Archivio mensile:ottobre 2017

1480.- PER UNA NUOVA FASE COSTITUENTE

Artt.50 54
 
Il referendum costituzionale di quasi un anno fa ha risvegliato l’interesse per la Costituzione e sono in molti quelli che hanno formato comitati e associazioni al nome di Attuare la Costituzione. Non sono d’accordo. Soprattutto con quelli che, per cultura e storia personale, dovrebbero conoscere le cause congenite, quando della sua mancata attuazione, quando delle sue sempre più frequenti violazioni. Questa Costituzione è “incapace” di garantire la sua attuazione e deve essere riveduta nella sua impostazione e riscritta. Ha posto, infatti, principi, cui ha dato valore giuridico con la sua rigidità (art. 138), ha delineato istituti, sancito diritti, di fatto, però, non immediatamente esigibili perché lasciati alla volontà del legislatore ordinario (“di quando e chi? di quale maggioranza?”), cioè, dei partiti. Per questo, dico e ribadisco questa è la Costituzione dei partiti, scritta dai e per i partiti.
Il problema dell’attuazione della sua trama di principi: meravigliosa, modernissima, rivoluzionaria è insanabile se non si aprirà una nuova fase costituente. Maramaldo chi sfrutta la tragedia dei diritti, incombente e si propone paladino della Costituzione per acquistare consensi e farsi, poi, traghettare nel sistema. Quale tragedia dei diritti? Per esempio, quella della farsesca attuazione di una direttiva europea, ben attuata, invece, 11 anni fa, utilizzata dal “governo di chi”? per conferire a un’autority, mai votata da noi, l’Agcom, il potere di spiare, oscurare e archiviare per 6 (sei) anni il nostro traffico su internet e telefonico, i nostri dati personali, senza l’autorizzazione della magistratura e a rischio di pirateria. Vi basta? Concludo dicendovi: Lode alla Prima Parte precettiva della Costituzione, ma non altrettanto per quella Parte che chiamerei ad attuazione differita, con la quale, in nome dell’attuazione e dell’applicabilità dei precetti, ha consentito di deviare da essi e finanche a violarli. Com’è potuto accadere? I costituenti avevano creato una gerarchia delle fonti, a garanzia dell’attuazione della loro trama dei Principi, ottenuta ponendo la Costituzione al vertice del sistema giuridico e attraverso il carattere rigido conferitole dalle procedure sancite dall’art. 138. Gravissimo, perciò, il giudizio sui garanti e, principalmente, sulla composizione e sul funzionamento della Corte Costituzionale; ma questo è un ulteriore problema.

1479.- Washington e Mosca devono tenere alta la tensione, ma non devono scontrarsi. La cooperazione militare segreta russo-curda-siriana nel deserto orientale della Siria

 

d8a3d986d8a8d8a7d8a1-d8b9d986-d988d8b5d988d984-d985d98ad984d98ad8b4d98ad8a7-d8b5d982d988d8b1-d8a7d984d8b5d8add8b1d8a7d8a1-d985d8b9-d988
Robert Fisk in The Independent del 24 luglio 2017 afferma che nuovi legami, per quanto deboli, dimostrano che tutte le parti sono decise ad evitare il confronto militare tra Mosca e Washington.

Dopo che i militari siriani arrivarono alla periferia della “capitale” dello SIIL “assediata” di Raqqa, russi, Esercito arabo siriano e milizie curde YPG, teoricamente alleate degli Stati Uniti, istituivano un centro di coordinamento segreto nel deserto della Siria orientale per impedire “errori” tra le forze russe e statunitensi che si fronteggiano sulle rive dell’Eufrate. La prova sarebbe un villaggio desertico di capanne di fango e dal caldo soffocante, 48 gradi, sedendomi sul pavimento di una villetta con un colonnello russo in mimetica, un giovane ufficiale della milizia curda, con il distintivo delle YPG (milizia popolare curda) sulla manica, e un gruppo di ufficiali siriani e delle milizie tribali locali. La loro presenza mostrò chiaramente che, nonostante la belligeranza occidentale, soprattutto statunitense, affermi che le forze siriane interferiscono sulla campagna “alleata” contro lo SIIL, entrambe le parti in realtà da tempo evitano il confronto.

Il Colonnello Evgenij, smilzo dai baffetti scuri, sorrise educatamente ma rifiutò di parlarmi, The Independent è il primo media occidentale a visitare il piccolo villaggio presso Rasafah, ma la giovane controparte curda, che mi ha chiesto di non rivelarne il nome, insisteva a dire che “tutti combattiamo una sola campagna contro lo SIIL e perciò vi è questo centro, per evitare errori”. Il Colonnello Evgenij annuì approvando la descrizione ma restava in silenzio, un uomo saggio, pensai, perché dev’essere l’ufficiale russo più ad oriente in Siria, a poche miglia dall’Eufrate. Il 24enne rappresentante delle YPG, veterano dell’assedio dello SIIL di Kobani al confine turco, disse che un paio di settimane prima, dopo l’ultima offensiva siriana che colse di sorpresa lo SIIL ad ovest di Raqqa, un attacco aereo russo aveva erroneamente colpito posizioni curde. “Ecco perché abbiamo creato il nostro centro qui 10 giorni fa”, diceva. “Parliamo ogni giorno e abbiamo già un altro centro a Ifrin per coordinare la campagna. Dobbiamo sforzarci di combattere insieme”. La presenza di questi uomini in questo remoto deserto, dimostra quanto seriamente Mosca ritenga la strategia nella guerra in Siria e la necessità di monitorare le “forze democratiche siriane”, in gran parte curde, già a Raqqa con il sostegno aereo statunitense. Le SDF, che non hanno niente di democratico, se non forse la scala dei salari, sono considerate con profondo sospetto dai turchi, che saranno infuriati dal sapere della cooperazione siriano-curda, anche se Ankara e Damasco sono entrambe ferocemente contrarie alla creazione di un Stato curdo. Ma per quanto tenue, le nuove relazioni YPG-Russia-Siria possono dimostrare che tutte le parti sono decise ad evitare qualsiasi scontro militare tra Mosca e Washington.
83e4016a8d50159aa072bf8edc3776f9

I turchi, saranno infuriati dal sapere della cooperazione siriano-curda, anche se Ankara e Damasco restano entrambe ferocemente contrarie alla creazione di un Stato curdo.

C’era più del sorriso di TE Lawrence nella fiducia in sé stessi di questi pochi uomini tra la polvere e la sabbia, che ci ricoprirono quando uscimmo dall’ufficio. Intorno a noi, nella piana desertica, c’erano centinaia di pozzi di petrolio bruciati e abbandonati dallo SIIL, barili malamente costruiti e piattaforme di calcestruzzo da cui lo SIIL estraeva petrolio per finanziare il califfato che si estendeva fino a Mosul. L’ufficiale delle YPG insisteva sul fatto che la posizione del centro russo-siriano-curdo non avesse alcuna relazione con i vasti giacimenti di petrolio siriani intorno, ma la testimonianza dei recenti attacchi russi e statunitensi alle costruzioni dello SIIL era ovunque. Autocisterne, camion e anche alcuni carri armati siriani esplosi, forse vittime dello SIIL, si trovano nel deserto. Una scia di autocisterne, simili a quelle che Vladimir Putin descrisse con rabbia due anni fa esportare petrolio in Turchia, fiancheggiava la strada. Anche un autocarro che trasportava patate era stato colpito. Non c’erano corpi, ma l’Esercito arabo siriano fece dell’ironia lasciando l’originale cartellone dello SIIL nero e bianco sull’autostrada da Homs, “accogliendo” i visitatori del “Califfato, Provincia di Raqqa”.
Le avanguardie di carri armati e blindati siriani non erano lontane dalle città Ruman e Umayad, a Rasafah, le cui massicce mura e torri di pietra sono ancora in piedi, non toccate nei due anni di culturicidio dello SIIL, forse perché le loro sculture non mostrano esseri umani o animali. Migliaia di cammelli furono trascinati oltre la grande e sconvolgente città dell’antico califfato di Umaya bin Hisham Abdulmaliq, in una nube di polvere che copre mezzi e soldati. Rasafah era la città romana di Sergiopolis, chiamata da un centurione cristiano romano che fu torturato e messo a morte per la sua religione, non diversamente dalle vittime cristiane dello SIIL in questi tre anni. L’autostrada ad est di Homs doveva essere la via per l’attacco siriano di questo mese. Da qui la vastissima terra “piatta” e i muri di sabbia eretti dallo SIIL lungo tutta la strada. Ma contro lo SIIL, la tattica dell’Esercito arabo siriano, ormai famigerata, di aggredire i nemici al tergo e ai fianchi, respinse il califfato da centinaia di chilometri quadrati di territori ad ovest dell’Eufrate. Il Generale Salah, il comandante con una gamba della Divisione siriana dell’Eufrate, che ha più volte adottato questa politica insieme al compagno e amico Colonnello “Tigre” Suhayl, dice che le sue forze potrebbero, se l’avessero voluto, entrare a Raqqa in cinque ore, “se avessimo deciso di farlo”. Descrisse come i suoi uomini avevano cacciato al-Qaida e SIIL dalla città industriale di Najar, presso Aleppo, fino al lago Assad, proteggendo l’approvvigionamento idrico della città, con gravi perdite mentre avanzavano ad est della base di Quwayris liberando Dayr Hafar, Masqanah e altre città della provincia di Aleppo, per poi improvvisamente puntare a sud-est, a sud dell’Eufrate, verso Raqqa. “Le nostre forze sono ora a sette miglia dall’Eufrate tra Raqqa e Dayr al-Zur, a 14 miglia dal centro di Raqqa e a 10 miglia dalla vecchia base aerea di Tabaqa”, quasi gridava il generale. “Quanti islamisti abbiamo eliminato? Non m’importa. Non m’interessa. SIIL, Nusra, al-Qaida, sono tutti terroristi. La loro morte non importa. È la guerra”. Ma suggerii al Generale Salah, perché avevo studiato le mappe del deserto e ascoltato tante lezioni militari a Damasco, che sicuramente il suo prossimo bersaglio non sarà Raqqa (già in parte investita dalle forze statunitensi), ma la pesantemente assediata guarnigione della città di Dayr al-Zur con migliaia di civili intrappolati. “Il nostro presidente ha detto che riprenderemo ogni pollice quadrato della Siria”, rispose il generale, ripetendo il mantra di tutti gli ufficiali siriani. “Perché dici Dayr al-Zur?” Perché, dissi, avrebbe liberato i 10000 soldati siriani nella città per combattere sul fronte. Ci fu solo un accenno di sorriso sul volto dell’ufficiale, ma poi svanì. Infatti non penso che i siriani sosterranno le forze militari statunitensi che combattono a Raqqa, per cui dopo tutto era nato il piccolo centro di coordinamento visto nel deserto, ma credo che l’Esercito arabo siriano punti su Dayr al-Zur. Quanto al generale, naturalmente, non disse nulla di ciò. Né, ovviamente, credeva al conteggio dei nemici eliminati.
In realtà, c’è un’altra tattica intrigante dispiegata dall’amministrazione siriana. Il governatore locale del Rif al-Raqqa, “rif” indica la campagna attorno a una città da non confondere con la città, costituiva la propria sede presso il caravan di Salah. Un vero caravan, con rocce su cui salire a bordo, l’ufficio e la camera da letto in una piccola stanza, il bastone da passeggio al fianco del letto. Il governatore locale, però, è a poco più di un chilometro a pianificare il riavvio delle forniture di acqua e luce, il finanziamento delle opere pubbliche e gli aiuti ai profughi. Quando lasciai l’area, 29 famiglie, carrellate di bambini e donne in nero su divani, erano appena arrivate a Rasafah da Dayr al-Zur per cercare aiuto dal governatore di Raqqa. Altre 50 erano arrivate il giorno prima. Sembra perfettamente ovvio che se l’Esercito arabo siriano lascia Raqqa agli amici curdi degli USA, ciò aiuterà l’amministrazione civile del governo siriano a prendere la città con la forza della burocrazia. Come sarebbe stata una vittoria senza sangue?
Ma la fiducia in sé è spesso serva di disavventure. L’autostrada che costituisce la punta del triangolo Homs-Aleppo ora si estende fino a Rasafah per 60 miglia, e il Generale Salah non fa alcun mistero che SIIL e camerati cultisti sbuchino dal deserto nell’oscurità per attaccare i suoi soldati. Questi uomini, molti dei quali adolescenti, sono riuniti in accampamenti di tende accanto la strada, protetti da carri armati e cannoni antiaerei. E le loro battaglie sono continue con lo SIIL che piazza ancora bombe sul ciglio dell’autostrada. Quando viaggiai nel deserto per Homs, seguì per un po’ di tempo un camion con un pezzo d’artiglieria da 152mm così usurato che la canna si era staccata. Mentre i genieri siriani ripristinano le stazioni elettriche nel deserto, fino a poco prima nascondigli dei capi dello SIIL, il sistema elettrico intimamente connesso ai campi petroliferi siriani, lentamente ripresi al nemico SIIL e modesti rispetto ai grandi giacimenti del Golfo, iracheni e iraniani, resta la “perla nel deserto” della Siria. Chi controllerà queste fonti di ricchezza, e come il loro prodotto sarà condiviso adesso che sono state liberate dalla mafia dello SIIL, deciderà parte della futura storia politica della Siria.

