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6218.- Presidente Meloni, Piano Mattei

Presidente, grazie.

Meloni in Libia, patto con Haftar: lotta senza tregua ai trafficanti di esseri umani

Da Il Secolo d’Italia del 7 Mag 2024 – di Redazione

Meloni Haftar


Una missione a tutto campo, quella della Meloni in Libia – accompagnata dai ministri dell’Università e Ricerca, Anna Maria Bernini, della Salute, Orazio Schillaci, e per lo Sport e i Giovani,Andrea Abodi – sotto il profilo geo-politico e della cooperazione internazionale. Il Presidente del Consiglio, in visita oggi a Tripoli, ha incontrato il Presidente del Consiglio Presidenziale Al-Menfi e il Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Dabaiba. Al termine dell’incontro sono state firmate delle dichiarazioni di intenti in materia di cooperazione universitaria e ricerca, salute, sport e giovani nella cornice del Piano Mattei per l’Africa.

Meloni in Libia: i bilaterali con Dabaiba e Haftar

Il Presidente Meloni, come rendono noto fonti di Palazzo Chigi, ha ribadito l’impegno a lavorare con la Libia in tutti gli ambiti di interesse comune, attraverso un partenariato su base paritaria fondato su progetti concreti. In particolare nel settore energetico e infrastrutturale. Al fine di approfondire ulteriormente le opportunità di investimenti, nel corso del colloquio – sottolineano le stesse fonti – il Presidente Meloni e il Primo Ministro Dabaiba hanno deciso di organizzare un business forum italo-libico entro la fine dell’anno.

La cooperazione tra Libia e Unione Europea

Non solo. Con i suoi interlocutori, il Presidente del Consiglio ha discusso anche dell’importanza di indire le elezioni libiche presidenziali e parlamentari, nel quadro della mediazione delle Nazioni Unite che va rilanciata. L’Italia, in tal senso, continuerà a lavorare per assicurare una maggiore unità di intenti della Comunità internazionale. E per promuovere la cooperazione tra Libia e Unione Europea.

Meloni e Haftar sulla ricostruzione di Derna, le iniziative sull’agricoltura e sulla sanità

Nel pomeriggio, poi, il Presidente Meloni si è quindi recata a Bengasi, dove ha incontrato il Maresciallo Khalifa Haftar, con cui ha discusso, tra l’altro, delle iniziative italiane nel settore dell’agricoltura e della salute che interessano anche l’area della Cirenaica. Oltre a ribadire la disponibilità dell’Italia a contribuire, anche attraverso le competenze specifiche del nostro settore privato, alla ricostruzione di Derna, colpita lo scorso anno da una drammatica alluvione, in linea con l’impegno a tutto campo che l’Italia aveva messo in campo subito dopo la tragedia. Aspetto, quello della ricostruzione, condiviso anche con il Presidente Al-Menfi che ha voluto ricordare il generoso impegno dell’Italia.

«Intensificare gli sforzi nella lotta al traffico di esseri umani»

Nel corso della missione, infine, il Presidente del Consiglio ha espresso apprezzamento per i risultati raggiunti dalla cooperazione tra le due Nazioni in ambito migratorio. In questa prospettiva, per il Presidente Meloni permane fondamentale intensificare gli sforzi in materia di contrasto al traffico di esseri umani, anche in un’ottica regionale. E in linea con l’attenzione specifica che l’Italia sta dedicando a questa sfida globale nell’ambito della sua Presidenza G7.

Libia e Piano Mattei, il binomio funziona. La visita di Meloni a Tripoli secondo Checchia

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 8 maggio 2024

L’ambasciatore Checchia: “L’Italia è punta di lancia d’Europa nel continente africano. Con il Piano Mattei sosterremo l’area del Sahel, dopo il passo indietro francese. La visita porta in grembo il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Libia, Libano e Marocco”

07/05/2024

Un altro tassello di quel puzzle geopolitico chiamato Piano Mattei è stato posizionato oggi in Libia dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha incontrato il primo ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdul Hamid Mohammed Dabaiba, il presidente del Consiglio presidenziale libico Mohammed Yunis Ahmed Al-Menfi e il generale Khalifa Haftar. Un viaggio strutturato, come dimostra la presenza di tre ministri del governo che hanno plasticamente disteso la strategia italiana in loco, siglando accordi con gli omologhi libici in settori cardine delle istituzioni e della società. Nell’occasione è stato annunciato il Forum economico italo-libico a Tripoli per fine ottobre al fine di sostenere il settore privato di entrambi i Paesi. Non sfugge che il quadro libico, caratterizzato da un crollo delle partenze migratorie, si fonde con il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale del Paese (che porti ad elezioni) e con il dossier energetico che vede l’Eni protagonista.

Dichiarazioni di intenti

Ricerca, università, sanità e sport sono le quattro macro aree protagoniste delle dichiarazioni di Intenti siglate in Libia, in occasione del viaggio del premier accompagnata da tre ministri del governo: Andrea Abodi (Sport), Orazio Schillaci (Salute), Anna Maria Bernini (Università e ricerca). Alla voce università si segnala la nascita di una cooperazione bilaterale tra istituzioni della formazione superiore dei due Paesi, per approfondire i principali programmi multilaterali, come ad esempio Erasmus+. In questo senso verranno facilitati gli scambi tra studenti, professori, ricercatori e personale tecnico amministrativo, ma anche i dottorati in co-tutela, e i corsi di studio finalizzati al rilascio di titoli congiunti o doppi.

Circa la ricerca scientifica la partnership sarà ad ampio spettro, abbracciando settori significativi come energie rinnovabili, mari e oceani, economia blu, sostenibile e produttiva, con particolare attinenza ai settori delle risorse ittiche e degli ecosistemi marini. Grande attenzione all’agri-food e alle biotecnologie nell’ambito dei cambiamenti climatici: tutte iniziative che saranno supportate da workshop e meeting di carattere scientifico.

Altro capitolo rilevante è dedicato alla salute, con una comune collaborazione tecnico-scientifica che permetta di favorire l’accesso alle terapie in ospedali italiani a cittadini libici, soprattutto in età pediatrica, ai quali non risulti possibile assicurare trattamenti adeguati in Libia. Anche lo spot rientra in questa formula di partenariato strutturato, con la riqualificazione delle infrastrutture sportive nelle comunità libiche e la costruzione di programmi di volontariato e servizio per promuovere l’inclusione sociale giovanile.

Italia punta di lancia dell’Ue

L’Italia è la punta di lancia dell’Ue in Africa, dice a Formiche.net Gabriele Checchia,già ambasciatore italiano in Libano, presso la Nato e presso le Organizzazioni Internazionali Ocse, Esa, Aie secondo cui questa visita strutturata del premier a Tripoli con tre ministri racconta di una narrativa più ampia. “In primo luogo è il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Angola, Libia, Libano e Marocco. È un dato geopolitico rilevante che con l’attuale governo abbiamo ritrovato, ovviamente costruendo anche sulle basi poste da precedenti esecutivi a cominciare dall’esecutivo Draghi. Non si è costruito tutto questo dal nulla, ma c’è stato decisamente un cambio di passo che ci pone come attore primario nello scacchiere mediterraneo, cosa che per alcuni anni non siamo stati, lasciando l’iniziativa piuttosto a Paesi amici come la Francia”.

Una tela più ampia

Il secondo elemento per il diplomatico italiano va ritrovato nella serietà con cui il Governo, a cominciare dal Presidente del Consiglio, sta affrontando la messa in atto del Piano Mattei, perché sono tutti tasselli di una tela più ampia della quale il piano costituisce, se vogliamo, la cornice complessiva. “Governo e premier si stanno muovendo sul piano multilaterale a mio avviso in maniera impeccabile. Cito a riguardo la Conferenza su sviluppo e migrazione tenutasi a Roma lo scorso luglio, con il lancio del processo di Roma per approfondire le radici e le ragioni di fondo dei fenomeni migratori dall’Africa subsahariana. E ancora con la Conferenza Italia-Africa dello scorso gennaio che ha costituito un grande successo: eventi che hanno anche portato ad accreditare un’Italia che si configura come riferimento di una strategia veramente europea”.

Il riferimento è al Team Europe quando la presidente del Consiglio Meloni, con la presidente della Commissione von der Leyen e il presidente del Consiglio Michel sono stati in visita in Paesi chiave come l’Egitto.

La prospettiva del Piano Mattei 

Uno dei motivi di fondo che ha portato al concepimento del Piano Mattei, secondo l’ambasciatore Checchia, è anche contenere le pressioni migratorie che giungono proprio dal Sahel, “un Sahel nel quale purtroppo al ritiro progressivo delle forze francesi non fa ancora riscontro una stabilizzazione politica”. I ripetuti colpi di Stato, che non depongono certo a favore della stabilità, necessitano di una risposta corale e quindi, con il Piano Mattei “noi dovremmo creare le condizioni di sviluppo nell’Africa, nel Nord Africa ma anche nei Paesi del Sahel che poco a poco consentano alle popolazioni di quell’area di avere, non solo come ha sottolineato la presidente Meloni, il diritto a emigrare che nessuno può contestare, ma anche il diritto a non emigrare, cioè restare e farsi una vita nei Paesi di origine”.

Il Sahel presenta una specificità particolare, è ancora covo di focolai jihadisti, come dimostrano i massacri di popolazioni da parte di gruppi armati che si ispirano a un islamismo militante. Ma è chiaro che Nord Africa, Libia, Tunisia, Egitto rappresentano dei punti di passaggio privilegiati verso l’Europa, aggiunge. “Quindi vedo il Piano Mattei come tassello di una più ampia strategia europea volta a contenere l’immigrazione illegale. Inoltre fa piacere constatare leggendo i nostri quotidiani che tra il maggio 2023 e il maggio 2024 c’è stato un calo consistente di afflussi dal Nord Africa: siamo passati da 40.000 a poco più di 17.000. Questo è un risultato che il governo Meloni può legittimamente portare a suo credito”.

Elezioni in Libia?

Infine, il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale della Libia, che porti a elezioni libere e democratiche. In questo senso il ruolo di Roma quale può essere, oltre a quello di mettere insieme le esigenze di tutte le aree del Paese? “Certamente può essere quello di far arrivare ai nostri interlocutori libici la voce di un Paese autorevole e fondatore dell’Unione europea, membro importante dell’Alleanza atlantica, amico da sempre dei Paesi dell’area nordafricana che non ha agende nascoste, quindi che non persegue secondi fini o fini non dichiarati, ma è sinceramente e semplicemente interessato al benessere di quelle popolazioni, oltre che alla tutela degli interessi nazionali, per esempio in campo energetico”.

