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6171.-  La Turchia in Africa: ambizioni e interessi di una potenza regionale 

Da Istituto Affari Internazionali, n.208, di di Giovanni Carbone, Federico Donelli, Lucia Ragazzi e Valeria Talbot,

Giovanni Carbone è professore di Scienze Politiche all’Università Statale di Milano e responsabile del Programma Africa dell’ISPI. 

Federico Donelli è docente di Relazioni Internazionali all’Università di Trieste. 

Lucia Ragazzi è Research Fellow per il Programma Africa dell’ISPI. 

Valeria Talbot è Senior Research Fellow e responsabile dell’Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa dell’ISPI. 

1. MAPPARE LA PRESENZA TURCA IN AFRICA 

Giovanni Carbone 

Nel corso degli ultimi vent’anni la Turchia è emersa come uno degli attori esterni più attivi e dinamici nel continente africano, divenuto sempre più un’arena di competizione non solo delle tradizionali potenze globali ma anche di medie potenze emergenti. La proiezione africana di Ankara rientra nell’ambito di una politica estera che nell’era del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), al potere dal novembre 2002, ha puntato su una maggiore diversificazione delle relazioni politiche ed economiche, ampliandole oltre i tradizionali partner occidentali, nonché sulla penetrazione di nuovi mercati a livello globale anche nell’ottica di accrescere lo status internazionale del paese. Il 2005 è l’anno che inaugura ufficialmente la nuova politica africana della Turchia, dopo l’adozione della Strategy for enhancing the economic and commercial relations with Africa nel 2003. L’azione della Turchia nel continente africano può essere suddivisa in tre distinte fasi – la prima dal 2005 al 2010, la seconda dal 2011 al 2015, la terza a partire dal 2017 – caratterizzate da diversità di approccio, attori e strumenti, pur mantenendo tutte quel pragmatismo di fondo tipico della politica estera dell’Akp. Ragioni di carattere tanto strategico quanto economico sono alla base della cosiddetta apertura della Turchia al continente africano dal Nord Africa al Corno, dal Sudafrica al Sahel. In tutte queste aree Ankara ha portato avanti un’agenda che coniuga una pluralità di interessi e azioni in diversi ambiti (diplomatico, economico, umanitario e culturale), cui si è aggiunto di recente anche il settore della difesa, con l’ambizione di giocare un ruolo di media potenza che propone un modello di sviluppo alternativo a quello dei paesi occidentali o della Cina. L’estensione delle aree di interesse strategico ha inoltre indotto la Turchia a dislocare, in alcuni paesi, una presenza militare sul terreno, trovandosi così a competere con altri attori esterni anche su questo piano. 

L’Africa è la regione in cui la più che ventennale strategia di ampliamento delle relazioni esterne della Turchia appare più intensa, diversificata e visibile. A eccezione della Cina, che può contare su risorse straordinarie e su una guida politica fortemente centralizzata e continuativa, nessun altro paese ha dispiegato in maniera così rapida e sistematica una serie di reti istituzionali – politico-diplomatiche, economiche, militari e anche culturali – che attraversano il continente e ne connettono le diverse parti ad Ankara. Un approccio che mostra quanto l’interesse turco per l’Africa sia parte di una strategia di lungo periodo, che coinvolge la totalità della regione, e non frutto di interventi occasionali e opportunistici, come ad esempio le incursioni russe degli anni recenti. 

Relazioni diplomatiche e vie di comunicazione 

Prima componente del tessuto di relazioni che la Turchia è andata costruendo in questi anni è la rete delle rappresentanze diplomatiche, punto di riferimento del più ampio attivismo di Ankara. La strategia di espansione era stata ufficializzata nel 2008, con l’annuncio dell’intenzione di aprire quindici nuove missioni in Africa, tra ambasciate e consolati. Una volta avviato, tuttavia, l’incremento delle sedi è risultato nei fatti ancora più consistente. La copertura diplomatica diretta in Africa è infatti passata da un mero 22% degli stati della regione nel 2009, con sole 12 ambasciate, all’80% dei paesi nel 2023, con 43 ambasciate1 (speculare l’ampliamento di quelle africane in Turchia, passate da 10 a 38)2. L’estensione della rete turca è oggi superata, per numero di sedi, solo da paesi come Stati Uniti, Cina, Francia e Regno Unito (l’Italia, ad esempio, si ferma a 29). Oltre alle isole minori che fanno parte del continente africano – come Capo Verde o Mauritius – sono lasciati senza rappresentanza diretta solo paesi demograficamente e geograficamente piccoli o molto piccoli (eSwatini, Lesotho, Guinea-Bissau, Liberia) e due soli stati di dimensioni territoriali (Repubblica Centrafricana) o demografiche (Malawi) più rilevanti. A Mogadiscio, in Somalia, in uno dei contesti più difficili e insicuri – dove solo una dozzina di paesi, circa la metà dei quali africani, mantengono ambasciate – Ankara ha il suo più grande complesso ambasciatoriale a livello globale. 

1 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, The Economist, 23 aprile 2023. 

2 M.S. Kalaycioglu, “Iran and Turkey: Competing for Islamic Africa”, iGlobeNews, 13 aprile 2023.  

A una rete così densa corrisponde un attivismo bilaterale continuativo, manifesto nella frequenza delle visite diplomatiche effettuate direttamente dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan – che in una ventina d’anni, inizialmente come primo ministro e dal 2014 come presidente, ha effettuato circa 50 missioni nel continente, visitando oltre 30 stati africani3 – e dei suoi ministri degli Esteri, oltre al corrispondente flusso di visite di rappresentati africani nella capitale turca. 

3 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, Al Jazeera, 18 dicembre 2021. 

4 J. Pearson, “Inside Turkish Airlines’ Incredible Africa Growth”, Simple Flying, 1 settembre 2021. 

5 B. Babali, “The Scramble for African Aviation”, The Business Year, 24 novembre 2022. 

Ad arricchire i legami anche lo status di osservatore presso l’Unione Africana (UA) riconosciuto alla Turchia dal 2005 – che il governo turco proclamò “Anno dell’Africa” – e, dal 2008, quello di partner strategico dell’UA. Una posizione, quest’ultima, ottenuta in precedenza solo da pochi importanti paesi (Cina, India, Giappone e Corea del Sud). Sempre nel 2008 venne organizzato a Istanbul, per il primo anno, un Turkey-Africa Partnership Summit che, tra i temi dell’incontro, delineò termini e forme della “partnership strategica” tra Ankara e UA. Con il summit – al quale parteciparono 49 paesi africani, variamente rappresentati da capi di stato, di governo o dei dicasteri degli Esteri – il governo turco assumeva e mostrava un profilo di alto livello, facendo proprio un costume che si stava diffondendo tra grandi economie avanzate ed emergenti, ovvero quello di riunire appunto i paesi africani, collettivamente, in consessi a loro specificamente dedicati (l’Italia ha organizzato incontri di questo tipo a partire dal 2016). Un secondo e un terzo summit – rispettivamente nel 2014 a Malabo, in Guinea Equatoriale, e nel 2021, con 39 paesi africani, di nuovo ad Istanbul – hanno poi dato continuità a questa pratica. 

Al reticolo di sedi di ambasciate sul terreno è stata fin da subito affiancata un’altra trama, quella delle tratte aeree di Turkish Airlines che connettono Istanbul (o, in misura minore, Ankara) a un’ampia maggioranza di capitali africane, nonché ad alcune città secondarie di rilevanza economica o portuale, come Douala in Camerun, Pointe-Noire in Congo-Brazzaville, Port Harcourt in Nigeria, Durban in Sudafrica e Mombasa in Kenya. Il numero delle destinazioni africane ha toccato il picco massimo nel 2019 – ben 52, un aumento di dodici volte rispetto alle quattro destinazioni servite dalla compagnia di bandiera nel 2004, scendendo poi a 44 nel 2021 in virtù dell’impatto della pandemia di Covid-19 sul traffico aereo. Lungi dall’avere un significato esclusivamente politico-diplomatico, l’investimento ha pagato a tutto tondo. Il numero di passeggeri è cresciuto di quasi venti volte, da 320.000 a oltre 6 milioni l’anno (2004-2019), anche grazie al successo di Turkish Airlines nel posizionarsi come vettore per passeggeri europei attraverso l’hub geograficamente favorevole di Istanbul4. Il ritorno economico per la compagnia è stato netto, rendendo quelle africane destinazioni importanti da un punto di vista meramente commerciale5. 