23072017-2

Traduzione di Alessandro Lattanzio Aurora

1478.-GLI STATI UNITI “D’ISRAELE” NON DARANNO RAKKA ALLA SIRIA. E ALTRE SOVVERSIONI.

 

 

SDF,_YPG,_and_YPJ_flags_in_Raqqa_centre.png

Flags of the SDF, YPG, and YPJ in the centre of Raqqa city after its complete capture by the SDF.

La città siriana di Rakka è stata “liberata/abbandonata” dall’occupazione di Daesh dalle cosiddette Forze Democratiche Siriane (FDS), che  sono i curdi sostenuti dagli Stati Uniti, ostili (solo in teoria) a Daesh come a Damasco. Curdi e non solo:  nelle loro file sono stati notati mercenari europei ed americani della (ex) Blackwater, secondo le fonti iraniane  circa 2 mila.

La “liberazione”  non è avvenuta a seguito di feroci combattimenti:  le forze “democratiche”  si sono accordate coi jihadisti, ai quali è stato permesso di uscire da Rakka  con armi, famiglie e bagagli senza colpo ferire. Gli americani, che guidano le Forze “Democratiche” Siriane, hanno diramato la dichiarazione: “La Coalizione non ha partecipato alle discussioni” coi terroristi perché lasciassero Rakka.  Una menzogna subito  scoperta: la BBC ha mostrato  il generale Usa Jim Glynn mentre, il 12 ottobre, s’incontrava con  i capi jihadisti per negoziare l’accordo. Qui il video:

SDF_fighters_in_central_Raqqa.png
SDF fighters with a Humvee in central Raqqa

Nella realtà, si vede chiaro adesso che lo “Stato Islamico” aveva conquistato Rakka per conto degli Stati Uniti, ed ha consegnato le chiavi al vero padrone. Infatti pochi giorni dopo la pretesa “Liberazione” concordata, a Rakka è comparso, a fianco del generale Brett  McGurk,  che sarebbe  lo “special envoy” di Washington a dirigere la suddetta “coalizione internazionale” (ossia il sostegno e  la durata del terrorismo takifiro  e proseguire la guerra  d’usura per procura) , il ministro saudita Thamer Al –Saban.

Recuperati i loro terroristi. Per usarli dove?

Uno dei motivi  della visita è, “in tutta impudenza, il recupero dei dirigenti e quadri di Daesh caduti nelle mani delle unità kurde di protezione del popolo,  YPG e restituiti da queste ai  paesi che li hanno inviati – scrive Ghaleb Kandil, direttore del Center Middle  East News –  Per i sauditi, si tratterebbe di migliaia di combattenti, quadri e predicatori, gestiti a suo tempo dal principe Bandar Bin Sultan e del generale David Petraeus   all’inizio della guerra in Siria”.

 

Il generale Brett McGurk con il principe Al Sabba a Rakka, in una foto rubata.

 

Bandar Bin Sultan,  detto “Bandar-Bush”, 22 anni ambasciatore  del Regno in Usa, amicissimo della dinastia presidenziale USA, capo dei servizi e grande manovratore delle trame anti-siriane, è stato rimandato a vita privata nel 2014; è quello che aveva minacciato  Putin di attentati terroristici durante i giochi di Sochi, perché  “il terrorismo lo gestiamo noi”.

Kandil racconta che pochi giorni prima,  “delegati britannici e francesi sono giunti per una simile missione”, recuperare i loro jihadisti,  “nel momento in cui una ri-orientazione di terroristi è in corso sotto la supervisione degli Stati Uniti con la partecipazione dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia”.  Questi recuperati sono stati “trasportai verso la Turchia con l’aiuto del governo del Kurdistan iracheno, data la difficoltà da  un trasferimento diretto dal territorio siriano”.  I terroristi saranno  ovviamente  ridispiegati in altre missioni per proseguire la guerra di logoramento Usa-Israele per interposti jihadisti: sul dove, ci sono solo ipotesi: “Libia, Mali Egitto, Somalia, Algeria, Cina, Russia, Myanmar” ad “aiutare” i Rohynga…

Effettivamente, l’indecifrabile  mega-attentato con i camion esplosivi in Somalia di metà ottobre, 270 morti per lo più venditori ambulanti, ha una dimensione  di strategia della tensione di tale inutile spietatezza  da poter apparire una “firma” di questi esperti recuperati a Rakka.  Una firma forse confermata dallo strano silenzio  su questa immane tragedia della “comunità internazionale”, sempre pronta a piangere sui bambini di Goutha o di Aleppo.

Coincidenza,  ‘Algeria ha scoperto basi di Daesh.

Per coincidenza, anche l’Algeria ha scoperto “numerose basi sotterranee con quantità di munizioni appartenenti a Daesh”, insieme a razioni alimentari.  Il giornale algerino Al-Shuruq ha  riferito   di aver smantellato, nella zona di Tizi Uzu, 150 chilometri ad Est di Algeri, “una cellula di Daech che progettava  attacchi terroristi”.  Sono quattro giovani locali che però “tenevano scambi regolari con terroristi di Daesh presenti all’estero” (all’estero dove?) attraverso social media. L’Algeria è l’unico paese dove – data la sorveglianza del regime – non sia stata realizzata ancora nessuna destabilizzazione americana (dello Stato Islamico, voglio dire).

La visita di Thamer al-Sabhan, il ministro saudita per gli affari del Golfo, ha però un altro e più grave peso.  E’ un personaggio settario al limite, e forse oltre il limite, della paranoia. Messo a fare l’ambasciatore a Baghdad, quel governo ha pregato Ryad di ritirarlo, perché il cosiddetto diplomatico si abbandonava ad insopportabili insulti contro la guida religiosa locale Al Sistani (sciita),  tirate pubbliche contro le Unità di Mobilitazione Popolare, ossia  le milizie combattenti che affiancano l’armata regolare irachena e che (come del resto gli americani) accusa di essere forate non d iracheni ma da iraniani.   Nominato ministro nell’ottobre 2016, per prima cosa fa lanciato un appello a “distruggere lo stato criminale Iran”.

Destroyed_neighborhood_in_Raqqa.png

Much of Raqqa has suffered extensive damage during the battle, while an activist in the ISIL-held neighborhoods said that the situation for the besieged populace was “beyond catastrophic, I can’t describe the situation as anything besides hellish. People are just waiting for their turn to die.”

La visita di un tal personaggio significa che gli americani stanno per affidare ai sauditi la “ricostruzione” di Rakka. Ossia che la città non sarà mai restituita al governo siriano, e diverrà invece un isolotto autonomo e protetto,  una base perenne per i sunniti curdi e terroristici vari, in funzione ovviamente anti-sciita, un bstone fra le ruote dell’asse sciita Irak-Iran-Siria-Libano (Hezbollah).  Nell’intesse, ultimamente, di Israele.