E aggiunge: “È chiaro che la visita di Meloni si colloca in un momento delicatissimo a poche settimane dalle dimissioni dell’inviato Onu per la Libia che ha gettato la spugna non essendo riuscito ad avere avallate, credo soprattutto da parte del generale Haftar, le sue proposte di modifica della legge costituzionale e delle leggi elettorali, né il progetto di nuova Costituzione. Siamo ancora purtroppo tornati al punto di partenza ma il premier si farà interprete di questo pressante appello europeo perché finalmente si superi lo stallo politico in Libia e si riesca a ritrovare quel percorso verso assetti istituzionali davvero unitari sulla base di una legge elettorale trasparente che porti a un Parlamento credibile e ad una elezione credibile del prossimo Presidente della Repubblica”.

Da Capri all’Unione Africana

Due i richiami conclusivi che secondo l’ambasciatore Checchia non possono mancare: ovvero il G7 a Capri che, alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha visto il tema del Piano Mattei rappresentare la principale novità programmatica dinanzi ai ministri intervenuti “e l’ulteriore successo della premier nel quadro della sua strategia nord-africana, rappresentato dal decisivo contributo fornito alla concretizzazione della proposta emersa al vertice G20 di Delhi dello scorso anno di avere l’Unione Africana ormai come membro a pieno titolo del G20, due passaggi che ritengo fondamentali per completare il quadro analitico”, conclude.

Meloni e Michel lavorano all’agenda strategica dell’Ue. Ecco come

Di Francesco De Palo

Il presidente del Consiglio europeo riconosce al governo italiano il ruolo di partner nelle delicate trattative con Paesi extra Ue: sul tavolo non solo la sfida del nuovo patto di migrazione e asilo, ma anche il Mediterraneo e il fronte sud

11/04/2024

“Con Giorgia Meloni e con l’Italia stiamo lavorando sodo per stringere rapporti con i Paesi terzi extra Ue per essere preparati anche nel campo della migrazione”. Questo uno dei passaggi più salienti della visita a palazzo Chigi del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, in vista del Consiglio europeo della prossima settimana a Bruxelles. Un’occasione sia per fare il punto sui dossier maggiormente urgenti sul tavolo europeo (Kyiv su tutti), sia per chiudere idealmente il cerchio del suo mandato alla luce delle proiezioni future, come Intelligenza artificiale, cooperazione allargata, Mediterraneo e fronte sud.

Ucraina a difesa Ue

Primo punto discusso, le decisioni dell’ultimo Consiglio europeo che ha avallato l’invio di più fondi e investimenti all’Ucraina, conseguenza di una decisione unitaria che mette al centro il costante supporto a Kyiv in un’ottica di allargamento. Michel sottolinea ancora una volta che l’Ue è determinata a sostenere l’Ucraina “più che possiamo, stanno combattendo per la loro terra, per la libertà, per il futuro e per i nostri valori democratici”.

Si dice certo che oggi l’Ue è diversa, più unita e più forte di prima, si tratta di “un effetto collaterale della guerra lanciata dalla Russia, un altro effetto è che la Nato è diventata più grande perché abbiamo preso decisioni”. Ed ecco il secondo punto, che si intreccia sia con l’Ucraina, perché mosso proprio dall’evoluzione del fronte bellico, sia con i progetti futuri legati alla difesa comune e al commissario europeo ad hoc. “Abbiamo compiuto enormi progressi nel settore della cooperazione nella difesa – aggiunge – . Si tratta di una cosa inedita e faremo di più anche in termini di investimenti: la Bei ad esempio, sta diventando uno strumento molto potente per facilitare più investimenti e più cooperazione del settore della difesa”.

Unità e futuro

Per Michel la chiave di volta per ragionare della nuova Ue si chiama unità, e il caso ucraino lo dimostra ampiamente. “Stiamo difendendo la nostra stessa sicurezza dando il nostro sostegno all’Ucraina e fornendo equipaggiamento militare. La Russia ha deciso di mettere il mondo a rischio, è in palese violazione del diritto internazionale e un’unica posizione è possibile: sostenere l’Ucraina più che possiamo ed è quello che stiamo facendo con il sostegno dei 27″.

Ulteriore dimostrazione di questa posizione è nei grandi progressi compiuti dagli Stati membri in uno spazio di tempo limitato in termini di munizioni ed equipaggiamento militare. Le politiche di aiuto all’Ucraina infatti rappresentano una primizia assoluta per l’Ue, dal momento che per la prima volta nella storia continentale “abbiamo deciso di fornire equipaggiamento militare, una decisione che abbiamo preso in pochi giorni dopo l’invasione”.

Qui Chigi

Secondo Meloni tra le future priorità d’azione dell’Unione Europea c’è il rafforzamento della competitività e della resilienza economica europea, la gestione comune del fenomeno migratorio, la collaborazione in ambito sicurezza e difesa nonché la politica di allargamento. Il Presidente Meloni ha inoltre sottolineato, quale precondizione per raggiungere questi obiettivi, la necessità di assicurare risorse comuni adeguate a sostegno dei relativi investimenti.

Una nota: Al “Grazie presidente Meloni!” Aggiungiamo una nota: Si sta conducendo l’Unione a rivestire il ruolo che “ci” spetta in ambito internazionale. Marciamo verso la sovranità? L’evoluzione dell’Ue verso uno Stato sovrano, membro attivo dello Nato, è possibile con l’impegno, anzitutto, dei suoi fondatori e chiama prodromicamente alla collaborazione in ambito sicurezza e difesa. La politica di allargamento ulteriore dell’Ue, per esempio, nei Balcani, presuppone ed ha per condizione necessaria l’avvenuta realizzazione della sovranità europea. Stiamo combattendo in questa presidenza italiana del G7, come a Sparta: “Con lo scudo o sullo scudo!” Questo Stato sovrano: l’Europa, rafforzerà la Nato quale soggetto euroatlantico, con due gambe e faciliterà una politica per l’area mediterranea, allargata, ispirata alla solidarietà attiva che distingue il Piano Mattei. ndr

Tra le risorse competitive dell’Unione su cui investire, il Presidente Meloni ha indicato il settore agricolo auspicando allo stesso tempo una rapida attuazione della revisione della Politica Agricola Comune e delle misure volte ad alleviare la pressione finanziaria sugli agricoltori concordate al Consiglio Europeo di marzo. Sono state inoltre discusse le ulteriori iniziative che l’Unione Europea potrà intraprendere a sostegno della stabilità del Libano, tema che il Consiglio Europeo della prossima settima affronterà su richiesta italiana.

Le nuove sfide

Tra le nuove sfide senza dubbio c’è la competitività, definita da Michel un capitolo importante della nostra agenda, ovvero il capital market unit, più investimenti in Ue: “Dobbiamo affrontare il cambiamento climatico e la rivoluzione digitale per sviluppare opportunità economiche. Ovviamente abbiamo parlato di temi internazionali che saranno in agenda, come la migrazione”. Ieri infatti il Parlamento europeo ha approvato il patto sui migranti (“Un passo avanti per essere in controllo della situazione”) e l’obiettivo per Michel è rafforzare i partenariati con i paesi terzi, “anche attraverso opportunità di migrazione legale”.

Sul punto va segnalata la visita che Giorgia Meloni effettuerà in Tunisia in chiave fronte sud la prossima settimana assieme alla ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini e al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per una missione legata al Piano Mattei. Verrà siglato un memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione accademica e scientifica tra i due Paesi, favorire lo scambio di know how tra le istituzioni e gli enti di ricerca, promuovere l’insegnamento di lingue e culture di entrambi i Paesi. La premier è attesa a Cartagine mercoledì 17 aprile.

6215.- Il Niger è la chiave di volta del Sahel

Vi rimando al n° 6127, che titolava: “Il Niger “caccia” la UE, disfatta europea nel Sahel.”

É preoccupante assistere all’incapacità dell’Unione di reggere il confronto con la Federazione Russa in Africa e lo è perché non c’è futuro per l’Europa senza l’Africa e non c’è per l’Africa senza l’Europa. Vedemmo bene il Vertice Italia-Africa, a Roma, tenuto da Giorgia Meloni e la nutrita partecipazione dei numeri uno africani. Il Vertice ha ribadito la centralità e la rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con le Nazioni africane, ma non è da meno quella che gli attribuisce la Federazione Russa. Osserviamo che, con l’attuale Ue e con il conflitto creatosi, non casualmente, con Mosca, la strada per il Nuovo Piano Mattei sarà in salita. Per nostra scelta o no, da 108 anni, stiamo sempre con l’alleato o contro il nemico sbagliato; ma, da soli, dove andiamo?

L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa avrà soddisfatto gli interessi americani, ma non i nostri. Prima, abbiamo visto sventolare le bandiere russe nel Niger, ora vediamo i soldati russi acquartierati accanto agli americani, appena sfrattati e in attesa di decisioni. Gli italiani, per ora, restano in Niger a ristrutturare la moschea. Mali, Burkina Faso e Niger hanno dato vita alla ”Alleanza degli Stati del Sahel”, la NATO africana e il paragone è azzeccato.

Fino a che le basi USA e italiana in Niger resteranno, sarà importante chiarire i nostri obiettivi nel Sahel. La politica del Governo italiano della solidarietà attiva nel Magreb, nel Sahel e in Libia dovrà confrontarsi con le ambizioni di Mosca e con quelle di Ankara. Certamente, sapremo come, se saremo sostenuti. 

Due articoli tratti da Europatoday

Perché l’Europa teme l’espansione dell’influenza russa nel Sahel

Bruxelles cerca una nuova strategia dopo il golpe in Niger. Il gruppo Wagner dovrebbe restare operativo nell’area nonostante la morte di Prigozhin

Sostenitori dei soldati ammutinati tengono una bandiera russa mentre manifestano a Niamey, in Niger. Foto Sam Mednick / Associated Press/LaPresse

Un’Europa colta nuovamente di sorpresa, nonostante la presenza diplomatica e di intelligence nell’area del Sahel. È quanto sarebbe emerso dai documenti preparativi diffusi in vista del prossimo vertice dei ministri della Difesa degli Stati membri dell’Unione europea. Dopo l’aggressione dell’Ucraina, anche il colpo di Stato in Niger avvenuto a fine luglio ha trovato impreparati i Paesi europei. Il vasto Stato africano veniva considerato un partner fondamentale dell’Ue, soprattutto in materia di gestione dei migranti ed esternalizzazione delle frontiere. L’arresto del presidente Mohamed Bazoum e l’ascesa al potere della giunta militare non mette in crisi solamente i rapporti con il Paese nel cuore del Sahel, ma starebbe spingendo a ripensare più in generale il ruolo della diplomazia europea. Di fronte all’espansione dell’influenza di Russia e Cina nella regione, Bruxelles non intende però arretrare ulteriormente. Al contempo però l’idea dell’uso della forza, che la Francia gradirebbe, non risulta essere l’opzione più gettonata in un contesto già fortemente critico nei confronti della presenza europea e dove le bandiere russe vengono sventolate in strada dalla popolazione.