Relazioni in ambito economico 

Gli investimenti politico-diplomatici turchi hanno contribuito a produrre risultati economici di successo che vanno ben oltre quelli del settore di trasporti e aviazione. Nel 2008 l’intento dichiarato dal governo era stato quello di far crescere il volume complessivo degli scambi commerciali da 17,3 miliardi di dollari a 30 miliardi di dollari in soli due anni6. I tempi necessari a raggiungere questo obiettivo si sono in realtà dimostrati ben più lunghi e il totale dell’interscambio resta ancora distante da quello della Cina (282 miliardi di dollari nel 20227) e, pur in misura minore, anche di India, Stati Uniti e dalle maggiori economie europee. Ma i 30,4 miliardi di dollari di scambi toccati nel 2022 – il 38% (11 miliardi di dollari) con i paesi subsahariani, tra i quali il Sudafrica occupa il primo posto con 1,6 miliardi di dollari8 – rappresentano comunque un’espansione del volume di sei volte in vent’anni, rispetto ai 5,4 miliardi di dollari di partenza del 2003. Per dare un termine di paragone, gli scambi Italia-Africa nello stesso arco di tempo (2003-2022) sono cresciuti solo di una volta e mezzo (da 26,6 a 68 miliardi di euro, con oltre un terzo dell’incremento dovuto alle carissime importazioni di energia africana dello scorso anno). Non solo, ma gli scambi turchi consistono per oltre il 70% di esportazioni, una bilancia più favorevole di quella di Pechino, per la quale la quota di export resta sotto il 60% (per l’Italia la bilancia commerciale è di norma in disavanzo, con esportazioni sotto il 50% del volume complessivo degli scambi; nel 2022 si è scivolati sotto il 33%). Gli obiettivi, nel frattempo, erano già stati esplicitamente rilanciati dal presidente Erdoğan – che vuole che il paese raggiunga rapidamente i 50 e poi i 75 miliardi di dollari di interscambio – in occasione dell’ultima edizione del Turkey-Africa Economic and Business Forum, una sede di periodica promozione e concertazione dei legami economico-commerciali tra le due parti9. 

6 “The Turkey-Africa summit”, DW, 17 agosto 2008. 

7 R. Bociaga, “China-Africa trade soars on spike in commodity prices”, Nikkei Asia, 27 gennaio 2023. 

8 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, cit.; “Turkish exports to Africa break a record in 2022”, Move 2 Turkey, 11 gennaio 2023. 

9 “A trade volume of USD 21 Billion Is Targeted with Africa”, Business Diplomacy. 

10 H. Ryder, “Emerging power rivalries in Africa: Is China really ahead of Turkey?”, Africa Report, 10 gennaio 2022; A. Dahir, “The Turkey-Africa bromance: key drivers, agency, and prospects”, Insight Turkey (23:4), 2021; “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, African Business, 18 dicembre 2021. 

11 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, cit. 

A complemento del commercio, la presenza di aziende turche in Africa si è moltiplicata anche attraverso gli investimenti diretti esteri (Ide), il cui incremento nel corso del tempo è stato ancora più marcato, passando dai 100 milioni di dollari del 2003 ad almeno 2 miliardi di dollari nel 2022 (alcune fonti parlano di 6-7 miliardi di dollari)10. Un’ampia quota degli Ide di Ankara – quasi un terzo del totale – fa capo all’Etiopia, che beneficia di una buona parte dei 25.000 posti di lavoro creati, secondo alcune stime, dalle imprese turche nella regione11. 

Anche per le relazioni economiche con i singoli paesi africani, la strategia turca contempla una rete articolata e ramificata che poggia su 45 “consigli di imprese”, emanazioni del 

Consiglio per le relazioni economiche estere (Deik) e ulteriore elemento del fitto tessuto di connessioni della Turchia con i diversi territori della regione. L’Africa del nord, in parte il Corno d’Africa, di cui è perno appunto l’Etiopia, e l’Africa orientale rappresentano aree più prossime alla Turchia e includono quindi i paesi ai quali Ankara ha guardato per primi. Ma il governo turco non si è mai limitato alle sole sub-regioni africane “vicine” e, anzi, in anni recenti ha investito nel rafforzamento del proprio posizionamento in Africa occidentale. È a questa specifica regione, ad esempio, che nel 2018 è stato dedicato il primo di una serie di Turkey-Ecowas Business and Economic Forum (ed è in questa stessa area che si registra anche una recente spinta ad aumentare la cooperazione nel campo della sicurezza)12. 

Tanto il commercio quanto gli investimenti turchi in Africa tendono a concentrarsi nell’industria delle costruzioni, dell’acciaio e del cemento, ma anche nei beni per la casa, nell’elettronica e nel tessile13. Nel settore di costruzioni e infrastrutture, in particolare, società turche, come Summa, Limak, Albayrak e altre, hanno effettuato nel continente lavori per circa 78 miliardi di dollari. Nel 2022, ad esempio, hanno spuntato un contratto da 1,9 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova linea ferroviaria in Tanzania. A Mogadiscio, in Somalia, sono imprese turche ad aver ricostruito diverse strade e il parlamento nazionale, sostenute finanziariamente dagli aiuti allo sviluppo di Ankara, e ad avere in mano la gestione del porto e dell’aeroporto internazionale, dopo averli ristrutturati14. Un ulteriore comparto ritenuto strategico dal governo è l’agroalimentare, al centro fin dal 2017 di diversi incontri ministeriali Turchia-Africa e oggetto di accordi già stipulati con sei paesi della regione15. 

12 M. Özkan, A. Kanté, “West Africa and Turkey forge new security relations”, Institute for Security Studies (ISS), 31 marzo 2022; K. Hairsine, B. Ünveren, “Turkey deepens its defense diplomacy in Africa”, DW, 28 ottobre 2022. 

13 “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, cit. 

14 “Turkey is making a big diplomatic and corporate push into Africa”, cit. 

15 S. Orakçi, “The Rise of Turkey in Africa”, Al Jazeera Centre for Studies, 9 gennaio 2022. 

16 U. Farooq, “Erdogan seeks to boost ties at Turkey-Africa summit”, cit.  

Relazioni nel settore della sicurezza 

Se l’espansione diplomatica ed economica turca in Africa è seguita da vicino da oltre un decennio da analisti e media internazionali, a richiamare attenzione negli anni più recenti è stata l’evoluzione delle relazioni turco-africane nell’ambito della sicurezza. Due sono i punti di forza della Turchia nel settore: la capacità di fornire armi tecnologicamente avanzate, di dimostrata efficacia ed economicamente accessibili; e quella di poter offrire forti competenze nell’antiterrorismo e nella lotta ai movimenti estremisti16. 

La cooperazione negli ambiti della sicurezza e della difesa non è in realtà una novità, ma si è sviluppata gradualmente, e non riguarda solo l’export di armamenti turchi. Aveva infatti tutt’altra natura. La coraggiosa decisione di insediare a Mogadiscio, in Somalia, la base militare denominata Camp Turksom – la maggiore tra le basi di Ankara all’estero – 

inaugurata nel 2017 e da allora impegnata nella formazione delle forze di sicurezza del governo della Repubblica Federale di Somalia ne è un chiaro esempio. La struttura ospita contemporaneamente tra 1.000 e 1.500 soldati somali e vanta di aver addestrato circa due terzi dei 15.000 militari in servizio in un paese che da anni fatica a recuperare stabilità a fronte delle violenze dei jihadisti di al-Shabaab. Oltre alla formazione nella base Turksom, unità specializzate di soldati somali completano il loro perfezionamento direttamente in Turchia, a Isparta. La lotta al terrorismo ha portato il governo turco ad appoggiare anche, nel Sahel centro-occidentale, i cinque paesi le cui popolazioni soffrono da anni gli attacchi dei jihadisti, soprattutto sostenendo la loro cooperazione nel G5 Sahel, prima che questo consorzio militare entrasse in fase di stallo a seguito dei colpi di stato e cambi di governi in Mali e Burkina Faso. Più in generale, ben 30 stati africani hanno siglato accordi di sicurezza di vario tipo con la Turchia, mentre in un’ambasciata su tre sono presenti addetti militari17. 

In una certa misura, i soldati turchi sono intervenuti anche direttamente in scenari africani, partecipando a missioni multilaterali di peacekeeping dal Mali al Centrafrica. Ma si tratta di una partecipazione contenuta: i 68 turchi attualmente impegnati in missioni delle Nazioni Unite in Africa sono più numerosi di norvegesi (53), francesi (46), svedesi (35), americani (34) o italiani (4), ma sono solo un decimo dei 623 tedeschi e un venticinquesimo dei 1.794 cinesi18. 

Come detto, è nel comparto della vendita di armamenti che è emerso da alcuni anni un forte dinamismo turco che ben si combina con la relativa domanda africana. La quota turca del mercato delle armi del continente resta minima se raffrontata ai maggiori produttori (Russia, Stati Uniti, Cina e Francia, nell’ordine) – è attualmente inferiore all’1% – ma sembra avviata verso una crescita marcata. Un volume d’affari che ha oscillato tra i 60 e gli 80 milioni di dollari circa tra il 2015 e il 2020 è infatti improvvisamente balzato a 461 milioni di dollari nel 2021, ultimo dato disponibile19. 

La Turchia fornisce agli africani una varietà di prodotti, dalle navi militari ai veicoli blindati, dai sistemi di sorveglianza alle armi leggere20. L’aspetto che maggiormente ha destato attenzione e preoccupazione negli osservatori occidentali è stato il recente balzo in avanti compiuto dalle imprese turche nel proporsi con successo come fornitori di droni per uso militare. I droni turchi più noti sono senz’altro i Bayraktar TB2, venduti a paesi come l’Etiopia – che nel corso del 2022 li ha usati per superare lo stallo nel conflitto del Tigrai e sconfiggere le forze ribelli – Nigeria, Marocco e Tunisia. Ma più recentemente anche al  Niger, alle prese con i diversi gruppi jihadisti attivi attraverso vaste zone del Sahel centro-occidentale e sul versante nord-occidentale del bacino del Lago Ciad, e al Togo, preoccupato di proteggere dalle incursioni di questi ultimi le regioni settentrionali di confine21.