 

Thamer Sabhan. Si terrà Rakka.

La città di RAkka ètanto distrutta dai bombardamenti americani, che le autorità russe l’hanno paragonata alla Dresda  calcinata dai britannici   nella seconda guerra mondiale. Il Dipartimento  di Stato  ha notificato in una conferenza stampa: “Noi [americani] daremo assistenza nel riportare l’acqua, la luce – ma in definitiva la  gestione della Siria  è qualcosa a cui tutte le nazioni sono molto interessate”.  Frase che viene interpretata come: noi Usa non abbiamo né i  capitali né la voglia di  ricostruire, la cosa interessa i sauditi.

In Irak, manovre contro la milizia di Al Sistani

Truppe-irachene-670x430

Truppe irachene in vedetta

Manovre sospette sono segnalate anche in Irak .  Il 22 ottobre, il primo ministro iracheno Abadi  (sciita)  s’è recato in visita ufficiale in Arabia Saudita, accolto con  tutti gli onori.  Come per caso, a fianco del re Salman ha trovato Rex Tillerson, il segretario di Stato americano.Il giorno dopo Tillerson è andato a Baghdad. Secondo fonti vicine alle milizie, sono in corso manovre per assicurare – con i milioni sauditi – la rielezione di Abadi, considerato lo Eltsin  iracheno; “libanizzare” l’Irak corrompendo la classe poltiia irachena; ma soprattutto, indurre il governo legale a disciogliere la Hashd Shaabi, ossia la stessa milizia volontaria sciita: che non è più solo sciita, perché, benché formatasi per una fatwa (un ordine) dell’Iman Al Sistani, adesso ha al suo interno  cristiani, yezidi, ed anche sunniti, scampati alle atrocità dei jihadisti di DAesh e desiderosi di vendicarsi. Questa milizia fortemente motivata costituisce un nucleo “nazionale” che ovviamente è un ostacolo allo smembramento del paese per linee etnico-religiose, che rimane lo scopo finale della sovversione occidentale; hanno combattuto Daesh “troppo” efficacemente. Il 7 agosto scorso, forze  aeree  americane avevano bombardato un nucleo di questa milizia che stava combattendo Daesh sulla frontiera Irak-Siria  –  nello sforzo non solo di  aiutare lo Stato Islamico, ma di impedire l’apertura  di quella comunicazione fra i due paesi, che tanto preoccupa Netanyahu perché rende geograficamente unitario l’asse sciita.  E’ noto che Netanyahu ha preteso da Putin  che mandasse via gli Iraniani dalla Siria. Putin lo ha assicurato che poteva garantirgli di non lasciar avvicinare gli iraniani a  meno di 8 chilometri dal confine israeliano,  non di più.  Il seguito alla prossima puntata.

E se  invece Trump e Bannon fossero due geni politici?

Per completezza d’informazione, ci corre l’obbligo di riferire la posizione di Thierry Meyssan: persona generalmente assai bene informata, Meyssan  insiste che le esagerazioni verbali di Trump contro Iran,  Corea del Nord eccetera sarebbero finzioni, per disorientare i suoi avversari. Lo deve fare perché è paralizzato nella sua azione dal Congresso, dove la maggioranza, benché repubblicana,  è coalizzata coi democratici contro di lui. Mentre inveisce  e minaccia guerre mondiali, Trump avrebbe in realtà incaricato il suo uomo ed ideologo, Steve Bannon,  che finge di aver scaricato, di  organizzare da fuori la presa in  ano del partito repubblicano.

Trump e Bannon. O Cesare e Marco Antonio?

 

Effettivamente è quel che Bannon sta facendo in queste settimane. Il 13-15 ottobre ha agitato alla rivolta le delegazioni dei “Value Voters”, gruppi  di associazioni familiari cristiane che si battono contro i diritti LGBT e quindi sono catalogate come razziste e omofobe, riunite all’Omni Shoreham Hotel di Washington.  Bannon ha attaccato i miliardari, l’establishment globalista che han portato in Cina i  lavori degli americani; ha attacato Hillary Clinton; ma soprattutto, ha sparato a palle incatenate contro il senatore Bob Corker (che aveva definito laCasa Bianca sotto Trump “un asilo per adulti”, che “ci portarà alla Terza guerra mondiale”), il senatore Mitch McConnel, che come capo della maggioranza repubblicana ha accusato di essere il sabotatore della presidenza, il senatore McCain, ed ha concluso: il partito repubblicano ha dichiarato guerra al popolo americano, dunque noi gli dichiariamo guerra.

Soros McCain

Sempre loro!

Detto fatto, “gli amici di Bannon si sono iscritti contro i caporioni del partito repubblicano, per ottenere l’investitura del partito al loro posto in tutte le elezioni locali”.  E’ una strada lunga e rischiosa,  se non una fantasia  – degna tuttavia di Shakespeare, di uno dei quei drammi  dove Amleto o un principe Edgar  si finge pazzo per rovesciare l’usurpatore.  Qualcosa di vero può esserci,   viste le reazioni di alcuni senatori repubblicani: come il senatoprer Jeff Flake, Arizona,  che l’altro ieri ha attaccato Trump in un discorso violentissimo, alla fine del quale ha annunciato che non si ricandiderà nelle elezioni di metà mandato del 2018. Il punto è che Flake, senatore dal 2013, non ha alcuna prospettiva di essere rieletto: il suo anti-Trumpismo  lo ha fatto scendere nei sondaggi fra i suoi elettori al 18%. .  Dopo   l’annuncio, il blog Politico ha commentato: “Un altro scalpo alla collezione di Bannon”. Commento significativo.

Se Meyssan ha visto giusto, Trump non è un mattoide incoerente, ma un   genio politico  da essere ricordato al pari di Giulio Cesare   per coragio, o di Ottaviano Augustoper astuzia, e Bannon il suo Marco Antonio, e Rex Tillerson, Cinna, il fedele amico di Caesar.  Caratteri  davvero a quel livello di grandiosità  “romana”. Stiamo a vedere, sperando che Thierry abbia ragione.

Maurizio Blondet

1477.- ANCORA UN BREVE COMMENTO SUL REFERENDUM LOMBARDO-VENETO

 

Lo_sbarco_a_Marsala_-_George_Macaulay_Trevelyan
La Royal Navy attese e protesse lo sbarco dei Mille contro le navi napoletane di Acton.

di Luigi Copertino
Con il referendum tenutosi in Lombardia e Veneto sono venuti al pettine i nodi del Risorgimento. Non so se si possa parlare di eterogenesi dei fini o di nemesi storica, anche perché bisognerebbe prima mettersi d’accordo sul fatto se la storia è guidata o meno dall’astuzia che ad essa imputava, mediante la ragione, Hegel. Resta tuttavia l’evidenza che una unità nazionale realizzata contro le identità storiche delle varie parti della Penisola e, soprattutto, contro la fede cattolica che accomunava tutti gli italiani, non ha mai consentito una vera nascita dell’Italia e di un comune sentimento nazionale fortemente condiviso, salvo forse l’ambito calcistico. Sotto il profilo storico, il brigantaggio meridionale antiunitario e la resistenza popolare anti-sabauda negli Stati preunitari sono lì a dimostrarlo, come aveva capito Antonio Gramsci.

Probabilmente la via unitaria più adeguata per l’Italia era quella confederale suggerita da Rosmini e Gioberti, sul versante cattolico, e da Cattaneo e Balbo, sul versante laico. Non dimentichiamoci che i milanesi delle note “5 giornate”, nel 1848, guardavano come fumo negli occhi l’ingerenza sabauda nelle vicende della città. Fu invece seguita, per l’evidente appoggio di potenze straniere ossia Francia ed Inghilterra – a disdetta di ogni retorica risorgimentale, l’unità italiana è stata nient’altro che un capitolo della storia dell’imperialismo anglo-francese – interessate a mettere in difficoltà l’Austria, la via giacobina e centralista sotto la guida di una dinastia, la Sabauda, che aveva messo al governo la massoneria liberale. Creando oltretutto i presupposti di una guerra di religione tra una élite iniziatica, che mirava all’abbattimento non tanto dello Stato pontificio quanto piuttosto della Chiesa Cattolica per realizzare in Italia una “riforma protestante”, e la gran massa del popolo fedele alla fede cattolica ed alle tradizioni secolari di una pietà religiosa che significava anche fonte di sopravvivenza per i ceti più poveri.

C’è stato, in fondo, ed è inutile negarlo, un solo momento della storia unitaria nel quale gli italiani si sono sentiti veramente italiani ed orgogliosi di esserlo e fu durante il ventennio fascista. La nazionalizzazione delle masse, in quegli anni, funzionò per davvero, benché in un’ottica di dinamica politica autoritaria. E se è vero che la nazionalizzazione fascista si poneva in continuità con quella inutilmente tentata, soprattutto attraverso la scuola e l’esercito di leva, dai governi liberali post-unitari, la differenza tra le precedenti esperienze sabaude e quella fascista stava in due cose: l’integrazione, secondo una politica di nazionalismo sociale, delle classi popolari le quali in precedenza, nel regime liberal-borghese risorgimentale, erano escluse da qualunque partecipazione politica e, soprattutto, la Conciliazione con la Chiesa cattolica che consentì agli italiani di superare il divario, imposto da Vittorio Emanuele II, Cavour e Garibaldi, tra fede e appartenenza nazionale.

