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6037.- Uno sguardo all’Armenia: in silenzio. Non solo Ucraina, Israele o Palestina.

L’informazione è muta sull’ennesima tragedia del popolo armeno, aggredito dall’Azerbaijan. Tace l’Ue, che riceve dagli azeri il gas che rifiuta dai russi; tace Israele che ha interessi energetici e vende armi a Baku; tace la Nato che non vuol vedere e accetta il tradimento di Erdoğan, scudo armato degli azeri, come lo è Israele, tace anche Putin e tace il falso Padre dei cristiani, quali sono gli armeni. L’ONU? Non pervenuto. Gli armeni vivono il loro secondo genocidio. Soltanto in Francia si alza una voce, ma parla da sola.

L’inferno vissuto dagli armeni, cosa ci raccontano e cosa dovrebbe fare la Francia. Lo spiega Marion Maréchal.

Da  Boulevard Voltaire del 2 novembre 2023. Marc Baudriller Intervista Marion Maréchal sull’Armenia.

Una cattedrale distrutta vicino a Stepanakert, capitale del Nagorno Karabakh, durante i bombardamenti tra l’esercito armeno e quello azero, ottobre 2020. (Aris Messinis, Afp)

Marion Maréchal in Armenia: “Sono rimasta colpita dal loro sguardo vuoto”



Giunta sabato 28 ottobre in Armenia, Marion Maréchal ha trascorso diversi giorni con i funzionari e le popolazioni colpite dalla guerra. Visibilmente commossa, racconta a BV il contesto, gli scambi e gli incontri che più l’hanno segnata durante questo viaggio.

Marc Baudriller. La Francia sembra relativamente indifferente al destino dell’Armenia, a differenza di quello dell’Ucraina e di Israele. Come lo spieghi?

Marion Maréchal. Ci sono diverse spiegazioni. Il primo è che Ursula von der Leyen [presidente della Commissione europea, ndr] ha raddoppiato l’importazione di gas azero per compensare la rottura dei legami energetici con la Russia. Parte di questo gas proveniente dall’Azerbaigian è in realtà gas russo che transita attraverso l’Azerbaigian. In secondo luogo, c’è timore nei confronti della Turchia che sostiene l’Azerbaigian nel contesto del conflitto dell’Artsakh. Oggi, come da anni, la Turchia ricatta l’immigrazione: minaccia di aprire molto ampiamente le sue frontiere e di far entrare potenzialmente milioni di persone. Inoltre, si registra anche un indebolimento della voce della Francia all’interno della stessa Unione Europea. Conosciamo infine i rapporti privilegiati della Germania con la Turchia, dovuti alla numerosissima comunità turca in Germania. E poi, nel contesto del conflitto russo-ucraino, le tensioni con la parte russa si riversano in questo conflitto, perché in questo caso i russi sono da tempo alleati degli armeni di fronte alle minacce dell’Azerbaigian. Tutte queste contingenze portano al silenzio e all’assenza di condanna.

M. B. Se fossi al potere, cosa chiederesti all’Azerbaigian e alla Turchia?

M. M. Ci dovrebbe essere una condanna da parte dell’Unione Europea e della Francia nei confronti dell’Azerbaigian e della Turchia. Non ce n’era. Piuttosto, c’erano segni di amicizia e rapporti cortesi. Si dovrebbe chiedere una sanzione per l’Azerbaigian, come è avvenuto per la Russia, a causa di una violazione del diritto internazionale. L’Azerbaigian ha commesso crimini di guerra e pulizia etnica; ciò meriterebbe almeno una sospensione da parte del Consiglio d’Europa e un certo numero di misure, anche economiche.
Per quanto riguarda la Turchia, di fronte alle ultime dichiarazioni estremamente aggressive di Erdoğan nei confronti dell’Europa – che sembra voler unire tutti i paesi che sostengono Hamas e supervisionare questo famoso conflitto di civiltà tra quelle che lui chiama “la croce e la mezzaluna” – dobbiamo porre definitivamente fine porre fine al processo di preadesione che finora è costato ai contribuenti europei più di 15 miliardi di euro.
Dovremmo anche mettere sul tavolo la discussione sull’adesione della Turchia all’organizzazione militare della NATO che dovrebbe garantire la sicurezza dell’Europa. La Francia non dovrebbe cedere tutta la sua sicurezza e indipendenza, in materia diplomatica e di difesa, a questa organizzazione. Dovrebbe prendere la traiettoria della massima indipendenza, a livello diplomatico, militare e operativo.

M.B. Quali testimonianze ti hanno toccato di più tra gli armeni che hai incontrato?

M. M. Abbiamo visto diverse famiglie di rifugiati, nonché funzionari eletti che hanno assicurato la loro accoglienza e integrazione. Ricordo questa studentessa che è rimasta dalla parte armena e che ha ritrovato i suoi genitori e i suoi fratellini. Avevano lasciato il territorio dell’Artsakh al termine della pulizia etnica. I suoi genitori erano denutriti, come molti rifugiati, a causa del blocco di cibo e medicinali. Ho incontrato una coppia di agricoltori che ci hanno raccontato che dovevano mangiare cibo animale per nutrirsi. Non potevano nemmeno riscaldarsi a causa dei tagli di gas ed elettricità. Mi ha colpito anche la testimonianza particolarmente toccante di una vecchia con i suoi figli. Aveva visto la grande croce del suo villaggio abbattuta dagli azeri. Ha pianto, ha avuto molta difficoltà a lasciare il monumento ai caduti del suo villaggio che sarebbe stato profanato. Era sconvolta.
Altra testimonianza atroce: i genitori, i cui due figli piccoli di otto e dieci anni furono decapitati, dovettero partire con i corpi in macchina durante l’esodo perché non potevano più accedere al cimitero e temevano la profanazione che ne sarebbe seguita.
Mi ha colpito molto il loro sguardo vuoto, come se una parte di loro fosse rimasta lì. Non si lamentano.

5390.- L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Questo scontro vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

Sulla porta di casa di Putin, la portavoce della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi promette il sostegno degli Stati Uniti all’Armenia contro gli attacchi illegali dell’Azerbaigian. La Pelosi è arrivata domenica in Armenia e ha condannato fermamente gli attacchi “illegali” al confine dell’Azerbaigian contro l’Armenia. La sua visita arriva pochi giorni dopo che gli scontri tra le due ex nazioni sovietiche sul confine conteso hanno provocato la morte di dozzine di persone di entrambe le parti. Promettendo il sostegno dell’America al paese alleato della Russia, Pelosi ha affermato che Washington sta ascoltando le esigenze di difesa dell’Armenia e intende sostituirsi a Mosca come garante, … probabilmente, senza dimenticare che la Turchia è il sostenitore dell’Azerbaigian.

