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6139.- Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Il Nuovo Piano Mattei è la base fondante dell’interconnessione regionale tra MedAtlantic e IndoMed e conferirà autorevolezza alla politica italiana impegnata a valorizzare il capitale umano dell’Africa. A partire dal Magreb, ma in particolare nel Sahel, i problemi di istruzione e la povertà sono importanti quanto quelli dell’economia e la situazione nel Senegal è considerata solo leggermente migliore. Le giunte militari golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso e i disordini che scuotono il Senegal non sono gestibili da Ecowas e rappresentano l’esca che agevola la penetrazione neocolonialista russa e cinese. Ecco un motivo per procedere alla rifondazione dell’Unione europea, a farne un soggetto politico sovrano, potente, capace di impegnare le sue risorse in politiche di solidarietà attiva. Lo stimolo dell’economia potrà sostenere la crescita sociale e culturale di questi Paesi e non quella economica di Russia e Cina. Per condurre queste politiche, serve radicarci nella società africana, ma prima di tutto coesione e comunanza di obiettivi nella nostra politica, vista come alfiere di civiltà e non come strumento di potere. Questa è senz’altro una missione degna del Capo dello Stato.

Da di Emanuele Rossi | 18/02/2024 – 

Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Mentre il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato lo spostamento delle elezioni voluto dal presidente Sall, continua una fase opaca per il Paese, che mette in ulteriore difficoltà Ecowas, organizzazione cardine della regione dell’Africa settentrionale in profonda crisi di autorevolezza

I leader della Economic Community of West African States (nota con l’acronimo Ecowas) si dovevano riunire giovedì per parlare della decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione presa a fine gennaio dalle giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso. Invece si sono ritrovati a parlare di una situazione complessa (che però ha avuto diversi precedenti nella storia di Ecowas): il Senegal sta piombando nel caos, perché il suo presidente, Macky Sall, ha deciso di posporre al 15 dicembre le elezioni – che erano programmate per domenica 25 febbraio. Dakar è piombata nel caos, proteste di piazza sotto slogan tipo “Sall è un dittatore”, scontro con le forze di sicurezza che hanno usato le maniere forti e procurato alcune vittime — “scontri provocati dall’arresto ingiustificato del processo elettorale”, che fanno “sanguinare il cuore di ogni democratico”, per dirla come il sindaco della capitale senegalese.

Bola Tinubu, presidente nigeriano che guida Ecowas, doveva recarsi personalmente a palare con Sall, ma le condizioni di sicurezza l’hanno portato a evitare il viaggio, dato che qualsiasi cosa di negativo gli fosse successo avrebbe avuto una eco complessa. L’organizzazione soffre una fase di criticità profonda: per dire, ha invitato il Senegal a “ripristinare urgentemente il calendario elettorale”, ma il blocco è consapevole che la sua influenza è praticamente inesistente. A maggior ragione in un momento in cui tre nazioni guidate da governi militari stanno già sfidando le sue richieste. Ora l’opaca situazione in Senegal la mette ancora più in difficoltà, dato che Dakar è considerata un bastione democratico — senza un golpe o un tentativo di alterazione del processo istituzionale dalla nascita della democrazia, nel 1960.

Nelle ore in cui questa analisi viene scritta, il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato il rinvio delle elezioni presidenziali di questo mese, “una decisione storica che apre un campo di incertezza per la nazione tradizionalmente stabile dell’Africa occidentale”, spiega Fabio Carminati su Avvenire. Resta che la posposizione è stata votata da un parlamento assediato dalle forze di sicurezza lealiste, che hanno anche arrestato parlamentari di opposizione. Attenzione: il Consiglio di fatto ha dichiarato “impossibile organizzare le elezioni presidenziali nella data inizialmente prevista”, ma ha invitato “le autorità competenti a tenerle il prima possibile” – ossia non accetta il 15 dicembre, ma è “impossibile” votare il domenica 25 febbraio.

Cosa farà il presidente? Sall cercava un terzo mandato, e senza la possibilità di guidare il Paese ha cercato di spianare la strada a una sua successione a suon di repressione (i suoi oppositori sono stati in più occasioni arrestati nei mesi scorsi con accuse di insurrezione o pretestuose). Secondo i critici, arrivato a ridosso del voto ha percepito che il suo candidato (il primo ministro in carica) non avrebbe avuto una vittoria sicura, e allora ha spostato le elezioni per prendere tempo e aver dieci mesi in più di governo e campagna elettorale — forse addirittura sostituire il candidato.

Le critiche scoppiate per lo slittamento del voto sono frutto di un risentimento già esistente: Salò ha prodotto politiche che molti giovani senegalesi non hanno visto come efficaci nel fornire loro posti di lavoro, e molti hanno cercato rotte di migrazione irregolare verso l’Europa. Il Senegal ha problemi di istruzione, povertà e capitale umano, ed è considerato solo leggermente meglio dei Paesi guidati da giunte militari nel Sahel (e lì le condizioni sono pessime e prive di sbocchi). Sall nega ogni accusa, rivendica una scelta costituzionalmente corretta. Ma la sua mossa non ha solo messo nel caos il Paese, piuttosto ha ulteriormente danneggiato l’immagine dell’organizzazione che si dovrebbe occupare della stabilità in quella articolata regione — i cui effetti si allargano facilmente verso l’Europa in termini di sicurezza (dal terrorismo alle migrazioni, fino ad arrivare agli equilibri con attori rivali e competitivi come la Russia). 

Per dire, quando la scorsa estate il Niger è stato oggetto di un colpo di Stato, Ecowas aveva minacciato un intervento militare che Nigeria e Senegal avrebbero dovuto guidare. Nel frattempo, dopo che Ecowas ha fallito nell’attività di deterrenza e Niamey è rimasta in mano ai golpisti, Niger e Burkina Faso hanno comunicato non solo di abbandonare la Comunità, ma anche la West African Economic and Monetary Union (basata sul franco francese) e stanno pensando a una confederazione alternativa con il Mali.

6134.- Guardiamo al difficile cammino di ItaliAfrica, il nuovo Piano Mattei. La sicurezza.

Se di una cosa siamo certi è che il Nuovo Piano Mattei dovrà essere costruito, insieme, dagli imprenditori e dagli istituti finanziari dell’Europa e dell’Africa. Come viaggiare oggi nel Sahel diventa, perciò, importante. Ci affidiamo alla Helpline DFAE, Dipartimento federale degli affari esteri, uno dei sette Dipartimenti federali del governo svizzero. Partiamo con i piedi per terra dal Mali perché è il paese più grande dell’Africa occidentale ma è anche uno dei cinque paesi più poveri al mondo. Poi, vedremo Niger e Chad. Il Mali è sia il maggior produttore di cotone al mondo sia quello con il tasso di alfabetizzazione più basso: 32%.

Anche se il Mali non rientra nella classifica della Farnesina per i paesi con un rischio “estremo” per la sicurezza, i consigli di viaggio sono importanti e poggiano su un’analisi della situazione attuale effettuata dal DFAE. La Helpline DFAE funge da interlocutore per rispondere alle domande riguardanti i servizi consolari. Sono permanentemente controllati e se necessario aggiornati sia i Consigli sia anche le Raccomandazioni generali. Importanti inoltre i ragguagli sulle prescrizioni doganali per l’importazione o l’esportazione di animali o di merci: apparecchi elettronici, souvenir, medicamenti, ecc.

Valutazione sommaria

Si sconsigliano i viaggi a destinazione del Mali come pure i soggiorni di qualsiasi tipo. I rischi per la sicurezza portati non solo dal terrorismo sono elevati e il rischio di sequestro è molto alto in tutto il territorio.

Ci sono persone di cittadinanza svizzera che rimangono o si recano nel Mali nonostante la raccomandazione del DFAE, devono essere consapevoli che la Svizzera ha soltanto possibilità molto limitate di fornire assistenza o non ne dispone affatto in caso di emergenza.

In agosto 2020, unità dell’esercito hanno destituito il governo maliano e sciolto il parlamento. Alla fine di maggio 2021, un altro colpo di Stato ha avuto luogo e un governo di transizione è stato installato.

In tutto il Paese esistono elevati rischi per la sicurezza. Gli attacchi terroristici si verificano regolarmente e il rischio di sequestro è molto elevato. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (MINUSMA) ha terminato il suo mandato il 31 dicembre e ha ritirato precipitosamente il suo personale dal Mali, abbandonando molto materiale.
Un ulteriore inasprimento della situazione di sicurezza è probabile.

La situazione politica rimane instabile e si verificano regolarmente scioperi e manifestazioni contro gli interessi stranieri. I principali collegamenti stradali possono essere bloccati e veicoli possono essere colpiti da pietre. In questi scontri si registrano regolarmente morti e feriti. 

Conflitti tra diversi gruppi della popolazione provocano regolarmente vittime.

Gruppi islamisti e altri gruppi armati controllano ampie zone del nord, del nord-est e del centro del Paese e si espandono verso sud. In tutto il Paese si verificano scontri armati tra le forze di sicurezza e questi gruppi, e si sferrano attacchi alle strutture militari e di polizia. Il numero di dispositivi esplosivi improvvisati lungo i principali assi stradali è aumentato.

Atti di violenza da parte di gruppi terroristici e criminali causano molti morti e feriti tra i civili. Tra i possibili obiettivi di un attacco terroristico vi sono impianti governativi, turistici o istituzioni straniere, assembramenti, come ad esempio mercati affollati, centri commerciali, mezzi di trasporto pubblici, scuole, manifestazioni culturali, alberghi internazionali e ristoranti rinomati. Vengono attaccati anche interi villaggi.