17 N.T. Yaşar, “Unpacking Turkey’s security footprint in Africa. Trends and implications for the EU”, SWP, 30 giugno 2022. 

18 United Nations Peacekeeping, Troop and police contributors, dati al 31 maggio 2023. 

19 H.A. Aksoy, S. Çevik e N. T. Yaşar, “Visualizing Turkey’s Activism in Africa”, Centre for Applied Turkey Studies, 3 giugno 2022. 

20 N.T. Yaşar, “Unpacking Turkey’s security footprint in Africa. Trends and implications for the EU”, SWP, 2022.  

Man mano che i droni turchi si sono dimostrati un’arma efficace e comparativamente a buon mercato, nonché di uso, gestione e manutenzione relativamente facile rispetto ad altre risorse aeree, altri potenziali acquirenti si sono fatti avanti, tanto che ora si parla di liste di attesa di tre anni. Tra i vantaggi aggiuntivi offerti dai turchi ai compratori africani c’è quello di non dover rendere conto di intenti ed effetti dell’uso dei droni, nonché di guadagnare autonomia rispetto ad altri fornitori – si pensi in particolare alla Francia per i paesi francofoni – diversificando così le fonti di approvvigionamento. 

21 P. Melly, “Turkey’s Bayraktar TB2 drone: Why African states are buying them”, BBC, 25 agosto 2022. 

22 “Third Turkey-Africa Partnership Summit delivers ‘win-win’ agreements”, African Business, 18 dicembre 2021. 

23 R.İ. Turan, “‘Turkey rejects orientalist approaches towards African continent’”, Anadolu Agency, 18 ottobre 2021. 

Relazioni di cooperazione allo sviluppo, umanitaria e culturale 

La rotazione verso sud dello sguardo turco è comunemente letta, almeno in parte, come decisione di percorrere altre strade a seguito del congelamento dell’ipotesi di un ingresso di Ankara nell’Unione europea (UE). Anche per questo non sorprende che, nell’approccio all’Africa, la Turchia si posizioni esplicitamente come modello e leader alternativo all’Occidente, tanto nella retorica scelta quanto nelle prassi seguite. Un modo di proporsi che, con sfumature diverse, è adottato con un certo successo anche da Mosca, Pechino e altri attori in cerca di spazio e alleati nel continente. Nel corso della stessa pandemia di Covid-19, le scelte e gli atteggiamenti europei nei confronti dell’Africa sono diventati un’opportunità per attaccare apertamente le discriminazioni e gli interessi occidentali e il loro gravare sul continente22. 

La leadership turca non perde quindi occasione di sottolineare agli interlocutori africani la propria diversità rispetto ai paesi con un passato di colonizzatori e una storia, o anche un presente, di sfruttamento delle risorse africane. La Turchia, così come proposta da Erdoğan di fronte al parlamento dell’Angola, è una “nazione che nella sua storia non ha la macchia e la vergogna del colonialismo”, ma una “vittoria contro potenze imperialiste”23. Ankara rifiuta “gli approcci orientalisti occidentalocentrici” e le discriminazioni nei confronti degli africani, a cui la legano relazioni di rispetto reciproco e fratellanza che vanno indietro di dieci secoli. Anche per questo predilige la non ingerenza negli affari interni dei partner africani, ai quali non cerca di imporre alcuna condizione o pressione come quelle legate al rispetto dei diritti umani, della democrazia o dello stato di diritto richiesto dagli occidentali. Più in generale, la Turchia combatte le “ingiustizie nel sistema globale”, denunciando i comportamenti ancora apertamente “coloniali” delle potenze occidentali in Africa, e chiede una profonda riforma dell’architettura di sicurezza internazionale, poiché “il mondo è più grande di cinque” (il riferimento è ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu)24. Non sono mancate le reazioni critiche a questo tipo di postura turca, accusata dal presidente francese Emmanuel Macron, ad esempio, di alimentare i risentimenti africani25. 

24 Ibidem. 

25 Marie Toulemonde, “How Erdoğan turned Turkey into a key player in Africa via economy, religion, arms…”, Africa Report, 8 June 2023. 

26 Ö. Yıldırım, “Turkey’s Maarif Foundation educating over 17,000 students in Africa”, Anadolu Agency, 18 ottobre 2021. 

La promozione di una specifica immagine e reputazione per la Turchia avviene anche attraverso un’ampia serie di strumenti e ambiti che vanno dagli aiuti allo sviluppo all’assistenza umanitaria, dalle iniziative nel campo della formazione e della religione islamica ai mezzi di informazione. 

Sul fronte degli aiuti allo sviluppo e dell’assistenza umanitaria, ad esempio, Ankara è divenuta un attore sempre più visibile tanto attraverso l’operato di istituzioni governative, quanto attraverso quello delle Ong che finanziano o gestiscono progetti di vario genere, dallo sviluppo agricolo alle strutture sanitarie, come ospedali e cliniche, a quelle educative, come scuole e madrase. L’agenzia per lo sviluppo turca, l’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento (Tika), ha sedi in 22 paesi africani, e per meglio controllare e indirizzare gli aiuti allo sviluppo, la quota complessivamente instradata attraverso organismi internazionali è scesa drasticamente dal 60% nel 2003 al 2% nel 2019, segnalando una volontà di privilegiare interazioni bilaterali dirette. Anche in questo caso è osservabile chiaramente la predisposizione turca a stringere legami dapprima con i paesi della metà orientale del continente: 13 delle 22 sedi di Tika sono nei paesi ad est di una linea immaginaria che unisce Tunisi a Dar es Salaam in Tanzania (e appena oltre, alle isole Comore), senza lasciarne uno solo senza rappresentanza. Le rimanenti nove sono distribuite in maniera più disomogenea tra i restanti 41 stati. Degli interventi di assistenza umanitaria si occupa invece la Mezzaluna rossa turca (Türk Kizilay), attualmente impegnata in Somalia – dove l’organizzazione fu molto attiva già nella risposta alla drammatica carestia del 2011 – Etiopia, Sudan, Sud Sudan e Libia. 

Ugualmente significativi e sistematici sono stati gli sforzi in ambito di cultura e istruzione. La costruzione, grazie a finanziamenti turchi, della Moschea nazionale del Ghana, realizzata ad Accra in stile ottomano come replica della Moschea Blu di Istanbul e inaugurata nel 2021, ha avuto indubbio valore simbolico sul piano delle relazioni religiose. Ma in termini di ampiezza, gli interventi più consistenti sono di altro tipo. Da un lato, la presenza di 175 scuole in 25 paesi africani gestite dalla Maarif Foundation (Türkiye Maarif Vakfi) e frequentate da circa 17.000 studenti26. La fondazione è stata creata dal governo nel 2016 anche con lo scopo di trasferire ad Ankara il controllo delle numerose scuole aperte in parti diverse del mondo dal movimento gulenista (Hizmet), con il cui fondatore, Fethullah Gülen, Erdoğan aveva duramente rotto il precedente sodalizio. Dall’altro, borse di studio per accedere alla formazione in Turchia, una risorsa di cui hanno beneficiato circa 

60.000 giovani africani. In parallelo procede poi l’Istituto Emre Yunus, che promuove la conoscenza della lingua turca in Africa. 

L’ultimo fronte a cui si è dedicato il governo è quello dell’informazione, cruciale per veicolare l’immagine del paese ritenuta più giusta e utile. Ad Addis Abeba, capitale etiope e sede dell’UA, nel 2014 è stato aperto l’ufficio regionale africano dell’agenzia di stampa pubblica Anadolu Agency. L’obiettivo, per nulla nascosto, è di contrastare il predominio nell’informazione globale, dei grandi gruppi mediatici occidentali, inclusi Bbc, Cnn, France 24, Reuters e Afp, sia producendo contenuti sia formando i giornalisti africani, di concerto con le attività di media turchi con sede in altre grandi città dell’area subsahariana, come Dakar, Nairobi, Johannesburg, Cape Town, Khartoum e Abuja27. Stessa funzione assolve il canale di lingua inglese Trt World, lanciato nel 2015 dalla radiotelevisione statale Trt (Türkiye Radyo ve Televizyon) e affiancato, dal 2022, da un’emittente analoga in lingua francese (Trt Français) rivolta direttamente alle aree e popolazioni francofone del continente. 

6167.- Cosa significa la fine della cooperazione Usa-Niger scelta dai golpisti di Niamey

Via anche gli USA dal Niger e la Russia sta avanzando nel Sahel e avanzerà ancora. Anni di indiscussa supremazia e la mancanza di una gamba europea della Nato hanno indebolito gli Stati Uniti. La decisione di Washington di non accogliere la Federazione Russa nella Nato sta avendo un costo per l’Europa. Finirà che il Piano Mattei, con la sua cooperazione e la solidarietà attiva sarà l’ultima spiaggia per i Paesi del Sahel e per gli europei.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 18 marzo 2024

Decollo dalla Air Base 201, cinque chilometri fuori della città di Agadez.