Inoltre, l’UE ha appena concordato con l’Azerbaigian per quanto riguarda le alternative agli oleodotti dalla Russia e ora Pelosi sta sostenendo l’Armenia, questo sarà uno scontro che vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

L’Azerbaigian ha invaso il territorio sovrano dell’Armenia (che è riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’ONU), quindi è una diretta violazione del diritto internazionale, si direbbe tal quale quella di Putin in Ucraina. Questa invasione non è realmente correlata all’Artsakh (Nagorno-Karabakh), infatti, questo stato dittatoriale sta valutando l’occupazione di Syunik, per poi costruire un corridoio economico per collegare Nakhijevan (originariamente un territorio armeno divenuto poi una regione autonoma dell’Azerbaigian) all’Azerbaigian. Anche altre parti dell’Armenia sono probabilmente minacciate, inclusa la capitale Yerevan.

La situazione vede tutti i grandi attori in campo ed è probabile che Putin faccia una selezione dei suoi impegni e venga a patti con Kiev. Sia con le esercitazioni sino-russe congiunte nell’Indo-Pacifico, sia con i colloqui con Xi a Samarcanda, Pechino e Mosca stanno dimostrando un legame che resiste alle pressioni dell’Occidente e non lascia spazi agli avversari in Eurasia. È questo il risultato numero uno ottenuto da Biden, più importante della distruzione economica dell’Europa.

L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Da AbruzzoLive, di Francesco Proia, 17 Settembre, 2022

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Dopo il recente attacco azero all’Armenia il presidente Alen Simonyan ha chiesto aiuto a Mosca, che però non ha potuto rispondere poiché troppo impelagata nella guerra in Ucraina.

Secondo un recente tweet di Greg Yudin, direttore di filosofia politica, scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca, questo rifiuto del Cremlino non fa che palesare il crollo catastrofico della politica estera russa in una regione estremamente importante. Già dopo il conflitto del 2020 la Russia aveva completamente fallito la sua missione di pacificazione, nonostante avesse tutti i mezzi per farlo. Ovviamente questa è stata una scelta ben studiata da parte di Mosca, che non voleva in alcun modo inasprire i rapporti con la Turchia di Erdogan, da sempre a favore dell’Azerbaigian. All’epoca la Russia si era limitata a un accordo di protezione dell’Armenia, accordo di protezione a cui però oggi la Russia, con tutte le forze militari impegnate in Ucraina, fa chiaramente difficoltà a tener fede. E così l’Azerbaigian qualche giorno fa ha rialzato la testa e ha deciso di attaccare l’Armenia. Ma l’Armenia è una repubblica democratica, dove se le cose non vanno come devono andare i cittadini sono liberi di protestare contro il proprio governo. Ecco quindi che, rimasta inascoltata la richiesta di aiuto alla Russia, l’Armenia ha deciso di rivolgersi agli Stati Uniti, alla Francia e alla Gran Bretagna che nel 2020 erano stati messi da parte come paesi garanti in favore della Russia.

E proprio questo sarebbe il motivo che si nasconde dietro l’urgente viaggio di Nancy Pelosi a Yerevan, che in qualche modo certifica agli occhi del mondo che la Russia non è più il garante di sicurezza di quella regione. Ma questo certificherebbe anche che il CSTO, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare fondata nel 1992 da nazioni appartenenti alle Repubbliche Socialiste Sovietiche che dovrebbe fare da contraltare alla NATO, è sempre meno potente. E infatti in questi giorni proprio tra gli stati del CSTO si sta aprendo un altro fronte, con le lotte intestine tra Kirghizistan e Tagikistan. Insomma secondo Greg Yudin l’idea iniziale di Putin, ovvero di creare spaccature interne alla NATO, sta facendo invece crollare il suo blocco, trascinato proprio dalla Russia, un impero in caduta secondo lo studioso russo, che creerà sempre più instabilità.

5387.- Attacco avvolgente alla Federazione Russa

Armenia-Azerbaijan, la sfida che gli USA sembra siano vincendo

I nuovi campi di battaglia nella guerra fra gli Stati Uniti e la Russia: sfuttare il conflitto Armenia-Azerbaijan.

guerra armenia-azerbaijan

Fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere il cambiamento di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni Armenia-Azerbaijan, isolare la Transnistria. Queste le strategie della Rand Corporation messe in atto dagli Stati Uniti.

Non è complottismo, ma un documento strategico pubblico preparato dalla RAND Corporation, un istituto di ricerca statunitense fondato e finanziato dal Dipartimento della Difesa USA: 

Il documento RAND Corporation

A pagina 96 si legge:

Il presente capitolo descrive sei possibili mosse degli Stati Uniti nell’attuale competizione geopolitica: fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere un cambiamento di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni armene e azere, intensificare l’attenzione per l’Asia centrale e isolare la Transnistria.

Mentre, a pagina 117

In alternativa, gli Stati Uniti potrebbero cercare di indurre l’Armenia a rompere con la Russia.

Sebbene sia un partner russo di lunga data, l’Armenia ha sviluppato anche legami con l’Occidente: Fornisce truppe alle operazioni guidate dalla NATO in Afghanistan ed è membro del Partenariato per la pace della NATO e ha recentemente accettato di rafforzare i suoi legami politici con l’UE.

Gli Stati Uniti potrebbero cercare di incoraggiare l’Armenia a entrare a pieno titolo nell’orbita della NATO.

Gli scontri Armenia-Azerbaijan (estratti da balcanicaucaso.org)

Il contesto 

Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaijan.

Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri.

In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.

Nell’autunno del 2020, l’Azerbaijan ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena.

In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaijan ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni.

12 Settembre 2022

L’attacco dell’Azerbaijan all’Armenia avviene in aree esterne a quelle contese. In questo caso si tratta quindi di un paese che attacca in modo organizzato il vicino al di fuori di aree di conflitto, in aree tecnicamente non contese, senza obiettivi strategici evidenti: una dinamica del tutto nuova e preoccupante.

Ufficialmente, Baku ha spiegato questo attacco come una reazione a un’operazione di sabotatori armeni condotta il 12 settembre e a ripetute azioni ostili condotte dalla parte armena: lo scopo dell’intervento sarebbe quindi prevenire il ripetersi di simili provocazioni.