Ma, poi, arrivò la tragedia dell’ 8 settembre che, come ci hanno spiegato Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia, ha significato la morte della Patria. L’indipendentismo siciliano, nel 1943-48, dimostrò subito, banditismo a parte, che i nodi risorgimentali non erano affatto stati sciolti. La diffidenza con la quale gli immigrati meridionali, durante gli anni del boom economico, venivano accolti nel Nord era un altro segno della irrisolta questione nazionale. Se, tuttavia, è certo che tutti gli sforzi messi in atto per colmare il divario Nord-Sud sono andati progressivamente fallendo, è altrettanto certo che il Nord, che oggi vive di pulsioni autonomiste ed indipendentiste, ha goduto per primo ed in misura superiore al meridione dei vantaggi della politica interventista e dirigista, eredità del fascismo, praticata nell’Italia del decollo industriale ed economico negli anni ’50, ’60 e ’70, le cui basi erano già state poste nel decennio che precedette il secondo conflitto mondiale. L’Eni di Enrico Mattei fu lo sviluppo dell’Agip fascista, l’IRI era stato istituito negli anni ’30 da Alberto Beneduce con il pieno appoggio di Mussolini dando così inizio all’economia delle partecipazioni statali che modernizzò il nostro Paese, la legislazione bancaria del 1936 aveva posto sotto controllo il credito onde finalizzarlo all’investimento sociale e non alla speculazione ed aveva assegnato alla Banca centrale il ruolo di Istituto finanziatore a basso o nullo interesse del fabbisogno statale (il nostro attuale debito pubblico è schizzato alle stelle a partire del 1981 con l’indipendenza dell’Istituto di Emissione che ha costretto lo Stato a finanziarsi presso i mercati a tassi elevatissimi o a comprimere la spesa pubblica), la politica di collaborazione capitale-lavoro, consacrati in articoli semi-attuati della Costituzione quali il 46 e il 49, continuava, nonostante tutto, in clima democratico l’esperienza corporativista del fascismo.

Senza lo Stato nazionale il Nord non avrebbe avuto le infrastrutture necessarie alla sua sviluppata economia. Senza lo Stato nazionale il conflitto di classe, molto forte nelle zone industrializzate , non avrebbe trovato quelle soluzioni interclassiste, anche queste sulla scia già tracciata dal fascismo, che hanno consentito all’industria di prosperare con evidenti vantaggi – almeno fino a quando il neoliberismo globalizzatore non ha spiazzato l’idea stessa di Stato nazionale e sociale – anche per i ceti operai e piccolo borghesi.

A partire dagli anni ’80 e poi con quello che Diego Fusaro ha giustamente definito il “colpo di Stato” della stagione di Tangentopoli anche l’Italia è stata costretta ad entrare nella globalizzazione. Una parte della sinistra, quella “migliorista”, quella per capirci lib-lab che guardava a Zapatero ed a Blair, oggi a Macron, che cercava le vie per superare lo shock storico del 1989, accettò, senza farsi troppi problemi della sorte dei lavoratori, l’investitura da parte del capitale transnazionale della guida del processo di mondializzazione dell’Italia. In quel contesto Berlusconi rappresentò un disturbo che però alla fin dei conti si è rivelato inconsistente e non solo per l’inabilità del personaggio ma anche perché Berlusconi ragionava, e ragiona, da imprenditore e non da statista e quindi non ha capito nulla di quanto stava accadendo in termini di smantellamento globale dell’Italia del novecento.

Approfittando della rabbia popolare contro i corrotti partiti della prima repubblica, che però erano comunque espressione di una democrazia popolare e non elitaria come quella anglosassone. Nel 1981, come si è già detto, era stata resa indipendente la Banca centrale facendo aumentare la spesa per interessi sul debito pubblico che, per questa causa, crebbe a dismisura in quanto i governi non se la sentirono di tagliare la spesa pubblica, ed in particolare quella sociale (scuola e sanità, innanzitutto) come la separazione tra Stato e Banca centrale avrebbe richiesto. Nel 1992 sul Britannia si programmò la svendita del nostro patrimonio pubblico mettendo fine all’esperienza dell’IRI.. Si passò, così, a smantellare il Welfare ed a precarizzare il lavoro ossia a praticare politiche economiche dal solo lato dell’offerta, che significa politiche vantaggiose solo al capitale ed in particolare al capitale finanziario, favorendo le liberalizzazioni e la mobilità transnazionale dei capitali.

La retorica neoliberista affermava che in tal modo si sarebbe diminuita su scala mondiale la povertà, ma in realtà mentre essa andava aumentando in tutto il pianeta innescando i conflitti internazionali oggi in atto, perché a far profitti fu solo la finanza apolide e socialmente oltre che nazionalmente irresponsabile, da noi, quale conseguenza delle delocalizzazioni industriali, restò un’alta disoccupazione con ritorno alla lotta di classe. Solo che a vincerla la nuova lotta di classe è stato il capitale grazie al fatto che esso, distrutto lo Stato nazionale, si è unito globalmente, cementando i propri interessi, mentre il lavoro è rimasto, per ovvio dato naturale trattandosi di uomini e famiglie radicate sul territorio, suddiviso per nazioni. I populismi sono ora la risposta dei ceti popolari al capitale transnazionale. Una risposta che, checché ne dicano nella sinistra mondialista che ancora guarda marxisticamente all’unità mondiale dei lavoratori, è molto più realistica di quanto si pensi perché considera e non elimina il dato naturale e storico della nazione.

Quale nazione? La domanda è, a questo punto, pertinente perché la globalizzazione ha riportato in auge le “piccole patrie”, le heimat, dalla Catalogna alla Scozia, dal Lombardo-Veneto alla Vallonia o alla Bretagna. Lo Stato nazionale era, per certi versi, una costruzione che si è imposta, storicamente, contro le due Autorità universali della Cristianità, Chiesa ed Impero, e contro le identità locali, appunto le heimat, senza però eclissarle mai del tutto. La risorgenza delle piccole patrie, però, se da un lato appare come una “vendetta della storia” contro lo Stato nazionale, centralista e giacobino, dall’altro lato è molto di più l’epifenomeno della globalizzazione che si va imponendo, per superare l’ostacolo degli Stati nazione, come “glocalismo”. Le rivendicazioni di autonomia o di indipendenza delle heimat giocano – dispiace dirlo ma oggettivamente è così – tutte a favore dei processi economici globalizzanti perché la frammentazione fa venir meno i protezionismi, o quel che di essi rimane, anche il protezionismo sociale, e incentiva il liberismo di mercato.

E’ solo una pia illusione – anche se è una illusione capace di irretire il meglio del cosiddetto “antagonismo anticapitalista di destra” – quella dei cattolici tradizionalisti o dei neo-guelfi e dei neo-ghibellini di essere alla soglia di un “neo-medioevo” che dovrebbe restituirci la Cristianità universalmente unita nel pluralismo comunitario localista. Nulla di tutto questo sta avanzando ma, al contrario, l’esito ultimo della globalizzazione quale nuovo universalismo rovesciato nella predominanza dell’Economico – ed in particolare della finanza trans-nazionale – sul Politico e sul Santo/Sacro. Un universalismo post ed anti-cristiano che scimmiotta, e non è un caso, l’Universalismo romano-cristiano pre-moderno. Tutta l’ampia e diffusa letteratura – si pensi ad un testo come “La vittoria della ragione” di Rodney Stark – che cerca di far passare l’idea che il medioevo era ricco e felice perché era assente lo Stato nazionale non solo risulta essere una ricostruzione storica fondamentalmente viziata da un presupposto ideologico di tipo conservatore-liberale ma, soprattutto, contribuisce ad inculcare la fasulla convinzione che abbattendo gli Stati e liberalizzando i capitali si otterranno di nuovo le concrete “libertates” tradizionali. Molti allocchi, tra i cattolici tradizionalisti o sedicenti tali, hanno abboccato a tale esegesi accettando il ruolo degli utili idioti della globalizzazione “anti-cristica”. La non curanza dei problemi tecnici connessi al funzionamento dell’economia moderna costringe neo-guelfi, neo-ghibellini e tradizionalisti vari ad andare a rimorchio di chi davvero gestisce e programma la globalizzazione, ossia dei i vari Monet, Attali, Soros e compagnia bella.

Quando i catalani, gli scozzesi ed i lombardo-veneti otterranno l’indipendenza capiranno che senza sovranità monetaria, ossia con una moneta controllata da un organismo sovranazionale e politicamente irresponsabile, anzi responsabile solo verso la nazione egemone in Europa ossia la Germania, e senza la sovranità militare, ossia dipendendo da un esercito “di occupazione” inserito nella Nato, non c’è affatto sovranità. Alla fine, nonostante gli starnazzi dei valligiani bergamaschi o pirenaici, tutto si risolverà in una mera autonomia o indipedenza fiscale che devolverà le tasse non sul territorio, come si illudono autonomisti ed indipendentisti, ma direttamente, ovvero senza più passare per lo Stato centrale,a compensazione degli interessi sul debito pubblico, o sulla porzione di competenza locale del debito pubblico nazionale che chi vuole l’autonomia fiscale deve per equità e giustizia accollarsi, versati ai mercati finanziari trans-nazionali. Capiranno i lombardo-veneti ed i catalani che le loro heimat resteranno schiacciate ancor di più tra la potenza economica tedesca, o americana o cinese, della quale saranno maggiormente vassalle, e la potenza globale del capitale trans-nazionale libero di attraversare le loro frontiere come e quando gli aggrada per lucrarvi i propri profitti e lasciare quei territori quando la vacca è stata del tutto dissanguata. Allora, e solo allora, capiranno che se Roma o Madrid o Parigi erano “ladrone”, la City, Wall Street, Bruxelles, Francoforte ed il FMI sono padroni molto più dispotici.

Luigi Copertino

1476.- Yves Mény: ”Il populismo è inadeguato alla società di oggi”

Per il politologo però i movimenti di protesta avranno vita lunga, anche perché l’Europa ha un problema: non ha un’identità a sorreggerla. Prevale, dunque, la frammentazione e la liquidità dell’offerta politica. Finché non si viene messi alla prova del governo. Così dice Alessandro Franzi.

