I media dicono che Afrin è stata conquistata dall’esercito turco e dai “ribelli”, ma dimenticano di dirci che Afrin era una città libera e democratica e che i ribelli sono i miliziani dell’ISIS che i curdi avevano sconfitto e che Erdogan ha arruolato ed armato. Nemmeno vi parlano dei 1.500 morti e dei 200mila profughi.

Afrin è una città della Siria e l’esercito turco è un esercito NATO. Notate l’inutile sfregio dei cingoli dei selvaggi turchi alla scalinata.
L’ex-enclave curda di Afrin, la capitale del Kurdistan siriano, è caduta in mano turca dopo un’operazione militare durata meno di due mesi. Una prova di forza da cui il regime turco esce rafforzato sul piano interno e nello scacchiere mediorientale. La vittoria ad Afrin è molto importante per la Turchia, perché è un duro colpo alle aspirazioni curde di autogoverno nel nord ovest della Siria. L’immagine di Erdoğan è invece sempre più compromessa agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, ma per il presidente turco questo non pare essere un grande problema. Sarà, ma non scommetterei un penny sulla sua vita.

Soltanto il 2 febbraio 2018 i media titolavano: “I jet di Ankara bombardano i curdi e sfidano Washington”. Oggi, Erdogan, destreggiandosi fra il dilemma di Mosca: sostenere l’alleato siriano Assad o cercare un accordo anti Nato con Erdogan? l’impotenza dell’Europa e gli errori e l’irresponsabilità della politica USA, ha colto una vittoria a scapito del glorioso popolo curdo, abbandonato dall’Occidente egoista. I tempi di Kobane sono lontani. Mi piace cosa scrive Tommaso Canetta:
” ..i combattenti curdo-siriani sono stati a lungo gli “eroi”. Laici, democratici, progressisti. Con unità combattenti femminili e donne nei posti chiave del potere. Con brigate internazionali di giovani idealisti partiti volontari da Europa, Americhe, Asia e Oceania a combattere al loro fianco. Con una costituzione avanzata, democratica e federalista, che predica la convivenza tra etnie e fedi diverse. La cui resistenza a Kobane è diventata un simbolo della lotta senza quartiere a un fanatismo islamico che all’epoca sembrava inarrestabile in Medio Oriente, e la cui riscossa nel nord della Siria ha contribuito in modo fondamentale alla definitiva sconfitta dell’Isis. Ce l’eravamo bevuta, per l’ennesima volta: i curdi-siriani erano i nostri “buoni”, la loro guerra era anche la nostra, li avevamo armati e addestrati, li avremmo anche difesi. Invece li abbiamo abbandonati, tutti li hanno abbandonati e la data del 17 marzo, per chi lo conserverà, sarà un amaro ricordo.”
Non dimentichiamo che i curdi sono filo-occidentali e decisamente democratici se comparati con altri popoli della regione. Contro il volere di Erdogan, gli Stati Uniti hanno fornito ai curdi: mortai, mitragliatrici, blindati, armi leggere. Ma è una vecchia storia. Ricordo che negli anni ’90, gli aerei USA che lanciavano rifornimenti ai curdi erano seguiti puntualmente, a 10’ di distanza, dai bombardieri turchi che sganciavano ben altro. Gli Stati Uniti e la Turchia sono entrambi partner cruciali per la NATO, ma, a Erdogan, la NATO interessa solo se è funzionale alla sua nostalgia ottomana. L’operazione “Ramoscello d’ulivo” asseritamente giustificata come risposta alle minacce per l’integrità territoriale della Turchia è una questione cruciale che pone serie preoccupazioni a Washington e ad Ankara. Nei giorni scorsi la visita del Segretario di Stato americano Rex Tillerson ha indicato quanto l’offensiva turca in Siria possa essere cruciale e quanto il supporto accordato dagli Stati Uniti alle milizie curde del PYD pongano le relazioni bilaterali con la Turchia e Stati Uniti sul filo di lama. Durante l’incontro fuori protocollo con il presidente turco, durato 3 ore e 15 minuti e avvenuto in forma estremamente riservata in assenza di interpreti, Erdoğan ha ‘esplicitamente’ dichiarato le priorità e le aspettative della Turchia sui legami bilaterali e sugli sviluppi regionali. ‘La conversazione é stata produttiva e aperta’, ha commentato un portavoce del Dipartimento di Stato in viaggio con Tillerson.