La spiegazione pare poco convincente, sia perché nell’attuale contesto l’Armenia non ha alcun interesse a cercare escalation militare con un vicino nettamente più forte, sia perché un attacco che raggiunge a colpi d’artiglieria oltre venti centri abitati in zone precedentemente non coinvolte dal conflitto sarebbe in ogni caso una reazione sproporzionata anche a una presunta provocazione: non può essere certo sufficiente a giustificare le oltre 200 vittime che sono conseguenza diretta di questo attacco.

Il ruolo di Israele e Stati Uniti nel conflitto Armenia-Azerbaijan

Il 17 settembre è trapelata la notizia secondo cui voli cargo israeliani atterravano in sequenza a Baku, in Azerbaigian.

Si tratta di munizioni e altri sistemi bellici che vengono consegnati all’Azerbaigian.

Il 19 settembre i ministri degli esteri armeno e azero si sono incontrati a New York, con la mediazione del Segretario di Stato Blinken.

Ma nel frattempo, dal 17 al 19 settembre la presidente della Camera USA, Nancy Pelosi, visitava l’Armenia con una delegazione del Congresso.

Trascrivo l’analisi di Rybar. Ovviamente la traduzione dal russo è automatica, quindi le imprecisioni sono altamente probabili.

La visita di Nancy Pelosi a Yerevan dal 17 al 19 settembre – La sintesi di Rybar

Una delegazione di membri del Congresso guidata dal presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi ha visitato l’Armenia dal 17 al 19 settembre. Pelosi è il più alto funzionario statunitense a visitare la Repubblica da quando ha ottenuto l’indipendenza.

Ha dichiarato che gli Stati Uniti sono preoccupati per la sicurezza dell’Armenia e hanno condannato a nome del Congresso l’attacco dell’Azerbaigian ai territori sovrani della Repubblica (bizzarro, visto che l’attacco è avvenuto su evidente impulso, ad esempio, dell’alleato USA, Israele n.d.r.).

Il Team Fish, insieme a Istanbul Wolf, analizza le implicazioni della visita del Presidente della Camera degli Stati Uniti in Armenia e parla degli obiettivi espliciti e impliciti.

Sui termini di supporto.

Dopo i colloqui con il Primo Ministro Nikol Pashinyan, sono state rese note alcune delle condizioni del sostegno statunitense: secondo il Primo Ministro, le autorità armene sono pronte a proseguire sulla strada delle riforme democratiche.

A questo proposito, è stata discussa l’adesione della Repubblica al programma Millennium Challenges dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID).

Sul genocidio armeno e le elezioni

La Pelosi ha visitato il monumento alle vittime del genocidio armeno turco del 1915, dove ha ostentatamente versato una lacrima davanti alla telecamera, e si è impegnata a stare dalla parte dell’Armenia contro la Turchia sulle questioni relative al Nagorno-Karabakh. Allo stesso tempo, il Presidente della Camera ha sottolineato che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden riconosce il genocidio armeno (anche se finora solo a parole).

Il desiderio di mostrare sostegno agli armeni in ogni modo possibile può essere legato a un’altra ragione: a novembre negli Stati Uniti si terranno le elezioni di metà mandato del Congresso. Gli uomini d’affari e i finanzieri di origine armena negli Stati Uniti potrebbero potenzialmente fornire fondi per la campagna elettorale del Partito Democratico.

Sul potenziale ritiro dell’Armenia dalla CSTO

Non sono solo le autorità armene ad aver preparato l’arrivo della delegazione: una manifestazione a Erevan per il ritiro dell’Armenia dal CSTO è stata sostenuta da membri dell’opposizione russa.

Pelosi ha annunciato di essere pronta ad “aiutare” se la leadership armena deciderà di lasciare la CSTO. Washington sembra prepararsi a questo passo: il Ministro della Difesa armeno Suren Papikyan, recentemente tornato dagli Stati Uniti, ha discusso con i membri del Congresso le prospettive di cooperazione nella sfera della difesa.

Lo speaker dell’Assemblea nazionale armena, Alain Simonyan, del partito di Pashinyan, si è spinto oltre, dimenticando il ruolo della Russia nel Caucaso meridionale e definendo gli Stati Uniti il principale garante della tregua stabilita tra Baku ed Erevan.

Sulle conseguenze del rafforzamento dell’influenza statunitense in Armenia

Il rafforzamento della sua influenza in Armenia permetterà agli Stati Uniti di assumere il controllo indiretto del corridoio Zangezur, di importanza strategica, nel sud del Paese. È ancora rivendicato dai turchi e dagli azeri, e gli americani stanno ripulendo il mercato petrolifero dagli idrocarburi russi con le loro mani.

L’accesso diretto della Turchia al Mar Caspio attraverso l’Armenia meridionale risolverebbe il deficit energetico di Ankara, mentre la potenziale costruzione di nuovi gasdotti nell’area getterebbe le basi per estromettere la Russia dai mercati.

La Turchia, che è indirettamente controllata dall’Occidente, è un alleato di gran lunga migliore per gli Stati Uniti rispetto all’Armenia. Naturalmente, la scelta tra Turchia e Armenia non sarà a favore di quest’ultima.

La Turchia è più ricca, ha un esercito e un complesso militare-industriale. Inoltre, i turchi hanno la capacità geopolitica di esercitare pressioni sull’Europa orientale, sul Nord Africa, sul Medio Oriente e sulla Russia.

Pertanto, il massimo che gli americani si aspettano è la creazione di una vera e propria opposizione tascabile, oltre che di un governo armeno tascabile, attraverso gli imprenditori armeni emigrati. Questo è necessario sia per la competizione tra il governo e l’opposizione, sia per il loro controllo reciproco.

E tutto questo si combinerà per provocare un’instabilità ancora maggiore in Armenia e quindi nel Caucaso meridionale.

Soldati su un carro amrato © Bumble Dee/Shutterstock

Su Armenia-Azerbaijan il “progetto” RAND Corporation in tutto il suo splendore

Quindi:

  • “Riforme democratiche” secondo i parametri degli Stati Uniti (ricordiamo l’esportazione di democrazia in Jugoslavia, in Irak, in Libia, in Afghanistan eccetera)
  • Adesione a USAID, lo strumento utilizzato dagli Stati Uniti per i “Regime Change” in giro per il mondo
  • Aiuti solo se l’Armenia lascerà la CSTO, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva di alcuni dei Paesi dell’ex Unione Sovietica

Le intenzioni americane sullo sfruttamento del conflitto Armenia-Azerbaijan erano chiare e pubbliche.

Le ragioni dell’apparente disinteresse russo molto meno.

