e la Mauritania. È vero, il Ministro dell’Energia del Qatar stesso nega tale connessione, rilevando che la decisione non è legata alle accuse politiche contro Doha.

La decisione del Qatar è stata annunciata prima dell’incontro più importante dei paesi OPEC.

Giovedì 6 dicembre, a Vienna, è in programma un nuovo ciclo di colloqui con le potenze produttrici di petrolio per la riduzione della produzione petrolifera e della politica petrolifera dei paesi OPEC per il 2019. È previsto che il rappresentante della Russia parteciperà a questo ciclo. Anche i rappresentanti del Qatar intendono essere presenti all’incontro di Vienna dell’OPEC.

 

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Nave gassiera con gas naturale liquefatto
Foto: Reuters

Il mercato quasi non ha notato la dichiarazione del Qatar

Il mercato petrolifero globale non ha quasi notato la decisione delle autorità del Qatar di abbandonare il cartello. Lunedì 3 dicembre, i prezzi del petrolio mondiale stanno aumentando fortemente. Alle 13:26 ora di Mosca, i futures di febbraio per il petrolio al benchmark del Mare del Nord, il Brent, sono aumentati del 3,74% e ammontano a $ 61,77 al barile. Il benchmark americano WTI è cresciuto del 4,32%, a 53,13 dollari al barile. Il principale motore della crescita sono gli accordi verbali tra il presidente russo Vladimir Putin e il principe ereditario Mohammed Ibn Salman al-Saud sulla riduzione della produzione e delle esportazioni di petrolio, che dovrebbe portare ad un aumento dei prezzi del petrolio. La dichiarazione delle autorità del Qatar  comporta un calo a breve termine dei prezzi del petrolio.

 

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Il “Batti 5” fra Vladimir Putin e il principe ereditario Mohammed Ibn Salman al-Saud al G20 di Buenos Aires sugella l’accordo intercorso. Quando il prezzo del petrolio Brent è sceso di oltre il 30 per cento all’inizio di ottobre, fino a 57,78 dollari al barile, la Russia ha iniziato i negoziati con l’Arabia Saudita per ridurre la produzione. I dettagli dell’accordo, compresa la dimensione della potenziale riduzione della produzione, non sono ancora chiari. Tuttavia, le azioni della Russia hanno già portato ad un forte aumento dei prezzi. Sullo sfondo, Trump guarda e pensa. ndr.

L’aumento dei prezzi del petrolio non è causato solo dalla Russia

La crescita dei prezzi del petrolio è stata causata non solo dagli accordi di Russia e Arabia Saudita. I mercati stanno crescendo sullo sfondo di una tregua nella guerra commerciale tra le due principali economie del mondo: la Cina e gli Stati Uniti. Il continuo confronto potrebbe rallentare significativamente la crescita economica in Cina, che a sua volta potrebbe influenzare il volume della domanda di energia dalla Cina. Oltre che dalla guerra commerciale, la domanda e l’offerta sono state, in parte, influenzate dalla riduzione della produzione in un altro importante esportatore globale, il Canada, dove la produzione di petrolio nel più importante giacimento di petrolio dell’Alberta è stata ridotta di 325 mila barili al giorno.

Il Qatar è uno dei membri più antichi dell’OPEC

L’OPEC come organizzazione permanente è stata fondata nel 1960. La struttura iniziale comprendeva: Iran, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita e Venezuela – il principale promotore della creazione del cartello. Il Qatar è stato il primo paese ad aderire all’OPEC dopo la sua creazione, nel 1961. Successivamente, il cartello è stato raggiunto da: Indonesia, Libia, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Nigeria, Ecuador, Gabon e Angola. Alcuni membri dell’OPEC, come l’Indonesia e l’Ecuador, hanno già lasciato il cartello, ma l’Ecuador successivamente è tornato alla partecipazione.

Per la Russia, questo abbandono dell’OPEC non è ancora una minaccia

Il ritiro del Qatar dall’OPEC, almeno per ora, non ha praticamente alcun effetto sul mercato del petrolio, quindi le prospettive per i prezzi del petrolio dipendono ancora dall’incontro dei membri dell’OPEC e dei colleghi al di fuori del cartello questo giovedì. Se gli accordi tra Russia e Arabia Saudita saranno sostenuti dal cartello, i prezzi del petrolio si stabilizzeranno dopo un mese di caduta.

Gli unici rischi derivanti dalla crescita dell’indipendenza del Qatar per la Russia provengono dall’intendimento di aumentare le vendite di gas naturale liquefatto, che a medio e lungo termine potrebbero influenzare la quota russa di forniture verso l’Europa e la Cina. Attualmente, il LNG del Qatar è già stato acquistato dalla Polonia, che vuole ridurre la sua dipendenza da Russia e Gazprom, e recentemente il presidente dell’Ucraina, Petro Poroshenko, ha visitato il Qatar e ha concordato la fornitura di GNL. In totale, il Qatar occupa il 41% del mercato del GNL in Europa, consegnando un totale di 16,81 milioni di tonnellate di GNL (circa 23,2 miliardi di metri cubi di gas) nel 2017.