La decisione di Niamey arriva appena dopo un incontro della giunta golpista con una delegazione statunitense. Gli Usa (e l’Ue) perdono uno dei centri delle attività counter-terrorism in Africa centro-settentrionale, col rischio che la sicurezza del Niger venga presa in mano dalla Russia (come già succede altrove nel Sahel)

“Il governo del Niger, tenendo conto delle aspirazioni e degli interessi del suo popolo, decide con piena responsabilità di rinunciare con effetto immediato all’accordo relativo allo status del personale militare degli Stati Uniti e dei dipendenti civili del dipartimento della Difesa americano nel territorio della Repubblica del Niger”, ha detto il colonnello che fa da portavoce della giunta militare del Niger, in una dichiarazione alla televisione nazionale che annuncia un cambiamento profondo e indice dei tempi.

La giunta golpista che a fine luglio scorso ha preso il controllo di Niamey ha deciso di concludere un accordo con gli Stati Uniti – in piedi sin dal 2012 – il quale ha permesso al personale militare e civile del Dipartimento della Difesa di operare da una base militare (si chiama Air Base 201) posizionata cinque chilometri fuori la città di Agadez, nell’area centro-occidentale del Paese. Operazioni che si muovono tra il territorio del Sahel, infestato dai terroristi di varie sigle internazionali (affiliati allo Stato islamico o ad Al Qaeda e collusi con traffici di ogni tipo, compreso quelli di esseri umani provenienti dall’area o da aree più meridionali dell’Africa che poi prendono la rotta mediterranea) fino alla Somalia, dove l’attività del gruppo combattente jihadista Al Shaabab non rallenta, o in Nigeria e più a nord verso il Nordafrica.

Nel wording della dichiarazione, scelto di certo non casualmente, quello che conta è il passaggio in cui si indica che la decisione dei golpisti guidati da Abdourahamane Tchiani è conseguenza delle “aspirazioni e degli interessi del suo popolo”. Lo stesso che già nei giorni convulsi dell’estate scorsa, in cui era stato estromesso dal potere il presidente Mohamed Bazoum, aveva accettato senza eccessive manifestazioni di scontento il regime change interno. Bazoum e il suo Paese erano considerati negli Stati Uniti e in Unione Europea come dei riferimenti di democraticità in Africa, e le collaborazioni con le forze armate nigerine erano al centro delle attività del counter-terrorism occidentale nel continente. 

Tra l’altro, anche l’Italia è presente con un contingente attivo nel Paese, secondo una missione autorizzata – Misin, Missione Italia di Supporto in Niger – per formazione e assistenza medico-sanitaria. In precedenza c’era una presenza fissa anche francese, come altrove nel Sahel, dove Parigi si era fatta promotrice di interventi di carattere securitario per combattere la dilatazione terroristica. Interventi che non hanno funzionato al punto che la Francia ha dovuto abbandonare quasi tutte le postazioni nella regione. Resta in Niger una base logistica tedesca.

Quanto succede a Niamey ricalca uno schema già visto altrove nel Sahel, dove nel corso degli anni sono venuti giù una serie di governi a opera di golpe militari che hanno un comune denominatore: ufficiali che si ergono a baluardi della sicurezza delle collettività, mentre i governi regolari non riescono a combattere l’insorgenza terroristica. La generale percezione di insicurezza è condivisa dalle cittadinanze, che accusano non solo gli esecutivi locali, ma anche le loro cooperazioni con l’Occidente – spesso semplificate nella presenza sul campo dilimitate unità europee (per esempio, la missione italiana è composta da un contingente medio annuale di 500 militari, 100 mezzi terrestri e 6 aerei) e americane.

Sotto la narrazione alterata che racconta questa presenza militare occidentale come forma di colonialismo, i governi in carica sono stati descritti come corrotti e collusi, per questo avrebbero ceduto aliquote di sovranità, e inefficaci nel garantire sicurezza e prosperità ai propri cittadini. La rincorsa dei golpisti è stata agevolata da questo substrato – basato in parte su una realtà: il terrorismo dilaga, la sicurezza erosa – e spinta da forme di disinformazione agevolate anche da campagne russe. Mosca ha guadagnato dalla situazione infatti, sostituendosi in molti casi – attraverso l’ex Wagner, ora Africa Corps – ai contingenti occidentali. È successo in Mali e sta succedendo in Burkina Faso (e altrove nel continente). Sostituzione che non solo ha portato i russi a gestire la sicurezza della giunte, ma ha creato forme di penetrazione economico-industriale a vantaggio del sistemi di oligarchi connessi ai contractor e al Cremlino (che nega questi link). Qualcosa del genere potrebbe succedere in Niger?

A gennaio, in un’intervista a Jeune Afrique a margine del suo tour in Africa, il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, aveva annunciato che Washington sarebbe stata pronta a rimuovere le sanzioni con cui aveva punito Niamey (e limitato le attività di cooperazione anche militare) se il Paese fosse tornato “entro due anni” lungo il solco democratico. Il capo della diplomazia dell’amministrazione Biden si augurava che l’Ecowas avesse aiutato le giunte golpiste in quel percorso. Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, le giunte golpiste di Mali, Burkina Faso e Niger hanno annunciato di essersi raggruppate in una nuova entità di cooperazione, per altro sfilandosi dal meccanismo della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale, nota con l’acronimo inglese Ecowas.

Una scelta simbolica, che sembra aprire a forme di collaborazione alternative, considerando che in due di quei due Paesi la Russia è presente. Quest’estate, Ecowas aveva minacciato con fermezza l’intervento armato contro la giunta in Niger, salvo poi rinviare tutto per l’inconsistenza dell’offerta militare e lo scontento suscitato tra i cittadini dei Paesi membri per un’azione di guerra – mentre Mali e Burkina avevano annunciato l’intenzione di difendere i colleghi golpisti di Niamey.

Due settimane fa, dopo aver tracciato movimenti di armi russe attraverso la logistica libica, su Formiche.net avevamo segnalato un rafforzamento della “nuova Wagner” – gli Expeditionary Corps sotto il controllo dell’intelligence militare Gru, noti nel continente come “Africa Corps” – verso il sud saheliano. Ora emerge la volontà nigerina, per altro resa pubblica pochi giorni dopo che Tchiani aveva tenuto colloqui di alto livello con funzionari diplomatici e militari statunitensi (nel tentativo di salvare il salvabile). Secondo la dichiarazione di chiusura dell’intesa tra i due Paesi, l’accordo era stato imposto al Niger ed era stato in violazione delle “regole costituzionali e democratiche” della sovranità della nazione dell’Africa occidentale. 

Nelle stesse dichiarazioni, viene sottolineato che la delegazione americana – guidata dall’assistente del segretario di Stato per gli Affari africani, Molly Phee, e dal capo di AfriCom, il generale Michael Langley – è stata ricevuta “per cortesia”, anche se aveva “violato i protocolli diplomatici non annunciando tempi della visita e composizione della missione”. Da mesi, il Pentagono sta valutando come il cambiamento di potere in Niger avrebbe avuto un impatto sugli effettivi statunitensi di stanza nel Paese. Lo stesso stanno facendo altre nazioni occidentali. In una lettera inviata al Congresso nel dicembre 2023, il presidente Joe Biden ha osservato che circa 648 militari statunitensi sarebbero rimasti schierati in Niger. La permanenza nel Paese viene in generale considerata importante, sia per ragioni operative sia perché potrebbe essere rimpiazzata da forze ostili – come quelle russe o anche iraniane.

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6140.- La sicurezza condiziona il Piano Mattei

meloni migranti

Migranti, Meloni ai ministri: “Serve un modello Caivano per l’Africa: tutti dobbiamo andare”

Da Il Secolo d’Italia del 5 Feb 2024 19:05 – di Sveva Ferri

Un “modello Caivano” per dare seguito agli intenti del Piano Mattei e chiudere spazio ai trafficanti nelle nuove rotte che hanno identificato, dopo gli interventi positivi che hanno frenato gli arrivi di migranti dalla Tunisia: è quello che il premier Giorgia Meloni ha presentato al governo, nel corso della sua informativa in Consiglio dei ministri sul tema dell’immigrazione.

La centralità del Piano Mattei e “il diritto a non emigrare”

“Prima con la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni, poi con la conferenza Italia-Africa si è avviato il percorso del Piano Mattei. Il tratto che nessuno deve dimenticare è che non abbiamo in mente un modello di cooperazione predatorio con le Nazioni africane bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”, ha ribadito Meloni ai ministri.

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La cooperazione condivisa con i Paesi africani anche per colpire i trafficanti

“Dobbiamo insistere con le Nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso -ha aggiunto Meloni – che faccia contrastare insieme gli sbarchi di migranti sulle nostre coste, cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. “Crediamo in questo metodo e ci sentiamo confortati da piccoli segnali di speranza. Pensiamo – ha spiegato il presidente del Consiglio – al consistente calo degli sbarchi negli ultimi 4 mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al – 41%”.