Al n. 5385 abbiamo trattato della debolezza di Mosca, della guerra in Ucraina, della difficoltà per l’Unione europea di rinunciare alle forniture di gas azere, dell’attuale vulnerabilità armena, tutti fattori che contribuiscono a chiarire il contesto del rinnovato conflitto tra Armenia e Azerbaijan e i motivi dell’escalation dei giorni scorsi

5385.- Conflitto tra Armenia e Azerbaigian: perché proprio in questo momento, perché questa volta è più preoccupante e c’entra anche la debolezza di Mosca

Manovra avvolgente

18 Settembre 2022, di Giorgio Comai, Valigia Blu

Per due giorni, a partire dalla notte tra il 12 e 13 settembre e fino alla sera del 14 settembre ci sono stati intensi scontri a fuoco lungo estesi settori del confine tra Armenia e Azerbaigian. Attacchi con artiglieria e droni dell’Azerbaigian hanno colpito non solo posizioni di confine, ma hanno raggiunto anche centri abitati armeni che non si trovano in immediata prossimità del confine. Ufficialmente gli scontri hanno causato 77 morti di soldati dell’Azerbaigian, e 135 in Armenia (numeri non definitivi), con feriti e oltre 7.600 persone evacuate per sicurezza dai centri abitati armeni più esposti all’attacco. Sebbene l’Azerbaigian abbia presentato questa azione militare come una risposta a provocazioni armene, tutto fa pensare a un deliberato intervento di Baku per evidenziare la propria posizione di forza e imporre sostanzialmente i propri termini all’Armenia nella fase avanzata dei negoziati di pace attualmente in corso. Un cessate-il-fuoco tra le parti sembra per ora reggere, ma la situazione rimane tesa; in seguito a questi eventi, l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune alture in aree di confine armene. 

Il contesto

Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaigian. Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri. In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.

Leggi anche >> Il conflitto Armenia-Azerbaigian: le pulizie etniche, gli interessi economici e geopolitici e una guerra che non è mai finita

In questi anni, l’Azerbaigian – la cui popolazione è oltre il triplo di quella dell’Armenia –  si è notevolmente rafforzato dal punto di vista economico grazie all’esportazione di idrocarburi e ha dedicato crescenti risorse alle proprie forze armate, rendendo così sempre più evidente la disparità di forze tra i paesi vicini. Nell’autunno del 2020, l’Azerbaigian ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena. In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaigian ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni. La guerra ha causato decine di migliaia di sfollati armeni, ma buona parte della popolazione armena del Nagorno Karabakh (circa 140.000 persone prima della guerra del 2020) continua a vivere nella regione protetta da un contingente di forze di pace della Federazione russa, in un contesto che pare sempre più fragile.

Perché gli eventi di questi giorni sono preoccupanti

Durante la guerra del 2020, le azioni militari si sono svolte per intero in Nagorno Karabakh e nei territori adiacenti, ovvero, all’interno di quelli che sono i confini internazionalmente riconosciuti dell’Azerbaigian. Ad eccezione di piccole schermaglie che interessavano in particolare aree in cui vi sono centri abitati che si trovavano in diretta prossimità del confine tra Armenia e Azerbaigian (gli incidenti più gravi si sono registrati nel 2014 e nel 2020), né prima né dopo quella guerra gli eserciti dei due paesi si sono scontrati lungo il confine internazionalmente riconosciuto che li separa, né erano mai stati colpiti obiettivi militari o altra infrastruttura situata all’interno dei confini dell’Armenia. A differenza dei precedenti episodi in ampia parte imputabili alla vicinanza tra le forze che controllano il confine dalle due parti e a dinamiche incidentali, l’attacco del 13 settembre da parte dell’Azerbaigian è evidentemente pianificato e deciso a livello centrale: l’impiego di artiglieria pesante e droni su lunghi settori del confine non lascia adito a dubbi. È un evento su scala molto più ampia rispetto a piccole seppur contestate avanzate in zone scarsamente presidiate e dove il confine non è pienamente demarcato, come si era osservato a maggio dello scorso anno in zone montane.

In questo caso si tratta quindi di un paese che attacca in modo organizzato il vicino al di fuori di aree di conflitto, in aree tecnicamente non contese, senza obiettivi strategici evidenti: una dinamica del tutto nuova e preoccupante.

Perché quindi da parte dell’Azerbaigian si è deciso di intervenire in questo modo, in questo momento e in questa area?

Perché proprio in questo momento?

Ufficialmente, Baku ha spiegato questo attacco come una reazione a un’operazione di sabotatori armeni condotta il 12 settembre e a ripetute azioni ostili condotte dalla parte armena: lo scopo dell’intervento sarebbe quindi prevenire il ripetersi di simili provocazioni. La spiegazione pare poco convincente, sia perché nell’attuale contesto l’Armenia non ha alcun interesse a cercare escalation militare con un vicino nettamente più forte, sia perché un attacco che raggiunge a colpi d’artiglieria oltre venti centri abitati in zone precedentemente non coinvolte dal conflitto sarebbe in ogni caso una reazione sproporzionata anche a una presunta provocazione: non può essere certo sufficiente a giustificare le oltre 200 vittime che sono conseguenza diretta di questo attacco. 

Una serie di elementi di contesto aiuta a capire meglio le dinamiche che plausibilmente hanno portato Baku a prendere questa decisione. Primo tra questi è il contesto internazionale estremamente favorevole per l’Azerbaigian: Baku ha potuto decidere di intervenire con un attacco sul suolo di un altro Stato senza un credibile pretesto anche perché aveva la convinzione – per ora, confermata dai fatti – che non avrebbe pagato un prezzo sostanziale per quella che a tutti gli effetti è una grave e ingiustificata violazione del diritto internazionale. L’Armenia è militarmente indebolita e conscia di non potersi permettere una reale escalation militare. La Russia, storico alleato dell’Armenia e garante dell’armistizio del novembre 2020, ha evidentemente altre priorità in questo momento; potrebbe non essere solo una coincidenza il fatto che questo attacco abbia avuto luogo solo pochi giorni dopo l’importante controffensiva di Kharkiv che ha messo ulteriormente in evidenza i limiti della forza militare russa. Più in generale, le dinamiche legate all’invasione dell’Ucraina riducono strutturalmente l’influenza di Mosca nel Caucaso meridionale. 