Il rischio di sequestro è molto alto in tutto il Paese. In molte regioni del Sahara e del Sahel sono operative bande armate e terroristi islamici che vivono di contrabbando e di sequestri. Sono perfettamente organizzati, operano anche al di là dei confini nazionali e hanno contatti con gruppi criminali locali. Dal novembre 2009, diverse persone straniere sono state sequestrate nelle zone del Sahel, in parte nelle città. Si trattava di persone in viaggio per turismo, personale di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, aziende straniere, nonché di persone appartenenti a istituzioni religiose. Le situazioni di pericolo sono spesso imprevedibili e confuse e possono mutare rapidamente. L’ultimo attacco jihadista in Mali risale alla metà di giugno 2022, ma furono 132 le vittime uccise a Mopti, nel Centro del Paese.

SEGUE: L’Intelligence e l’immigrazione

6139.- Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso

Da Bruxelles soltanto delusioni

Chi lo dice al presidente Meloni, tornata molto soddisfatta del lavoro che è stato fatto dal Consiglio europeo, che il Nuovo Piano Mattei è sta andando a ramengo? Quanto potrà e quanto reggerà l’Italia nel Sahel dopo la rottura di Niger, Mali e Burkina Faso con Parigi e Bruxelles? Giorgia Meloni e l’amico Rishi Sunak sono entrambi soci della potente associazione Fabian Society, cosa ne pensano della cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati dalla giunta militare del Niger con l’Unione Europea, diretti a “combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare” e, poi, come affronteranno il rafforzamento della presenza militare della Federazione Russa in questi paesi? E la Cina? Non è più questione di una staffetta fra la Francia e l’Italia. Nemmeno di assecondare la politica di Washington per averne un appoggio per la nostra – illuminata politica – in Africa. L’Italia è la porta dell’Africa per l’Europa, ma troppo spesso viene a trovarsi in difficoltà per i giochi, inconcludenti, condotti a Bruxelles. Non ci risulta che questi temi siano stati presenti nell’agenda del Consiglio europeo.

Mario Donnini

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre, 14 dicembre 2023

Il Niger sceglie Mosca e Pechino e rafforza l’alleanza con Mali e Burkina Faso

Pagine Esteri, 14 dicembre 2023 – Niger, Mali e Burkina Faso, i paesi del Sahel dove negli ultimi tre anni si sono imposte altrettante giunte militari grazie a colpi di stato, sembrano avviati sulla via di una collaborazione sempre più stretta.
Nei mesi scorsi, infatti, i governi militari di Niamey, Bamako e Ouagadougou hanno già firmato un accordo di cooperazione militare dopo aver espulso le truppe francesi da anni presenti sul loro territorio, indebolendo fortemente l’influenza di Parigi nell’area.

L’Alleanza degli Stati del Sahel si rafforza
Il 16 settembre i leader di Mali, Niger e Burkina Faso avevano ufficializzato la nascita dell’Alleanza degli Stati del Sahel (Aes), un’iniziativa di natura diplomatica e militare diretta a «garantire l’indipendenza dei tre paesi nei confronti degli organismi regionali e internazionali».
Se all’inizio l’Aes è nata come un patto di difesa comune, diretta a unire le rispettive risorse militari per combattere i gruppi ribelli e jihadisti attivi nel Sahel – per contrastare i quali i governi precedenti avevano chiesto in passato l’intervento delle truppe francesi e dell’Onu – sembra che ora le tre giunte golpiste puntino ad allargare la cooperazione anche ad altri campi.

Recentemente i rappresentanti dei tre paesi si sono nuovamente incontrati a Bamako e al termine della riunione hanno annunciato la firma di protocolli aggiuntivi, l’istituzione di organismi istituzionali e giuridici dell’Alleanza e la «definizione delle misure politiche e del coordinamento diplomatico». I tre governi hanno affermato di voler rafforzare gli scambi commerciali, realizzare insieme progetti energetici e industriali, creare una banca di investimenti e persino una compagnia aerea comune.

Il colonnello Yevkurov firma accordi in Niger

Il Niger diventa una potenza petrolifera
Nei giorni scorsi, poi, il generale golpista Omar Abdourahamane Tchiani, salito al potere lo scorso 26 luglio, ha annunciato l’intenzione di avviare con gli altri due paesi una collaborazione di tipo anche politico e monetario. Tchiani ne ha parlato nel corso di un’intervista rilasciata all’emittente nigerina “Rts”, affermando che «oltre al campo della sicurezza, la nostra alleanza deve evolversi nel campo politico e in quello monetario».

Nell’intervista Tchiani ha informato che Niamey intende esportare già a gennaio i primi barili di greggio sfruttando il nuovo oleodotto che collegherà il giacimento nigerino di Agadem al porto di Seme, in Benin. La realizzazione dell’oleodotto, lungo 2000 km e con una capacità di 90 mila barili al giorno, è ormai in fase conclusiva ed è stata avviata a novembre grazie ai finanziamenti di PetroChina. L’infrastruttura permetterà al Niger di diventare una piccola potenza petrolifera aggirando almeno in parte le sanzioni imposte al paese dopo la deposizione del governo filoccidentale. Secondo il capo del settore della raffinazione del petrolio, la produzione petrolifera potrebbe generare un «quarto del Prodotto interno lordo del Paese». La Cnpc, un’impresa di proprietà del governo cinese, è inoltre impegnata nello sfruttamento del bacino del Rift di Agadem e nella costruzione del gasdotto Niger-Benin sostenuto con un investimento da 6 miliardi di dollari.

Che l’avvio della cooperazione monetaria vada in porto o meno, i tre paesi sembrano intenzionati a rompere del tutto i legami con la Cedeao – la Comunità Economica dei Paesi dell’Africa occidentale – che dopo i colpi di stato ha sospeso Bamako, Ouagadougou e Niamey dall’alleanza alla quale fino ad un certo punto Parigi chiedeva di intervenire militarmente per ripristinare i governi estromessi prima di decidere il ritiro delle proprie missioni militari dal Niger chiesta a gran voce dai golpisti.

L’annuncio del generale Tchiani è giunto dopo che domenica scorsa i leader dell’organismo regionale hanno deciso di confermare le sanzioni alla giunta golpista del Niger, che si è rifiutata di rilasciare il presidente deposto Mohamed Bazoum in cambio della loro revoca.

La rottura con Parigi e Bruxelles
Sempre la scorsa settimana i governi di Mali e Niger avevano denunciato, tramite un comunicato stampa congiunto, le convenzioni firmate con la Francia dai governi precedenti miranti al superamento della doppia imposizione fiscale e che disciplinano le norme per la tassazione dei redditi e per le successioni. La decisione di abolire le convenzioni in questione entro tre mesi – afferma la nota – risponde al «persistente atteggiamento ostile della Francia» e al «carattere squilibrato» degli accordi in questione che causano «un notevole deficit per il Mali e il Niger». Se effettivamente attuata, la misura avrà serie ripercussioni sia per i privati che per le imprese domiciliate in Francia e che svolgono attività in Mali e in Niger e viceversa.
Nelle settimane scorse, inoltre, la giunta militare del Niger ha già annunciato la cancellazione degli accordi di difesa e sicurezza siglati con l’Unione Europea, diretti a «combattere il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione irregolare».

Già a fine novembre i golpisti avevano abrogato una legge, precedentemente concordata con la Francia e l’Unione Europea, che puniva il «traffico illecito di migranti» e bloccava il loro transito verso la Libia, spiegando che la decisione risponde alla necessità di una «decolonizzazione dall’occidente».

In un comunicato, lo scorso 4 dicembre il ministro degli Esteri di Niamey ha annunciato di voler revocare anche l’accordo stipulato con l’Ue relativo alla missione civile europea denominata Eucap Sahel Niger, attiva dal 2012 e che attualmente conta su 130 gendarmi e agenti di polizia europei, impegnati finora nell’addestramento dei militari nigerini.

Inoltre la giunta nigerina ha comunicato di aver ritirato il consenso al dispiegamento della “Missione di partenariato militare dell’Ue in Niger” (Eumpm), attualmente a guida italiana. Entro la fine di dicembre, inoltre, si concluderà il ritiro dei circa 1500 militari francesi schierati finora nel paese; secondo quanto riferito da fonti militari francesi citate dall’emittente “Rfi”, rimane da evacuare soltanto la base aérea di Niamey, dove restano circa 400 uomini. In Niger per ora rimangono 1100 militari statunitensi e 250 soldati italiani.

Manifestanti filorussi in Niger

Sempre più vicini a Mosca
Nello stesso giorno dell’annuncio sulla fine della cooperazione con l’UE, a Niamey era giunto in visita il viceministro della Difesa della Federazione Russa, il colonnello Junus-bek Yevkurov, che dopo aver fatto tappa prima in Mali, in Burkina Faso e poi in Libia è stato ricevuto dal generale Tchiani e dal Ministro della Difesa del Niger Salifou Modi con i quali ha siglato un accordo che prevede il rafforzamento della cooperazione militare fra i due paesi.

A Bamako la delegazione russa è stata ricevuta dal capo del “governo di transizione maliano”, il colonnello Assimi Goita. Al termine dei colloqui il ministro dell’Economia e delle Finanze del paese africano, Alousseni Sanou, ha riferito che con i russi si è parlato della costruzione di una rete ferroviaria, di uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto nelle miniere maliane e di un accordo per la realizzazione di una centrale nucleare. La realizzazione di una centrale nucleare in Burkina Faso è stata invece al centro dei colloqui tra i rappresentanti di Mosca e la giunta di Ouagadougou.

Basta alle missioni Onu
Come se non bastasse, il 2 dicembre il Niger e il Burkina Faso hanno annunciato il proprio ritiro dal gruppo “G5 Sahel”, creato nel 2014 grazie ai finanziamenti dell’Unione Europea per coordinare la lotta contro il terrorismo jihadista. L’anno scorso era stato il Mali ad abbandonare il progetto che coinvolge ora soltanto la Mauritania e il Ciad che però hanno già informato di voler sciogliere il coordinamento ormai privo di senso.