Sugli sbarchi di migranti “segnali di speranza”, ma nessuna facile illusione

I risultati conseguiti, però, ha di fatto avvertito Meloni, non devono far dimenticare la difficoltà della sfida. “È tuttavia una rincorsa continua”, ha avvertito il premier, ricordando che “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice”. Così, “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni ha ricordato che “fra le nuove fonti di pressione vi sono anche gli arrivi dal Sudan, a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023: i profughi sudanesi non si fermano più in Egitto, ma giungono in Libia, e da lì vengono da noi; e la decisione della giunta golpista in Niger di decriminalizzare in traffico di migranti, con conseguente aumento dei movimenti migratori da quell’area”.

Il “modello Caivano” per l’Africa, a partire da Libia e Tunisia: tutti i ministri devono andare

Dunque, “dobbiamo tenere alta l’attenzione. E per questo – ha chiarito il premier – ho bisogno di tutto il governo, poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del Continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica”. “Dobbiamo sforzarci di far sentire ad entrambe le Nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Pensiamo innanzitutto a impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione”, è stata dunque l’indicazione. “Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando, come per Caivano, le presenze, in modo – ha concluso il premier – che siano cadenzate e diano il senso della continuità”.

6135.- Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

In Africa, le democrazie partono svantaggiate rispetto alle tempistiche delle autocrazie, salvo che non facciano un uso appropriato, preventivo, offensivo dell’intelligence.

Da Formiche.net, di Francesco De Palo | 23/02/2024 – 

Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

Etiopia e Ghana sono solo due dei Paesi che il governo italiano ha messo al centro della propria azione con il Piano Mattei. Ma nelle stesse settimane in cui si celebrava a Roma il vertice Italia-Africa, si è rafforzata la presenza bielorussa in loco

Piano Mattei e Africa: sono due i fatti che si possono unire idealmente sotto le insegne della geopolitica (e della marcatura che Mosca vuole fare all’Italia?). Il primo tocca l’Etiopia e in generale i progetti che si stanno moltiplicando tra Italia e Africa e il secondo verte l’attivismo del Presidente bielorusso.

Qui Etiopia

L’Italia ha restituito all’Etiopia il primo aeroplano costruito nel Paese africano, un gesto che rafforza i legami tra le due nazioni e chiude un capitolo doloroso iniziato quasi un secolo fa. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha espresso grande orgoglio per il ritorno di “Tsehay”. Alla cerimonia di consegna, ad Addis Abeba, hanno preso parte il Presidente Sahle-Work Zewde, il primo ministro e il sindaco Adanech Abiebie, nell’ambito della cerimonia di inaugurazione del Memoriale della Vittoria di Adwa. La cessione segue la cerimonia, avvenuta lo scorso 30 gennaio, presso il Musam, quando era stato ufficialmente consegnato il velivolo meticolosamente restaurato, alla presenza del primo ministro Abiy Ahmed Ali e del ministro della Difesa Guido Crosetto.

Su richiesta del primo ministro etiope al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il velivolo è stato completamente ristrutturato prima della riconsegna e si inserisce all’interno di una relazione italo-etiope già solida dopo i vari incontri bilaterali tra i due leader. In Etiopia, tra l’altro, è presente l’istituto Galilei che quest’anno festeggia i 70 anni, al centro di accordo bilaterale siglato nel dicembre scorso nella capitale etiope dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara e personalmente visitato da Giorgia Meloni lo scorso aprile in occasione della sua visita ufficiale. 

Progetto Ghana

Colmare il deficit di manodopera nell’industria friulana: per questa ragione il presidente di Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, ha incontrato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, al quale ha illustrato il “Progetto Ghana”, con l’obiettivo di formare giovani ghanesi, già inseriti nelle scuole tecniche e professionali in quel Paese, con uesti profili richiesti: saldatori, mulettisti, carpentieri, elettricisti ed altro. Il ministero ha già dato la propria disponibilità a sostenere questa iniziativa nell’ambito di quel progetto arioso che prende il nome di Piano Mattei.

Qui Bielorussia

A fare da contraltare all’attivismo italiano, ecco il movimentismo bielorusso: il presidente Aleksandr Lukashenko ha dichiarato che, nonostante molti Paesi africani abbiano ottenuto l’indipendenza politica, devono ancora liberarsi dalla dipendenza economica. Ovvero ha annunciato l’inizio, anzi, la prosecuzione di una più ampia strategia per fer entrare in contatto Minsk con quei Paesi a cui si rivolge anche l’Italia con il Piano Mattei. Èun po’ come se, incrociandola con altre partite geopolitiche primarie, Mosca (per il tramite della Bielorussia) volesse marcare stretta l’Italia sull’Africa. 

Tra l’altro tre settimane fa è stato in Kenya per una visita ufficiale, dopo il precedente incontro avuto con il suo omologo kenyano, William Ruto, che si è tenuto a Dubai il 1° dicembre scorso, in occasione del Summit sul Clima Mondiale. Il viaggio in Kenya è stato per Lukashenko l’occasione di annunciare una più intensa partnership tra i due Paesi, sulla scia di quello che la Bielorussia già fa con Zimbabwe e Guinea Equatoriale. “Il potenziale della nostra cooperazione è enorme” disse nel gennaio 2023 incontrando ad Harare il leader dello Zimbawe Emmerson Mnangawa, dopo aver consegnato delle macchine agricole bielorusse.

Un mese prima aveva firmato una serie di accordi di cooperazione con il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo nella capitale Malabo come parte di un tour africano per rafforzare i legami nel continente. I progetti nei settori dell’industria, dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura dovrebbero essere completati entro i prossimi due anni.

Strategia binaria

L’obiettivo di Minsk è quello di rafforzare i legami diplomatici ed economici tra i Paesi africani e la Bielorussia, sotto la spinta di Mosca, soprattutto riguardo alcuni settori mirati come l’agricoltura e la produzione alimentare, ambiti in cui il Kenya è più sensibile.

A dimostrazione dell’ulteriore presenza russa in loco ecco i numeri che provengono alla voce grano: l’Algeria è il secondo consumatore di grano in Africa dopo l’Egitto e lo acquista per la maggior parte dalla Russia, che si pone come il principale fornitore di grano davanti ai Paesi dell’Unione Europea. Numeri che hanno permesso al settore russo di esportare circa 400.000 tonnellate di grano in più rispetto all’Ue, che fino a prima della guerra era la prima fonte di approvvigionamento del Paese nordafricano.

6134.- Guardiamo al difficile cammino di ItaliAfrica, il nuovo Piano Mattei. La sicurezza.

Se di una cosa siamo certi è che il Nuovo Piano Mattei dovrà essere costruito, insieme, dagli imprenditori e dagli istituti finanziari dell’Europa e dell’Africa. Come viaggiare oggi nel Sahel diventa, perciò, importante. Ci affidiamo alla Helpline DFAE, Dipartimento federale degli affari esteri, uno dei sette Dipartimenti federali del governo svizzero. Partiamo con i piedi per terra dal Mali perché è il paese più grande dell’Africa occidentale ma è anche uno dei cinque paesi più poveri al mondo. Poi, vedremo Niger e Chad. Il Mali è sia il maggior produttore di cotone al mondo sia quello con il tasso di alfabetizzazione più basso: 32%.

Anche se il Mali non rientra nella classifica della Farnesina per i paesi con un rischio “estremo” per la sicurezza, i consigli di viaggio sono importanti e poggiano su un’analisi della situazione attuale effettuata dal DFAE. La Helpline DFAE funge da interlocutore per rispondere alle domande riguardanti i servizi consolari. Sono permanentemente controllati e se necessario aggiornati sia i Consigli sia anche le Raccomandazioni generali. Importanti inoltre i ragguagli sulle prescrizioni doganali per l’importazione o l’esportazione di animali o di merci: apparecchi elettronici, souvenir, medicamenti, ecc.

Valutazione sommaria

Si sconsigliano i viaggi a destinazione del Mali come pure i soggiorni di qualsiasi tipo. I rischi per la sicurezza portati non solo dal terrorismo sono elevati e il rischio di sequestro è molto alto in tutto il territorio.

Ci sono persone di cittadinanza svizzera che rimangono o si recano nel Mali nonostante la raccomandazione del DFAE, devono essere consapevoli che la Svizzera ha soltanto possibilità molto limitate di fornire assistenza o non ne dispone affatto in caso di emergenza.

In agosto 2020, unità dell’esercito hanno destituito il governo maliano e sciolto il parlamento. Alla fine di maggio 2021, un altro colpo di Stato ha avuto luogo e un governo di transizione è stato installato.

In tutto il Paese esistono elevati rischi per la sicurezza. Gli attacchi terroristici si verificano regolarmente e il rischio di sequestro è molto elevato. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (MINUSMA) ha terminato il suo mandato il 31 dicembre e ha ritirato precipitosamente il suo personale dal Mali, abbandonando molto materiale.
Un ulteriore inasprimento della situazione di sicurezza è probabile.

La situazione politica rimane instabile e si verificano regolarmente scioperi e manifestazioni contro gli interessi stranieri. I principali collegamenti stradali possono essere bloccati e veicoli possono essere colpiti da pietre. In questi scontri si registrano regolarmente morti e feriti. 

Conflitti tra diversi gruppi della popolazione provocano regolarmente vittime.