 


Per chi studia il fenomeno del populismo senza farsi distrarre dai colpi della cronaca di giornata, il libro di Yves Mény, politologo e presidente della scuola superiore Sant’Anna, è un punto di riferimento d’obbligo. Si intitola Populismo e democrazia, lo ha scritto con Yves Surel ormai quindici anni fa, ma è ancora freschissimo nella sua analisi. Il populismo è una parola che, di anno in anno, si è moltiplicata nel discorso pubblico in Occidente. Soprattutto in Europa, dove si è appena concluso un ciclo di un anno e mezzo di elezioni e referendum che ha rimesso in discussione le certezze della democrazia rappresentativa e del sistema dei partiti tradizionali. Ma che cosa è rimasto, di questa ondata di protesta che l’etichetta populista ha dapprima segnalato e, poi, offuscato? “La politica europea è diventata liquida, stiamo vivendo un periodo di grande instabilità e di grande redistribuzione delle carte”, risponde il professor Mény a Linkiesta. “Ma – aggiunge – non sarei troppo pessimista, gli elettori si sono accorti che le risposte semplicistiche non bastano a risolvere i problemi”. In Austria, la destra nazionalista è però a un passo dal ritorno al Governo con la destra moderata che si è, invece, radicalizzata sull’immigrazione, il rapporto con l’Islam, la sovranità economica.

Professore, insomma, dopo il voto in Austria e la loro cospicua presenza elettorale in diversi Paesi anche importanti, siamo di fronte alla normalizzazione dei movimenti populisti in Europa?
No, nel senso che probabilmente vedremo i partiti della destra populista partecipare al governo in Austria e anche in alcuni Paesi scandinavi, sempre come partner di minoranza. Ma certo quello non è il loro ruolo naturale. I partiti populisti fanno fatica a entrare nelle istituzioni. E quando capita hanno di fronte due opzioni: fallire o entrare nella corrente politica mainstream. Quando arrivano al potere, è dunque difficile che sopravvivano senza cambiare.

Come possiamo leggere il quadro europeo, da questo punto di vista?
Credo che la situazione politica europea sia liquida. Più o meno in ogni Paese c’è un partito populista che ottiene consensi. Il fatto è che stiamo vivendo un periodo di grande instabilità e di grande redistribuzione delle carte, ma non sarei troppo pessimista, anche se il populismo non è l’unico elemento in gioco.

E con quali altri elementi si può combinare?
I partiti populisti si possono legare a manifestazioni di autoritarismo, per esempio. Di recente si sono collocati quasi tutti nella fascia della destra radicale, anche se in generale raccolgono voti in tutte le aree politiche. Che sposino la destra radicale non è positivo, perché in passato abbiamo vissuto gli effetti che queste tendenze hanno avuto sulla democrazia.

Perché, dunque, non è pessimista?
Perché per il momento è emerso che il discorso populista, con le sue risposte semplicistiche, si è rivelato incompatibile con la complessità della società e dei suoi problemi. Gli elettori se ne sono accorti. Penso che il momento emblematico, in questo senso, sia stato il discorso di Marine Le Pen all’ultimo dibattito televisivo con Emmanuel Macron, prima del ballottaggio delle presidenziali francesi. La Le Pen è apparsa incompetente e ha preso uno schiaffo da quegli elettori che l’avrebbero voluta votare anche senza condividerne tutte le idee.

Un elemento chiave è stata la vittoria di Macron in Francia, non solo perché ha battuto una candidata estremista come la Le Pen ma soprattutto per un altro motivo. Macron è infatti riuscito ad affrontare frontalmente il problema, non rincorrendo l’avversario ma offrendo una proposta radicalmente opposta

Dal voto delle presidenziali austriache, passando per il referendum sulla Brexit per arrivare al voto in Germania, è stato un anno e mezzo di elezioni particolarmente imprevedibili in Europa. Che cosa è cambiato, a conti fatti?
Le rispondo che il contributo più decisivo che i partiti populisti hanno dato non è stato nell’accesso a posizioni di potere, appunto, ma nell’imporre quella che si chiama l’agenda politica. In questo, hanno avuto sicuramente successo. I partiti populisti sono stati bravi a impadronirsi dei temi caldi e difficili che gli altri partiti, quelli tradizionali, non sono in grado di gestire. Però poi si è rivelato difficile anche per loro passare all’azione. Lo vediamo con Donald Trump: è arrivato alla presidenza americana, ma la sua filosofia resta bloccata nei 240 caratteri di un tweet. Siamo, insomma, al grado zero della politica.

Ecco, Trump: ha consolidato o viceversa indebolito le forze populiste in Europa, una volta che è entrato alla Casa Bianca e ha dovuto passare all’azione?
Diciamo che gli Stati Uniti sono un Paese importante e giocano un ruolo decisivo. Ma sono anche lontani. Trump si è, dunque, rivelato un elemento di indebolimento, ma lo sono stati anche altri fattori più importanti e vicini. Il primo è sicuramente la Brexit, che doveva essere una marcia di liberazione ed è diventata invece una via crucis. Il secondo elemento chiave è stata la vittoria di Macron in Francia, non solo perché ha battuto una candidata estremista come la Le Pen ma soprattutto per un altro motivo. Macron è infatti riuscito ad affrontare frontalmente il problema, non rincorrendo l’avversario ma offrendo una proposta radicalmente opposta.

Una differenza non da poco, viste altre esperienze…
Sì, i partiti tradizionali troppe volte hanno cercato compromessi con quelli populisti. Invece il contributo di Macron è stato questo: ha segnalato che i populisti non sono invincibili. Detto questo, beninteso, non sono stati nemmeno sconfitti. Avremo a che fare per molto tempo con forme di agitazione, di protesta, di mobilitazione politica alternativa. A destra, ma anche in situazioni meno estreme come in Spagna con Podemos. E poi ci sono le mobilitazioni territoriali, come quelle in Catalogna o in Scozia. Ecco perché parlo di liquefazione del sistema politico europeo.

Alle elezioni Europee del 2014 era proprio l’Unione Europea il nemico dei populisti, che ne profetizzavano una rapida dissoluzione. Ora questo tema è secondario rispetto a quello dell’immigrazione. Ma l’Ue, secondo lei, come uscirà trasformata da questa liquefazione politica di cui parla?
Sicuramente l’Unione Europea dovrà trasformarsi. Come lo farà, non si sa ancora. Anche perché il problema più serio che l’Europa deve affrontare è quello dell’identità. Dietro alla protesta, ai populismi, alla liquefazione politica c’è una ricerca di identificazione culturale e anche territoriale che l’Europa ideologicamente non sta soddisfacendo. E visto che questo sostegno ideologico manca, prendono importanza le religioni, i networks transnazionali, le identità territoriali, la nostalgia del piccolo e del passato. Quindi, le fonti di frammentazione oggi sono parecchie e sono forti, senza che si vedano all’orizzonte nuove capacità di aggregazione come quelle che riuscivano ad assicurare i partiti politici tradizionali.

Alla fine, quali partiti populisti sono destinati, secondo lei, a rimanerre sulla scena?
I populismi che riescono a sopravvivere sono quelli che a poco a poco riescono appunto ad adeguarsi al quadro politico in cui sono inseriti, come dicevamo all’inizio. Per parlare del caso italiano, dico che sopravvivono i populismi come quello di Forza Italia delle origini, un partito che è riuscito a conquistare un’esperienza di governo, così come ha fatto la Lega Nord, che non è più quella di una volta. Vedo anche un’evoulzione del Movimento 5 Stelle, che finalmente ha scelto un leader diverso dal fantasma ufficiale che è Beppe Grillo. Ci può insomma essere un’evoluzione, e qualcosa si sta vedendo. Che poi queste proposte politiche siano efficaci una volta arrivate al governo, è tutto da vedere. Ma se forze come i 5 Stelle andranno finalmente al potere significherà che il sistema sta iniziando a digerire anche le espressioni politiche più radicali. Se invece i 5 Stelle o altri partiti simili in Europa non riusciranno mai ad andare al Governo, significa che hanno fallito.

1475.- Autonomia alle regioni? Ecco perché sarebbe un disastro

Un conto è votare per una maggiore autonomia, un altro conto è profittare del buon risultato per chiedere lo statuto speciale, impossibile a ottenersi e senz’altro da non condividersi. Sempre più evidente la strumentalità del referendum a fini elettorali personali di Zaia. Sempre più svanisce la speranza di una resurrezione della politica alle prossime elezioni. Leggiamo le riflessioni di Flavia Perina.

Schermata 2017-10-25 alle 17.20.26

Le 23 competenze rivendicate sembrano eccedere di parecchio le capacità fin qui dimostrate dagli enti Regione. Prima di Zaia il Veneto ha avuto cinque governatori su cinque condannati. Cavalcavia che crollano, superstrade inutili. Le Regioni sono riuscite a mandare in perdita pure i casinò

25 Ottobre 2017 

“Il professor Miglio si rivolterebbe nella tomba”, dice Massimo Cacciari commentando la pretesa veneta di farsi Regione a statuto speciale ma soprattutto l’appiattimento del grande tema dell’autonomia sulla contabilità fiscale, sul ragionierismo del dare-avere, sull’idea che “padroni a casa propria” non sia uno slogan ma un programma da intendersi in senso letterale: tutti i soldi, tutte le competenze, e voi non ficcate più il naso nei nostri affari. Anche perché queste rivendicate 23 competenze sembrano eccedere di parecchio le capacità fin qui dimostrate dagli enti Regione, tutti, senza eccezione alcuna.

Le Regioni italiane sono da un ventennio sulla vetta della questione morale italiana. Il Veneto, in particolare, detiene probabilmente un record: prima di Luca Zaia, quattro presidenti eletti su quattro coinvolti in scandali, anzi 5 su 5 poiché anche il primo (Angelo Tomelleri) incappò in un’inchiesta giudiziaria e si autosospese per un anno salvo poi essere assolto. Fuori elenco solo i tre che si alternarono in una caotica successione fra il ’92 e il ’95, e che forse, visto la brevissima durata dei loro mandati, non ebbero neanche il tempo di mettersi nei guai. Mica solo loro, per carità. Per ogni calabrese che si paga il Gratta e Vinci con i soldi pubblici c’è un lombardo che se ne va in ferie sullo yacht dell’amico con clinica privata, per ogni Batman col fuoristrada a spese dello Stato c’è un Celeste che scambia favoroni con favoretti. Gli scandali fanno coppia con una conclamata inefficienza gestionale: passino i trasporti, passino gli ospedali con le cimici, passino i cavalcavia che crollano o le superstrade che non servono a niente, ma le Regioni italiane sono riuscite a mandare in perdita persino i Casinò, che fanno utile in ogni luogo del mondo.