La giunta militare di Bamako, al potere dal 2021, ha invece deciso recentemente di mettere fine a dieci anni di presenza in Mali della Missione militare dell’Onudenominata Minusma, avviata nel 2012 per contrastare l’insurrezione jihadista. L’11 dicembre i vertici della missione internazionale, nel corso di una mesta cerimonia, hanno ammainato la bandiera delle Nazioni Unite dal quartier generale delle truppe dell’Onu. Il ritiro del contingente internazionale dalle 12 basi sparse per il Mali, che ospitavano 12 mila caschi blu e 4300 dipendenti civili, dovrebbe concludersi entro il 31 dicembre proprio mentre le milizie jihadiste intensificano gli attacchi contro l’esercito e conquistano nuovi territori.

I jihadisti avanzano nonostante la Wagner
A fine agosto i miliziano dei “Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani” (Jnim) hanno occupato Timbuctù, infliggendo un duro colpo alle forze fedeli alla giunta militare maliana che, nel tentativo di contrastare l’offensiva jihadista, ha stretto un accordo con le milizie mercenarie russe della Wagner. La decisione ha però scatenato le proteste dei movimenti tuareg che in molte aree costituiscono l’unico baluardo efficace contro i combattenti fondamentalisti. In alcuni territori le milizie tuareg indipendentiste, riunite nel “Coordinamento dei movimenti dell’Azawad”, hanno ingaggiato violenti scontri con l’esercito regolare e i paramilitari della Wagner, che recentemente avrebbe iniziato ad operare utilizzando la denominazione di “Africa Corps”. Secondo molti analisti la compagnia mercenaria, dopo la morte dei suoi vertici in un “incidente aereo” nell’agosto scorso, sarebbe meno autonoma dal governo di Mosca rispetto alla Wagner e dovrebbe limitare le proprie attività proprio al continente africano in stretta sintonia con le esigenze politiche ed economiche del Cremlino. Pagine Esteri

6127.- Il Niger “caccia” la UE, disfatta europea nel Sahel

Con l’Ue, strada in salita per il Nuovo Piano Mattei e si fa avanti la Russia. Per nostra scelta o no, da 108 anni, stiamo sempre con l’alleato o contro il nemico sbagliato; ma, da soli, dove andiamo? L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa avrà soddisfatto gli interessi americani, ma non i nostri. Abbiamo visto sventolare le bandiere russe nel Niger. La politica della solidarietà attiva nel Magreb, nel Sahel e in Libia può confrontarsi con le ambizioni di Mosca e di Ankara? Certamente, direi.

Mali, Burkina Faso e Niger hanno dato vita all’”Alleanza degli Stati del Sahel”, la NATO africana. Fino a che le basi USA e italiana in Niger resteranno, sarà importante chiarire i nostri obiettivi nel Sahel. Vedremmo bene un summit a Roma con il leader della giunta nigerina, il generale Abdourahamane Tian, con il leader del Burkina Faso, Capitano Ibrahim Traoré, con il presidente del Mali, colonnello Assimi Goita e sarebbe utile la presenza dei leader della Mauritania, generale Mohamed Ould Ghazouani e del Ciad, presidente Mahamat Idriss Déby Itno. Dopodiché la parola dovrebbe passare agli imprenditori e agli istituti finanziari.

Di seguito, da La Nuova Bussola Quotidiana, l’articolo di Gianandrea Gaiani di oggi 11 dicembre 2023

Dopo aver cacciato le truppe francesi, la giunta militare di Niamey chiude le due missioni militari europee e segue l’esempio di Burkina Faso e Mali. E il posto dell’Europa viene preso dalla Russia.

Sostenitori della giunta golpista in Niger issano una bandiera russa dopo il golpe

Il Sahel continua a staccarsi progressivamente dall’Europa. Dopo aver cacciato le truppe francesi, il 5 dicembre la giunta militare – al potere in Niger dallo scorso luglio – ha annunciato la fine delle due missioni dell’Unione Europea per la sicurezza e la difesa. Il ministero degli Esteri nigerino ha infatti denunciato l’accordo siglato da Niamey con l’Ue riguardante la missione EUCAP Sahel Niger, attiva dal 2012 e ha ritirato «il consenso concesso per il dispiegamento di una missione di partenariato militare dell’Ue in Niger (EUMPM)», varata nel febbraio scorso dal governo guidato dal presidente Mohamed Bazoum deposto dai militari.
Entrambe le missioni avevano il compito di sostenere le forze militari e di sicurezza nigerine nella lotta contro l’insurrezione jihadista.

Il Niger, come anche Burkina Faso e Mali, continua così il processo di emancipazione dall’Occidente anche in termini di difesa e sicurezza avviato con la cacciata dell’ambasciatore e delle forze militari francesi che dovrebbe completarsi nelle prime settimane del 2024 ma, ad aggiungere al danno la beffa, l’annuncio della cacciata delle missioni europee è stato reso noto lo stesso giorno in cui a Niamey è giunta in visita una delegazione russa, guidata dal vice ministro della Difesa, Yunus-Bek Yevkurov.

Uno “schiaffo” all’Europa anche perché si tratta della prima visita ufficiale di un esponente del governo russo in Niger dal golpe del 26 luglio scorso e Mosca non ha neppure un’ambasciata a Niamey. Il vice ministro della Difesa russo è stato ricevuto dal leader della giunta, il generale Abdourahamane Tian e al termine dell’incontro le due parti hanno firmato dei documenti «nell’ambito del rafforzamento» della cooperazione militare, stando a quanto riferito dalle autorità nigerine.

A completare la debacle francese ed europea nel Sahel, il 2 dicembre Niger e Burkina Faso hanno proclamato il ritiro anche dalla forza congiunta G5 Sahel, creata nel 2014 per migliorare il coordinamento tra le diverse nazioni della regione nella lotta contro il terrorismo e finanziata dall’Ue, da cui si era già ritirato il Mali.
Gli altri due membri del G5 Sahel, Mauritania e Ciad, hanno preso atto della situazione decretando lo scioglimento dell’organizzazione G5 Sahel che avrebbe dovuto rafforzare il ruolo europeo nella regione destabilizzata nel 2011 dalla disastrosa guerra dell’Occidente contro la Libia di Muammar Gheddafi.

L’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell,ha espresso rammarico per la decisione presa dalla giunta militare del Niger, sebbene l’Unione europea aveva immediatamente sospeso ogni cooperazione in materia di sicurezza e difesa col Niger in seguito al colpo di Stato di luglio. Una decisione che ha posto le basi per la cacciata dalla nazione africana, con i francesi, anche della Ue che non è riuscita negli ultimi quattro mesi ad aprire negoziati concreti con la giunta nigerina per impedire l’uscita di Niamey dagli accordi di cooperazione, compromettendo così il ruolo dell’Europa in questa regione strategica per i nostri interessi. L’intransigenza di Bruxelles nei confronti della giunta militare aveva già visto in novembre il Niger revocare gli inasprimenti di pena approvati nel 2015 per punire il traffico di esseri umani i cui flussi sono diretti in Libia e poi in Italia.

Il disastroso insuccesso europeo coincide con l’ennesimo successo russo in Africa. L’accordo di cooperazione militare firmato in Niger è quindi anche una diretta conseguenza delle iniziative europee e va inserito negli accordi di cooperazione militare ed economica che Mosca ha già stretto con le giunte di Mali e Burkina Faso (nazioni alleate del Niger nell’Alleanza degli Stati del Sahel). Le truppe e soprattutto i contractors russi (della PMC Wagner o di altre compagnie militari private) stanno fornendo un solido contributo alle forze del Mali nella riconquista dei territori caduti in mano ai ribelli Tuareg e alle milizie jihadiste.

Yevkurov è giunto a Niamey nell’ambito della ennesima missione in Africa, inclusa la Cirenaica libica (dove il 2 dicembre ha messo a punto il rinnovo degli accordi di cooperazione militare con il feldmaresciallo Khalifa Haftar), cosa che  evidenzia la meticolosa attenzione con cui Mosca rimarca il suo crescente impegno in Africa, politico, militare ed economico.
Si è trattato del terzo incontro in pochi mesi tra il vice ministro russo e Haftar. A fine settembre Haftar era poi stato a Mosca, dove era stato ricevuto dal presidente russo Vladimir Putin e dal ministro della Difesa, Sergei Shoigu. Stando a quento riferito dal comando delle forze di Haftar, sabato scorso i colloqui sono stati incentrati sulle «modalità di cooperazione congiunta tra Libia e Russia».

Dopo Bengasi, la delegazione russa è volata a Bamako, dove è stata ricevuta dal presidente del governo di transizione maliano, il colonnello Assimi Goita, per colloqui «sulle opportunità per rafforzare la cooperazione». Al termine dell’incontro, il ministro dell’Economia e delle Finanze del Mali, Alousseni Sanou, ha precisato che le discussioni hanno riguardato non solo il settore della sicurezza, ma anche quelli dell’energia e delle infrastrutture.
In un video diffuso dalla presidenza, Sanou ha riferito di colloqui sulla costruzione di una rete ferroviaria e per la creazione di una compagnia aerea regionale oltre a uno stabilimento per la lavorazione dell’oro estratto dalle miniere maliane e un memorandum per realizzare una centrale nucleare
Dopo il Mali, il vice ministro russo si è recato in Burkina Faso, paese con cui sono in valutazione investimenti non solo di tipo militare ma anche economico che comprendono anche a Ouagadougou il progetto di realizzare una centrale nucleare.

La disfatta franco-europea nel Sahel appare quindi senza precedenti anche se restano incognite circa il futuro della presenza militare di USA (1.100 militari in  due basi a Niamey e Agadez) e Italia (250 militari a Niamey) che la giunta non ha finora annunciato di voler espellere.

Tenendo conto delle difficoltà con cui l’Italia è riuscita e schierare una missione di consulenza e addestramento militare in Niger vincendo la resistenza francese e alla luce degli interessi di Roma a cooperare con una nazione di rilevante peso nei flussi migratori illegali, Roma avrebbe tutto l’interesse a dare concretezza proprio in Niger alle tante parole spese sul “Piano Mattei” negoziando con la giunta di Niamey un accordo che permetta la continuazione della missione MISIN.
Gli interessi nazionali impongono oggi all’Italia di affermare un proprio ruolo in Africa e nel Mediterraneo smarcandosi da partner ingombranti ormai detestati in Africa e da un’Unione Europea le cui politiche si sono rivelate anche in Africa velleitarie, fallimentari e inaffidabili.