Gruppi islamisti e altri gruppi armati controllano ampie zone del nord, del nord-est e del centro del Paese e si espandono verso sud. In tutto il Paese si verificano scontri armati tra le forze di sicurezza e questi gruppi, e si sferrano attacchi alle strutture militari e di polizia. Il numero di dispositivi esplosivi improvvisati lungo i principali assi stradali è aumentato.

Atti di violenza da parte di gruppi terroristici e criminali causano molti morti e feriti tra i civili. Tra i possibili obiettivi di un attacco terroristico vi sono impianti governativi, turistici o istituzioni straniere, assembramenti, come ad esempio mercati affollati, centri commerciali, mezzi di trasporto pubblici, scuole, manifestazioni culturali, alberghi internazionali e ristoranti rinomati. Vengono attaccati anche interi villaggi.

Il rischio di sequestro è molto alto in tutto il Paese. In molte regioni del Sahara e del Sahel sono operative bande armate e terroristi islamici che vivono di contrabbando e di sequestri. Sono perfettamente organizzati, operano anche al di là dei confini nazionali e hanno contatti con gruppi criminali locali. Dal novembre 2009, diverse persone straniere sono state sequestrate nelle zone del Sahel, in parte nelle città. Si trattava di persone in viaggio per turismo, personale di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, aziende straniere, nonché di persone appartenenti a istituzioni religiose. Le situazioni di pericolo sono spesso imprevedibili e confuse e possono mutare rapidamente. L’ultimo attacco jihadista in Mali risale alla metà di giugno 2022, ma furono 132 le vittime uccise a Mopti, nel Centro del Paese.

SEGUE: L’Intelligence e l’immigrazione

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

6199.- Italia-Africa, Meloni: “Siamo qui per scrivere una nuova pagina di storia”. Ecco i pilastri del Piano Mattei

Grazie presidente.

Da Il Secolo d’Italia, 29 Gen 2024, di Viola Longo. vedi 6174.

italia africa meloni

In un’aula del Senato gremita dai rappresentanti delle delegazioni che partecipano al vertice e circondata dalle bandiere degli Stati africani e delle organizzazioni internazionali presenti, il premier Giorgia Meloni ha aperto i lavori di “Itali-Africa. Un ponte per la crescita comune”, imprimendo da subito quell’indirizzo fortemente operativo che il summit vuole avere e illustrando, se pur rapidamente, le azioni che l’Italia ha già messo sul tavolo in ciascuno dei cinque pilastri su cui si fonda il Piano Mattei, il progetto di cui il governo si è fatto promotore per imprimere una svolta ai rapporti di cooperazione con il Continente. Le “direttrici strategiche” sono istruzione e formazione; salute, agricoltura; acqua; energia. Le stesse al centro delle sessioni di lavoro della giornata alla quale partecipano, per la prima volta, i vertici delle nazioni interessate. Perché se è vero che conferenze Italia-Africa ce ne sono già state, è anche vero che questa è la prima volta che i protagonisti non sono i soli ministri degli Esteri, ma i capi di Stato e di governo. Un segno della “centralità e della rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con gli Stati africani”, ha sottolineato il premier, chiarendo come anche la scelta del Senato come sede del vertice ne sia conferma.

Meloni: “L’Africa ha un posto d’onore nell’agenda di governo”

Circondata dai vertici delle istituzioni europee e dell’Unione africana, Meloni ha voluto sottolineare anche che quello di oggi è “il primo appuntamento della presidenza italiana del G7” ed è frutto “di una politica estera precisa, che porta a riservare all’Africa un posto di onore nell’agenda del governo”. “Vogliamo dimostrare che siamo consapevoli che il destino di Europa e Africa sia interconnesso”, ha aggiunto ancora il premier, rivendicando come l’Italia sia stata anche tra le “primissime nazioni” a sostenere l’ingresso stabile dell’Unione africana nel G20, che si è realizzato quest’anno.

  •  Metsola: Enrico Mattei comprese che le nazioni lavorano meglio insieme, non l’una contro l’altra.

Un nuovo modo di concepire la cooperazione con il Continente

La cornice è quella illustrata più e più volte dal premier da quando è arrivata a Palazzo Chigi: con l’Africa va costruito un rapporto da “pari a pari”, senza più quegli approcci “predatorio” o “caritatevole” che troppo spesso hanno caratterizzato le relazioni con il Continente e che “mal si conciliano con la straordinarie potenzialità” dell’Africa. Per questo per il titolo del vertice parla di “ponte per la crescita comune”, ha chiarito ancora Meloni, ricordando che l’Italia è naturalmente un ponte tra Africa ed Europa e che il nostro Paese ha il vantaggio di poter costruire queste nuove relazioni partendo “non da zero”, ma dalla “lungimiranza di Enrico Mattei”, che quel ponte seppe immaginarlo vedendo la possibilità di “coniugare l’esigenza italiana di rendere sostenibile la sua crescita” con quella delle “nazioni partner” di vivere “una stagione di libertà, sviluppo, progresso”.

Basta con la narrazione dell’Africa come “continente povero”

“A monte bisogna smontare le narrazioni distorte che descrivono l’Africa come un continente povero”, ha ammonito Meloni, ricordando che l’Africa ha il 30% delle risorse minerarie, il 70% delle terre coltivabili, il 60% della popolazione sotto i 25 anni. “Italia, Europa e vorrei dire il mondo intero – ha sottolineato il premier – non possono ragionare di futuro senza tenere nella giusta considerazione l’Africa”. “Noi – ha proseguito – vogliamo fare la nostra parte, avviando un ambizioso programma di interventi capace di aiutare il Continente a crescere e prosperare, partendo dalle sue immense risorse”. “Questa è l’ossatura del Piano Mattei”, ha sottolineato il presidente del Consiglio, parlando degli interventi che si concentreranno su quelle cinque direttrici strategiche, evitando la dispersione in micro-interventi.

Il Piano Mattei e i progetti già messi in campo dell’Italia

Il Piano Mattei, ha chiarito ancora il premier, in ossequio alle sue premesse, non sarà dunque una “scatola chiusa da imporre e calare dall’alto”, come è accaduto in passato. “Anche il metodo deve essere nuovo, di condivisione e collaborazione con le nazioni africane, sia nell’identificazione sia nell’attuazione” dei progetti. E, dunque, eccolo a Roma il primo passo di questo nuovo percorso di confronto e crescita comune al quale l’Italia arriva potendo già presentare alcuni progetti avviati con diversi partner africani in ciascuno dei “5 pilastri”. Fra questi la realizzazione di un centro di eccellenza per la formazione nel campo delle energie rinnovabili in Marocco; la creazione di un progetto per migliorare l’accessibilità ai servizi sanitari primari in Costa d’Avorio, con particolare attenzione ai più fragili, a partire da donne e bambini; i numerosi progetti avviati nel campo cruciale dell’agricoltura, come il centro agroalimentare in Mozambico o il sostegno alla produzione di grano, mais, soia e girasole in Egitto, e che si avvalgono anche di tecnologie innovative, come il monitoraggio satellitare delle colture in Algeria, il potenziamento della stazione di depurazione delle acque non convenzionali per l’irrigazione in Tunisia. E, ancora, per quanto riguarda l’acqua, la costruzione di pozzi e reti di distribuzione con energie rinnovabili in Congo, o i progetti di collaborazione energetica con il Kenya, ricordando sempre che “l’Italia ha le carte in regola per essere l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’Europa”.

Un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati

“Abbiamo individuato alcune nazioni africane del quadrante subsahariano e nordafricano”, che sarà poi allargato “seguendo una logica incrementale”, ha spiegato ancora Meloni, sottolineando la concretezza di questi progetti “capaci di generare un impatto per lo sviluppo” e che “intendo seguire personalmente”. Progetti nei quali, ha chiarito ancora Meloni, sarà necessario coinvolgere tutto il sistema Italia, col suo bagaglio di competenze. Il Piano Mattei, ha chiarito Meloni, parte con una dotazione finanziaria di 5,5 miliardi di euro, “ma questo non basta”, per questo l’Italia ha voluto coinvolgere le istituzioni finanziarie internazionali e sottolinea l’importanza del coinvolgimento di altri Stati donatori. Inoltre, ha annunciato il premier, entro un anno sarà creato “un nuovo strumento finanziario con Cassa depositi e prestiti per agevolare gli investimenti privati”.

L’importanza del Piano Mattei anche per garantire il “diritto a non dover emigrare”

Meloni, quindi ha ricordato che il Piano Mattei è anche uno strumento per “garantire il diritto a non dover essere costretti a emigrare”. “L’immigrazione illegale di massa non sarà mai fermata, i trafficanti di vite umane non saranno mai sconfitti se non si affrontano a monte le cause che spingono una persona ad abbandonare la propria casa. È esattamente quello che intendiamo fare: da una parte dichiarando guerra agli scafisti del terzo millennio e dall’altra lavorando per offrire ai popoli africani un’alternativa fatta di opportunità, lavoro, formazione e percorsi di migrazione legale”, ha sottolineato il premier, spiegando che “l’Africa che vediamo noi può e deve stupire”. “Si dice che dall’Africa sorge sempre qualcosa di nuovo, il mio augurio – ha concluso Meloni – è che da questo vertice sorga qualcosa di nuovo, per scrivere una nuova pagina nella storia”.