Inoltre, evitando di colpire le aree protette dai peacekeeper russi in Nagorno Karabakh, Baku ha ridotto ulteriormente il rischio un coinvolgimento diretto delle forze di Mosca, anche se ha comunque messo in evidenza la debolezza degli accordi internazionali che dovrebbero tutelare la sicurezza dell’Armenia. Oltre ad avere un accordo bilaterale di sicurezza e mutuo soccorso con la Federazione russa, l’Armenia infatti è membro dell’“Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva” (OTSC), un’alleanza militare attualmente composta da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’OTSC ha una clausola di difesa collettiva simile all’articolo 5 della NATO, che impegnerebbe gli stati partecipanti a venire in soccorso qualora uno di questi stati sia attaccato. Yerevan ha cercato di ottenere aiuto dagli alleati, ma un loro sostegno militare diretto, mentre la Russia è “distratta” dalla guerra in Ucraina, pare semplicemente implausibile anche nel contesto di un’escalation più ampia: l’OTSC si è limitata a esprimere genericamente preoccupazione per la situazione e a mandare una missione conoscitiva in Armenia.

Baku sa inoltre di non dover temere reazioni dure neppure dall’Occidente. Sia Unione Europea che Stati Uniti hanno intimato di interrompere le azioni militari, ma realisticamente Baku ha poco di cui preoccuparsi: in questa fase l’Unione europea difficilmente rinuncerebbe alle forniture di gas dall’Azerbaigian quanto mai necessarie nei prossimi mesi per supplire alle ridotte importazioni dalla Russia (la presidente della Commissione Europea von der Leyen ha profusamente ringraziato il presidente dell’Azerbaigian Aliyev per il suo sostegno durante una sua visita a Baku lo scorso luglio). L’attuale dinamica dei prezzi degli idrocarburi garantisce inoltre un aumento molto significativo degli introiti per il bilancio di Baku per l’anno in corso e per il futuro prossimo.

In breve, il contesto favorevole spiega perché non ci fosse alcun deterrente immediato per Baku; non è però sufficiente a spiegare perché abbia deciso di agire in questo momento, in quest’area e con queste modalità.

Questi scontri lungo il confine avvengono infatti in una fase apparentemente positiva e costruttiva del processo negoziale, con ripetuti incontri diretti tra la leadership di Armenia e Azerbaijan ospitati dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. L’incontro più recente si è tenuto a Bruxelles lo scorso 31 agosto, solo due settimane prima delle violenze dei giorni scorsi, e secondo il comunicato ufficiale rilasciato dall’Unione Europea si è trattato di uno scambio produttivo, in seguito al quale veniva dato compito ai ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaigian di produrre una bozza di trattato di pace entro fine settembre.

Violenza, rivendicazioni e minacce

In questo contesto, l’attacco dei giorni scorsi è quindi interpretabile in primo luogo come un modo da parte dell’Azerbaigian per evidenziare la situazione di estrema vulnerabilità in cui si trova l’Armenia in questo momento, e quindi per sottolineare in questa fase avanzata di negoziati che l’Azerbaigian non è in cerca di concessioni, ma che in quanto vincitore dell’ultima guerra e stato militarmente più forte ha tutta l’intenzione di imporre le proprie condizioni.

Questo attacco è quindi non solo un pro-memoria della superiorità militare dell’Azerbaigian e della situazione di estrema vulnerabilità dell’Armenia, ma anche un’esplicita minaccia, che accompagna minacce verbali e rivendicazioni ripetutamente espresse in passato. Già nel 2021 infatti, il presidente Aliyev aveva dichiarato che l’Azerbaigian avrebbe stabilito un corridoio attraverso la regione armena di Syunik per facilitare il collegamento con la regione del Nakhchivan e la Turchia alle proprie condizioni: “Se l’Armenia sarà d’accordo, risolveremo questa situazione in modo più semplice, se non vuole, la risolveremo con la forza.” Ripetutamente negli scorsi anni, e più recentemente anche in contesto di negoziati, il presidente dell’Azerbaigian ha descritto gran parte del territorio dell’Armenia come territorio storicamente azero, insistendo in particolare sull’area meridionale dell’Armenia dove si sono concentrati gran parte degli attacchi dei giorni scorsi.

Cosa vuole ottenere l’Azerbaigian

Anche trascurando le rivendicazioni più ampie – che comunque è importante non normalizzare –  nell’immediato pare che l’intenzione da parte dell’Azerbaigian sia quella di spingere la leadership dell’Armenia a sottoscrivere un accordo di pace con il rispettivo riconoscimento dell’integrità territoriale tra i due paesi, senza alcun riferimento allo status o ai diritti delle popolazione armena del Nagorno Karabakh, e con la creazione di un corridoio azero attraverso Syunik alle condizioni di Baku, ovvero un corridoio al di fuori della giurisdizione armena e senza punti di controllo (l’armistizio del novembre 2020 prevedeva l’apertura di una linea di comunicazione, affidandone la supervisione alla Russia). 

Quando sono iniziati i colpi d’artiglieria nel cuore della notte del 12 settembre, era difficile da parte armena capire se si trattasse di un attacco relativamente limitato, o se fosse solo l’inizio di un’avanzata più sostanziale mirata a mettere in pratica le minacce ripetutamente espresse in passato. Instillare preoccupazione e paura nella popolazione armena per ottenere un accordo di pace che soddisfi a pieno le richieste di Baku senza ulteriori indugi era presumibilmente tra le motivazioni principali di questa offensiva di Baku.

Sicuramente l’attacco ha destato timore e preoccupazione, ma anche tanta rabbia, aumentando le tensioni interne in Armenia e mettendo potenzialmente a rischio la stabilità del governo. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan da tempo sta infatti lavorando per preparare il pubblico armeno ai difficili compromessi che saranno parte di ogni realistico accordo di pace, inclusa la rinuncia all’indipendenza del Nagorno Karabakh che per tanti anni è stato elemento centrale tra le richieste armene. Affinché si arrivi ad un trattato di pace che sia effettivamente difendibile di fronte alla popolazione, è importante che Pashinyan sia in grado di comunicare che questo difficile compromesso è fatto nell’interesse del paese e del popolo armeno. 

Cercare di concludere i negoziati sotto minaccia di violenza complica quindi ulteriormente il processo negoziale e rischia effettivamente di farlo deragliare, creando rischi per la tenuta del governo Pashinyan e favorendo l’ascesa a Yerevan di forze che più esplicitamente si oppongono a eventuali accordi. Baku potrebbe forse imporre con le armi le proprie condizioni, ma ad un costo umano, politico ed economico molto alto: si tratta di uno scenario difficilmente sostenibile e ricco di incognite che l’Azerbaigian non ha effettivo interesse a perseguire finché ha realistiche possibilità di ottenere gran parte di ciò che desidera per vie negoziali. 