Dalla visita di Borrel al golpe

Un colpo di stato che “ha sorpreso inizialmente molti osservatori”. Questa la dichiarazione contenuta in una nota interna preparata dal servizio diplomatico dell’Ue e svelata dal portale Euractiv. A sorprendere, in particolare, la circostanza che “il Niger si trovava su una traiettoria politica, economica e sociale relativamente lineare, nonostante la significativa pressione sulla sicurezza su tutti i suoi confini”, si legge nella nota interna distribuita ai Paesi membri in vista delle riunioni informali dei ministri della Difesa che si terranno in Spagna. Non a caso proprio ad inizio luglio il capo della diplomazia europea Josep Borrell si era recato in Niger, definendo il Paese come un partner essenziale dell’Ue nella regione del Sahel, quella vasta area semiarida che tocca in vari punti il deserto del Sahara.

Ambasciatore espulso

Solo poche settimane dopo quello stesso Paese è diventato il teatro di un colpo di Stato, aggiungendosi alla lista dei Paesi guidati da giunte militari, insieme al Burkina Faso e al Mali. Furiosa la Francia, il cui ambasciatore è stato “invitato” dai militare al potere a lasciare il Paese. “La decisione dei golpisti di espellere l’ambasciatore francese è una nuova provocazione che non può in alcun modo aiutare a trovare una soluzione diplomatica alla crisi attuale”, ha dichiarato in conferenza stampa Nabila Massrali, la portavoce dell’Ue per gli affari esteri. L’alta funzionaria ha aggiunto che il blocco “non riconosce” le autorità che hanno preso il potere in Niger. Sostegno unanime da parte dei diplomatici europei all’omologo transalpino, ma al tempo stesso scarsa coesione sui prossimi passi da adottare. Secondo gli esperti, nonostante le pressioni di Parigi, il coinvolgimento dell’Ue rimarrà probabilmente limitato al sostegno politico alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), a sua volta diviso sul come affrontare la questione. L’intervento militare figura solo come una minaccia, ma senza il sostegno dell’Unione africana all’uso della forza difficile si muoveranno i cingolati. C’è chi, come il Togo, ha già avviato colloqui col nuovo potere in Niger. Borrell, prevede la nota diffusa tra i ministri, dovrebbe chiedere agli Stati membri e a Bruxelles di “adattare il suo approccio al Niger” e, a seconda di come si evolve la situazione, valutare “quale posizione l’Ue sarebbe disposta a prendere in considerazione in termini di aiuti allo sviluppo, sicurezza migratoria e gestione delle frontiere”.

L’ombra di Wagner

Restare nella regione del Sahel resta prioritario per proseguire nel piano di esternalizzare le frontiere e affidare ai Paesi africani, come Libia e Tunisia, la gestione dei migranti. Una presenza, quella europea, che deve fare fronte però a relazioni sempre meno solide, ad una fiducia deteriorata da parte delle popolazioni e a governi militari inaffidabili. Nonostante risulti ormai accertata la morte di Evgenij Prigožin, gli Stati Uniti sostengono che le attività del gruppo mercenario russo Wagner non si fermeranno. Rapporti della Associated Press e di France 24 sostengono che uno dei leader del colpo di stato, il generale Salifou Mody, abbia visitato il Mali poco dopo il golpe e avrebbe preso contatto con esponenti della Wagner per chiedere il loro supporto. Sebbene manchino le prove di una presenza dei militari del gruppo in Niger, nulla esclude che possano affacciarsi su questo fronte per garantire un supporto militare e strategico, come stanno continuando a fare in Mali e in Repubblica Centrafricana. Secondo il ministro degli Esteri Sergej Lavrov i contratti della Wagner in Africa dipendono interamente dagli Stati africani, anche se il gruppo di mercenari risulta “interamente finanziato” dalla Russia come ammesso dallo stesso Putin. I cori ostili alla Francia e la presenza di bandiere russe sventolate durante le manifestazione dai sostenitori dei golpisti di Niamey è l’indice però che la propaganda di Mosca non si limita esclusivamente ad un supporto militare ma intende attrarre gli africani della regione in un nuovo ordine anti-europeista.

La base militare che ospita i soldati di Usa e Russia

Le forze di Mosca sono sbarcate in Niger e hanno occupato un edificio al fianco di quello dove si trovano le truppe statunitensi. Le quali potrebbero presto lasciare il Paese

La base 101 a Niamey 

Uno è il Paese che ha invaso l’Ucraina. L’altro è quello che più sta sostenendo l’esercito di Kiev. Ma il fronte orientale europeo non è l’unico palcoscenico internazionale in cui Russia e Stati Uniti si stanno affrontando a distanza. C’è, per esempio, il Niger, Stato africano chiave per la stabilità di un’intera regione, il Sahel. Ed è proprio qui, vicino l’aeroporto della capitale Niamey, che le truppe americane e quelle russe si sono ritrovate a condividere la stessa base aerea. Un caso che fotografa la situazione del Paese, in rotta di collisione con l’Occidente e sempre più propenso a rafforzare i legali con Mosca.

In Niger, nel luglio dello scorso anno, un colpo di stato guidato dai vertici della guardia presidenziale ha rovesciato il presidente eletto Mohamed Bazoum, alleato di Washington e dei Paesi europei. La nuova giunta militare ha subito preso di mira i contingenti occidentali, a partire da quello francese (il Niger è un’ex colonia di Parigi) e ha messo in discussione l’accordo di cooperazione militare in vigore con gli Stati Uniti, ritenendo che fosse stato “imposto unilateralmente” da Washington e che la presenza americana fosse ormai “illegale”. A metà aprile gli Stati Uniti hanno accettato di ritirare gli oltre mille soldati dal Paese, ma le modalità del ritiro sono ancora oggetti di trattativa.

Per il momento, un contingente dell’aeronautica statunitense è rimasto a presidio dell’area e delle attrezzature militari, come la base di droni vicino ad Agadez, costruita per circa 100 milioni di dollari. I militari Usa occupano una base vicino l’aeroporto di Niamey, la base aerea 101. Ed è qui che nei giorni scorsi sono arrivate le forze russe. A rivelarlo è stato il segretario alla Difesa Lloyd Austin, secondo cui le truppe di Mosca non pongono un “problema significativo (…) in termini di protezione delle nostre forze”. I russi, ha spiegato Austin, “si trovano in un edificio separato e non hanno accesso alle forze statunitensi o alle nostre attrezzature”. Interrogato in una conferenza stampa a Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov non ha né confermato né smentito la presenza russa nella base, indicando semplicemente che Mosca sta sviluppando le sue relazioni con i Paesi africani in tutti i settori, compreso quello militare.

Il Niger, infatti, è solo l’ultimo di una serie di Paesi del Sahel, come Mali e Burkina Faso, che si stanno allontanando dall’Occidente per avvicinarsi alla Russia e alla Cina. Negli ultimi giorni le truppe Usa hanno lasciato anche il Ciad. Tolta la Mauritania, il resto del Sahel è sempre più lontano da Stati Uniti e Ue. Una regione strategica sotto vari profili, cinghia di trasmissione tra l’Africa subsahariana e il Nord mediterraneo, anche delle rotte dei migranti. Per questo, l’Italia ha da tempo mosso le sue pedine diplomatiche nell’area, Niger compreso. Per il momento, Roma mantiene il suo contingente a Niamey. E spera di potere continuare a farlo.

6214.- 10 anni di NATO in Ucraina. Il declino della politica e della potenza USA nel mondo e l’inutilità dell’Ue in politica estera per noi.

Non è lui il capo!

L’Orso russo è meglio averlo per amico e le strategie per dominarlo avrebbero dovuto evitare il confronto militare. Stando alla situazione presente, chi detta gli indirizzi al polo angloamericano dovrà contentarsi di controllare i Paesi europei, ma avrebbe dovuto e farebbe sempre bene a evitare che la Federazione Russa sia schierata a fianco della Cina. Vieppiù oggi che gli Stati Uniti sembrano concentrarsi sul confronto con la Cina, anche se il viaggio di Blinken a Pechino, le minacce verso la collaborazione con la Federazione Russa e il loro fiasco confessano le preoccupazioni del Pentagono di fronte a un asse Mosca – Pechino. Non è tutto qui il futuro della geopolitica che apprezziamo.

Stiamo assistendo all’ingresso della Wagner nella, ancora per poco, base americana 201 di Niamey, nel Niger, con i russi, addirittura, nel palazzo a fianco del comando USA e ci vediamo, noi bravi italiani, con il nostro sacrosanto, ambizioso Piano Mattei, unico Paese occidentale a tenere un presidio gradito agli africani nel Sahel. L’Italia è consapevole di non essere una grande potenza e si deve domandare quanto una Unione europea sgradita agli africani, senza un’anima e senza una sovranità, potrà sostenere la politica di cooperazione e di solidarietà attiva di questo governo, confrontandosi e in competizione con i russi.

L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa sarà sembrata una necessità per la Casa Bianca e avrà soddisfatto gli interessi di chi controlla il popolo americano, ma non i nostri e siamo del parere che Washington sta spendendo male le possibilità dell’Occidente. 

Dal punto di vista della politica, la realizzazione da parte della Casa Bianca, in segreto, di questa disgraziata guerra in Ucraina, con quasi un milione di morti, creata, dalla Victoria Jane Nuland insieme alla NATO, scatenata, infine, da Putin, fino al sabotaggio dei gasdotti North Stream, promesso e attuato da … e, infine la cessione degli USA a Kiev di 100 missili Atacms, americani, con una gittata di 300 km, una dichiarazione di guerra! – come tale, da sottoporre all’approvazione del Parlamento europeo -, ha confermato che ogni alleanza fra una grande potenza e un Paese di secondaria importanza, come sono, appunto, i nostri europei, si traduce in un dominio da parte della potenza. Ragione non ultima sia della necessità di giungere a uno Stato sovrano europeo, con una sua politica estera e un suo esercito sia del pericolo rappresentato dalla proposta di Giulio Tremonti, membro rappresentativo dell’Aspen, di allargare ulteriormente, a tutti i Paesi balcanici (quindi, anche la Turchia) l’Unione.