La stessa franchezza ha siglato il colloquio di venerdi mattina con il ministro degli esteri Mevlüt Çavuş. Ma i curdi rappresentano per gli USA un caposaldo nella manovra di accerchiamento della Russia. Come che sia, di fatto, il fianco SUD della NATO è ridotto in pezzi e gli americani stanno gradatamente smobilitando la base aerea di Incirlick e la base aerea di Al Udeid in Katar, che passa ai turchi: due assetti strategici nella regione. Il problema di Erdogan sono i curdi e i curdi sono un alleato degli Stati Uniti. Erdogan sembra dire: Se anziché i curdi, ci sono i turchi è meglio o no? insomma, dove non è riuscita la CIA con l’ISIS, riuscirà Erdogan e un pezzo di Siria entrerà nella sfera della NATO.
Ma l’offensiva turca in atto ha dato una risposta a una delle nostre domande. Fino a poche settimane fa, l’Esercito siriano libero era visto come il simbolo di quelle forze ribelli che chiedevano più libertà e democrazia contro il governo di Damasco, tanto da ricevere aiuti militari e finanziamenti dalla coalizione a guida americana. Poi qualcosa è cambiato.
Per limitare le perdite all’interno dell’esercito turco, Erdogan ha usato i miliziani dell’Fsa come boots on the ground, rendendo palese ciò che si poteva già ipotizzare da tempo: l’Esercito siriano libero è il braccio armato di Ankara nel nord della Siria.
In questo modo, Erdogan ha mandato in frantumi la narrazione della rivolta siriana. Per anni, l’Occidente ha supportato la versione di un unico fronte di opposizione a Damasco e allo Stato islamico. La realtà era però diversa, ma lo si sta capendo solamente adesso. Ogni fazione ribelle era (ed è) supportata ed eterodiretta da una potenza straniera, che usa questi gruppi a proprio piacimento. Succede con l’Esercito siriano libero così come con i curdi.
La geografia ci mostra meglio i termini del problema turco.

I curdi siriani vivono nel nord del paese, una zona che costeggia la frontiera turca, oltre la quale vivono curdi turchi. La frontiera turco-siriana separa i due Kurdistan. Quello siriano – il Rojava – gode di un’autonomia de facto da quando il regime di Damasco è in guerra con i ribelli, mentre quello turco ricomincia a sognare la secessione, ispirato dai curdi iracheni e siriani. Dopo Afrin c’è la città di Manbij, anche questa, città siriana a tutti gli effetti, dove stazionano anche 2.000 marines. Le richieste della Turchia agli Stati Uniti sono chiare: in primo luogo, il ritiro immediato dei militanti PYD da Manbij ad est dell’Eufrate. ‘Ci sono promesse che sono state date anche dalle amministrazioni precedenti e che ancora non sono state mantenute’ ha esplicitato Çavuşoğlu aggiungendo che questa é una condizione imprescindibile affinché ‘la Turchia intraprenda passi concreti con gli Stati Uniti basandosi sulla fiducia’. Inoltre, Ankara esige che gli Stati Uniti cessino la loro cooperazione militare e politica con il PYD, considerata un’organizzazione terroristica affiliata al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), invitando Washington a ritirare le armi già consegnate alle milizie curde. Tillerson ha quindi replicato che gli Stati Uniti riconoscono il legittimo diritto della Turchia di proteggere i propri confini e ha invitato la Turchia a ‘mostrare moderazione ad Afrin’ enfatizzando che una Siria indipendente e unificata rimane un obiettivo congiunto. Ma in un discorso tenuto ieri ad Ankara per celebrare la “vittoria”, Erdogan ha sottolineato che “l’operazione militare andrà avanti fino a che sarà spazzato via il corridoio (curdo) che collega Manbij, Kobane, Tal Abyad, Ras al-Ain, Qamishli”, praticamente, tutte le zone di confine nel settore orientale del Paese. Insomma, si fermerà Erdogan o saranno evacuati i marines? E Putin e Assad? Ieri Assad ha intimato alla Turchia di ritirarsi immediatamente da Afrin e di abbandonare al più presto il territorio siriano che ha occupato. dai governativi siriani. Anche le unità paramilitari filo-governative hanno avvertito i filo-turchi di stare alla larga da altre 10 località del territorio compresa la città di Tal Rifaat.