Le prospettive

Sebbene la situazione sia ancora tesa e non sia affatto possibile escludere nuove violenze nei prossimi mesi, pare realistico che quantomeno nel breve periodo non emergano nuovi attacchi su ampia scala lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian. In questo momento entrambe le parti hanno interesse a fare in modo che gli scontri del 13-14 settembre escano al più presto dal dibattito pubblico; lo stesso presidente Aliyev ha minimizzato l’accaduto in un incontro con il presidente russo Vladimir Putin avvenuto il 16 settembre: “Nessuna delle parti aveva intenzione di arrivare ad un escalation su ampia scala. Scontri di confine, purtroppo, succedono. L’importante è che si sia arrivati a stabilizzare la situazione”.

È importante che nelle prossime settimane si riprendano i negoziati, proseguendo il percorso negoziale in corso che, pur tra enormi difficoltà, potrebbe progressivamente portare ad un accordo di pace. Il governo armeno in questi mesi ha dimostrato effettiva disponibilità a cercare compromessi, riducendo al minimo le proprie richieste, ma insistendo comunque che un eventuale accordo includa effettivi meccanismi di tutela per la sicurezza e i diritti della popolazione armena del Nagorno Karabakh, seppur accettando la piena sovranità di Baku su quest’area.

Per superare questa difficile fase del conflitto tra armeni e azeri e favorire dinamiche positive è quindi fondamentale trovare formule di compromesso riguardo alle vie di transito a disposizione dell’Azerbaigian attraverso il suolo armeno previste dall’armistizio del 2020 e soprattutto soluzioni che garantiscano diritti e sicurezza per la popolazione armena del Karabakh o che comunque contemplino un realistico percorso per definirli.

La sicumera che emerge costantemente dalle dichiarazioni di Baku, la prontezza nel ricorrere alle armi dimostrata anche nei giorni scorsi e l’esplicita e ripetuta minaccia dell’uso della forza per imporre le proprie condizioni, purtroppo, non lasciano ben sperare. La sostanziale assenza di una retorica pubblica effettivamente conciliatoria e inclusiva da parte di Baku e l’esclusione della comunità locale del Nagorno Karabakh dal processo negoziale sono destinati a creare nuove fratture. Il presidente Aliyev insiste che il Nagorno Karabakh è ora una questione interna dell’Azerbaigian, che l’Azerbaigian è uno stato multietnico dove non vi sono discriminazioni, e che non vi è quindi bisogno di alcun trattamento di privilegio per gli armeni né alcuna forma di autonomia. Si tratta di dichiarazioni nient’affatto rassicuranti. Senza esplicite tutele sulle quali dovrebbero attivamente insistere anche i principali attori internazionali coinvolti, il rischio che rinnovate tensioni portino a una nuova guerra e che la popolazione armena del Karabakh sia vittima di pulizia etnica nei prossimi anni è purtroppo del tutto concreto.

*Giorgio Comai è ricercatore ad Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

3380.- Il conflitto in Nagorno-Karabakh può portare alla destabilizzazione del Caucaso.

Camilla Canestri: “Ad una settimana di distanza dell’inizio delle ostilità tra le forze azere e armene nella regione contesa tra i due Paesi di Nagorno-Karabakh, la principale città dell’area, Stepanakert, è stata bombardata dall’Azerbaigian, il 3 ottobre. Questo è quanto ha denunciato il portavoce Ministero della Difesa armeno, Artsrun Hovhannisyan, il quale ha affermato che le forze azere stanno colpendo obiettivi civili con i propri missili.

Da parte sua, il Ministero della Difesa di Baku ha invece affermato che le forze armene stanno attaccando con missili lanciati da postazioni a Stepanakert le città di Terter e Horadiz, nel distretto di Fizuli. Oltre a questo, l’Azerbaigian ha anche denunciato che la seconda maggiore città del Paese, Ganja, dove vivono circa 300.000 persone, e altre aree civili sono state colpite da razzi e bombardamenti sferrati dall’Armenia. Quest’ultima ha però smentito l’accusa ma il presidente dell’autoproclamata Repubblica di Nagorno-Karabakh, Arayik Harutyunyan, ha rivelato che sono state le sue forze a distruggere una base militare a Ganja e ha aggiunto che: Le unità permanenti collocate nelle maggiori città dell’Azerbaigian sono, da oggi in poi, un obiettivo dell’esercito di difesa.

Più Paesi e organizzazioni internazionali hanno chiesto alle parti di tornare al dialogo, prima fra tutte la Russia. La Turchia, invece, è stato l’unico Paese ad adottare una posizione risoluta in appoggio all’Azerbaigian ed è stata accusata dall’Armenia e dalla Francia di aver rifornito le forze azere di mezzi, armi e uomini. In particolare, il presidente francese Emmanuel Macron, il 2 ottobre, ha accusato Ankara di aver portato in Azerbaigian militanti jihadisti reclutati in Siria.

l principale centro del Nagorno-Karabakh, Stepanakert, è sotto bombardamento da parte dalle forze azere. Allo stesso modo, la città di Ganja, nell’Ovest dell’Azerbaigian, è stata colpita da razzi e attacchi aerei, ampliando i confini del terreno di guerra. La capitale del Nagorno-Karabach è, nuovamente, senza corrente elettrica.

I mercenari di Erdogan

La RIA Novosti russa lo ha confermato e ha citato fonti informate dell’opposizione siriana secondo cui 93 mercenari siriani sono stati uccisi negli scontri del Karabakh di recente, spingendo un nuovo lotto da inviare in Azerbaigian dalla Turchia.

Una delle fonti ha detto all’agenzia che “i corpi di 53 mercenari sono stati trasferiti in Siria domenica … quindi, il bilancio totale delle vittime dei mercenari siriani ha raggiunto 93”.

Ieri, l’Osservatorio siriano ha indicato che le compagnie di sicurezza turche e l’intelligence turca hanno continuato a trasferire e addestrare un gran numero di membri delle fazioni filo-turche a combattere in Azerbaigian, poiché il numero di elementi in arrivo lì è aumentato a circa 1.200 combattenti.

Secondo il monitor, i mercenari siriani sono stati ingannati sul loro spiegamento, poiché originariamente era stato detto loro che avrebbero protetto i giacimenti petroliferi vicino alla regione del Karabakh. Questi mercenari sono allettati dalla paga maggiore dell’80% rispetto a quella percepita in Siria. “Ho registrato il mio nome più di una settimana fa per andare in Azerbaijan … per uno stipendio di due $ 2.000 al mese per un periodo di tre mesi”, ha detto uno di loro a un’agenzia.