Dal punto di vista della finanza e dell’economia, aver privato i Paesi europei della risorsa energetica russa, a buon mercato e avergli venduto quella americana a un prezzo quattro volte maggiore, ha certamente risollevato le finanze USA, ma ha indebolito l’Unione e l’Occidente nel suo complesso. É noto che le sanzioni elevate alla Federazione Russa hanno nuociuto e nuocciono ai Paesi europei più che a Mosca, mentre lo sforzo bellico della Nato a favore dell’Ucraina si tradurrà o si sta già traducendo in un fallimento. Ben potrebbe essere vera la contrarietà della grande regina Elisabetta II alla guerra, e ci fermiamo qui.

Dal punto di vista strategico, siamo impegnati militarmente, di fatto, in:

Un conflitto europeo e in Mar Nero, un’altro in Medio Oriente, tra Mediterraneo Orientale e Mar Rosso e, dal Sahel al Corno d’Africa, Osservando l’evolversi del confronto fra Occidente, da una parte e Russia e Cina, dall’altra, preoccupa una strategia che prevede l’interconnessione fra l’Indo-Pacifico e il Mediterraneo Allargato. ma non sembra fare i conti con la vulnerabilità del Canale di Suez. In questo azzardato contesto, l’Us Navy ha appena ritirato dal Mediterraneo il Gruppo d’Attacco della super portaerei nucleare USS Gerald R. Ford (CVN-78), che imbarca il potente Carrier Air Wing 8 con 100 aeroplani combat ready, lasciando il testimone alle portaerei europee nel ruolo di bersagli: La bellissima mezza portaerei italiana ITS Cavour (CVH550) che, a marzo disponeva di appena 3 piloti qualificati Limited Combat Ready per l’F-35B STOVL, e, forse, oggi ne schiera 5, e alla anziana portaerei nucleare francese Charles de Gaulle (R91: due manciate di caccia di 4a generazione Rafale-M, circa 30) i cui sistemi di combattimento, in particolare contro missili antinave e droni, dovranno attendere il 2027 per essere adeguati alle odierne minacce.

La conclusione di questo rapido excursus è che ci avviciniamo alle elezioni europee, ma speriamo – chissà perché – in Donald Trump.

Mario Donnini

Il Regno Unito afferma che è pericoloso inviare truppe Nato in Ucraina

Sembra che lo sforzo di Londra di solleticare le aspirazioni espansionistiche dei polacchi e spingerli in guerra si sia esaurito davanti all’avanzata dei russi in Donbass. Vedremo cosa accadrà il 19 maggio, 60º anniversario del Giorno della Vittoria sul nazismo.

difesacivicaitalia

MAGGIO 4, 2024  

Gli stivali da combattimento occidentali sul terreno porterebbero a un’ulteriore escalation, ha affermato il ministro degli Esteri Davis Cameron.

Inviare soldati della NATO a combattere l’esercito russo in Ucraina sarebbe troppo pericoloso, ha detto venerdì il ministro degli Esteri britannico David Cameron. Ha espresso i suoi commenti mentre i leader europei hanno riacceso il dibattito sull’opportunità che l’alleanza guidata dagli Stati Uniti debba prendere in considerazione un coinvolgimento più diretto nel conflitto. 

Venerdì, parlando a Sky News, Cameron ha affermato che il Regno Unito deve continuare a fornire armi a Kiev e concentrarsi sulla ricostituzione delle proprie scorte. “come priorità nazionale”.

“Ma non vorrei avere soldati della NATO nel paese perché penso che potrebbe essere una pericolosa escalation”, ha aggiunto il primo ministro. “Abbiamo addestrato – credo – quasi 60.000 soldati ucraini”.

La dichiarazione del ministro degli Esteri è arrivata dopo che il presidente francese Emmanauel Macron ha rifiutato ancora una volta di escludere un potenziale dispiegamento di soldati della NATO in Ucraina. “Non dobbiamo escludere nulla perché il nostro obiettivo è che la Russia non possa mai vincere in Ucraina”, ha detto all’Economist in un’intervista pubblicata questa settimana. Macron ha sostenuto che potrebbe sorgere la questione delle forze NATO sul terreno “Se i russi riuscissero a sfondare la prima linea” e se Kiev chiedesse aiuto. 

Altri funzionari europei di alto rango hanno ventilato l’idea dello spiegamento di truppe, e alcuni suggeriscono che la NATO potrebbe inviare squadre di sminamento e altro personale non combattente. “La presenza delle forze NATO in Ucraina non è impensabile”, Lo ha detto ai giornalisti il ​​ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski a marzo.

Tuttavia, alcuni paesi della NATO, tra cui Ungheria e Slovacchia, si sono espressi fermamente contro un’ulteriore escalation. “Se un membro della NATO impegna truppe di terra, sarà uno scontro diretto NATO-Russia e sarà quindi la terza guerra mondiale”, ha detto giovedì il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto all’emittente francese LCI.

Mosca ha più volte avvertito che sarebbe costretta ad attaccare le truppe occidentali se prendessero parte al conflitto. Lo ha scritto venerdì su Telegram la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova “non resterà nulla” delle forze NATO se inviate in prima linea in Ucraina.

Kiev ha lanciato l’allarme sui ritardi negli aiuti militari occidentali negli ultimi mesi, accusando la carenza di munizioni per le perdite sul campo di battaglia. In un’intervista pubblicata giovedì su The Economist, Vadim Skibitsky, vice capo dell’agenzia di intelligence militare ucraina GUR, ha affermato che le difese dell’Ucraina potrebbero crollare anche con i pacchetti di aiuti aggiuntivi recentemente approvati da Stati Uniti e Regno Unito.

6208.- Balcani in Ue, la ricetta di Tremonti per l’Europa di domani

Grande mossa di Giulio Tremonti, che surclassa sia Joe Biden sia Jens Stoltenberg: Da un lato, come isolare la Federazione Russa con una semplice mossa geopolitica; da un altro, come usare il potenziale geopolitico europeo senza dover fondare uno Stato sovrano, anzi, rafforzandone con l’ulteriore allargamento la debolezza in politica estera. Infine, una mano non da poco all’Erdoğan balcanico. Rispetto alle dichiarazioni sul disarmo europeo a pro di Kiev di Stoltenberg possiamo esprimere differenti pareri. Mario Donnini

Da Formiche.net, articolo di Francesco De Palo

L’ex ministro dell’Economia, dal palco della convention pescarese di Fratelli d’Italia, sostiene che per evitare nuovi sconvolgimenti globali all’Europa occorre un’accelerazione sulle politiche di allargamento con il coinvolgimento dell’intero costone balcanico

26/04/2024

Tutti i Paesi del costone balcanico entrino domattina in Europa: solo in questo modo l’Ue farebbe una mossa geopolitica di lungo periodo. Lo ha detto il presidente della Commissione Esteri della Camera, Giulio Tremonti, dal palco della conferenza programmatica di FdI in corso a Pescara. L’occasione è una riflessione sulla difesa europea dinanzi ai fronti bellici in atto, ma non solo, visto il coinvolgimento oggettivo tanto della cybersicurezza, quanto delle frizioni sul Mar Rosso accanto ai fronti caldi di Kyiv e Gaza. Ma proprio le prospettive di reazione europea rappresentano, da un lato, il vero elemento di novità di questa fase di guerre e, dall’altro, il possibile terreno comune dove iniziare a costruire politiche europee davvero unitarie.

Riunificazione balcanica

Perché un’accelerazione europea nei Balcani significa sanare potenziali nuovi fronti di tensione? Secondo Tremonti quando finirà la guerra in Ucraina non inizierà al contempo la pace. Ovvero i problemi dell’Europa non saranno risolti semplicemente con il cessate il fuoco, dal momento che i luoghi di contrasto restano quelli fuori dai sicuri confini dell’Ue. E cita un nome su tutti, i Balcani, che secondo Churchill sono luoghi in cui si fabbrica più storia di quanta ce ne sia. “Un’ipotesi plausibile secondo me è che dobbiamo accettare tutti i Balcani ora nell’Ue, salvo l’obbligo di adempiere a tutti i criteri. Sarebbe una rivoluzione”, spiega l’ex ministro dell’economia. Ovviamente un attimo dopo bisognerà modificare i criteri di voto, “ma sarebbe una mossa lungimirante, non puoi cancellare la democrazia, ma cambiare le maggioranze di governo sì”.

Un passaggio, quello della riunificazione balcanica, da sempre oggetto delle riflessioni europee di Giorgia Meloni soprattutto in merito alle politiche di allargamento, in un settore dove l’Italia può agire da pivot.

E aggiunge che al netto delle difficoltà di questa scelta, difficile e dura, non vi sono alternative dato il progressivo spiazzamento che l’Europa ha rispetto al resto del mondo, “dopo 20 anni di gestione fatta da tecnici non eletti”. Ragionare sulle politiche per l’Europa, secondo Tremonti, è l’unica strada da seguire per evitare di dover affrontare emergenze dopo emergenze sempre con l’acqua alla gola.

Spese per la difesa

Ma come provvedere alla messa in sicurezza di politiche ad hoc se non con maggiori investimenti nella difesa? Lo sottolinea con veemenza il sottosegretario alla Difesa Isabella Rauti, intervenendo al dibattito “Forte, libera e sovrana” quando dice che occorre investire il 2% del Pil in difesa, “un impegno assunto da tutti i Paesi Nato”, dinanzi alla media attuale europea dell’1,5%: “Il ministro Crosetto ha insistito in Europa perché questo impegno venisse svincolato dal Patto di stabilità, si è persa un’occasione non da noi ma da Bruxelles. All’indomani del voto delle prossime elezioni europee mi auguro si delinei una maggioranza diversa che potrà assumere una nuova visione in questa direzione”.

Di cambio di passo ha parlato il presidente di Leonardo Stefano Pontecorvo con riferimento agli investimenti in difesa, panorama che nemmeno la guerra in Ucraina ha cambiato. E cita dei numeri significativi: nel 2023 l’Europa ha investito come acquisizioni di sistema 110 mld di euro, gli americani 250. I nostri 110 miliardi sono stati distribuiti su 30 diverse piattaforme, quelli americani su 12. Il risultato finale è che su ogni piattaforma gli americani investono 20 mld di ricerca, noi 4 mld. Quale sarà il prodotto migliore? Per cui la prospettiva è quella di lavorare tramite aggregazioni europee rispetto ai grandi giganti mondiali russi, cinesi e americani. “Si tratta di un problema di visione”.