Di questa incompetenza lo Stato centrale paga i conti ogni mese. Le mancate bonifiche sul territorio sono alluvioni, e danni da risarcire e sopportare. Le mancate messe a norma degli edifici sono terremoti catastrofici, e altri danni da risarcire e sopportare. Le mancate manutenzioni dei bacini idrici sono siccità, e ancora danni, ancora risarcimenti. I contabili del regionalismo, nel conto del dare/avere, dovrebbero metterci anche questo. E spiegarci poi come dovrebbe funzionare la cosa una volta che si saranno impadroniti delle 23 competenze 23 che rivendicano.

Di questa incompetenza lo Stato centrale paga i conti ogni mese. Le mancate bonifiche sul territorio sono alluvioni, e danni da risarcire e sopportare. Le mancate messe a norma degli edifici sono terremoti catastrofici, e altri danni da risarcire e sopportare. Le mancate manutenzioni dei bacini idrici sono siccità, e ancora danni, ancora risarcimenti. Ci siamo svenati per tenere in piedi le famose “banche del territorio”, a cui le Regioni – tutte – tenevano moltissimo e trattavano come fiore all’occhiello, difendendole ogni volta che si alzava un sopracciglio. Ci sveniamo per pagare i forestali che hanno assunto per farsi votare. Ci sveneremo a vita per sostenere le loro idee balzane sul futuro, tipo il voto elettronico in Lombardia, peraltro adottato con l’entusiasta sostegno delle opposizioni, M5S compreso.

I contabili del regionalismo, nel conto del dare/avere, dovrebbero metterci anche questo. E spiegarci poi come dovrebbe funzionare la cosa una volta che si saranno impadroniti delle 23 competenze 23 che rivendicano. Tra di esse ci sono, ad esempio, «i rapporti internazionali e con l’Unione europea»: nel caso facessero casino violando un embargo, rifiutando una direttiva o altro, le multe chi le paga? Lo Stato? E quando avranno conquistato «porti, aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione», gli eventuali errori dei cugini nominati manager, li scaliamo dalle loro diarie? Per non dire delle altre cose che completano l’elenco, che amplificano fino al disastro le possibili conseguenze dell’approssimazione regionale: la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia; la previdenza complementare e integrativa; il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; le casse di risparmio, le casse rurali, gli enti di credito fondiario.

Dare corda alle rivendicazioni di questo tipo di regionalismo è da matti. E bisognerebbe dirlo con chiarezza, senza cedimenti all’idea del “tanto poi si stufano, è solo campagna elettorale” e senza concessioni all’idea di imbastire tavoli e tavolini per lasciarli sfogare. L’attuale assetto delle Regioni non può reggere un trasferimento di competenze ne’ su grande ne’ su piccola scala. E la pretesa di costruire l’autonomia, lo Stato federale, con la logica dei conti della serva – novanta a me, dieci a te – che tra l’altro somigliano alla spartizione di un bottino, è da respingere al mittente subito, senza mezze misure.

1474.- CSTO e SCO: ampie misure di sicurezza

y9cxlrqj9xilParliamo di Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collective (CSTO), dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (SCO) e di BRICS.

Dmitrij Bokarev New Eastern Outlook 19.10.2017La situazione in Afghanistan è una delle questioni più importanti per l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collective (CSTO), che riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, nonché per l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (SCO – India, Cina , Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan). La guerra civile, insieme alle attività dei terroristi in territorio afgano, rappresentano da molti anni una minaccia alla stabilità dell’intera regione dell’Asia centrale. Nel settembre 2017, una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati aderenti alla CSTO si svolse alla 72.ma sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York. I principali argomenti dell’incontro comprendevano la cooperazione con l’Organizzazione delle Nazioni Unite negli sforzi per la pace, la sicurezza e la lotta al terrorismo, nonché i problemi dell’Afghanistan. Furono adottate diverse dichiarazioni congiunte, tra cui una disposizione sull’Afghanistan e la minaccia del rafforzamento delle organizzazioni terroristiche nelle province del nord del Paese. Va ricordato che l’Afghanistan condivide confini con uno degli Stati del CSTO, il Tagikistan. Pertanto, il confine Tagikistan-Afghanistan è una zona di particolare importanza per la CSTO. Il confine è lungo 1344 km e attraversa zone montuose difficili da raggiungere e difficili da attraversare e non meno difficili da proteggere. Anche le aree settentrionali dell’Afghanistan condividono la frontiera con Uzbekistan e Turkmenistan, che non sono membri del CSTO ma la cui sicurezza è altrettanto importante per tutta la regione. Il 29 settembre 2017, il Centro per gli studi strategici della Presidenza del Tagikistan, nel capoluogo del Tagikistan, Dushanbe, ospitò la conferenza internazionale “Combattere il terrorismo e l’estremismo in Eurasia: le minacce comuni e l’esperienza congiunta”. Rappresentanti di Afghanistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Russia vi parteciparono, come anche i membri del segretariato della CSTO e della Commissione esecutiva regionale della Struttura antiterrorismo della SCO. I partecipanti discussero di sicurezza regionale, minacce e contromisure di alto livello, incluse le varie misure politiche interne dei Paesi aderenti e la cooperazione internazionale, anche nella CSTO e della SCO.

image2_risultato-1
La situazione in Afghanistan è stata ancora una volta una delle principali discussioni. Nell’autunno 2017, circa il 50% del territorio afghano era caduto sotto il controllo dell’organizzazione terroristica talib (vietata nella Federazione Russa). In questo caso, la questione riguarda principalmente i distretti settentrionali vicini ai Paesi aderenti alla conferenza. Secondo l’ambasciatore russo in Tagikistan, Igor Ljakin-Frolov, che parlò alla manifestazione, la situazione è difficile, soprattutto al confine Tagikistan-Afghanistan. Tuttavia, secondo il Vicepresidente del Comitato del Consiglio Federale per la difesa e la sicurezza Franz Klintsevich, i taliban non hanno obiettivi fuori da Afghanistan e Pakistan e non violeranno il confine coi vicini del nord. Una preoccupazione molto più grande è l’attività di un’altra organizzazione terroristica, lo Stato islamico (DAISH, vietato in Russia), per cui l’Afghanistan è un trampolino di lancio per la penetrazione in Russia e nei Paesi della CSI. Secondo le informazioni disponibili, più di mille taliban e membri del DAISH si trovano vicino al confine tra Tagikistan e Afghanistan. Tuttavia, secondo F. Klintsevich, i tagiki e i militari russi sono pronti a respingere l’attacco in caso d’invasione diretta da parte dei terroristi. I Paesi dell’Asia centrale sono partner strategici della Russia, e la Russia è decisa nell’adempimento degli obblighi nei confronti della CSTO. Inoltre, la situazione instabile nei Paesi dell’Asia centrale costituisce una minaccia per i confini meridionali della Russia. Pertanto, la Russia fornisce assistenza ai propri partner su tutti i termini della sicurezza. La cooperazione tra Russia e Tagikistan è particolarmente sviluppata. I Paesi proteggono congiuntamente il confine tagiko-afgano e collaborano in campo militare-tecnico. La 201.ma base delle Forze Armate della Federazione Russa continua a operare nel territorio del Tagikistan, dove oltre 7000 militari russi si addestrano ad affrontare compiti specifici nella lotta al terrorismo, anche nei difficili contesti montuosi. Questa è la maggiore base militare estera della Federazione Russa, con fucilieri motorizzati, artiglieria, missili antiaerei, elicotteri e unità aeree. La base ha tre poligoni per l’addestramento dei militari russi e per l’addestramento congiunto coi militari del Tagikistan.
Il 29 settembre 2017, nello stesso giorno in cui si svolse la suddetta conferenza sulla lotta al terrorismo, l’ufficio per i media della Regione militare centrale, a cui aderisce la base n° 201, riferì di nuove esercitazioni speciali per l’addestramento tattico. Gli autisti del battaglione logistico superarono con successo l’estremamente difficile guida sulle tortuose strade montuose per rifornire di cibo e munizioni zone difficili da raggiungere. Circa 600 militari e 70 mezzi furono interessati. Nel novembre 2017, il Tagikistan ospiterà le grandi esercitazioni militari delle Forze di Reazione Rapida Collettiva della CSTO. Saranno presenti militari provenienti da tutti i Paesi dell’Organizzazione. Pertanto si può concludere che Tagikistan e altri Stati aderenti allo CSTO possono proteggersi dall’aggressione diretta dall’Afghanistan. L’unica opportunità per i terroristi di destabilizzare il Tagikistan è tramite organizzazioni clandestine. Tuttavia, le autorità del Tagikistan intendono arrestarle adottando misure preventive. Secondo Rakhim Abdulhasanien, a Capo del Dipartimento per la lotta al terrorismo e all’estremismo del Procuratore Generale del Tagikistan, che intervenne alla conferenza su iniziativa del suo dipartimento, 15 organizzazioni che operano nel territorio tagico sono state riconosciute estremiste e vietate. Tuttavia, non bastano misure di divieto per impedire l’estremismo tra la popolazione. È necessario lo sviluppo sociale ed economico di tutti gli Stati interessati. L’aumento del tenore di vita contribuisce a ridurre il radicalismo. Le autorità russe e dell’Asia centrale comprendono la connessione tra problemi socio-economici ed estremismo. Ciò è evidenziato, ad esempio, dal fatto che la SCO ha prestato seria attenzione alla cooperazione economica. Come già detto, l’organizzazione comprende Russia, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan, cioè i Paesi più interessati (tranne il Turkmenistan) alla stabilità nell’Afghanistan e, più recentemente, India e Pakistan, che periodicamente risentono degli echi degli eventi afgani. Il primo obiettivo della creazione dei “Cinque di Shanghai”, sulla cui base fu fondata la SCO nel 2001, era rafforzare la cooperazione nell’industria della Difesa. Attualmente, i compiti principali della SCO includono sicurezza, lotta al terrorismo e al narcotraffico. La cooperazione economica è stata considerata secondaria. Tuttavia, tale approccio è superato. Il 28 settembre 2017, Ufa ospitava il terzo Forum sulle piccole aziende degli Stati aderenti a SCO e BRICS. Bakhtier Khakimov, inviato speciale del presidente russo per gli affari della SCO parlò all’evento. Secondo lui, l’interazione economica nella SCO va portata allo stesso livello della cooperazione politica tra i Paesi che costituiscono l’organizzazione. Khakimov ha anche affermato che i capi degli Stati aderenti alla SCO comprendono l’importanza di questo compito e gradualmente prendono le proprie decisioni. Attualmente, la SCO è impegnata nell’attuazione dell’accordo per creare condizioni favorevoli per l’autotrasporto, firmato nel 2014. La possibilità d’istituire la Banca di Sviluppo e il Fondo di Sviluppo della SCO viene discussa. Sono in corso lavori per integrare il lavoro della SCO con associazioni come UEE (Unione Economica Eurasiatica) e ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico). Le relazioni tra gli ambienti commerciali vengono stabilite nella SCO, e la cooperazione interstatale si costruisce a livello regionale.
Si può concludere che la Russia e gli Stati dell’Asia centrale non si basano solo sulla forza militare per combattere il terrorismo e mantenere la stabilità. Questi Paesi sanno che solo misure complesse contribuiranno a porre fine alla minaccia terroristica e questo comporta la speranza che la minaccia terroristica nella regione sia ridotta nei prossimi anni.Dmitrij Bokarev, osservatore politico, in esclusiva per la rivista online New Eastern Outlook.