6042.- MALI. L’ONU fugge dal Paese abbandonando mezzi e attrezzature per milioni di dollari

L’ONU è totalmente incapace. MINUSMA in Mali, come MINUSCA nella Repubblica Centrafricana, si sono rivelate missioni di pace solo di nome, incapaci di fatto di garantire la sicurezza e qualunque protezione ai civili. Così, mentre le milizie armate ex anti-Balaka e Seleka uccidono la gente, i soldati ONU, anche se vicini, semplicemente non intervengono. Invece, appena possibile, si dedicano agli stupri e ai traffici con i trafficanti delle ricchezze naturali di questi paesi ricchissimi e altrettanto poveri. Le milizie affiliate allo Stato Islamico del Grande Sahara hanno gioco facile nell’espandere la loro influenza nel Sahel, conquistando territori nel nord-est del Mali per puntare, poi, al Niger e al Burkina Faso. C’è chi dice che la predazione che questi paesi vanno subendo fa rimpiangere l’era coloniale. Tempi difficili per l’Italia e per il suo Nuovo Piano Mattei.

Il tritacarne del Centrafrica, tra gruppi armati e missioni Onu inefficaci   

La missione United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali, MINUSMA, è stata decisa con la Risoluzione 2100 del 25 aprile 2013 dal Consiglio di Sicurezza per sostenere il processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione del Mali. La risoluzione 2364 del 2017 ha esteso la missione fino al 30 giugno 2018.

Il Consiglio ha deciso che la missione si dedicasse a garantire la sicurezza, la stabilizzazione e la protezione dei civili; a sostenere il dialogo politico e la riconciliazione nazionale; ad assistere il ristabilimento dell’autorità statale, la ricostruzione del settore della sicurezza, e la promozione e protezione dei diritti umani nel paese.

Dal 25 aprile 2013, MINUSMA è subentrata alla missione Africana di supporto al Mali (AFISMA).

MINUSMA ha una forza militare autorizzata di oltre 13.000 uomini di 57 Paesi. La compongono osservatori militari, funzionari di staff e il personale schierato nelle principali citta’ maliane tra cui Kidal, Gao, Tomboctu, Mopti.

Articolo di redazione Pagine Esteri, del 3 novembre 2023.

MALI. L’ONU fugge dal Paese abbandonando mezzi e attrezzature per milioni di dollari

La missione delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA) avrebbe dovuto lasciare la base di KIDAL, nel nord del Paese, a metà novembre.

A giugno la giunta militare al potere in Mali ha ordinato ai rappresentanti ONU di lasciare il prima possibile il Paese. In questi mesi i combattimenti e gli scontri tra i ribelli e le forze governative che si contendono il controllo si sono moltiplicati e sono diventati più violenti.

Alla notizia che le truppe ribelli si stavano avvicinando alla base di KIDAL, il personale ONU si è preparato a lasciare in fretta e furia il Paese, abbandonando tutta l’attrezzatura presente e distruggendo il materiale e gli oggetti “sensibili” che i ribelli avrebbero potuto utilizzare per propri fini. Secondo il portavoce della MINUSMA, nella fuga sono andati perduti milioni di dollari di materiale ONU, finiti nelle mani dei ribelli che hanno preso il controllo della base.

Convogli e personale ONU sono stati bersaglio, in questi mesi, di ripetuti attacchi e attentati.

5911.- La guerriglia dei Tuareg nel Mali

Sembrava che la firma del nuovo quadro strategico permanente per la Pace, la sicurezza e lo sviluppo (Csp-Psd), avrebbe costituito un passo avanti verso la pace nel nord del mali, dando cosi seguito agli impegni presi con la firma dell’Accordo di Principio di Roma, sancito nel febbraio 2022 con la mediazione di Ara Pacis Iniatiatives for Peace“. Ara Pacis Initiatives for Peace è un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro con sede a Roma dedicata alla dimensione umana della Pace. Non si esclude che la nascita di quella che è stata chiamata la NATO africana o del Sahel, fra Niger, Mali e Burkina Faso, abbia riacceso le dispute.

Quattro giorni or sono, un comunicato diffuso sui social network, autenticato da un portavoce degli ex ribelli all’agenzia France Presse, aveva dichiarato di essere in “tempo di guerra” con la giunta golpista al potere a Bamako e invitato “tutti gli abitanti di Azawad a scendere in campo per contribuire allo sforzo bellico”. Gli ex ribelli, si riconoscono nel Coordinamento dei movimenti Azawad(Cma), un’alleanza composta principalmente da gruppi tuareg.

Aree dove vivono i Tuareg

È dal 2012 che i tuareg rivendicano questi territori del Nord del Mali. I ribelli tuareg del Coordinamento dei Movimenti Azawad, hanno combattuto lo Stato centrale prima di firmare un accordo di pace nel 2015, rivendicando l’indipendenza di quel territorio. Gli scontri si moltiplicano e da mesi le tensioni tra la Cma e la giunta militare continuano a crescere, facendo temere la fine del cosiddetto accordo di pace di Algeri e la ripresa delle ostilità iniziate nel 2012. “La situazione della sicurezza ha portato a una crisi umanitaria senza precedenti e non sono garantite la sicurezza delle persone e dei loro beni che sono stati vittime della barbarie senza precedenti delle forze del male“.

mali tensione tuareg guerra 
Soldati in Mali

L’escalation di attacchi armati nella regione aveva spinto le autorità di Timbuctù, nel nord del Paese, a dichiarare un coprifuoco notturno (dalle 20 alle 6 del mattino), come misura di sicurezza

Bamako, 18 Settembre 2023. Da Agenzia Nova – Riproduzione riservata

I combattenti Tuareg si sono ritirati dalla città di Leré, nel Mali centrale..

I combattenti del Quadro strategico permanente (Csp), l’alleanza tuareg maliana in guerra con le Forze armate maliane (Fama), si sono ritirati dalla città di Leré, nel Mali centrale, dopo averne preso il controllo per alcune ore. Lo riferiscono fonti vicine ai tuareg citate dall’emittente “Rfi”, secondo cui il ritiro è avvenuto tra le 2 e le 3 di questa mattina allo scopo di evitare possibili bombardamenti da parte dell’esercito maliano.

Il ritiro dei combattenti del Csp dalla città di Leré è confermato da diverse fonti civili locali. Nessuna conferma è per ora giunta né dal Csp né dall’esercito maliano. Ieri pomeriggio la coalizione di gruppi armati dell’Azawad (la regione settentrionale del Mali, rivendicata dai tuareg) ha attaccato Leré, situata nella regione di Timbuctu, e ha preso il controllo dell’accampamento militare della città dopo due ore di combattimento, rivendicando anche l’abbattimento di un aereo dell’aeronautica maliana. Lo scorso 12 settembre i tuareg hanno strappato alle Forze armate maliane (Fama) il controllo di Bourem, città dove le Forze armate maliane sono affiancate dai contractor russi del gruppo paramilitare Wagner.

La località è situata fra Gao e Timbuctu e ritenuta strategica perché all’intersezione di strade che portano – oltre che verso la capitale Bamako – da un lato verso il Niger, dall’altro all’Algeria. L’esercito ha tuttavia annunciato solo poche ore dopo di aver ripreso il controllo della città grazie all’intervento aereo dell’aeronautica maliana. In una dichiarazione, lo Stato maggiore delle Fama ha rivendicato l’uccisione di 46 combattenti tuareg e ha ammesso l’uccisione di dieci suoi militari nella battaglia per il controllo di Bourem. Il Cma, da parte sua, ha dichiarato di aver perso nove combattenti e di aver ucciso 97 soldati maliani, oltre ad aver requisito veicoli, armi e munizioni.

Poco prima dell’offensiva su Bourem, lo stesso Cma aveva dichiarato in un comunicato di essere ormai “in tempo di guerra” con la giunta militare al potere a Bamako. In un comunicato diffuso sui social nella tarda serata di lunedì 11 settembre, il Cma aveva inoltre esortato “tutti gli abitanti dell’Azawad” a “scendere in campo per contribuire allo sforzo bellico con l’obiettivo di difendere e proteggere la patria e riprendere così il controllo dell’intero territorio nazionale azawadiano”. Il Cma aveva quindi invitato i civili a stare lontani dalle posizioni dei “terroristi Fama/Wagner”. Il Cma, a ben vedere, si era guardato bene dal parlare di una dichiarazione di guerra da parte sua, evocando piuttosto una “risposta di legittima difesa” a quella che è stata ritenuta “un’aggressione” dell’esercito nazionale maliano e dei mercenari Wagner. La coalizione tuareg – che dal dicembre scorso è riunita nel Quadro strategico permanente per la pace, la sicurezza e lo sviluppo (Csp-Psd), nata con il dichiarato obiettivo di difendere il territorio dell’Azawad dalla crescente minaccia jihadista – è impegnata da tempo nel contrasto ai gruppi affiliati allo Stato islamico e ad al Qaeda che da un anno a questa parte si stanno spartendo le zone del Paese rimaste scoperte dopo il ritiro delle forze internazionali voluto dalla giunta golpista, completato a giugno del 2022.