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6198.- Intervento militare e cornice costituzionale

Portiamo tuttora i segni di una monarchia infelice.

Nei limiti in cui si svolge la partecipazione dell’Italia alla politica estera dell’Occidente e nella variabilità delle situazioni che vedono le Forze Armate italiane partecipare, a loro volta, alle operazioni della Nato e dell’Ue in ambito internazionale, si apprezzano il valore della nostra sovranità, quello del principio di giustizia universale e di pace della Carta Costituzionale e quello residuale di tutte, proprio di tutte, le Istituzioni. Dal ripudio della guerra seguito alla sconfitta, ai lutti, come dalle amputazioni di popoli italianissimi conseguenti sia ad una cobelligeranza sia ad un trattato di pace entrambi senza condizioni, sorse l’impegno di condizionare le nostre future azioni ad obblighi che potessero essere assunti in ambito internazionale, ma insieme ad altri Stati. Con questo “insieme”, con questa modesta condizione dimentica degli altrui interessi, accompagnata – tuttora – da un’occupazione militare alleata, comunque straniera, l’Italia della Costituente, ancora in macerie, stretta fra due blocchi, divisa fra una politica d’ispirazione cattolica ed una comunista da disarmare, ritenne di poter contribuire con i suoi principi di giustizia universale e di pace a garantire una situazione di pace tra i popoli.

Di Redazione Blog di Sabino Paciolla. 8 Aprile 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Mauro Ronco e pubblicato su Centro Studi Livatino. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. 

Guerra Ucraina_macerie_carroarmato (foto: afp)
Immagine di repertorio (foto: afp)

Riflessioni a margine del conflitto russo-ucraino, sui rapporti fra NATO, Unione Europea e istituzioni nazionali.

1. Si susseguono con sempre maggiore frequenza dichiarazioni di esponenti politici di vertice di alcuni paesi europei (in particolare, della Francia e della Polonia) circa l’eventualità, se non l’opportunità, di un intervento diretto delle forze militari della NATO, oppure, non si comprende bene, delle forze militari dell’Unione Europea in collaborazione militare con la NATO, nel conflitto attualmente in corso tra l’Ucraina e la Federazione russa. Nello stesso contesto, i media lanciano notizie in ordine a un sempre più massiccio dispiegamento di truppe terrestri, aeree e forze speciali sul fronte Est dell’Alleanza atlantica[1].

Da parte italiana, mentre il Ministro degli Esteri ha più volte pronunciato parole drastiche sul rifiuto dell’Italia di partecipare, direttamente o indirettamente (eventualmente tramite la NATO e l’Unione europea) al conflitto, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, spostando il focus della questione, ha lamentato un sottodimensionamento  delle forze militari italiane, poiché i soldati sono insufficienti, le armi in gran parte obsolete, l’addestramento carente, tanto che egli sollecita un riarmo imponente con le seguenti parole: “Il confronto con la Russia secondo la Nato durerà un decennio, anche se la guerra in Ucraina finirà prima”[2]. Evocando un possibile futuro disimpegno americano, egli ha inoltre soggiunto: “proviamo a trasformare una crisi in opportunità”[3],  lasciando le sue parole nella indeterminatezza più assoluta.

2. A fronte di dichiarazioni inequivocabili del Ministro degli Esteri, molti commentatori – cui sembra conferire forza l’allarme del Capo di Stato Maggiore – avanzano giustificazioni circa il rifiuto dell’Italia di entrare nel conflitto che riecheggiano le sciagurate ‘scuse’ che Benito Mussolini presentava al Führer del Reich tedesco per evitare l’entrata in guerra dell’Italia, quando sosteneva che le forze armate nazionali non erano pronte in termini di mezzi e di risorse economiche e logistiche. Poiché giustificazioni di tipo siffatto mi sembrano inappropriate – è noto che le ‘scuse’ di Mussolini non bastarono: Hitler fornì mezzi e risorse e l’Italia entrò rovinosamente in guerra – ritengo necessario in questa condizione, assai fluida ed estremamente pericolosa, ricondurre la tematica dell’uso delle forze militari italiane al rigoroso metro del diritto costituzionale, che raramente ho visto evocare nell’imponente propaganda che i media, interessati a tutti i costi nella escalation del conflitto, continuano a propalare in modo confuso e sovrabbondante.

3. L’ancoraggio al diritto è essenziale. Il Centro Studi Rosario Livatino, per la sua natura istituzionale, non intende entrare nel dibattito storico-politico sulle cause, sulle modalità e sui possibili sviluppi del conflitto Russia c/ Ucraina e c/ Occidente a trazione politica e militare statunitense, britannica e francese.

Avverto comunque il dovere di stendere questa nota di carattere giuridico per richiamare il principio inderogabile che l’Italia rifiuta la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

4. Secondo una certa tesi, più tollerata nei fatti che formulata scientificamente, il sistema nord-atlantico di difesa apparterrebbe a quel sistema di organi e di fonti esterne cui lo Stato italiano, tramite l’art. 11 Cost., conferirebbe una corsia preferenziale diretta a creare “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 ultima parte).

Così non è. Va rilevata anzitutto l’involuzione dell’Alleanza nord-atlantica a partire dalla fine della guerra fredda e la sua lenta trasformazione da strumento difensivo in un contesto storico ben determinato ad attore che si arroga compiti, al di fuori di qualsiasi mandato delle Nazioni Unite, di usare la forza armata contro altri paesi.

Questa trasformazione mai è stata oggetto di pattuizioni aggiuntive ai Trattati originari e mai è stata discussa approfonditamente dal Parlamento nazionale.

Alla luce di queste considerazioni, è certamente scorretta proprio la tesi prima accennata, che, cioè, sia consentita all’Italia una cooperazione così intensa con la Nato e con Stati stranieri, tale da implicare limitazioni all’esercizio della nostra sovranità.

Si dice che la sovranità dello Stato sia in crisi. E’ vero, piuttosto – come ha scritto l’insigne studiosa internazionalista Laura Picchio Forlati – che la sovranità non è più “dicibile”[4]. Tuttavia, la sovranità pesa ancora, soprattutto in relazione alle sue eventuali limitazioni nel settore delle azioni militari.

5. La sovranità italiana è limitata nel settore delle azioni militari dagli obblighi che discendono dalla partecipazione alle Nazioni Unite e all’Unione europea, nei limiti previsti, per quest’ultima, dagli artt. 42-46 TUE e 222 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune dell’UE.

Come noto, infatti, le misure di sicurezza possono essere autorizzate dalle Nazioni Unite anche a livello regionale, secondo l’ipotesi regolata dall’art. 53 della Carta delle Nazioni Unite.

L’art. 11 della Costituzione ammette esclusivamente le limitazioni di sovranità necessarie “ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Quindi, anche le iniziative dell’Unione europea ai sensi degli artt. 42-46 TUE e 222 TFUE nell’ambito della politica di difesa e di sicurezza dell’UE non possono sfuggire a un controllo da parte del Parlamento circa la loro puntuale corrispondenza ai fini di realizzare la pace e la giustizia tra le Nazioni.

Le limitazioni di sovranità a favore dell’UE, nell’ambito dei fini sopra visti, sono giustificate dal cosiddetto primato del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 117 Cost., secondo l’interpretazione, tuttavia, che ne ha dato la Corte costituzionale, che esse sarebbero prive di valore ove trattati o istituti dell’Unione o singole misure di essa, che prevedessero, per esempio, l’uso della forza contro altri Stati, violassero i diritti e le libertà della persona o fuoriuscissero dal perimetro rigorosamente regolamentato dell’art. 11 della Costituzione[5].

6. Discorso del tutto diverso riguarda il rapporto tra il Trattato Nato e la Costituzione italiana. Va detto con chiarezza che dal Trattato non scaturisce alcuna limitazione di sovranità nei confronti di alcuno Stato e, dunque, neppure dell’Italia. Pertanto “[…] nessun organo internazionale ivi previsto può decidere obbligatoriamente per l’Italia l’intervento delle truppe o il ricorso al dispositivo militare di questa; tanto meno, può legittimare con le sue delibere tale intervento dal punto di vista costituzionale. Sono gli organi dello Stato a dovere, se del caso, provvedere assumendosi le proprie responsabilità”[6].

A eventuali limitazioni di sovranità, che si volessero far derivare da impegni internazionali eventualmente collegati al Trattato Nato va opposta la prescrizione proibitiva dell’art. 11.

7. Se, come visto, il Trattato nordatlantico non prevede limitazioni di sovranità per gli Stati membri, tanto meno si potrebbero ipotizzare limitazioni di sovranità che, non previste dal Trattato, si volessero ipotizzare tramite le misure, internazionali e interne, di attuazione[7].

La verifica circa l’esistenza attuale di tali limitazioni di sovranità non è semplice a causa della segretezza delle intese bilaterali con i Quartieri interalleati e, soprattutto, con il governo degli Stati Uniti.

In ogni caso, eventuali accordi che consentissero limitazioni di sovranità ad organizzazioni internazionali, anche allo scopo circoscritto di favorire “un ordinamento che assicuri la pace, la giustizia tra le nazioni”, sarebbero proibiti dal nostro sistema costituzionale, per essere completamente estranei alle uniche fonti – la Carta delle Nazioni Unite e i Trattati dell’Unione europea – che consentono all’Italia interventi diretti ad assicurare la giustizia tra le nazioni.  

8. Qualsiasi decisione, di conseguenza, diretta ad autorizzare una partecipazione militare italiana all’esercizio di misure di carattere militare rientra nella sfera della piena sovranità italiana, con le sole limitazioni previste a favore delle Nazioni Unite e, a certe ancora più rigorose condizioni, all’Unione europea per gli scopi definiti con precisione dall’art. 11.

Pertanto, eventuali autorizzazioni di tipo interventistico-militare debbono necessariamente passare attraverso il vaglio del Parlamento, la sua approvazione con legge formale, promulgata dal Capo dello Stato e sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.

Mauro Ronco


[1] Cfr. La Stampa, 28 marzo 2024, 3, che riferisce di un dispositivo militare al cui centro starebbe un gruppo tattico multinazionale guidato da Londra e da forze militari che “si addestrano e si spostano a ridosso della zona calda”.

[2] Cfr. La Stampa, 27 marzo 2024, 2.

[3] Ibidem.