rats-drillsTraduzione di Alessandro Lattanzio,di aurora

1473.- Perché l’idea che la cittadinanza sia una questione di sangue non ha nessuna logica

Saif Raja ha spiegato a TPI perché la cittadinanza di un paese dovrebbe basarsi su criteri come la lingua, la compatibilità con i valori e le norme condivisi, l’inclusione socio-culturale, e non ha nulla a che vedere con la “purezza del sangue”.

multiculturalismo-cittadinanza.jpg

Sono arrivato in Italia dal Pakistan quando avevo undici anni, ma il mio viaggio per venire qui, in qualche modo, è iniziato un paio di anni prima: mia madre e i miei fratelli si sono trasferiti prima di me – vi è dietro una lunga storia burocratica, noiosa e poco interessante, su cui non mi fermo; a nove anni, cominciai a pensare a come sarebbe stato trasferirmi in un paese totalmente diverso dal mio, iniziai ad assaporare il cibo italiano nella mia mente, ad immaginare il diverso modo di vestirsi, di vivere e così via.

Uno dei miei primissimi ricordi, legati all’Italia, è aver conosciuto una ragazza. Ero imbarazzato, traumatizzato, agitato e nervoso: non ero abituato a parlare con le ragazze della mia età, soprattutto perché in Pakistan, a scuola, le classi non sono miste. Ora, quella ragazza è una delle presenze più significative nella mia vita, un pilastro fisso.

Prima ancora che me ne accorgessi, l’Italia mi aveva già adottato: parlavo con le ragazze tranquillamente. Avevo interiorizzato un aspetto culturale, senza nemmeno rendermene conto. Sono nato in un paese in cui il solo pensiero della non esistenza di Dio è condannato, in cui non c’è lo spazio per la laicità.

Un paese, una cultura in cui non si discute se Dio esista oppure no. Esiste, punto. Oggi, a ventitré anni, non ho nessun problema a discutere sulla eventuale non esistenza di Dio. Ho interiorizzato un altro aspetto culturale del paese che mi ha accolto; questa volta, però, ne sono pienamente consapevole.

In questo periodo, leggo moltissimi commenti a favore e contro lo ius soli e mi sono chiesto se io sia italiano o pakistano. Prima di arrivare alla risposta, bisogna capire effettivamente cosa sia un paese? Che relazione c’è fra un paese, la sua cultura e il suo popolo? Sono indipendenti fra di loro? Assolutamente, no.

Un paese non esiste se non grazie alla sua storia e alla sua cultura. È la storia che costruisce la memoria collettiva di ciascun paese, e quest’ultima, a sua volta, influenza ampiamente la memoria individuale di ogni suo abitante. La cultura, che è in continuo mutamento perché il popolo è in continuo cambiamento, è l’insieme delle norme, delle tradizioni, dei valori condivisi dagli abitanti di un paese. Quindi: cosa serve avere per essere totalmente italiani?

Questa è una domanda le cui risposte possono essere tante, senza, però, arrivare ad un’effettiva conclusione. Ad esempio: molte volte, sento alcune persone dire che per essere italiani bisogna essere nati in Italia, da genitori italiani. Conta, perciò, il sangue puramente italiano.

Ora, al di là della assurdità di questo concetto – perché il voler creare una stirpe pura, sotto ogni aspetto, è una ideologia comprensibile solo se siamo personaggi di un qualche romanzo fantasy, Voldemort, ad esempio – nella realtà dei fatti, nella quotidianità, questa fantasia malata è insensata: non esiste il sangue italiano puro, almeno per due motivi:

– Il sangue degli italiani non ha caratteristiche biologiche diverse dal sangue dei francesi, dei tedeschi, dei marocchini, degli americani

– L’Italia, come la maggior parte dei paesi del mondo, è stata teatro di spettacoli diversi: barbari, arabi, tedeschi, per citarne alcuni, sono passati per la penisola italiana, influenzando il paese non solo culturalmente ma anche geneticamente: la storia è piena di donne schiave che venivano violentate e che, in seguito, rimanevano incinte. Quindi, il voler basarsi su criteri genetici per un eventuale titolo di appartenenza ad un paese è semplicemente illogico.

La cittadinanza di un paese deve avere caratteristiche logicamente concrete: possono essere la lingua, la compatibilità con i valori e le norme condivisi, l’inclusione socio-culturale, per esempio. Caratteristiche che i bambini nati in Italia, da genitori stranieri, assimilano senza nessuna fatica ed inconsciamente, così come qualsiasi bambino nato da due genitori italiani. Un piccolo esempio è l’accento che si sente nel parlato di questi bambini: è il tipico della loro regione di provenienza.

Occupandomi di bambini e della loro educazione, ne ho incontrato diversi, nati in Italia ma da genitori stranieri, che hanno un marcato accento veneto, ad esempio, perché sono nati in quella regione.

Io stesso, avendo sempre vissuto a Belluno, ho l’accento bellunese. Spesso, con i miei amici, parlo in dialetto. Ecco: io, loro, noi, che siamo nati o cresciuti qui, in Italia, abbiamo assunto una caratteristica qualitativa di questo paese. E, a mio avviso, la cittadinanza si deve basare proprio su questi aspetti di tipo qualitativo.

Un’ultima nota, di cui spesso ci dimentichiamo, è che i paesi e i confini esistono perché è stato l’uomo stesso a tracciarli.

In natura, esiste la terra, esiste il mondo, non il Pakistan, non l’Italia tantomeno qualsiasi altro paese: questi esistono perché noi esseri umani ci siamo messi d’accordo e ci siamo detti: questo è mio, quello è tuo. Quando di mio, di tuo o di suo non c’è niente. È semplicemente tutto nostro.

1472.- Partito Dementi, ma il voto c’è stato.

guglielmo donnini, martedì 24/10/2017

di Marco Travaglio

Quando tre cittadini veneti e due lombardi su cinque vanno a votare in un referendum consultivo non si può far finta di niente. E serve a poco discettare sull’inutilità pratica di una consultazione che poteva essere sostituita, a costo zero, da un voto del Consiglio regionale per chiamare – come fa l’Emilia Romagna – il governo a trattare sul “regionalismo differenziato” previsto dagli articoli 116 e 117 della Costituzione. Anche le polemiche sui 70 milioni buttati (soprattutto per acquistare i famosi 24 mila tablet, che Maroni chiama comicamente “voting machine” e han creato casini inenarrabili) o sulle false promesse di una rivoluzione fiscale che non era né poteva essere oggetto del referendum, andavano bene fino a domenica mattina. Ora c’è un grosso fatto politico da interpretare. Non solo nella Lega, con la campagna elettorale dei tre galli del suo pollaio (Zaia, Maroni e Salvini). Ma anche negli altri partiti: i 5 milioni di votanti non sono solo della Lega e del centrodestra, ma trasversali. Anche i 5Stelle erano favorevoli (in Lombardia i loro consiglieri hanno persino redatto il quesito smussando le asprezze secessioniste di quello leghista), così come un bel numero di amministratori del Pd, che invece da Roma invitava all’astensione. Ma non, come le sinistre, per contestare il referendum; bensì per non prendere posizione, avendone come al solito una mezza dozzina.

Così ora il centrodestra può andare all’incasso e spacciarsi per un monolite compatto (e non lo è: B. è saltato sul Carroccio del vincitore solo alla vigilia delle urne, la Meloni era contraria e i confratelli d’Italia nordisti La Russa e Beccalossi favorevoli). I 5Stelle, più al Nord che sotto il Rubicone, possono dire di aver intercettato il malcontento che si è sfogato in quel quesito, anche oltre il suo significato letterale. E chi resta col cerino in mano e il marchio della sconfitta? Il solito Pd, sempre più incapace di interpretare e intercettare i movimenti del Paese e specializzato nel trovarsi sempre dalla parte opposta al popolo. Che ormai coglie ogni occasione per partecipare e manifestare la sua – magari confusa – voglia di cambiare. Intendiamoci: non basta vincere un referendum per avere ragione. È perfettamente legittimo sostenere che il regionalismo differenziato chiesto dalle due maggiori realtà del Nord (fra l’altro approfittando di un’opportunità concessa proprio dal centrosinistra con la riforma del Titolo V della Costituzione datata 2001) sia un errore. Noi, per esempio, ripetiamo da tempo che le autonomie regionali sono miseramente fallite.