6198.- Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Da Formiche.net, di Lorena Stella Martini | 28/01/2024 – 

Summit Italia-Africa, un cambio di paradigma? Scrive Martini (Ecco)

Con la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità del continente. L’analisi di Lorena Stella Martini, policy advisor di politica estera del think tank Ecco

In occasione del Summit Italia-Africa che si terrà a Roma da oggi a domani 29 gennaio, il governo presenterà la cornice politica e le direttive del Piano Mattei per lo sviluppo dei Paesi africani, condividendole con i numerosi leader africani che affolleranno la capitale.

Affinché il Piano renda davvero giustizia al nome che porta e costituisca un approccio paritario al continente africano come promette, all’Italia serve una strategia innovativa e coraggiosa, che definisca un vero e proprio cambio di paradigma rispetto ai modelli del passato. Solo così l’obiettivo ultimo del Piano, ovvero promuovere stabilità e sviluppo in Africa, andando ad agire sulle cause alla radice dei movimenti migratori, potrà essere raggiunto e mantenuto. Ciò anche in considerazione dell’esponenziale crescita demografica del continente e dei sempre più pesanti impatti del cambiamento climatico.

Il focus sull’Africa è fondamentale per la proiezione esterna del nostro Paese sotto diversi punti di vista: sia a livello politico e securitario, sia economico, dove l’energia – o in altre parole, l’approvvigionamento di combustibili fossili – ha sempre giocato un ruolo principe. Ciò, ancor più in seguito alla crisi energetica esacerbata dall’invasione russa dell’Ucraina, quando l’Italia ha portato avanti una massiccia politica di investimenti nei combustibili fossili africani. Un modello che, per svariati motivi, appare oggi obsoleto e non più in linea con gli obiettivi e gli interessi dell’Italia.

Infatti, né l’argomento della sicurezza energetica del nostro Paese – che è già garantita – né un’analisi delle tendenze al ribasso della domanda e dei prezzi del gas a livello italiano ed europeo giustificano nuovi investimenti e garanzie per lo sfruttamento del gas in Africa. Uno sfruttamento che sarebbe peraltro in contraddizione con gli impegni assunti dall’Italia sulla via della decarbonizzazione.

Inoltre, se la volontà è quella di favorire uno sviluppo dei Paesi africani, che sia sostenibile e di lungo termine, è bene riflettere sulla retorica secondo la quale il gas sarebbe veicolo di sviluppo economico-sociale e stabilità politica. L’assaggio dell’instabilità dei mercati internazionali di oil&gas che abbiamo avuto nel corso degli ultimi due anni ha infatti dimostrato come sulle fonti fossili non si possa basare la crescita stabile, costante, sostenibile e inclusiva di cui i Paesi africani hanno bisogno. A ciò si aggiunge l’impatto di un tale modello di sviluppo sul cambiamento climatico, che in Africa corre più veloce che altrove, con risultati sempre più disastrosi: si stima che nel solo 2022 eventi estremi dal punto di vista atmosferico, climatico e idrogeologico abbiano generato in Africa danni per 8.5 miliardi di dollari.

Per diventare un partner davvero strategico per il continente africano sul lungo periodo, l’Italia deve allora guardare altrove, in particolare abbracciando l’opportunità rappresentata dalla crescita verde e dalla transizione energetica. Ciò significa, in primis, focalizzarsi sulle energie rinnovabili, ma anche sulle materie prime critiche, e affiancare alla promozione di politiche di mitigazione anche politiche di adattamento agli impatti del cambiamento climatico.

Sono tutti punti, questi, emersi come centrali nelle dichiarazioni degli stessi leader africani, che all’African Climate Summit dello scorso settembre hanno messo in luce la volontà di orientarsi verso un modello di sviluppo sostenibile basato sulla crescita verde e su un’economia a basse emissioni, lontana da modelli di sfruttamento estrattivi. Rivendicazioni riscontrabili anche in seno alle eterogenee declinazioni della società civile africana, il cui coinvolgimento è imprescindibile al fine di elaborare un Piano che sia davvero co-costruito con i partner africani – laddove i partner non siano solo le élite – e che si configuri come non predatorio e paritario. Ciò implica in ogni settore, anche in quelli più innovativi, allontanarsi da quelle logiche di sfruttamento che tanto a lungo hanno caratterizzato il rapporto con i Paesi africani, per favorire innanzitutto la creazione e la crescita di catene del valore locali, foriere di uno sviluppo africano a 360 gradi.

Complice anche la presidenza del G7, nel 2024 l’Italia ha lo spazio politico a livello internazionale per portare avanti un cambio di passo che contribuisca davvero a sbloccare le potenzialità dell’Africa. Una relazione che deve estendersi anche sul piano finanziario, attraverso la riforma dell’architettura finanziaria internazionale, della quale l’Italia può farsi portavoce in sede G7, e con soluzioni che contribuiscano a fornire un sostegno immediato alla liquidità e a ripristinare la sostenibilità del debito dei Paesi africani. La posta in gioco è alta. Il Piano Mattei saprà essere la giusta cornice per questo cambio di paradigma?

6181.- Progetti che diventano modelli. Il Piano Mattei per l’Africa secondo Giro

Dal G7 nascano progetti pilota fatti  innanzitutto di sviluppo economico e sociale da proporre all’Africa per il Piano Mattei. L’Africa deve trovare nell’Europa un compagno di viaggio per affrontare la crescita dei suoi popoli e i rapporti internazionali nel mondo globalizzato. Il Mediterraneo allargato può essere il pilota, a patto che tutte le nazioni abbiano riconosciuta pari dignità, così la Siria e così la Palestina; ma questo risultato può ottenersi abbandonando tutte le guerre, non soltanto civili e favorendo un contesto di pace. Le politiche della Turchia e di Israele sono i maggiori ostacoli.

Da Formiche.net, l’articolo di Francesco De Palo di oggi 14 gennaio 2024

Progetti che diventano modelli. Il Piano Mattei per l’Africa secondo Giro

Conversazione con l’ex viceministro degli Esteri: “Bisognerà individuare dei programmi pilota tra trasferimento di know how, formazione e piccole e medie imprese. Potrebbe essere l’occasione per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello”

Ambasciate e voli, oltre che infrastrutture e prestiti, sono due strumenti di influenza che in Africa hanno un notevole peso specifico, spiega a Formiche.net l’ex viceministro degli Esteri Mario Giro, cerchiando in rosso il ruolo della Turchia. L’occasione è rappresentata da un cambio di paradigma nei rapporti con l’Africa, che prende il nome di Piano Mattei,“opportunità per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello”, osserva in questa ampia conversazione che spazia al ruolo della Cina, agli errori del colonialismo ma anche dell’occidente e degli stessi africani. Fino al ruolo nuovo dell’Italia in vista del vertice Italia-Africa in programma a Roma a fine gennaio. “Gli auspici sono quelli di un rinnovato interesse per una relazione non predatoria, come più volte osservato da Giorgia Meloni, quindi vuol dire in qualche maniera provare a fare uno scambio win-win”.

Come costruire nuove relazioni tra Europa e Africa, sia alla luce di un quadro internazionale sempre più complesso, sia per governare fenomeni altrettanto complessi come i flussi migratori?

È una necessità su cui l’Italia si sta interrogando ormai da una ventina d’anni, senza trovare ancora veramente il modello giusto. Si è fatto molto per il partenariato sulla questione migratoria, ma non abbastanza probabilmente, anche perché i leader africani non vedono il loro interesse in questo scambio. Non bastano i soldi, ci vuole qualcosa di più. E poi il mondo è cambiato sotto i nostri occhi, sta cambiando l’Africa che vuole decidere da sola. Aggiungo che non vuole più essere terreno di scontro, di influenze, ma essere piuttosto protagonista. Per questo chiede un posto al G20 e l’ha ottenuto. E vorrebbe anche un posto nel Consiglio di sicurezza permanente, che sarà molto difficile.

Come si può inserire in tale contesto il Piano Mattei durante la presidenza italiana del G7?

Si tratta del tentativo dell’Italia di immaginare un atteggiamento più paritario. Il vertice Italia-Africa di fine gennaio può essere un nuovo inizio. Gli auspici sono quelli di un rinnovato interesse per una relazione non predatoria, come più volte osservato da Giorgia Meloni, quindi vuol dire in qualche maniera provare a fare uno scambio win-win.

In che modo?

Individuare ciò che agli africani interessa. E la cosa che interessa più di tutte, guardando loro all’Italia, è avere il know how per sviluppare un sistema di trasformazione manifatturiera e industriale in casa propria, a partire dalle materie prime che l’Africa ha in abbondanza, sia agricole che minerarie, che estrattive. Quindi un’Africa che non è soltanto un luogo dove si va a prendere ma in cui si costruisce, si trasforma. Ecco l’idea di fondo.

Con quali strumenti?