[4] L. Picchio Forlati, La politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea tra Carta delle Nazioni Unite e impegni NATO, in Aa.Vv., Diritto e Forze Armate. Nuovi impegni S. Riondato, (a cura di), Padova, 2001, 150.

[5] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza 10 aprile 2018, n. 115 che statuisce: “L’autorità competente a svolgere il controllo sollecitato dalla Corte di giustizia è la Corte costituzionale, cui spetta in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona”.

[6] L. Picchio Forlati, cit., 150.

[7] Così L. Picchio Forlati, Rapporti Nato-Nazioni Unite e Costituzione italiana: profili giuridici, in L’alleanza occidentaleNascita e sviluppi di un sistema di sicurezza collettivo, O. Barié (a cura di), Bologna, 1988, 522.

6181.- Lo Stato Islamico del Khorasan aveva colpito due giorni prima a Kandahar: 21 morti.

Ora che la matrice Isis-k dell’attentato di Mosca sembra essersi acclarata, che c’è notizia di un altro attentato fallito due settimane fa a una sinagoga di Mosca, ritroviamo lo Stato Islamico del Khorasan in Afghanistan, nell’attentato di Kandahar, il 21 di questo marzo.

Questa attività invita a riflettere sulla necessità di concludere i conflitti in corso, stabilizzare le aree a rischio e alzare i livelli di sicurezza. A questo riguardo, il conflitto Hamas – Israele, la sua ramificazione nel Mar Rosso, sono fonte di debolezza. Sopratutto, generano nuovi adepti per entità come l’Isis-k e l’Occidente deve decidere quale partita giocare. Anche Putin, se intende avvalersi della migliore condivisione delle informazioni, deve tirare le somme della sua operazione in Ucraina e valorizzare i collegamenti fra i servizi di intelligence della Federazione Russa a quelli degli USA e dei membri dell’Ue. Qualunque siano le decisioni dei governi, da parte italiana, può essere cruciale sostenere al massimo l’intelligence offensiva, che, allo stato, deve essere tanto esterna quanto interna. Chi deve, infatti, farà fronte al terrorismo internazionale, senza trascurare di riconoscere le sue ramificazioni endogene, mapperà i reclutatori prima che producano cellule operative. Ancora, sopratutto, rafforzandoci, eviteremo di essere la palestra delle loro scalate. 

AFGHANISTAN: Attentato a Kandahar, 21 morti 

AFGHANISTAN. L’anno nuovo è iniziato nel sangue. Attentati dell’Isis a raffica

Da Pagine Esteri, 22 marzo 2024 

Ancora violenza in Afghanistan. La mattina del 21 marzo, nella città di Kandahar, la seconda più grande del Paese, un’esplosione davanti alla banca centrale ha provocato la morte di almeno 21 persone. Il target dell’attacco sarebbe stato, secondo alcune fonti, un gruppo di talebani radunati davanti all’edificio, la New Kabul Bank, in attesa di riscuotere i salari. Le autorità talebane avrebbero riferito un numero di vittime ben inferiore rispetto a quello riportato ai corrispondenti internazionali dal personale dell’ospedale locale Mirwais, dove molti feriti nell’esplosione, almeno 50 in tutto, sono stati condotti.

Poche ore dopo, lo Stato Islamico del Khorasan ha rivendicato l’attacco. Sul canale Telegram della sua agenzia di stampa Amaq, il gruppo jihadista avrebbe dichiarato, infatti, che un combattente dell’Isis avrebbe “fatto detonare la sua cintura esplosiva vicino a un assembramento di milizie talebane”.

Il portavoce del ministero dell’interno del governo de facto talebano, Abdul Matin Qani, in una dichiarazione all’Associated France Press ha riferito che l’inchiesta sull’esplosione è ancora in corso e che i responsabili “saranno identificati e puniti”.

Karen Decker, incaricato degli Affari in Afghanistan per il governo degli Stati Uniti, ha condannato l’attentato e “tutti gli atti di terrore” in un post sul suo account X e ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime. “Gli afghani dovrebbero poter osservare il Ramadan in pace e senza paura”, ha scritto.

La città in cui si è verificato l’attentato, capoluogo dell’omonima provincia, è considerata il quartier generale dei talebani, nonché la terra in cui ha preso i natali il movimento.

Lì vive, ad esempio, il leader supremo Hibatullah Akhundzada, colui che per primo aveva ordinato il bando delle bambine afghane dall’istruzione scolastico oltre il sesto grado.

A differenza, pertanto, di molti attentati avvenuti nei mesi scorsi nel Paese, in cui un bersaglio frequente erano le minoranze etniche sciite, prima tra tutte quella hazara, il target di quest’ultimo attacco sembrerebbe essere direttamente la maggioranza sunnita attualmente al governo.

Diverse esplosioni si sono registrate nel Paese dall’11 marzo scorso, data di inizio del mese di Ramadan, ma poche di queste sono state confermate dalle autorità de facto afghane.

Nonostante la drastica riduzione degli attentati nel Paese dalla presa del potere da parte dei talebani nell’agosto del 2021, orgogliosamente rivendicata dal governo de facto, i gruppi armati, primo tra tutti lo Stato Islamico del Khorasan, sono ancora molto attivi, e dalla fine del 2023 il progressivo incremento degli episodi di violenza, principalmente a danno dei civili, sta tornando a minacciare esponenzialmente la sicurezza del paese. Di Valeria Cagnazzo,

            

6177.- Strage degli Innocenti: presi 4 terroristi, altri in fuga, 11 gli arrestati, sono del Tagikistan: “Contatti” in Ucraina. Sale a 143 morti il bilancio

Questo video è stato diffuso domenica 24 marzo. Fa vedere soltanto le bestie, non le menti che si fanno chiamare Isis-k.

Il direttore dell’Fsb, l’intelligence russa, ha riferito al presidente Vladimir Putin che 11 persone sono state fermate, tra cui 4 terroristi che hanno partecipato all’attacco terroristico nella sala concerti alle porte di Mosca. “Avevano contatti in Ucraina” ha accusato l’Fsb. Ma la notizia di un coinvolgimento di cittadini del Tagikistan e di loro contatti in Ucraina non significa che siano coinvolti i governi di Dushanbe e di Kiev.

Attentato a Mosca, terroristi in fuga

Da Il Riformista

La ricerca dei responsabili dell’attentato a Mosca si stringe e cominciano ad arrivare gli arresti. Dopo la rivendicazione dell’IsKp, una branca dello StatoIslamico, le autorità russe hanno riferito di aver bloccato una macchina con a bordo i potenziali terroristi che hanno colpito il Crocus City Hall nella capitale della Federazione Russa ieri sera. L’auto viaggiava nel distretto di Karachi, nella regione di Bryansk. Alcuni degli uomini a bordo sono stati fermati, altri sono riusciti a fuggire.

Secondo le informazioni date in anticipo dal deputato russo Alexander Khinshtein, l’auto – una Renault – con a bordo i sospettati non si sarebbe fermata a un alt delle forze dell’ordine, tentando la fuga. A quel punto è partito un inseguimento con anche una sparatoria, che ha portato l’auto a ribaltarsi. Uno dei presunti terroristi è stato subito fermato dalla polizia, mentre gli altri sono fuggiti nell’area circostante in cui c’è un bosco. Un secondo sospettato è stato trovato poco dopo e arrestato.

Intanto nell’auto è stata trovata una pistola PM, un caricatore per un fucile d’assalto AKM e dei passaporti di cittadini del Tagikistan, come riporta l’agenzia Tass. Le ricerche degli altri presunti terroristi continuano.

Il post con cui l'Isis ha rivendicato l'attentato al Crocus City Hall di Mosca

Il post con cui l’Isis ha rivendicato l’attentato al Crocus City Hall di Mosca – Ansa

La fuga dei terroristi verso l’Ucraina non deve significare che la matrice dell’attentato sia di Kiev e si comprende l’insistenza di Washington sulla rivendicazione dell’Isis, che, veritiera o di comodo, da un lato, introduce nuovamente il pericolo di attentati in Europa, dall’altro, tende a evitare che il rullo compressore russo si metta in moto con tutta la sua potenza verso l’Ucraina, con quali conseguenze non si può nemmeno immaginare.

4 terroristi arrestati, sono Tagiki.

Da Il Secolo d’Italia, 23 Mar 2024 10:25 – di Robert Perdicchi

Sono stati arrestati quattro terroristi direttamente coinvolti nell’attacco terroristico a Mosca, che ha preso di mira la Crocus City Hall, a Krasnogorsk, nella periferia nord della capitale russa. Lo riferisce l’agenzia russa Ria, secondo cui il presidente russo Vladimir Putin è stato informato dal capo dell’Fsb che dopo la strage sono stati eseguiti 11 arresti e tra le persone fermate vi sarebbero “tutti i terroristi direttamente coinvolti nell’attacco”.

Poco prima il deputato Alexander Khinstein, aveva riferito che la Polizia aveva fermato due persone a bordo di un veicolo in fuga nella regione di Bryansk, a circa 340 chilometri a sudovest di Mosca. All’interno del mezzo – riporta l’agenzia russa Tass – sono stati trovati una pistola, un caricatore per fucili d’assalto e passaporti del Tagikistan.

Le autorità russe attribuiscono le morti alle ferite d’arma da fuoco e all’asfissiaa causa dell’incendio scoppiato durante l’attacco. Il bilancio delle vittime è ancora provvisorio. Nel frattempo le forze di sicurezza lavorano all’ “ispezione” del luogo dell’attentato, procedono con il “sequestro delle prove materiali” e con l’esame delle registrazioni delle telecamere a circuito chiuso.

Lo Stato Islamico ha rivendicato l’attacco venerdì sera, in un post su Telegram in cui il gruppo affermava che i suoi uomini armati erano riusciti a fuggire, in seguito. Un funzionario statunitense ha affermato che Washington dispone di servizi segreti che confermano le affermazioni dello Stato islamico. Le foto hanno mostrato il municipio di Crocus avvolto dalle fiamme mentre sono emersi video che mostravano almeno quattro uomini armati che aprivano il fuoco con armi automatiche mentre i russi in preda al panico fuggivano per salvarsi la vita. In una clip, tre uomini in tuta mimetica armati di fucili hanno sparato a bruciapelo contro corpi sparsi nell’atrio della sala da concerto.

A quanto pare gli aggressori hanno anche fatto esplodere degli esplosivi durante l’attacco. Venerdì sera nella sala da concerto sono avvenute almeno due esplosioni, hanno riferito le agenzie di stampa.