In Turchia il 18 marzo non è un giorno come gli altri. In questa data del 1915 gli ottomani ottennero un grande successo contro la flotta anglo-francese nello stretto dei Dardanelli. Fu uno degli eventi principali della campagna di Çanakkale (Gallipoli), che avrebbe contribuito a creare il mito di Mustafa Kemal e gettare le basi della moderna nazione turca. Nella mattina del 18 marzo 2018, mentre in patria si stavano svolgendo le consuete celebrazioni, i reparti speciali dell’esercito turco hanno sfilato vittoriosi nella piazza principale della città siriana di Afrin. Il presidente Erdoğan ha potuto così annunciare la vittoria odierna dal palco di Çanakkale, con uno straordinario impatto simbolico. Questo perfetto sincronismo tra le operazioni militari e la macchina propagandistica ha rappresentato il momento culminante di una prova di forza clamorosa e per molti versi inattesa – almeno in queste proporzioni – da parte del regime turco.

Cosa scrive Carlo Pallard. “L’operazione “Ramoscello d’ulivo”, volta a sottrarre la città di Afrin al controllo delle milizie curdo-siriane dello YPG è cominciata poco meno di due mesi fa. Il via libera della Russia, che controllava lo spazio aereo e aveva una piccola presenza militare nella zona, è stato decisivo nel consentire l’azione turca. Molti osservatori dubitavano della fattibilità di un’operazione così fortemente dipendente dagli ambigui e instabili rapporti tra le potenze coinvolte nel conflitto siriano. Ancora oggi è difficile capire fino in fondo quale possa essere stata la posizione di Assad nell’intesa tra Erdoğan e Putin. Per tutta la durata delle operazioni si è vociferato insistentemente di un possibile accordo tra i curdi e il regime siriano, e piccoli gruppi di miliziani governativi sono sporadicamente comparsi nell’area, senza però dare alcun contributo rilevante.
Si può supporre che Assad, seppure recalcitrando e facendo il poco che gli era possibile per sabotare il piano turco, abbia infine dovuto accettare di ingoiare un boccone per lui molto indigesto. Tutto ciò è probabilmente funzionale a progetti di più ampio respiro che la Russia coltiva per la regione, agendo da ago della bilancia tra gli interessi – a loro volta non sempre chiari – di Turchia e Iran. Giochi fra le potenze su cui si possono fare solo supposizioni, ma che dal punto di vista dei russi valgono abbastanza da convincerli ad abbandonare i curdi di Afrin al loro destino, e mettere almeno momentaneamente la museruola ad Assad.
Quando la Turchia ha dato il via all’operazione “Ramoscello d’ulivo” ad Afrin, tra gli analisti non c’era grande fiducia su una facile riuscita dell’operazione, di cui alcuni prevedevano un clamoroso fallimento. Le riserve erano in effetti comprensibili. Nella precedente operazione “Scudo dell’Eufrate” (agosto 2016 – marzo 2017), l’esercito turco e i suoi alleati sul campo si erano infatti trovati in grave difficoltà contro i miliziani dell’ISIS ad Al-Bab. In quella occasione le forze armate turche erano sembrate in preda al caos, travolte dagli effetti devastanti del fallito golpe e delle conseguenti purghe, allo sbaraglio e senza una linea strategica chiara.
La pessima prestazione dell’anno scorso proiettava dunque ombre inquietanti in vista di un’avventura sulla carta più difficile, con obiettivi più ambiziosi e contro un nemico più forte e preparato. Molti ritenevano che, con queste premesse, le forze impiegate non sarebbero state sufficienti ad avere la meglio in breve tempo. Certo è che pochissimi pensavano a una conquista della città a metà del mese di marzo.
Ad Afrin la musica è però stata molto diversa rispetto ad Al-Bab. Le operazioni militari hanno da subito seguito una strategia coerente ed efficace. A partire dal 20 di gennaio i turchi hanno aperto una serie di piccoli fronti lungo il confine siriano attorno ad Afrin, avanzando di pochi chilometri per volta e consolidando le posizioni strategiche nelle aree progressivamente occupate. Questa è stata la fase più lunga e difficile dell’operazione, perché i miliziani curdi avevano preparato piuttosto meticolosamente la difesa dell’area di confine e hanno opposto una strenua resistenza. Una volta uniti questi diversi fronti e preso possesso di una fascia profonda diversi chilometri lungo tutta la frontiera, nei primi giorni