L’escalation di attacchi armati nella regione aveva spinto le autorità di Timbuctù, nel nord del Mali, a dichiarare un coprifuoco notturno (dalle 20 alle 6 del mattino), come misura di sicurezza. Rivolgendosi ai media locali, il governatore della città, Bakoun Kanté, aveva precisato che la misura resterà in vigore per un mese – fino al 9 ottobre – su tutta la regione omonima e potrà essere rinnovata. La decisione segue quella, analoga, annunciata in precedenza dalle autorità della regione centrale di Gao: qui, oltre al coprifuoco notturno, il governatore militare Moussa Traoré ha vietato la circolazione nella zona di veicoli Land Cruiser, di frequente usati dai jihadisti per effettuare sanguinosi attacchi armati. Timbuctù è stata conquistata dai jihadisti del Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim) – affiliato ad al Qaeda – a fine agosto, dopo che il comandante dello Jnim per la regione, Talha Abou Hind, ha dichiarato “guerra totale” allo Stato maliano. I miliziani dello Jnim hanno imposto un blocco alla città e hanno di fatto “sequestrato” gli abitanti, vietando inoltre l’ingresso in città – considerata la “perla del deserto” saheliana – ai camion merci provenienti dall’Algeria, dalla Mauritania e dalla regione meridionale maliana di Mema. Nei giorni scorsi, inoltre, due razzi sono stati lanciati verso l’aeroporto della città mentre stava per atterrare un volo della compagnia di bandiera SkyMali.

5892.- Come fare la guerra all’Europa col culo degli altri.

É accertato che, dal 2005 ad oggi, gli Stati Uniti hanno addestrato circa 50 mila militari africani. Leggete e capite perché il Nuovo Piano Mattei deve passare per Washington.

Il Comando Operazioni Speciali degli Stati Uniti in Africa condurrà la sua operazione annuale di addestramento militare, denominata Flintlock 2023 in Ghana e Costa d’Avorio dal 1° al 15 marzo 2023.

Flintlock, è rivolta alle truppe dei paesi africani. L’obiettivo è quello del contenimento della crescente minaccia jihadista nel Sahel e in altre aree del continente e, naturalmente, il rafforzamento del parternariato degli Stati aderenti con il governo di Washington. I militari coinvolti nelle operazioni di addestramento in Ghana e Costa d’Avorio sono circa 1.300 e provengono da 29 paesi. Flintlock rafforzerà la capacità dei principali paesi partner della regione di contrastare le organizzazioni estremiste violente, collaborare oltre confine e garantire sicurezza alla propria popolazione, rispettando i diritti umani e costruendo la fiducia con le popolazioni civili. La forte partecipazione dei partner africani e internazionali riflette un impegno reciproco nel contrastare le attività maligne e l’estremismo violento in tutta la regione del Sahel e dell’Africa occidentale.

Le forze statunitensi hanno storicamente collaborato con il Ghana e la Costa d’Avorio attraverso molteplici scambi di affari militari e civili. L’anno scorso, la Costa d’Avorio ha ospitato Flintlock 2022, con più di 400 partecipanti provenienti da dieci nazioni. L’iterazione di quest’anno mira a continuare a rafforzare la capacità collettiva delle nazioni alleate e partner di affrontare le principali sfide alla sicurezza.

Flintlock – la principale e più grande esercitazione annuale di operazioni speciali dell’U.S. Africa Command – si svolge ogni anno dal 2005 nella regione africana del Sahel tra le nazioni che partecipano al partenariato antiterrorismo trans-sahariano e è pianificata dalle forze per le operazioni speciali dei paesi partner africani, dalle forze speciali Operations Command – Africa e il Dipartimento di Stato americano per sviluppare la capacità e la collaborazione tra le forze di sicurezza africane per proteggere le popolazioni civili.

U.S. Africa Command è uno degli undici comandi combattenti unificati controllati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ed è responsabile per le relazioni e le operazioni militari statunitensi che si svolgono in tutto il continente africano, ad esclusione del solo Egitto, che è di competenza del Central Command.

Ma quale Wagner? Molti militari golpisti africani sono legati agli Stati Uniti che li hanno addestrati.

Da Analisi Difesa, di Giampaolo Cadalanu, 9 Settembre 2023. Foto: truppe africane addestrate da militari statunitensi – US Africa Command

La sequenza di colpi di Stato tentati o portati a termine in questi anni nei paesi dell’Africa subsahariana sembra una conferma dei luoghi comuni sull’instabilità quasi fisiologica del continente. Solo gli analisti più acuti azzardano un’ipotesi meno superficiale: la “fine dei sogni dell’indipendenza” per gli stati post coloniali creati su modello europeo con tanto di welfare. Oggi questi paesi sono del tutto impoveriti, fra interessi privati, pressioni clientelari e privatizzazioni richieste dalle istituzioni finanziarie internazionali e cavalcate senza scrupolo dalle aziende multinazionali già negli anni ’90. Da qui lo spazio per il modello di “ordine” populista proposto dai generali e naturalmente corredato dei sempre efficaci richiami nazionalisti.

Ma al di là del quadro generale, nelle ultime settimane sono spuntati fuori elementi nuovi, con sfumature inquietanti. Forse la narrazione che vede i rivolgimenti politici nati, cresciuti e messi in pratica in modo del tutto spontaneo deve essere rivista. Per aprire la strada al dubbio basta mettere in fila le notizie sul ruolo di altri paesi nell’addestramento dei militari coinvolti, o nella presenza di forze straniere clandestine. Mentre della compagnia militare privata russa Wagner e della sua influenza in Africa si è parlato molto, solo ora filtrano rivelazioni sul coinvolgimento di militari addestrati in Occidente.

Secondo un’indagine di Responsible Statecraft, almeno 15 gli ufficiali addestrati negli Stati Uniti e con stretti rapporti con Washington sono coinvolti nei 12 colpi di Stato in Africa occidentale e nel Sahel dall’inizio dell’intervento statunitense in Africa per combattere le milizie jihadiste nel 2002. Oltre al golpe abortito del Gambia nel 2014, ci sono state quattro diverse occasioni nel Burkina Faso (2014, 2015 e due volte nel 2022), in Ciad (nel 2022), in Guinea Bissau (2021), tre occasioni in Mali (2012, 2020 e 2021), in Mauritania (nel 2008) e nel luglio di quest’anno in Niger. Quest’ultimo rivolgimento ha portato al potere una giunta militare di cui fanno parte almeno cinque ufficiali addestrati negli Stati Uniti. Lo stesso leader dei golpisti Abdourahmane Tchiani ha frequentato la National Defense University dal 2009 al 2010, e così pure il generale Moussa Salaou Barmou, ex comandante delle Forze speciali e ora responsabile della Difesa.

L’ultimo golpe africano, in ordine di tempo, è arrivato a fine agosto in Gabon, dove Ali Bongo Ondimba è stato esautorato da un gruppo di militari guidati da Brice Oligui Nguema. Per ora di questo generale si sa solo che ha frequentato scuole militari in Marocco e Senegal, e i suoi collegamenti con l’Occidente si limitano, secondo la stampa locale, all’acquisto in contanti di proprietà immobiliari per almeno un milione di dollari a Hyattsville e Silver Spring, in Maryland (USA).

La storia dei rapporti fra militari golpisti e Occidente è lunga. Appena nel 2016 una corte del Minnesota ha condannato a lievi pene detentive quattro cittadini americani che due anni prima avevano partecipato al tentativo – fallito – di rovesciare il governo del Gambia. Volevano deporre il presidente Yahya Jammeh per mettere al suo posto Cherno Momodou Njie, un imprenditore immobiliare nato nel paese africano ma emigrato a 25 anni nel Texas. La legge americana denominata Neutrality Act vieta le azioni armate di privati in altri paesi, ma per dirla con il legale che ha difeso gli imputati “se il golpe avesse avuto successo, il governo statunitense li avrebbe considerati eroi”.

L’altra faccia delle guerre. I Neutrality Act furono una serie di leggi approvate dal Congresso degli Stati Uniti negli anni trenta (specificatamente nel 1935, nel 1936, nel 1937 e nel 1939) in risposta alla crescente minaccia e alle guerre che alla fine portarono alla seconda guerra mondiale. Esse vennero stimolate dalla crescita nell’isolazionismo e nel non interventismo negli Stati Uniti successivo alla costosa partecipazione nella prima guerra mondiale e cercarono di assicurare che gli Stati Uniti non si sarebbero di nuovo invischiati in conflitti stranieri.

Ciò non impedì a circa 150 imprese, cooperazioni americane di prendere parte al riarmo tedesco (Henry Ford, GM, Prescott Bush, Fritz Tyssen, Du Pont, ITT, IBM, Standard Oil, alcune delle quali erano società di copertura MEFO istituite dallo stato tedesco) tramite joint venture, accordi di cooperazione e proprietà incrociate con società tedesche e le loro sussidiarie) fornendo alle aziende tedesche di tutto, dalle materie prime alla tecnologia e alla conoscenza dei brevetti. Ad esempio, la DuPont possedeva azioni della IG Farben e della Degussa AG, che controllavano la Degesch, il produttore dello Zyklon B (agente tossico usato nelle camere a gas) e Irénée du Pont, direttrice ed ex presidente di DuPont, era una sostenitrice della teoria razziale nazista e sostenitrice dell’eugenetica. Così, gli USA contribuirono al piano di Hjamar Schacht, l’economista di Hitler, per finanziare il riarmo del Terzo Reich, motorizzando la Wermacht, già allora, in chiave anti sovietica.

A capo dei rivoltosi c’era il tenente colonnello Lamin Sanneh, rimasto ucciso nello scontro: Sanneh aveva ricevuto un addestramento militare nel Regno Unito, all’accademia di Sandhurst, e negli USA, alla National Defense University del Pentagono, per diventare comandante della guardia presidenziale e aver poi lasciato il Gambia per chiedere asilo negli USA e coordinare da lontano l’opposizione a Jammeh. Ad aggiungere spunti di riflessione è il fatto che anche quest’ultimo, l’ “uomo forte” del Gambia, arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1994, era stato addestrato negli Stati Uniti.

Il Dipartimento di Stato statunitense nega ogni coinvolgimento nelle azioni dei golpisti e anzi sostiene – per la verità in modo poco convincente – di non essere in grado di seguire all’estero i militari che hanno frequentato scuole e corsi d’addestramento negli USA. Al sito di giornalismo investigativo The Intercept che chiedeva informazioni sul Niger, un portavoce del Dipartimento di Stato ha dichiarato che il governo americano “non addestra la guardia presidenziale” ma secondo lo stesso sito questa dichiarazione è smentita dagli stessi documenti interni sull’addestramento del personale straniero.