I volti dei 4 stragisti di Mosca. Uno di loro ha confessato: “L’ho fatto per i soldi” (video)

23 Mar 2024 13:35 – di Lucio Meo

Il video dell’interrogatorio di uno presunti attentatori di Mosca è stato diffuso dalla propagandista russa Margarita Symonian. L’uomo dice di essere arrivato in Russia dalla Turchia il 4 marzo e di aver compiuto l’attacco per denaro. Lo riferiscono Meduza e Ria Novosti. Estratti del video sono stati pubblicati anche dai canali Baza e Shot legati alle forze dell’ordine.

https://mediagol-meride-tv.akamaized.net/proxy/iframe.php/25603/gol

L’uomo si identifica con un nome che suona come Fariddun Shamsutdin, nato il 17 settembre 1998. Ha raccontato di essere stato ingaggiato via Telegram da un non meglio identificato “assistente del predicatore”. L’uomo, buttato a pancia sotto nel fango, e tenuto per i capelli da un agente delle forze russe, dice che gli era stato promesso mezzo milione di rubli e di aver fatto tutto per denaro. Gli sono state fornite armi e gli è stato indicato il luogo dell’attentato. Nella registrazione, afferma Meduza, l’uomo parla tagiko. (video)

Da L’Avvenire

Chi sono i killer, perché l’attacco, cosa succede ora: la strage in 7 punti

… Perché l’attentato?

Ecco alcuni passaggi degli interrogatori, non proprio formali, degli agenti russi: «Che cosa ci facevi al Crocus?» chiede un uomo delle unità speciali a uno dei presunti attentatori, tenendolo per i capelli fermo a terra, faccia in giù, mentre lo registra con uno smartphone. «Ho sparato» risponde. «A chi hai sparato?» lo sollecita l’agente. «Alle persone» dice l’interrogato. «Perché l’hai fatto?» lo incalza. «Per soldi» confessa lui a voce bassa. Nel video pubblicato da Baza e rilanciato dal canale Telegram della direttrice della televisione Russia Today, Margarita Simonyan, l’arrestato dichiara di avere 26 anni, di aver accettato di partecipare all’attacco dopo avere ascoltato un mese fa le lezioni di un predicatore, di essere stato reclutato da un aiutante che gli ha offerto 500mila rubli (circa 5.000 euro). Di cui 250.000 già pagati in anticipo. Da lui nessun riferimento a eventuali contatti ucraini per la fuga dopo l’assalto. 

Le immagini dell’uomo, sottomesso, spaventato a morte, non possono che turbare. Ma ancor di più il filmato di un altro degli arrestati che dapprima i canali Telegram russi fanno vedere con la testa e la faccia fasciate, ricoperto di sangue, tumefatto: lo stesso uomo che in un video pubblicato successivamente su X dal gruppo indipendente bielorusso Nexta e dal media russo Meduza viene mostrato mentre, tenuto fermo a terra in un luogo che sembra un bosco, viene torturato. Altre immagini shock fanno vedere un ragazzo, «di 19 anni, originario di Dushanbe in Tagikistan», secondo i canali Telegram russi, con una ferita molto evidente all’occhio sinistro, supino e a terra, apparentemente privo di sensi.

Chi ha rivendicato l’attacco?

Mentre Mosca insiste nel puntare il dito contro Kiev, l’Isis continua ad attribuirsi la responsabilità della strage al Crocus City Hall di Mosca, indicando che sono suoi i quattro terroristi che hanno sparato nella sala da concerto e pubblicandone anche le foto. Una rivendicazione che trova riscontro dagli Stati Uniti, che affermano di aver avvertito la Russia a inizio mese del rischio di attacchi da parte dell’Isis-K, il ramo afghano dello Stato islamico, mentre fonti di intelligence hanno riferito di aver ricevuto segnali di possibili attacchi «già da novembre». Conosciuto anche come Stato islamico del Khorasan (Iskp), il gruppo è attivo già dal 2014, formatosi da membri di gruppi militanti, compresi quelli del Pakistan e dell’Uzbekistan.

L’organizzazione è attiva in Asia centrale: il nome Khorasan si traduce in “la terra del sole” e si riferisce a una regione storica che comprende parti dell’Afghanistan, del Pakistan e anche dell’Iran, dove a gennaio il gruppo ha effettuato due attentati che hanno ucciso quasi 100 persone. Una dimostrazione di forza, brutalità e di inclinazione ad azioni spettacolari. L’Isis-K si pone come obiettivo la fondazione di un nuovo califfato che riunisca Afghanistan, Pakistan, Iran, ma non solo: nella loro visione rientrano infatti alcune ex repubbliche sovietiche, come il Turkmenistan, il Tagikistan e l’Uzbekistan.

Come è possibile che il Cremlino non fosse preparato?

Lo scorso 7 marzo l’ambasciata americana a Mosca aveva messo in guardia i propri cittadini per possibili attentati terroristici nelle 48 ore successive, specie ad eventi affollati come concerti musicali. L’allarme era stato lanciato dopo che, il giorno prima, i servizi di sicurezza interni (Fsb) avevano detto di aver sventato un attacco con armi da fuoco contro i fedeli di una sinagoga nella capitale. L’intelligence russa ha confermato di aver ricevuto le informazioni, ma «erano di natura generale e non contenevano dettagli specifici» scrive l’agenzia Tass.

Perché la ricomparsa dell’Isis non è una buona notizia? 

Qualche osservatore ha tirato un sospiro di sollievo alla notizia della rivendicazione dell’Isis. Meglio il ritorno dello Stato islamico – è questo il ragionamento – che un coinvolgimento dell’Ucraina (come si era adombrato a Mosca) che avrebbe significato una svolta sanguinosa e terribile nel già durissimo conflitto ucraino. Il ritorno dei macellai dello Stato islamico invece aggiunge un elemento di preoccupazione significativo: è l’apertura di un quarto fronte che si aggiunge a quello ucraino, a quello di Gaza e a quello del Mar Rosso nel gran caos globale. Questo senza considerare le varie tensioni sparse per il mondo, a cominciare da quella su Taiwan.

Che peso ha la strage sulla situazione internazionale?

«Tutti coloro che sono dietro a questo atto terroristico la pagheranno». L’avvertimento di Vladimir Putin nel suo discorso alla nazione dopo la strage al Crocus City Hall, unito ai vaghi accenni a una possibile responsabilità di Kiev, potrebbero far pensare ad un ulteriore inasprimento degli attacchi sull’Ucraina, o addirittura a raid contro la dirigenza del Paese, come ha suggerito ieri l’ex presidente Dmitry Medvedev. Ma la preoccupazione maggiore del capo del Cremlino è oggi quella di prevenire il panico ed evitare spaccature in un Paese multietnico e multiconfessionale, dove i musulmani rappresentano una cospicua minoranza e il jihadismo di stampo islamico ha già portato una seria minaccia alla tenuta dello Stato dopo lo scioglimento dell’Urss. Nonostante gli accenni ad un ruolo ucraino in quanto avvenuto, rimane pur sempre la rivendicazione dell’Isis. Di qui l’appello di Putin alla comunità internazionale per unirsi a Mosca nella lotta al terrorismo, che «non ha nazionalità. Contiamo sull’interazione con tutti i Paesi che condividono sinceramente il nostro dolore e sono pronti a condividere gli sforzi per combattere il nemico comune» ha aggiunto il presidente.

Scene di lutto e di disperazione davanti al Crocus Hall

Scene di lutto e di disperazione davanti al Crocus Hall – Ansa

L’appello appare stonato mentre la Russia e l’Occidente sono contrapposti nella guerra in Ucraina. Sono molto lontani i tempi della cooperazione Russia-Usa dei primi anni della presidenza di Putin, che aveva instaurato un rapporto di stima reciproca con l’omologo americano George W. Bush. Il capo del Cremlino fu il primo leader internazionale a telefonare all’inquilino della Casa Bianca dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 per offrirgli la piena collaborazione di Mosca nella lotta al terrorismo islamico, che aveva già preso di mira la Russia con attentati sanguinosi. Tanto che il mese successivo i russi cooperarono attivamente all’attacco americano contro i Talebani in Afghanistan. E proprio i presidenti di Paesi di questa regione, come Kazakhstan e Uzbekistan, hanno già telefonato a Putin per assicurare la loro collaborazione. In un Paese dalle tante etnie in cui i musulmani rappresentano, secondo alcune stime, un settimo della popolazione e sono concentrati nelle terre caucasiche di confine, il timore è che attentati come quello di venerdì possano essere diretti a provocare scontri interni di cui sarebbe difficile prevedere gli sviluppi.

Che ruolo ha l’Europa?

A non dover essere tranquilla, in questa fase, è la vecchia Europa, reduce da un vertice che ha prodotto molte idee e proposte ma pochi passi concreti. Invece la concretezza e la tempestività dovrebbero essere, adesso, le parole d’ordine dell’Ue. Il mondo sta cambiando molto velocemente e la costruzione di una vera e concreta politica estera e di una identità di difesa comuni devono essere la priorità strategica dei 27. Siamo già in ritardo e nessuno aspetterà i tempi lunghi dell’Unione europea. La difesa dei valori europei, della pace e della democrazia dipendono, ora, anche dalla capacità di decidere in tempi brevi e adeguati alla realtà dei nostri giorni.

6168.- Perché c’è l’Iran dietro la mossa anti-Usa del Niger

L’Occidente tutto deve sostenere l’Italia nel Piano Mattei. In Niger abbiamo di fronte non solo la Russia ma anche l’Iran. Quanto conta la patria per la giunta golpista di Niamey? Biden ha capito la posta in gioco e tenta di tenere la Base 201. La parola è ai dollari.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 19/03/2024

Il Niger nel mirino dell’Iran. Un accordo sull’uranio che guardi a Teheran è dietro alla rottura dei rapporti tra Washington e Niamey, e questo significa che oltre che dalla Russia (e dalla Cina) l’Africa sta iniziando a essere penetrata con consistenza da un altro attore ostile all’Occidente.

Il Wall Street Journal ha questa notizia: la decisione del Niger di porre fine alla sua alleanza antiterrorismo con Washington è arrivata dopo che alti funzionari statunitensi hanno accusato la giunta golpista del Paese di esplorare segretamente un accordo per consentire all’Iran l’accesso alle sue riserve di uranio. Mentre per ora il Pentagono non ha emesso alcun ordine di ritiro alle truppe, poiché l’amministrazione Biden spererebbe di negoziare ulteriori accordi con i leader della giunta, l’inclusione dell’Iran nella vicenda è un elemento nuovo che aumenta le complessità. Perché in effetti si temeva che alla rottura dell’intesa con gli Usa potesse seguire un accordo con la Russia, ma che Teheran potesse in qualche modo far parte di questo quadro è ancora più problematico dal punto di vista tattico e strategico.