di marzo è scattata la seconda fase dell’operazione. Le forze turche e alleate hanno avanzato verso la città contemporaneamente da sud-ovest e da nord-est. Con grande sorpresa di quasi tutti gli osservatori, questa seconda fase è stata molto rapida. Le difese curde sono collassate in pochi giorni. Il 10 marzo gli assedianti erano a pochi chilometri dalla periferia di Afrin, e nei giorni successivi il centro urbano è stato progressivamente accerchiato. Nella notte tra il 17 e il 18 marzo i reparti speciali dell’esercito turco sono entrati in una città ormai semi-deserta, senza trovare alcuna significativa resistenza. Gran parte dei civili erano fuggiti attraverso il corridoio umanitario lasciato libero a sud di Afrin, mentre i miliziani si erano dati alla macchia. All’alba la battaglia per Afrin era sostanzialmente conclusa.
Pur rappresentando un successo da un punto di vista strettamente militare, l’operazione Ramoscello d’ulivo ha avuto un prezzo molto pesante da un punto di vista umanitario. Si stima che l’assedio abbia causato l’esodo di almeno 100.000 profughi, in condizioni spesso disperate. Benché la Turchia abbia sempre dichiarato di fare tutto il possibile per evitare di coinvolgere i civili, è certo che un’operazione come questa (caratterizzata da un uso massiccio dell’aviazione e dell’artiglieria pesante) abbia inevitabilmente causato decine e forse centinaia di vittime civili.
Nel corso del conflitto, i portavoce del PYD hanno ripetutamente accusato gli assedianti di commettere crimini di guerra. Tali accuse hanno riguardato soprattutto i miliziani turcomanni e arabo-sunniti dell’Esercito libero siriano, alleati di Ankara e usati massicciamente come “carne da cannone” per le operazioni di terra. Forti riserve e preoccupazioni per il comportamento di queste milizie – e per l’ideologia islamista che animerebbe almeno una parte dei loro aderenti – sono state espresse anche dalla stessa opinione pubblica turca, che pure ha massicciamente sostenuto l’operazione. Fonti curdo-siriane hanno inoltre accusato lo stesso esercito turco di colpire indiscriminatamente i civili. La Turchia dal canto suo non solo ha respinto le accuse, ma ha a sua volta sostenuto che fosse lo YPG a usare i civili come scudi umani. Data la scarsità di fonti indipendenti, le prove presentate da entrambe le parti per sostenere le proprie accuse vanno prese con le pinze. Non c’è però alcun dubbio che l’operazione di Afrin abbia causato una grave e inevitabile crisi umanitaria.
La conquista di Afrin apparentemente rafforza la posizione turca nel complicato scacchiere siriano e rimette in piedi una politica estera che in Medio Oriente sembrava essersi del tutto arenata. La brillante prestazione fornita sul campo di battaglia ridona lucentezza alla stella della potenza militare turca, offuscata dalle gravi difficoltà vissute negli ultimi due anni. La prova di forza di Afrin non rilancia però di certo, agli occhi del mondo occidentale, l’immagine ormai compromessa del regime di Erdoğan. I crimini di cui sono stati accusati gli alleati dell’Esercito libero siriano, oltre all’innegabile capacità dei curdi di attirare la simpatia e la solidarietà di una larga parte dell’opinione pubblica europea, hanno se possibile ancora peggiorato la situazione sotto questo punto di vista. Sembra però che Erdoğan sia pronto ad accettare volentieri il ruolo di “uomo cattivo d’Europa”.
Per un presidente ormai orientato in una prospettiva eurasiatica e determinato a seguire il modello di leadership putiniano, l’immagine da spendere in Occidente non è più un problema. Erdoğan può anzi sperare che questa lotta mediatica contro il resto del mondo rafforzi l’adesione nazionalistica del popolo turco al suo progetto. Resta da vedere quali saranno le sue prossime mosse. Ma si può prevedere con una certa sicurezza che la resa dei conti tra la Turchia e i miliziani curdi non sia di certo finita qui.”
Carlo Pallard
Laurea magistrale con lode in Scienze storiche presso l’Università degli studi di Torino, con tesi dal titolo “Da impero a nazione. Ziya Gökalp e la nascita della Turchia moderna”. È autore, assieme a Matteo Bergamaschi, del volume Dire io. Sulla questione identitaria del mondo post-moderno, Aracne editrice, Roma 2012. Parla turco, inglese e azero. E’ nato a Torino nel 1988.