La fonte ha detto che un terzo gruppo di mercenari siriani, compresi 430 membri, è partito sabato scorso per la zona di conflitto in Karabakh.

Da parte loro, Turchia e Azerbaigian hanno negato la presenza di combattenti siriani nel conflitto in Karabakh. Addirittura, il presidente azerbaigiano Ilham Aliyev ha chiesto alla Francia di scusarsi per le dichiarazioni del presidente Emmanuel Macron riguardo al trasferimento di militanti siriani a Baku per partecipare alle ostilità in Karabakh.

Aliyev ha detto in un’intervista ad Al Arabiya: “Non ci sono mercenari … Abbiamo un esercito di 100.000 soldati … Chiedo alla Francia di scusarsi e di essere responsabile”.

Esattamente, In precedenza, il presidente francese aveva dichiarato che 300 militanti siriani erano stati trasportati in aereo, attraverso la città turca di Gaziantep, a Baku.

La NATO chiede un cessate un fuoco in Nagorno-Karabakh

Scrive Maria Grazia Rutigliano per Sicurezza Internazionale: Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha chiesto di imporre un cessate in fuoco in Nagorno-Karabakh, mentre il bilancio delle vittime continua a salire nell’enclave separatista nel Caucaso meridionale. 

La Turchia, nel frattempo, ha sollecitato l’alleanza a chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione, che secondo il diritto internazionale rientra nella sovranità dell’Azerbaigian ma è popolata e governata dall’etnia armena. Parlando a fianco del ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ad Ankara, il 5 ottobre, Stoltenberg ha affermato che non esiste una soluzione militare al conflitto sul Nagorno-Karabakh. “È estremamente importante che trasmettiamo un messaggio molto chiaro a tutte le parti, queste dovrebbero smettere immediatamente di combattere, dovremmo sostenere tutti gli sforzi per trovare una soluzione pacifica e negoziata”, ha dichiarato Stoltenberg. La Turchia ha condannato quella che considera l’occupazione armena del Nagorno-Karabakh e ha giurato piena solidarietà con l’etnia turca dell’Azerbaigian. Cavusoglu ha affermato che la NATO dovrebbe anche chiedere il ritiro delle forze armene dalla regione.

I combattimenti nella contesa regione del Caucaso meridionale del Nagorno-Karabakh sono iniziati il 27 settembre, con entrambe le parti che si accusano a vicenda di aver attaccato l’altro. Secondo le autorità locali, 80 militari sono stati uccisi e quasi 120 feriti in Artsakh, il nome ufficiale della repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabach, per via dell’attacco azero. Baku, da parte sua, afferma che l’offensiva è una risposta a bombardamenti effettuati dalle forze armene lungo la frontiera, una versione definita “menzognera” dalle autorità armene. L’Armenia sostiene le aspirazioni d’indipendenza dell’Artsakh dall’inizio degli anni ’90. Tale entità statale non è riconosciuta dalla comunità internazionale ed è fortemente osteggiata dall’Azerbaigian e dal suo alleato turco. A seguito degli scontri del 27 settembre l’Artsakh ha imposto la legge marziale e una mobilitazione generale. L’Azerbaigian ha proclamato la mobilitazione parziale e la legge marziale in alcuni dipartimenti e ha chiuso i suoi aeroporti a tutto il traffico internazionale a eccezione della Turchia, che si è impegnata a sostenere Baku.

Ieri, 4 ottobre, l’Azerbaigian ha dichiarato che sarebbe pronto a cessare le sue operazioni nel Nagorno-Karabakh qualora l’Armenia proponesse un programma per il ritiro delle sue truppe dalle città della regione contesa, secondo quanto annunciato dal presidente azero, Ilham Aliyev. “La nostra condizione per un cessate il fuoco è che l’Armenia proponga un’agenda temporanea per il ritiro delle truppe dai territori azeri occupati nel Nagorno-Karabakh, un ritiro non promesso solo a parole, ma attuato nei fatti, specificando quali territori verrebbero liberati e in quali giorni”, ha dichiarato Aliyev. “Condividiamo il punto di vista secondo cui il problema con l’Armenia dovrebbe essere risolto attraverso il dialogo, ma deve esserci un fondamento per questo. Il Primo Ministro armeno deve dichiarare la sua adesione agli accordi precedenti, secondo i quali i territori del Nagorno-Karabakh erano riconosciuti come territori azeri occupati”, ha aggiunto il presidente azero.

Nel caso in cui non si raggiungesse un cessate il fuoco, prosegue Aliyev, le operazioni azere continuerebbero e Baku cercherebbe di stabilire normali relazioni con il popolo armeno dopo aver liberato le sue terre. “Cercheremo di ripristinare le normali relazioni con il popolo armeno dopo la liberazione dei nostri territori occupati. Cercheremo di tornare a rapporti di buon vicinato, anche se non sarà facile”, ha dichiarato il presidente. Il primo ottobre, Pashinyan ha accusato la Turchia di coordinare l’offensiva militare dell’Azerbaigian, suggerendo che Ankara sia tornata nel Caucaso meridionale “per continuare il genocidio armeno”. 

1650.- Parliamo di ARMENIA: Non è un paese per bambine. Il dramma degli aborti selettivi

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Emanuele Cassano, redattore di East Journal, è uno studente di Scienze Internazionali con specializzazione in Studi Europei presso l’Università degli Studi di Torino, si occupa dell’area del Caucaso, sia dal punto di vista politico che da quello storico e culturale. Prima di leggerlo, due parole sull’Armenia e i rapporti fra la repubblica caucasica e l’Unione europea.