Gli strumenti possono essere tanti, sicuramente come ha detto la premier c’è anche bisogno dell’Europa perché non basta l’Italia: bisognerà individuare dei progetti pilota tra trasferimento di know how, formazione e piccole e medie imprese. Secondo me potrebbe essere l’occasione per far sbocciare dei progetti di eccellenza che poi possono diventare modello.

Il colonialismo del passato si è rivelato la causa del raddoppio delle disuguaglianze, inasprendo i conflitti? E come l’elemento della solidarietà, valoriale oltre che materiale, può essere utile?

Il colonialismo sicuramente è stato un rapporto paternalistico, nella sua parte meno peggiore, che anche secondo gli storici ha creato molti problemi, che oggi si vedono riemergere nel rancore. È vero che l’Europa ha portato molteplici contributi in Africa però, come diceva Robespierre, i profeti armati o i missionari armati non piacciono a nessuno. Quindi lì esiste una ferita che va sanata, nella consapevolezza che il colonialismo non è la soluzione di tutti i mali, perché anche l’Asia è stata colonizzata eppure si è sviluppata. Piangersi addosso per cinquant’anni non è certo la soluzione, in questo emerge anche una responsabilità africana dei fallimenti africani. Per quanto concerne la solidarietà cattolica sottolineo che è molto importante ma non è solo italiana.

Ovvero?

Ha creato una delle poche reti che regge ancora in Africa, una rete continentale che sostiene le scuole, i dispensari, i centri di salute, gli ospedali. Vi sono numerose esperienze a cui si sono aggiunte anche esperienze laiche. Devo dire che l’Europa si è manifestata in quanto società civile, in quanto Stati membri, in quanto Unione europea come il più grande donatore. La generosità europea è forte: non va condannata va anzi protetta perché ha creato tanti legami. Io posso parlare per Sant’Egidio che ha creato dei modelli che possono essere ripresi.

È stato un grave errore aver lasciato campo libero a interlocutori come Cina e Russia? 

Da un punto di vista economico l’apporto cinese, dal 2000, è stato fondamentale per rilanciare il continente perché l’Occidente in generale si era un po’ discostato, avendo fatto un calcolo molto sbrigativo tra i costi e benefici. In seguito c’era stata un’ondata liberista che aveva in qualche modo cambiato il modello di sviluppo: a quel punto sono arrivati i cinesi. I cinesi arrivano improvvisamente, cominciano a comprare di tutto a qualunque prezzo e questo rilancia l’Africa: per cui dal punto di vista economico bisogna ringraziare i cinesi di aver rimesso l’Africa al centro.

Dopo 20 anni quale il bilancio guardando anche al domani?

Le cose dopo vent’anni sono cambiate ancora, perché dopo tanti doni i cinesi hanno fatto anche tanti prestiti che adesso è difficile recuperare. Per cui si è creato uno scontro tra gli africani e i cinesi: non è che tutto vada a gonfie vele, l’Africa è tornata ad essere un terreno di competizione tra occidentali, cinesi e russi. E ultimamente anche potenze medie come i coreani, gli indiani, i turchi. Questi ultimi sono impressionanti.

Per quale motivo?

Perché hanno molte più ambasciate dell’Italia, circa una trentina e in Africa sono molto presenti. La Turkish Airways è diventata la linea aerea più più diffusa in Africa, segnali di molta influenza in loco. Quello che vogliono gli africani è non essere solo un luogo, un terreno di scontro, di influenze, ma essere protagonisti delle loro scelte. E quindi cosa fanno? Scelgono di volta in volta, tra tutti questi competitori che si presentano, come pare loro meglio.

6165.- Africa 2024. Tutti i dossier aperti in vista del Piano Mattei

18 Paesi africani, l’Unione europea e gli Stati Uniti andranno al voto nel 2024. Il Piano Mattei avrà successo se chiunque sarà eletto faremo dimenticare ai governi e ai popoli africani gli europei predatori.

Da Formiche.net, di Lorenzo Piccioli | 04/01/2024 – 

Africa 2024. Tutti i dossier aperti in vista del Piano Mattei

Con l’avvicinarsi delle elezioni in numerosi Paesi africani entrano in moto dinamiche specifiche di ogni singolo Stato. Dinamiche fondamentali da afferrare, per poter strutturare al meglio l’intervento del nostro Paese nel continente africano

Il 2024 sarà un anno di elezioni. Dagli Stati Uniti all’Europa, arrivando alla Federazione Russa, dove Vladimir Putin cercherà (presumibilmente con successo) una riconferma. E anche nel continente africano, il 2024 sarà un anno “elettorale”: 18 diverse consultazioni avranno luogo nei Paesi di tutta l’Africa, dove si alterneranno elezioni mancate a elezioni correttamente svolte, ed elezioni corrette ad elezioni truccate.

A partire dal Senegal, dove il presidente uscente Macky Sall ha ufficialmente rinunciato a ripresentarsi per un terzo mandato (superando il limite di due mandati previsto dalla costituzione del Paese). La candidatura ad apparire favorita nelle consultazioni elettorali di febbraio è quella del delfino di Sall e attuale primo ministro Amadou Ba; tuttavia, le forti proteste (con in testa la fascia più giovane della popolazione) che hanno avuto luogo in Senegal a sostegno del leader dell’opposizione Ousmane Sonko, attualmente impossibilitato a candidarsi per una condanna penale, dimostrano come la popolazione sia fortemente divisa sul piano politico. A dicembre, un tribunale senegalese ha ordinato il reinserimento di Sonko nelle liste elettorali, aprendogli la strada alle elezioni di febbraio. Una sua partecipazione effettiva al confronto elettorale potrebbe portare a risultati inattesi.

A luglio sarà invece il turno del Rwanda, dove invece il presidente Paul Kagame mantiene il potere sin dal 1994, e con l’emendamento della costituzione del Paese promosso nel 2015 adesso può rimanere in carica fino al 2034. Kagame intende ricandidarsi per un quarto mandato, e il risultato sarà facile da prevedere. Le elezioni si svolgeranno in un momento di alta tensione tra il Rwanda e la vicina Repubblica Democratica del Congo, dove si sono da poco svolte delle contestate elezioni che hanno riconfermato il presidente in carica Felix Tshisekedi.

Le elezioni presidenziali in Tunisia avranno invece a novembre, per la prima volta dall’emanazione della nuova Costituzione del Paese, redatta dal presidente Kais Saied e approvata lo scorso luglio in un referendum ampiamente boicottato dagli elettori. Secondo la nuova costituzione, il presidente può assumere e licenziare il primo ministro e i ministri parlamentari. Nel settembre 2023, Tunisi ha annunciato che gli osservatori stranieri non avrebbero potuto prendere parte alle elezioni. Non è un buon segnale, unito alle previsioni secondo cui molti tunisini boicotteranno il voto. Anche se ciò non basterà a fermare il processo.

Dopo le numerose proteste dell’anno scorso, con un salvataggio (il diciassettesimo dall’indipendenza del paese nel 1957) da tre miliardi di dollari stipulato con il Fondo Monetario Internazionale che ha causato sofferenze fiscali per molti cittadini comuni, quest’anno anche il Ghana andrà a votare. Il Paese ha una forte cultura dell’attivismo giovanile e la vittoria nella corsa alla successione del presidente Nana Akufo-Addo, che ha raggiunto il suo limite di due mandati, non è garantita per il New Patriotic Party, attualmente guidato dal vicepresidente Mahamudu Bawumia.

Anche in Paesi teatro di colpi di stato militari (coronati o meno dal successo) è previsto lo svolgimento di “elezioni”. A partire dal Mali, che nel giugno scorso ha indetto un referendum sulla nuova costituzione, la quale concede al capo dello Stato ampi poteri come la possibilità di nominare e licenziare i ministri. Secondo gli esperti l’attuale leader in carica, il colonnello Assimi Goita, e altri leader golpisti si stanno posizionando come potenziali candidati alla presidenza nelle elezioni che erano previste per il febbraio 2023 e che ora sono state rinviate all’ottobre 2024.

C’è poi il Ciad, dove il generale Mahamat Idriss Deby ha preso il potere nel 2021 alla morte del padre. Deby ha ritardato le elezioni di due anni a causa di una nuova costituzione, approvata con un referendum a dicembre, che istituisce assemblee locali autonome che consentono l’elezione di rappresentanti locali e la riscossione delle imposte. Ma la situazione interna è instabile. La possibilità di un colpo di stato interno da parte di membri della cerchia di Deby — a causa della guerra civile in Sudan e della sua presunta alleanza con gli Emirati Arabi Uniti — ha messo il Ciad in una situazione precaria mentre le elezioni incombono.

Infine, nella vicina Guinea-Bissau, il presidente Umaro Sissoco Embalo ha sciolto il parlamento per la seconda volta in meno di due anni dopo il fallimento di un colpo di Stato nel novembre 2022. Embalo ha sciolto il parlamento anche nel maggio 2022, dopo un altro apparente tentativo di rovesciamento nel febbraio 2022.

Le varie tornate elettorali sono un sottile filo rosso che collega più realtà, ognuna delle quali caratterizzata da una situazione unica e con caratteristiche specifiche. Un quadro da tenere a mente nell’attuazione del Piano Mattei. Certe differenze, peculiarità e contesto comportano articolazioni nella proiezione italiana nel continente.