Secondo The Intercept gli Stati Uniti affidano a una vasta costellazione di agenzie, enti e società l’addestramento del personale militare straniero, che accoglie ogni anno oltre 200 mila fra militari e forze dell’ordine di paesi considerati alleati o non ostili. Il training si svolge in almeno 471 sedi di 120 paesi, in tutti i continenti tranne l’Antartide e coinvolge almeno 150 fra agenzie della Difesa, agenzie civili, scuole militari, compagnie militari private (PMC), organizzazioni non governative, oltre alla Guardia nazionale di cinque Stati.

La tentazione di individuare in questo denominatore comune dei diversi golpe una strategia complessiva americana è probabilmente azzardata. Washington vuole coltivare gli ovvi collegamenti con l’élite militare dei paesi coinvolti, affiancata sempre dal “soft power”, cioè da un potere culturale pervasivo. Ed è senz’altro soddisfatta di vedere che i golpe nell’Africa francofona stanno indebolendo l’influenza europea.

Il progressivo tramonto del vecchio continente, lo sfilacciarsi dei legami con le ex colonie e probabilmente anche i problemi per Emmanuel Macron, voce spesso critica sulla conduzione unilaterale della NATO, sono uno scenario sicuramente non sgradito e anche direttamente ricercato dai diversi governi USA. Ma il tramonto dell’egemonia europea sta lasciando sempre più spazio ad altri attori, Russia (anche attraverso la Wagner) e Cina in primis.

A confermare che con tutta probabilità il ruolo americano nell’instabilità africana è legato più alla confusione fra i diversi attori e alla mancanza di una visione geopolitica chiara che a una raffinata regia da remoto basta un severo articolo del New York Times, in prima pagina nell’edizione del 7 settembre, che racconta le difficoltà all’interno del governo Biden nel trattare il colpo di Stato in Niger. L’amministrazione democratica sta facendo i salti mortali per non chiamare “golpe” (coup) la presa di potere da parte dei militari a Niamey con l’estromissione e l’incarcerazione del presidente eletto Mohamed Bazoum. Gli scrupoli formali ricordano quelli di Bill Clinton, che decise di chiamare “atti di genocidio” e non “genocidio” tout court il massacro dei tutsi in Ruanda nel 1994 per evitare l’obbligo di intervenire.

Chiamare un colpo di Stato con il suo nome vorrebbe dire per la Casa Bianca dover interrompere ogni aiuto economico e militare con il paese coinvolto, con conseguenze geopolitiche sgradite, dallo spazio offerto a russi e cinesi alla minor presenza in chiave anti-jihadisti. Ma difficilmente il governo Biden potrà mantenere un atteggiamento di distacco diplomatico, tanto più dopo lo schiaffo subito da Victoria Nuland a Niamey. La sottosegretaria di Stato è arrivata d’urgenza nella capitale nigerina, ma nonostante le insistenze non ha avuto la possibilità di incontrare il capo della giunta militare Tchiani, né il presidente deposto e relegato nella sua residenza Bazoum.

Questa ambiguità nel negare a parole e poi concedere nei fatti l’assistenza ai paesi con un esecutivo golpista è stata segnalata dalla stessa stampa americana per il Mali, governato da Assimi Goïta, militare addestrato in Florida con le Forze Speciali statunitensi, protagonista di due putsch successivi. E vale anche per il Burkina Faso, stravolto da due colpi di Stato nel gennaio e settembre 2022. Nel primo, a prendere il potere fu il tenente colonnello Paul-Henri Damiba, addestrato negli Stati Uniti secondo i portavoce dello US Africa Command (AFRICOM). Gli stessi portavoce hanno preferito ricorrere al silenzio, senza confermare né smentire, sul protagonista del secondo golpe, Ibrahim Traoré, che in passato aveva fatto parte dei peacekeeper dell’ONU nella missione MINUSMA in Mali.

BREAKING: The leader of U.S. military’s Africa Command states our government shares “core values” with military coup leaders. 

These SAME coup leaders were trained by our own Armed Forces! pic.twitter.com/boGYfQ6csb

— Rep. Matt Gaetz (@RepMattGaetz) March 23, 2023

Nel complesso, l’approccio americano verso i militari africani potrebbe essere sintetizzato dalle dichiarazioni del generale Mike Langley, comandante di AFRICOM (a questo link l’audizione completa) che ha rivelato davanti alla Commissione Forze armate della Camera che gli Stati Uniti hanno addestrato circa 50 mila militari africani ammettendo, incalzato dal deputato repubblicano Matt Gaetz (a questo link), la “condivisione di valori fondamentali” con leader golpisti addestrati negli Stati Uniti.

5865.- Gabon. Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli USA

La Francia si auto esclude e ci danneggia

Ex colonia francese, governata dai Bongo dal 1967, il Gabon è un Paese produttore di petrolio, con la Total in prima fila. Tra le sue ricchezze anche il manganese, estratto dal gruppo parigino Eramet. Nel corso degli anni, la Francia ha sostenuto politicamente sia Omar Bongo che il figlio Ali . Il potere era gestito come un affare di famiglia e il malcontento della popolazione non era un mistero. Bongo avrebbe vinto in tre province su nove, quelle orientali, mentre nelle altre sei ha prevalso lo sfidante Albert Ondo Ossa. Per questo era prevedibile ciò che è successo. Un altra ribellione al sistema di potere neocolonialista di Parigi, che per questi popoli che vivono al di sotto della soglia di povertà si confonde con tutta l’Europa. Chi rivolge le sue preoccupazioni al futuro di Ali Bongo fa un favore a Putin.

Il Gabon è legato alle influenze cinesi nell’Africa Centrale e, infatti – cosa rara -, il governo cinese ha chiesto immediatamente ai golpisti di reintegrare Ali Bongo alla presidenza: “La Cina segue da vicino gli ultimi sviluppi in Gabon, invitiamo tutte le parti in Gabon di agire secondo gli interessi fondamentali del Paese e della gente, di risolvere le differenze attraverso il dialogo e ripristinare l’ordine normale il prima possibile e di garantire la sicurezza personale del presidente Bongo, al fine di sostenere la pace e la stabilità nazionali”.

Dopo il golpe, naturalmente antifrancese, il Gruppo Bollorè e il Gruppo parigino Eramet hanno sospeso le loro attività e decine di cargo, portaconteiner e petroliere sono all’ancora di fronte a Port-Gentil, principale porto del paese perché non possono attraccare. La Francia sta perdendo i suoi contatti, non mostra di voler passare il testimone, ma questo colpo di Stato militare è il quinto in tre anni nella regione. Come quello del Niger, destabilizza ancor più una regione dove gli interessi europei e di altre potenze la fanno da padrone su una popolazione estremamente povera e dove solo pochi detengono la maggioranza della ricchezza nazionale.

Chiunque sia a capo dell’immigrazione, è evidente che agli africani non basta emigrare. I governi e le organizzazioni internazionali hanno di fronte la folla e la sua festa, le sue grida di giubilo per la conquistata libertà da un regime che sembrava inossidabile, anche se a rovesciarlo sono stati la potente guardia presidenziale e l’esercito, quell che di fatto lo sostenevano.

Macron condanna il colpo di Stato, ma l’opposizione francese risponde: «Supporto incondizionato della Francia a un regime insopportabile: gli africani hanno voltato pagina»

francese, la missione in Gabon conta al momento 370 soldati dispiegati in modo permanente. Gli interessi economici, del resto, sono tanti ed evidenti. In Gabon opera, ad esempio, il gruppo minerario francese Eramet, attivo nell’estrazione del manganese (minerale essenziale, ad esempio, per la produzione di acciaio inossidabile). Il gigante, che ha sede a Parigi, ha dovuto annunciare nelle scorse ore uno stop delle operazioni: «In seguito agli ultimi avvenimenti in corso», il gruppo ha «messo fine» alle sue attività in Gabon e «monitora» la situazione per «proteggere la sicurezza del personale e l’integrità delle strutture», ha fatto sapere Eramet, che in Gabon conta 8 mila dipendenti. L’annuncio ha fatto crollare le azioni Eramet alla Borsa di Parigi, con un calo del 18,83% a 61,85 euro intorno alle 9.55.

Ma il Gabon basa la propria economia soprattutto sull’esportazione di prodotti fossili, dal gas naturale al petrolio, passando anche per il carbone. E qui, ancora, la Francia conta ancora diversi investimenti. TotalEnergies, compagnia petrolifera francese con sede a Parigi, è il principale distributore di prodotti petroliferi del Gabon, con 45 impianti e 350 dipendenti. Nelle ore seguenti il golpe, Total ha affermato di aver preso provvedimenti per garantire la sicurezza dei propri dipendenti e delle sue operazioni in Gabon. 

Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli USA

Da RAINews del 31 agosto 2023

Già “aiutante di campo” dell’ex presidente Omar Bongo, poi nominato dal figlio Ali capo d’intelligence della Garde républicaine, un corpo militare di elite: questo il curriculum essenziale del generale Brice Oligui Nguema, alla guida della giunta che ha preso il potere in Gabon. Dopo il golpe di ieri, l’ufficiale è stato portato in trionfo dalle truppe nella capitale Libreville

Il generale era stato molto vicino a Omar Bongo tra il 2004 e il 2009, l’anno della morte del presidente e dell’ascesa al potere del figlio. Secondo una ricostruzione dell’emittente radio France International, in quella fase di transizione Nguema era stato accusato di aver appoggiato un fallito tentativo di golpe contro Ali. Nel corso del processo, però, non era emersa alcuna responsabilità specifica. Nel 2020 il generale era stato invece toccato da un’inchiesta condotta dal gruppo Organized Crime and Corruption Reporting Project: stando all’indagine, l’ufficiale avrebbe diverse proprietà negli Stati Uniti, per un valore totale di un milione di dollari. Nel 2018, sempre secondo l’inchiesta, avrebbe pagato 447mila dollari in contanti per acquistare una proprietà nella città di Silver Spring, nel Maryland. A chi gli aveva chiesto l’origine di quei fondi, il generale aveva risposto: “Credo che anche in Francia o negli Stati Uniti la vita personale sia vita personale e dovrebbe essere rispettata”. 