ABBIAMO LETTO COSA DICONO I MEDIA DELLA CONQUISTA E, ORA, PARLIAMO DEL SACCHEGGIO DI AFRIN.
I media ci parlano di formazioni combattenti e di eserciti, ma delle centinaia di migliaia di siriani o curdo-siriane gettati da Erdogan nell’orrore della guerra, barattati da Russia, Stati Uniti, Siria, anche dall’Unione europea che con la Turchia fa affari, chi ne parla?

Negozi, abitazioni, strutture militari e governative oggetto di raid ed espropri, curdi malmenati, città devastata e saccheggiata. Oltre a questo i turchi e le milizie jihadiste al soldi di Ankara impediscono alla gente di entrare o di uscire dalla città.
I video degli stessi mercenari al servizio di Ankara mostrano le sopraffazioni. I giovani che non si arruolano nelle milizie filo-turche vengono arrestati. Le milizie non hanno dato loro scelta: o si arruolano nel sedicente Libero Esercito siriano oppure c’è la galera o peggio.
Il timore è che in quell’area di sarà una sorta di pulizia etnica con la Turchia intenzionata a usare il cantone per spostare molti profughi siriani accolti anche grazie ai fondi dell’Unione Europea.
Se accadesse sarebbe gravissimo.

Il presidente turco annuncia la prosecuzione dell’offensiva, obiettivo finale Kobane. Almeno 200mila civili, secondo fonti locali e organizzazioni umanitarie, hanno lasciato l’area in queste settimane; quasi 300 le vittime, di cui 43 bambini. Il silenzio di Stati Uniti ed Europa
DAMASCO (AsiaNews/Agenzie) – I gruppi ribelli siriani – al cui interno operano numerosi movimenti radicali islamici – che hanno sostenuto l’esercito turco nella conquista di Afrin (enclave curda nel Nord della Siria, caduta il 17 marzo scorso) ora saccheggiano e rubano quasiasi cosa nelle case private e nei negozi della zona. Secondo fonti locali e organizzazioni umanitarie – si apprende da AsiaNews – raid ed espropri hanno riguardato anche strutture militari e governative.
Testimoni oculari ad Afrin raccontano che, in queste ore, gruppi combattenti hanno fatto irruzione in negozi, ristoranti e case, rubando cibo, equipaggiamenti elettronici, coperte e altri beni di prima necessità. Il materiale trafugato è stato trasportato al di fuori della città. “La distruzione della statua di Kawa Haddad – afferma un curdo dell’area – i furti nei negozi e nelle case è deprecabile a livello morale”. Analisti ed esperti affermano che la Turchia ha attaccato con l’intenzione di operare un cambiamento demografico nella zona, mettendo i curdi in minoranza. Ankara respinge questa accusa, ma restano i timori sul futuro della regione legati alla presenza permanente di arabi e turchi che i curdi non saranno certo disposti ad accettare.


Scene di saccheggi da parte dei mercenari del cosiddetto esercito libero siriano, alleati di Ankara nella città occupata di Afrin.
Il silenzio e il disinteresse di Usa e UE. Le Nazioni Unite riferiscono che al momento vi sarebbero ancora 100mila persone circa nella regione di Afrin, in netto calo rispetto ai 323mila di novembre. Almeno 98mila sono registrati come sfollati nei centri di accoglienza nei territori controllati dal governo siriano. Nella battaglia di Afrin sarebbero morti almeno 289 civili, di cui 43 bambini. L’assalto e la presa della città curda si è consumata nel silenzio e nel disinteresse della comunità internazionale, in particolare dell’Europa e della Nato, a guida statunitense. Analisti ed esperti ricordano come i curdi siano stati sfruttati a lungo in chiave anti-Isis, per essere poi abbandonati. Bruxelles sarebbe più interessata alla sicurezza dei confini e vede in Erdogan un “alleato” chiave nel contenimento del fenomeno migratorio e in un discorso più ampio di geopolitica internazionale. E pure gli Stati Uniti, che hanno a lungo armato i curdi, in questo frangente non hanno fatto nulla per impedire l’avanzata dei turchi. Commentando il saccheggio di Afrin, il governo Usa ha espresso un generico sentimento di “profonda preoccupazione”.