È sprofondato in un pozzo nero di sprechi, malaffari, clientele e burocrazie. E la soluzione non è estendere gli statuti speciali o para-speciali alle regioni ordinarie, ma abolire tutte le regioni insieme alle province e immaginare un federalismo su base municipale, costruito intorno all’unica istituzione davvero avvertita dai cittadini come amica e controllabile: il comune. Ma bisognerebbe, appunto, avere qualcosa da dire e poi dirlo. Andare in giro a spiegare il proprio progetto alternativo. Qual è invece la proposta del Pd? Nessuno lo sa, perché non esiste. Infatti il presunto segretario Renzi, così garrulo su tutti i temi che non gli competono (tipo la conferma o meno del governatore di Bankitalia), è riuscito a non dire mai una parola sui referendum del Nord, tenendo il suo trenino ben lontano dalle regioni settentrionali (come pure dalla Sicilia alla vigilia del voto), lasciando che i suoi esternassero in ordine sparso tutto e il contrario di tutto. Il sindaco renziano di Bergamo, Giorgio Gori, autocandidato a governatore regionale, ha votato Sì. Il sindaco pseudorenziano di Milano, Beppe Sala, aveva detto che avrebbe votato Sì e poi s’è inventato un impegno urgente a Parigi per avere la scusa di assecondare gli ultimi desiderata del Nazareno, che parevano inclinare verso l’astensione. In Veneto molti erano per il Sì. Il vicesegretario unico e ministro Maurizio Martina, bergamasco, ha atteso la vigilia delle urne per paventare addirittura una “deriva catalana” (per un referendum consultivo su un passaggio di funzioni previsto dalla Costituzione). La Prova d’orchestra di Fellini, al confronto, era un capolavoro di coerenza.

La verità è che il Pd non ha niente da dire perché non ha nessuno che pensi, rifletta, elabori, discuta. E chi ci prova è un gufo da espellere. Raus. Molto meglio improvvisare, vivere alla giornata, navigare a vista, anzi a svista. Encefalogramma piatto. Negli ultimi vent’anni, nelle sue varie reincarnazioni, il centrosinistra ha cambiato una dozzina di segretari, ma senza mai trovarne uno che riuscisse a parlare credibilmente a due delle regioni più avanzate d’Italia. Infatti ha perso tutte le elezioni, salvo quando ha preso a prestito candidati di centrodestra (tipo Sala). E, dopo ogni scoppola, s’è ritrovato nei salotti televisivi a spiegare (ma a chi?) che la Lega vince perché “radicata nel territorio” e i 5Stelle vincono perché “radicati nelle periferie”. Intanto i papaveri pidini seguitavano a radicarsi nelle terrazze romane, nei Cda delle banche e nei summit di Confindustria. A strillare contro i “populisti” che hanno il brutto vizio di essere popolari. E poi a tentare, trafelati, di recuperare il contatto perduto con la società da Maria De Filippi (lo fece Fassino, lo rifece Renzi travestito da Fonzie) o al Festival di Sanremo (Bersani, tra i fischi). Peggiorando, se possibile, la situazione. La miglior definizione dei dirigenti del Pd la diede, senza volerlo, Carlo Cipolla a proposito di quanti – diversamente dai mascalzoni che danneggiano gli altri per favorire se stessi – riescono a danneggiare sia gli altri sia se stessi. Infatti parlava degli stupidi.

 

1471.- Referendum, vince Zaia, perde Salvini, ma il partito forte resta l’astensionismo.

il-momento-di-fare    ORA O MAI PIÙ

Mentre mi domando: Cosa starà pensando Flavio Tosi dell’avanzata di Zaia, penso a che cosa aspetta Salvini a ricucire la Lega e il Fare. La radice della Lega e quella del Fare sono comuni e la spaccatura è stata voluta dai due leader e solo loro potrebbero ricucirla. Ecco che il referendum-sondaggio di Zaia e per Zaia diventa l’esame di maturità per loro, che si definiscono la terza e la quarta gamba del Centro Destra. Entrambi i due leader  hanno lavorato per il Sì e correttamente, ora, attendono il risultato della Sicilia; ma bisogna dare fiducia e rappresentanza ai tanti elettori che non voteranno Berlusconi o la Meloni e, magari, anche Salvini, affinché non vadano a ingrossare le file dell’astensionismo. Né Berlusconi né Salvini e ancor meno Tosi sono in grado di superare il 15% di consensi. Un gesto di riappacificazione potrebbe richiamare una serie di forze di tutta l’area liberale e aiutare a far superare i limiti dei leader del centrodestra”. 

Leggiamo, intanto le considerazioni di Flavia Perina.

pt8N7htA

Sinistra e Cinquestelle sono inesistenti. E’ l’ora della Destra: Ora o mai pià.

Il referendum delle nostre Catalogne in miniatura si conclude come prevedibile: è tornata la “vecchia Lega” del “Padroni A Casa Nostra“. Ma la notizia vera è che sia sinistra che i Cinquestelle hanno rinunciato a qualsiasi forma di lotta sul terreno del Nord.

Dentro il quorum del Veneto, dentro il 40 per cento di affluenza della Lombardia, ci sono anche gli elettori del M5S, del Pd, di FI, ma non importa. Il successo del referendum autonomista è tutto di Luca Zaia e lo strano caso delle nostre Catalogne in miniatura si conclude come prevedibile: con la consegna alla “vecchia Lega” – la Lega della devolution, di Roma Ladrona, di Padroni A Casa Nostra – del monopolio politico su una battaglia che evidentemente continua a scaldare i cuori e in qualche modo offusca le ambizioni nazionali di Matteo Salvini. «Da domani lavorerò perché anche i cittadini delle altre regioni che già me lo hanno chiesto, dalla Puglia al Piemonte, dal Lazio alla Toscana, possano fare la stessa scelta», dice il segretario leghista, cercando di mettere il cappello su una strategia e una vittoria che non è sua. E nella frase c’è la controprova della torsione in corso, giacché è evidente il conflitto di interessi tra le Regioni del Centro-Sud e l’eventuale successo dell’operazione di Zaia, finalizzata, come ha immediatamente dichiarato il Governatore, a “tenersi il 90 per cento le tasse”.

Il referendum del lombardo-veneto è uno strano caso per molti motivi. Il primo è l’assenza di competizione. Tutti i partiti, di governo e di opposione, si sono consegnati al racconto leghista. Solo dieci anni fa il referendum sulla Devolution aveva visto un’aspra battaglia tra il centrodestra a trazione leghista e il mondo progressista. Oggi si è preferito salire in massa sul carro del probabile vincitore. Il fronte del No non esisteva. Il consueto fronte dell’astensione, che su altri quesiti (vedi Trivelle) aveva incendiato il dibattito, si è limitato alle dichiarazioni del ministro Maurizio Martina e qualche battuta di Giorgia Meloni. Persino il M5S, così orgoglioso delle sue battaglie “in solitaria” e così poco disponibile ad accodarsi ad operazioni altrui, è passato sotto le forche caudine del governatore Zaia e si è messo in fila per baciare la pantofola autonomista. Complesso di inferiorità? Resa all’ineluttabile? Più che altro, sembra aver agito il terrore della sconfitta e una strategia politica che consentirà di dire, oggi, a risultati acquisiti: “abbiamo vinto anche noi”.

L’esito più evidente – la rivincita del leghismo Old Style – è anche quello che conterà e avrà conseguenze. La linea Bossi, quella che Matteo Salvini pensava di aver sepellito proprio quest’anno vietando il palco al vecchio padre-padrone, si conferma come la radice ineluttabile e incancellabile del Carroccio, quella che regala più soddisfazioni.

L’asimmetria tra i risultati del Veneto e della Lombardia è il secondo elemento singolare di questa storia. “Quota 40” è più o meno la percentuale con cui è stato eletto Roberto Maroni cinque anni fa, e il fatto che in Lombardia l’affluenza si sia fermata lì, nonostante il robusto appoggio al quesito del Pd Gorgio Gori, marca una sostanziale differenza all’interno delle due enclavi leghiste. Se le istanze autonomiste del Veneto non sono discutibili, quelle della Lombardia risultano quantomeno dubbie e circoscritte all’elettorato che ancora segue le indicazioni dei partiti: il “popolo lombardo” per dirla con la retorica della politica, e specialmente i milanesi (25% di votanti), è rimasto piuttosto indifferente. La mitica Padania non è tutta uguale. E, probabilmente, i molti scandali che hanno scosso la Regione Lombardia dall’era Formigoni in poi hanno vaccinato parte degli elettorati dall’idea che sia opportuno consegnare maggiori margini di autonomia alle classi dirigenti locali.

Ma le analisi di dettaglio in questo momento sono secondarie. L’esito più evidente – la rivincita del leghismo Old Style – è anche quello che conterà e avrà conseguenze. La linea Bossi, quella che Matteo Salvini pensava di aver sepellito proprio quest’anno vietando il palco al vecchio padre-padrone, si conferma come la radice ineluttabile e incancellabile del Carroccio, quella che regala più soddisfazioni. E si porta dietro anche un tipo di relazione con le altre forze del centrodestra, Berlusconi e Forza Italia in primis, del tutto divergenti dalla competizione muscolare avviata dall’attuale segretario, dalle sue sortite pirotecniche e provocatorie, dal suo sgomitare per la primogenitura. I referendum incoronano la Lega di governo, in giacca e cravatta, senza felpe, senza troppa visibilità televisiva. E c’è da immaginare che i suoi promotori, i vecchi colonnelli di Bossi, Zaia e Maroni, aspettino al varco la prova dell’«altra Lega» nelle Regionali siciliane per chiudere il cerchio, e i conti con il loro giovane leader.