A quanto pare, i colloqui tra le due parti sarebbero progrediti fino a una fase avanzata, con un accordo preliminare già firmato, dicono le fonti al WSJ, anche se non finalizzato. Sarebbe allora stata Molly Phee, assistente segretario di Stato per gli affari africani e a capo della delegazione che ha viaggiato a Niamey nei giorni scorsi, a sollevare preoccupazioni per il presunto patto con Teheran, sottolineando la necessità per il Niger di tornare alla governance democratica ed esprimendo contemporaneamente preoccupazioni per il rafforzamento dei legami con la Russia. In risposta, Phee avrebbe ricevuto un respingimento delle accuse e poi l’innesco della miccia che ha portato alla dichiarazione sulla fine della cooperazione — che con ogni probabilità era stata già pensata da tempo, con la giunta che attendeva solo il momento opportuno o l’occasione per comunicarlo.

Il Niger, il settimo produttore di uranio al mondo, esporta la maggior parte del suo uranio in Francia. Il golpe dello scorso luglio ha complicato anche questo commercio. L’ingresso di Teheran potrebbe essere utile per Niamey, dunque, mentre la questione riapre l’enorme faldone del nucleare iraniano, messo in secondo piano da una serie di avvenimenti internazionali più stringenti, ma comunque ancora tra i grandi dossier di livello internazionale — che gli americani hanno comunque continuato a gestire, come raccontano le informazioni sui recenti contatti indiretti avuti nel tentativo di fermare gli Houthi e là destabilizzazione del Mar Rosso.

Come le giunte militari nei vicini Mali e Burkina Faso, il Niger ha già iniziato il rafforzamento dei legami militari con la Russia. Funzionari della difesa russa di alto livello, tra cui Yunus-bek Yevkurov, vice ministro della Difesa e supervisore dell’Africa Corps (la struttura paramilitare collegata all’intelligence che sta prendendo il posto del Wagner Group), hanno visitato il Paese e incontrato il leader della giunta. Il primo ministro della giunta al potere, Ali Mahamane Lamine Zeine, ha inoltre visitato l’Iran a gennaio durante una tour internazionale che prima lo aveva portato in Russia e poi anche in Serbia. Zeine guidava una delegazione composta da mezzo governo (ministri della Difesa, del Petrolio e del gas, dell’Agricoltura, del Commercio, della Gioventù e dello Sport).

Parlando con il presidente Ebrahim Raisi, l’uomo scelto dai militari nigerini per guidare il governo aveva ottenuto il via libera per la costruzione delle relazioni (obiettivo del viaggio), anche attraverso accordi bilaterali che l’iraniano diceva avrebbero aiutato la giunta a schivare gli effetti delle sanzioni; attività su cui Teheran ha un’expertise storica, sfuggendo da anni a parte di quelle connesse all’iniziativa sul nucleare (che per altro, per alimentarsi ha bisogno anche dell’uranio appunto). La Repubblica islamica vende le proprie esperienze a certi Paesi come vettore per costruire relazioni. L’Iran è stato soggetto a pesanti sanzioni occidentali per anni, mentre la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, nota come Ecowas, ha imposto sanzioni al Niger in seguito al colpo di stato. Yunus-bek Yevkurov

L’interesse è reciproco, perché con l’apertura di rapporti anche commerciali con Paesi non raggiungibili dalle sanzioni occidentali, riesce a sua volta a schivarle quelle contro di sé. Le informazioni sul coinvolgimento iraniano sono preoccupanti perché dimostrano sia l’intenzione della Repubblica islamica di allungare le mire fino all’Africa, si la capacità della coppia alleata e ostile all’Occidente – Russia, Iran – di agire in qualche modo a sistema (sebbene non è chiaro quanto ci siano pianificazioni condivise oppure sovrapposizioni anche competitive). Lo scenario di penetrazione di attori velenosi anti-americani e in generale anti-occidentali si sta espandendo. Dopo la diffusione in tutto il Medio Oriente del network di milizie regionali collegate ai Pasdaran, noto come Asse della Resistenza, ora l’Africa è tra i nuovi target iraniani. Un elemento da non sottovalutare per i progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

6104.- All’Italia il comando tattico della missione Ue in Mar Rosso

La guerra di Netanyahu con Hamas, di Biden con l’Iran nel Mar Rosso già costa all’Italia 95 milioni al giorno, inoltre – come nel 1940 -, l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa Camporini lancia un avvertimento: «Abbiamo scorte di armi ridotte». Sembra che la dotazione dei missili non sia sufficiente ad armare una sola nave. Dobbiamo, però, approvare questo risultato della Marina Militare e del Ministro Crosetto.

Da Il sole24ore, di Andrea Carli, 2 febbraio 2024

La Difesa punta a garantire l’impiego di almeno una nave nel Mar Rosso per 12 mesi. Tra le ipotesi sul tavolo c’è l’invio di velivoli G550 Caew del 14° Stormo dell’Aeronautica Militare, già impiegati nell’ambito di missioni nel fianco Est della Nato

« L’Unione Europea – oggi – ha chiesto all’Italia di fornire il Force Commander dell’operazione Aspides nel Mar Rosso (l’ufficiale ammiraglio che esercita il comando imbarcato degli assetti (ma quanto piace la parola assetti?) navali che partecipano all’operazione). L’importanza e l’urgenza dell’Operazione Aspides, che contribuirà a garantire la libera navigazione e la sicurezza del traffico commerciale nel Mar Rosso, hanno indotto la Difesa italiana ad assicurare immediatamente il proprio sostegno. Si tratta di un ulteriore riconoscimento dell’impegno del Governo e della Difesa e della professionalità della Marina Militare». Così il ministro della Difesa, Guido Crosetto.

Dall’Italia una nave e anche assetti aerei “spia” per la missione europea Aspidesper garantire la libertà e sicurezza di navigazione nel Mar Rosso meridionale, nello Stretto di Bab el-Mandeb e nel Golfo di Aden. Missione che, sostenuta da Italia, Francia e Germania in occasione dell’ultimo Consiglio Affari esteri, avrà a Larissa in Grecia, il suo quartier generale.

A delineare questo scenario è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto, intervenuto giovedì 1 febbraio in audizione presso le commissioni Difesa congiunte di Camera e Senato. Tra le altre indicazioni fornite da Crosetto, quella che vede l’Italia assumere quest’anno il comando di AtalantaEmasoh e Ctf 153, tre missioni già operative nella zona del Mar Rosso e quella in base alla quale Aspides dovrebbe inglobare Emasoh (operativa sullo Stretto di Hormuz e Golfo Persico).

La tabella di marcia

Quanto poi alla nuova missione europea in rampa di lancio – l’obiettivo è ottenere il voto unanime dei 27 Stati membri Ue in occasione della prossima riunione del Consiglio Affari esteri, il 19 febbraio – il responsabile della Difesa ha espresso l’auspicio che partecipino i paesi arabi moderati. Da parte sua, la Difesa punta a garantire l’impiego di almeno una nave nel Mar Rosso per 12 mesi. «Quando il processo decisionale sarà concluso ha annunciato Crosetto -, la Difesa potrà valutare più compiutamente quale contributo operativo fornire, inserendolo nella Delibera Missioni 2024, per il passaggio parlamentare». «L’Italia ha dichiarato fin da subito la necessità di agire per ripristinare la sicurezza di un’area strategica, la cui instabilità è un grave rischio per la libertà di navigazione e il commercio mondiale, con conseguenze negative sulla stabilità economica internazionale e sul costo delle materie prime. A seguito degli sviluppi legati all’attacco terroristico di Hamas contro Israele e alla conseguente risposta militare di Tel Aviv – ha spiegato il ministro -, dal 19 novembre scorso ha avuto luogo un incremento esponenziale della frequenza e della pericolosità delle azioni degli Houthi. Negli ultimi 2 mesi sono stati perpetrati più di trenta di attacchi».

Salto di qualità militare compiuto dal gruppo yemenita

Crosetto ha aggiunto che «gli attacchi sono stati condotti principalmente con l’impiego di missili balistici a corto raggio, di missili anti-nave e di droni suicidi, ai quali sono aggiunte azioni ostili condotte con barchini ed elicotteri, in alcuni casi con finalità di sequestro, come nel caso dell’equipaggio del cargo Galaxy Leader, di proprietà di un armatore israeliano ma operato da una compagnia giapponese, in mano agli Houthi dal 19 novembre. Se a questo aggiungiamo l’impiego di missili balistici per colpire direttamente dallo Yemen il territorio israeliano, è evidente il salto di qualità militare compiuto dal gruppo yemenita, ora in possesso di un arsenale e di capacità operative davvero rilevanti».

La nuova rotta e il balzo dei costi

Una situazione che, ha ricordato il ministro, ha spinto «le più grandi aziende di trasporto merci ad evitare il transito dallo Stretto di Bab el-Mandeb, e di conseguenza da Suez, optando per la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza. Un dato di fatto che aveva dapprima interessato solo le navi portacontainer, si è poi esteso anche alle gasiere e petroliere, tanto che, recentemente, il Qatar ha comunicato l’intenzione di “posticipare” i trasporti attraverso il Mar Rosso delle sue navi gasiere, comprese quelle dirette verso l’Italia». Ancora: «Già nell’ultima settimana del 2023 si era registrato un calo del traffico in transito dal Canale di Suez del 38% e si segnala un aumento dei tempi di navigazione di 10-12 giorni e dei costi di trasporto in alcuni casi quintuplicati».

Come l’Italia intende partecipare

Dal punto di vista operativo, «stiamo valutando anche la possibilità di fornire assetti aerei con capacità di sorveglianza e raccolta dati». C’è infatti da assicurare adeguata copertura dall’alto alle navi, capire cosa si muove a terra ed in mare, intercettare le comunicazioni dei ribelli. Tra le ipotesi sul tavolo c’è l’invio di velivoli G550 Caew del 14° Stormo dell’Aeronautica Militare, già impiegati nell’ambito di missioni nel fianco Est della Nato. Si tratta di veri e propri radar volanti, dotati di un sistema multi-sensore con funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni. Possibile anche il dispiegamento di droni, tipo Predator, con compiti di ricognizione e controllo del territorio.

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.