Chi è Oligui Nguema, ex aiutante di campo che ha rovesciato Bongo, con proprietà negli Usa
Già “aiutante di campo” dell’ex presidente Omar Bongo, poi nominato dal figlio ali capo d’intelligence della Garde républicaine, un corpo militare di elite: questo il curriculum essenziale del generale Brice Oligui Nguema, alla guida della giunta che ha preso il potere in Gabon. Dopo il golpe di ieri, l’ufficiale è stato portato in trionfo dalle truppe nella capitale Libreville.

Il generale era stato molto vicino a Omar Bongo tra il 2004 e il 2009, l’anno della morte del presidente e dell’ascesa al potere del figlio. Secondo una ricostruzione dell’emittente radio France International, in quella fase di transizione Nguema era stato accusato di aver appoggiato un fallito tentativo di golpe contro Ali. Nel corso del processo, però, non era emersa alcuna responsabilità specifica. Nel 2020 il generale era stato invece toccato da un’inchiesta condotta dal gruppo Organized Crime and Corruption Reporting Project: stando all’indagine, l’ufficiale avrebbe diverse proprietà negli Stati Uniti, per un valore totale di un milione di dollari. Nel 2018, sempre secondo l’inchiesta, avrebbe pagato 447mila dollari in contanti per acquistare una proprietà nella città di Silver Spring, nel Maryland. A chi gli aveva chiesto l’origine di quei fondi, il generale aveva risposto: “Credo che anche in Francia o negli Stati Uniti la vita personale sia vita personale e dovrebbe essere rispettata”.

L’Unione africana sospende il Gabon

Il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) si è riunito ieri per “esaminare la situazione in Gabon” e Il presidente della commissione Moussa Faki Mahamat ha annunciato di aver “sospeso immediatamente” il Gabon in seguito al colpo di stato militare. L’organismo (fondato il 9 luglio 2002 da Muammar al-Qaddafi) ha affermato su X che “condanna fermamente la presa del potere militare nella Repubblica del Gabon, che ha deposto il presidente Ali Bongo il 30 agosto 2023, e decide di sospendere immediatamente la partecipazione del Gabon a tutte le attività dell’Ua, dei suoi organi e istituzioni”. L’Unione Africana ha deciso di confermare le sanzioni ai danni di Sudan, Mali, Burkina Faso, Guinea e Niger, sospesi momentaneamente dell’Unione in quanto attanagliati dalle conseguenze dei colpi di stato messi in atto da giunte militari.

Mentre la Russia appoggia la missione militare della compagnia mercenaria Wagner in Mali, le bandiere russe sventolano nel Niger, l’Ue, con Borrell respinge qualsiasi presa di potere con la forza e l’Unione africana sospende il Gabon, come già il Mali, il Burkina Faso, il Sudan e il Niger; ma, in Gabon la folla esulta dopo il colpo di Stato che ha deposto il presidente eletto Ali Bongo

Golpe in Gabon, il generale Nguema giurerà lunedì, l'opposizione: "concludere spoglio dei voti"

Di fatto, dopo il Niger anche il Gabon “caccia” la Francia dal Paese, ex colonia francese. 

Ecowas preoccupata per il golpe: “Contagio autocratico”, ha condannato il golpe in Gabon esprimendo ”profonda preoccupazione per la stabilità sociopolitica  del Paese” e per il ”contagio autocratico che sembra diffondersi in diverse regioni del nostro amato continente”. Così il presidente della Nigeria Bola Ahmed Tinubu, attuale leader di Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale.

Bene Tajani: in Africa Ue lavori a diplomazia, no a uso armi 

“In Niger a in Gabon c’è una situazione di instabilità con una serie di golpe militari con un effetto domino. Chiediamo sempre una soluzione diplomatica in cui l’Europa sia presente ma mai dia l’idea di essere una nuova colonizzatrice. Abbiamo apprezzato le proposte di mediazione algerina. Un intervento militare creerebbe nuove complicazioni e aumenterebbe i flussi migratori. Sulle sanzioni in niger valuteremo ma serve una soluzione diplomatica che non appaia una scelta anti africana, serve sempre grande prudenza”. Lo afferma il ministro degli esteri, Antonio Tajani, arrivando alla riunione informale dei ministri degli esteri Ue. 

5864.- Gabon. Colpo di Stato contro la Dinastia Bongo e il neocolonialismo. La Francia di Macron nel panico (F.B.)

Un altro colpo duro alla Françafrique. Vedremo quanto vale il Governo Meloni se riuscirà a sopperire ai disastri della Françafrique, restando a braccetto con Macron e Von der Leyen. Nè con questa Unione europea né con la Francia, il nostro Nuovo Piano Mattei prenderà forma e sostanza e, nemmeno, obbedendo ai diktat di Washington. Non dovranno essere Cina e Russia a dettare i tempi.

Dal FarodiRoma, 30/08/2023

Alti ufficiali della Guardia Repubblicana, Gendarmeria ed Esercito Nazionale alle prime ore di oggi, mercoledì 30 agosto hanno annunciato alla televisione nazionale di aver “posto fine alla Dinastia Bongo”, che dura dal 1967 con Bongo Padre: Omar Bongo Ondimba che nel 2009 passò il “regno” al figlio Ali Bong Obdimba. Questi alti ufficiali, informano che hanno creato un governo transitorio: il Comitato per la Transizione e il Ripristino delle Istituzioni – CTRI. La famiglia Bongo è lo strumento della Francia per governare il ricco e strategico Paese dell’Africa Occidentale. La storia dei Bongo è costernata di colossali furti, corruzione, brutali violazioni dei diritti umani e grandi affari con gli imprenditori francesi. Il Gabon era il giardino dietro casa di Parigi.

Cosa è veramente successo in Gabon? Come è possibile che una Dinastia con pieno appoggio militare, economico e politico della Francia, possa crollare in meno di 24 ore dopo 56 anni di brutale e incontrastato regno? Le scarne e parziali notizie scritte dai “bianchi” e forniteci dai media occidentali non offrono risposte adeguate a queste cruciali domande. Quindi rivolgiamo l’attenzione ai media africani, soprattutto a quelli gabonesi.

Gabon Info341 ci informa che il golpe è avvenuto tra la notte del 29 e 30 agosto subito dopo l’annuncio della Commissione Elettorale della vittoria di Ali Bongo alle presidenziali svoltesi sabato 26 agosto. Secondo la Commissione Bongo aveva ricevuto il 64,27% dei voti contro il 30,77% del suo principale rivale Albert Ondo Ossa. I risultati ufficiali sono stati dati nel cuore della notte, alle 3.30 (2.30 GMT), dalla televisione di Stato senza che fosse stato fatto alcun annuncio in anticipo dell’evento.

A seguito delle denunce da parte del leader dell’opposizione Ondo Ossa di pesanti frodi elettorali la Dinastia Bongo aveva decretato il coprifuoco e bloccate la connessione internet e linee telefoniche, per scongiurare la diffusione di “notizie false” e di “violenze”. Da sabato sera a martedì la Direzione Generale della Contro Insorgenza e della Sicurezza Militare – DGCISM (la guardia pretoriana della Famiglia Bongo formata da elementi dell’etnia dei Bongo) aveva arrestato oltre 150 leader e simpatizzanti dell’opposizione tra cui il porta parola della piattaforma Alternance2023, Francky Meboon.

E’ parere condiviso da tutti i media gabonesi che il golpe sia stato il frutto di un accordo tra gli ufficiali delle Forze Armate e il leader dell’opposizione Albert Ondo Ossa (che avrebbe riportato la vittoria nelle elezioni, negata dalla Dinastia Bongo). Ondo Ossaa aveva denunciato “una frode orchestrata dal campo Bongo” due ore prima della chiusura delle votazioni di sabato, rivendicando la vittoria. Lunedì il suo schieramento aveva esortato il dittatore Ali Bongo ad “organizzare, senza spargimento di sangue, il trasferimento del potere”.

Gabon Media Time e Gabon24 TV illustrano in modo chiaro le prime decisioni del Comitato per la Transizione e il Ripristino delle Istituzioni – CTRI. Frontiere chiuse fino a nuovo avviso. Elezioni annullate. Scioglimento di tutte le istituzioni della Repubblica. Gabon 1ere TV (la rete nazionale gabonese) e il quotidiano GabonActu stamattina alle ore 10:30 (09:30 GMT) annunciano l’irreversibilità del colpo di Stato affermando che il dittatore Ali Bongo è stato arrestato e posto su residenza sorvegliata.

Le reazioni della Francia e della NATO 

Al momento l’Eliseo (impegnato nel braccio di ferro con il nuovo governo del Niger) non si è ancora ufficialmente espresso, ma i principali media francesi pongono l’accento sulla vittoria elettorale di Ali Bongo senza accennare alle palesi frodi compiute. Una tattica mediatica per raffigurare il dittatore come un “legittimo e democratico” Capo di Stato. Evitano accuratamente di trasmettere le immagini del sostegno di massa ai golpisti da parte della popolazione gabonese che ha organizzato decine di manifestazioni di gioia nella capitale e nelle principali città del Paese.

I gabonesi sono con i golpisti, l’Unione europea è con la Francia e questa è con la Dinastia Bongo. Putin ha gioco facile. Foto da IlFarodiRoma del 31 agosto 2023.

La NATO e i ministri della difesa della UE si riuniranno in emergenza per discutere della situazione in Gabon, riferisce il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, noto per il suo incondizionato appoggio al regime neonazista ucraino.

“Se il golpe in Gabon fosse confermato, si tratterebbe di un altro colpo di stato militare che aumenterebbe l’instabilità nell’intera regione. L’intera area, a cominciare dalla Repubblica Centrafricana, poi dal Mali, poi dal Burkina Faso, ora dal Niger, forse dal Gabon, si trova in una situazione molto difficile e certamente i ministri devono riflettere profondamente su cosa sta succedendo lì e su come possiamo migliorare la nostra politica nei confronti di questi paesi”, ha detto Borrell parlando ad una riunione dei ministri della Difesa dell’UE a Toledo, in Spagna.

Quali conseguenze per la Francia? Il Colpo di Stato in Gabon, avviene un mese dopo quello in Niger. Considerando che il Ciad sta addottando una politica ambigua che tende a sganciarsi dalla sfera di influenza francese, il golpe del Gabon rappresenta un grave avvenimento che può spingere altre colonie francesi a ribellarsi: Benin, Costa d’Avorio, Mauritania, Senegal, Togo. 

Nel caso specifico del Gabon la Francia da 56 anni detiene il controllo assoluto dell’economia del Paese tramite la Dinastia Bongo. La Total controlla la maggioranza della produzione petrolifera che rappresenta il 53% del PIL, 79% dei proventi delle esportazioni; risorse minerarie, magnesio in testa, sono gestite dalla società Comilog, controllata al 66% dalla società francese Rougier; la multinazionale francese della logistica, Ballorè gestisce i principali porti gabonesi.

Come in Niger e in altre colonia africane, anche in Gabon, il colonialismo francese ha effetti nefasti sulla popolazione e sullo sviluppo nazionale. Il Paese è vittima degli effetti perversi dei proventi petroliferi e minerari che sono ad esclusivo vantaggio della Famiglia Bongo e della Francia. Questo impedisce che le immense riserve petrolifere e minerarie siano usate per sviluppare il Paese, migliorare l’istruzione, la sanità, creare un tessuto industriale autoctono. Con una popolazione di 2,25 milioni di persone il Il 30% dei gabonesi vive sotto la soglia della povertà mentre il 40% della popolazione di età compresa tra 15 e 24 anni è senza lavoro. il Gabon è un Paese povero, tragicamente privo di manodopera qualificato e con una palese carenza di sovranità.

Al momento è ancora presto per comprendere le conseguenze di questo golpe sulla Francia e sui suoi “possedimenti africani d’oltre mare”. Si può solo notare che Ballorè ha sospeso le sue operazioni presso il principale porto del Gabon a Libreville e che la la società mineraria francese Eramet ha annunciato la sospensione delle operazioni in Gabon.

L’esercito aveva tentato di rovesciare il dittatore Ali Bongo nel 2009 tramite un tentativo di colpo di Stato che fu sventato grazie ai servizi di Intelligence della Francia. Quattro Generali golpisti furono arrestati mentre un quinto riuscì a scappare all’estero. Il Golpe di ieri sera ha colto di sopresa sia la Famiglia Bongo che la Francia.

Ecco la traduzione integrale del comunicato dei Generali golpisti gabonesi trasmesso sulla TV nazionale e da AGP (Agenzia di Stampa Gabonese).

“Il nostro bellissimo paese, il Gabon, è sempre stato un’oasi di pace. Oggi questo paese attraversa una grave crisi istituzionale, politica, economica e sociale.
Inoltre le elezioni generali del 26 agosto 2023, non hanno soddisfatto le condizioni per uno scrutinio trasparente, credibile e inclusivo tanto sperato dai gabonesi e dai gabonesi. A ciò si aggiunge una governance irresponsabile e imprevedibile che si traduce in un continuo deterioramento della coesione sociale che rischia di portare il Paese al caos.

Oggi, 30 agosto 2023, le forze di difesa e di sicurezza, riunite nel Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni (CTRI), a nome del popolo gabonese e garante della protezione delle istituzioni, hanno deciso di difendere la pace ponendo fine al regime in vigore. A tal fine, le elezioni generali del 26 agosto 2023 e i relativi risultati vengono annullati. Le frontiere sono chiuse fino a nuovo avviso. Vengono sciolte tutte le istituzioni della Repubblica, in particolare il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale, la Corte costituzionale, il Consiglio economico, sociale e ambientale (CESE), il Centro elettorale gabonese (CGE).
Invitiamo la popolazione, le comunità dei paesi fratelli insediatisi in Gabon e i gabonesi della diaspora alla calma e alla serenità.
Riaffermiamo il nostro attaccamento al rispetto degli impegni del Gabon nei confronti della comunità nazionale e internazionale.
Popolo del Gabon, è finalmente (iniziato) il nostro volo verso la felicità.
Possano Dio e i fantasmi dei nostri antenati benedire il Gabon. Onore e fedeltà alla patria. Vi ringrazio”.

La giunta militare conferma inoltre che il dittatore Ali Bongo è agli arresti domiciliari assieme alla sua famiglia e in compagnia del suo medico personale.
Informa inoltre che sono stati spiccati mandati di arrestri contro vari membri della famiglia Bongo, del governo e del Parlamento accusati di: alto tradimento contro le istituzione dello Stato; furto organizzato e sistematico del denaro pubblico; malveversazione finanziaria internazionale; falso e uso di falso, falsificazione della firma del Presidente della Repubblica; corruzione attiva; traffico di droga…

Fulvio Beltrami 

Nella foto: la popolazione in giubilio saluta i reparti militari dei golpisti che hanno destituito il dittatore Ali Bongo.

5862.- Dossier migranti al Cisr. La mossa di Meloni letta dal prof. Caligiuri

Possiamo pensare a spostare a Sud il confine dell’Europa e dell’Italia, in sintonia con il Mediterraneo allargato e questo richiede investimenti nei paesi del Magreb, del Sahel e oltre, per favorire la crescita economica di questi paesi, riducendo il divario con l’Italia, innanzitutto e con l’Europa. I flussi migratori sono la punta di un iceberg e l’instabilità di quei paesi, certamente fomentata, chiama in causa i Servizi. Ancora una volta l’Unione europea non traccia la rotta.

Da Formiche.net, di Mario Caligiuri | 31/08/2023 – 

Dossier migranti al Cisr. La mossa di Meloni letta dal prof. Caligiuri

La sicurezza è un tema endemico della contemporaneità e il perimetro degli accadimenti che la ricomprendono si estende sempre di più. E il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica ha potenzialmente le competenze per poter fronteggiare questo fenomeno crescente. Il commento di Mario Caligiuri, professore dell’Università della Calabria e presidente della Società italiana di Intelligence

Gli strumenti previsti dalle leggi sui Servizi possono essere utilizzati in modo non consueto ma appropriato. È questa la considerazione che emerge dalla proposta di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, in relazione alla convocazione in seduta permanente del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica (Cisr) per fronteggiare l’accentuazione dei flussi migratori.

È sicuramente una proposta mirata per una serie di ragioni, che provo a argomentare. In primo luogo, la sicurezza è un tema endemico della contemporaneità, per cui il perimetro degli accadimenti che la ricomprendono si estende sempre di più. Appunto per questo, un organismo come il Cisr, composto da sette ministri e dall’Autorità delegata per la sicurezza (il sottosegretario Alfredo Mantovano), ha potenzialmente le competenze per poter fronteggiare questo fenomeno crescente. In secondo luogo, il tema dell’immigrazione, quasi interrotto ai tempi del Covid, è in evidente aumento. E non ci vuole la Sibilla ellespontica per comprendere che lo sarà ancora di più nei prossimi mesi e nei prossimi anni.

Come ha ben spiegato l’economista britannico Paul Collier dell’Università di Oxford, uno dei massimi esperti di economia africana, “il divario di reddito tra i Paesi povere e quelli ricchi è mostruoso e il processo di crescita mondiale lo manterrà tale per vari decenni […] assisteremo all’accelerazione della migrazione dai paesi poveri verso quelli ricchi […] siamo alle prime fasi di uno squilibrio dalle proporzioni epiche”. Inoltre, Collier è ancora più attento, ricordando che siamo portati a valutare questo fenomeno, così come tutto il resto, in base alle nostre convinzioni morali, perché “sono i nostri valori etici a determinare le ragioni e i fatti che siamo disposti ad accettare”.

Pertanto, accordi con Paesi che si affacciano sul Mediterraneo e che rappresentano i luoghi di partenza degli immigrati servono per contenere un fenomeno irrefrenabile e dalle conseguenze molto incisive.

Di fronte a un fenomeno del genere, una visione europea sarebbe necessaria. Nel 2007 – ancora sull’eco dell’11 settembre ma anche degli attentati di Madrid (2004) e di Londra (2005) – il politologo e storico statunitense Daniel Pipes aveva pubblicato un saggio in cui, riguardo all’immigrazione islamica che si verificava in Europa, aveva ipotizzato tre diversi scenari: la prevalenza degli islamici, la loro espulsione da parte degli europei e l’integrazione più o meno pacifica. Con un certo allarmismo – che poi non si è riscontrato nella misura in cui lo prevedeva –, lo studioso americano metteva però comunque in guardia sulla “alienazione della maggioranza degli europei dalla loro cultura, il loro secolarismo estremo e lo scarso tasso di natalità”. Ma il destino italiano è inequivocabilmente legato all’Europa. Non a caso, Cesare Pavese, che era un poeta, ricordava che “nessuno si salva da solo”.

Per concludere utilizzare il Cisr per affrontare in modo organico e puntuale il fenomeno dell’’immigrazione è certamente appropriata e, secondo me, da mettere subito in pratica.

Questo significa pure focalizzare ancora meglio l’attività dei Servizi che già adesso stanno seguendo con particolare e crescente attenzione il fenomeno. Infatti, oltre all’impegno prioritario nel contrasto al terrorismo, nel 2022, solo sull’immigrazione clandestina, l’Aise ha prodotto l’11 per cento delle sue informative e l’Aisi il 17 per cento. L’anno precedente erano state rispettivamente il 10 e il 9 per cento e nel 2020 il 6 e l’8 per cento.