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l’Unione Europea ha firmato con l’Armenia un nuovo Accordo di partenariato globale e rafforzato (CEPA), che intende riallacciare quei rapporti incrinatisi nel 2013 in seguito alla decisione di Yerevan di aderire all’Unione euroasiatica. Secondo il testo dell’accordo, pubblicato a settembre, in cambio del sostegno e dei finanziamenti europei l’Armenia si impegna ad attuare una serie di riforme che se implementate dovrebbero portare concreti benefici per la repubblica caucasica. Tra i principali propositi vi è lo sviluppo del settore finanziario e delle istituzioni democratiche, al fine di allentare la dipendenza economica da Mosca e rafforzare lo stato di diritto nel paese.
L’accordo dà a Yerevan l’opportunità di bilanciare la propria politica estera, finora eccessivamente dipendente dalla Russia, nonché l’occasione di usare i consigli, gli strumenti e i finanziamenti dell’UE per modernizzarsi e riformarsi, al fine di diventare un vero e proprio paese europeo. Ambisce, anche, a rafforzare la tutela dei diritti umani, affermare il principio di legalità, riformare il sistema giudiziario e combattere la corruzione. È inoltre importante ricordare come nell’accordo siano stati inclusi una serie di programmi volti a sostenere l’economia armena attraverso ad esempio il sostegno alle piccole e medie imprese, lo sviluppo del settore turistico, l’aumento della cooperazione con l’UE nel settore del trasporto aereo e la ricostruzione delle fabbriche dismesse nelle zone rurali del paese. Ma soprattutto l’entrata in vigore del CEPA darà all’Armenia la possibilità di spezzare il monopolio russo in settori chiave come l’energia e i trasporti. Ora due osservazioni: L’Ue persegue una politica filo USA, di contrasto alla Russia; ma la nostra Europa, come l’abbiamo studiata sui libri di scuola e come la calcano i nostri imprenditori, va dalla costa Atlantica agli Urali. La nostra radice è cristiana, rispetta la vita, la donna, condanna la violenza domestica e il diritto all’aborto è secondo rispetto al diritto di poter essere madre. Un sondaggio condotto dall’OSCE nel 2011 rivela che almeno il 60% delle donne armene ha subito qualche forma di violenza domestica nella propria vita. Ci sono voluti oltre dieci anni di battaglie condotte dalle organizzazioni per i diritti delle donne, due proposte bocciate dal parlamento nel 2009 e 2013, e mesi di accesi dibattiti, affinché l’Armenia adottasse finalmente una legge sulla violenza domestica.
Nella versione finale approvata lo scorso dicembre, la tanto attesa legge ha però subito un totale stravolgimento che ne mette in dubbio l’efficacia e addirittura la vera finalità. Qual è il risultato e cosa ne pensano la società civile e le organizzazioni per i diritti delle donne?

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Cambia il nome, cambia la sostanza

Il titolo parla da sé: quella approvata dall’Armenia è una legge “sulla prevenzione della violenza nella famiglia, sulla protezione delle vittime di violenza nella famiglia e sul ristabilimento dell’armonia familiare”. Per prima cosa, il termine “violenza domestica” è stato sostituito da violenza “nella famiglia”: una modifica che restringe il campo d’azione della legge. Come lo spiega l’attivista Artur Sakunts, direttore della Helsinki Citizens’ Assembly di Vanadzor, secondo la formulazione attuale la legge è applicabile solo nei casi di coppie ufficialmente sposate e che vivono sotto lo stesso tetto.

In secondo luogo, il titolo della legge racchiude in sé il cosiddetto “principio della riconciliazione”, che ha suscitato l’ira delle associazioni per i diritti delle donne. In pratica, la legge prevede che le forze di polizia (e lo stato stesso) possano intromettersi nella vita privata delle coppie per proporre una mediazione. Gli abusanti potranno “riconciliarsi” con le vittime attraverso un organo indipendente (la cui composizione e nomina non sono ancora state chiarite) al fine di risolvere la questione senza ricorrere al tribunale. Secondo Lara Aharonian, co-direttrice del Women’s Resource Center, questo tipo di mediazione, già rivelatosi inefficace in altri paesi, presenta dei rischi per le vittime di violenza domestica: può essere usato come forma di pressione ed è inoltre assolutamente inappropriato quando il rischio che la violenza si ripeta è alto. Nella maggioranza dei casi di uxoricidio, le indagini sono condotte in modo superficiale, i colpevoli vengono addirittura giustificati di fronte al tribunale e ricevono pene minime (9 anni di carcere in media). Sembra evidente, che dovrà trascorrere qualche generazione prima che l’Armenia possa integrarsi nell’Europa e che l’accordo segue il consueto filone dei diritti, ma è mirato, soprattutto nell’immediato, ad accrescere la capacità di stringere di assedio la Russia.

Entriamo, così, nel tema svolto da Cassano.

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L’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, a causa dell’ossessiva ricerca di figli maschi. Un approfondimento

nav-logoMariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un’altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.

Spesso, in Armenia, molte donne come Mariam ricorrono alla pratica dell’aborto selettivo – spesso spinte in questo dal marito o dalla famiglia – per assicurarsi figli maschi, mettendo però a serio rischio la loro salute e lo stesso equilibrio demografico del paese.

Tra i primi al mondo per tasso di aborti selettivi

Secondo il 2016 Global Gender Gap Report, l’Armenia è il secondo paese al mondo per tasso di aborti selettivi, dietro solo alla Cina. Come ricorda Garik Hayrapetyan, rappresentante di UNFPA Armenia – agenzia Onu che si occupa di politiche famigliari – il sesso del feto è alla base del 10% di tutti gli aborti indotti effettuati nel paese caucasico, dove ogni anno circa 1.400 nascite femminili vengono interrotte. Il problema degli aborti selettivi è emerso in seguito all’indipendenza del paese, negli anni Novanta, sebbene in Armenia l’aborto venisse largamente praticato come metodo contraccettivo fin dall’epoca dell’Unione Sovietica (il primo paese a legalizzare l’aborto, nel 1920).

Questo problema non riguarda solo l’Armenia, ma è comune a tutto il Caucaso, come conferma la presenza nelle prime dieci posizioni della classifica dei paesi con il più alto tasso di aborti selettivi dell’Azerbaijan (al 5° posto) e della Georgia (all’8°).

Secondo un rapporto di UNFPA Armenia del 2013, il paese ha inoltre il terzo più alto livello di mascolinità alla nascita osservato nel mondo, e una sex ratio tale per cui per ogni 114-115 maschi nascono solo 100 femmine (la media mondiale è di 105 maschi per 100 femmine). Questa stessa ricerca dimostra come il divario aumenti progressivamente a seconda dell’ordine di nascita: mentre il rapporto tra sessi è relativamente equilibrato per la prima nascita, esso aumenta a 173 maschi per 100 femmine al terzo figlio.

Quali sono le cause di questo fenomeno?

Per Ani Jilozian, attivista presso il Women’s Support Center di Yerevan, questo squilibrio è dovuto principalmente a tre fattori tra loro correlati. Il primo è la preferenza verso i figli maschi, che deriva da una struttura familiare in cui le ragazze e le donne hanno un ruolo sociale, economico e simbolico marginale, e di conseguenza godono di meno diritti. I figli maschi garantiscono inoltre una sicurezza per ogni famiglia, in quanto hanno il compito di prendersi cura dei propri genitori e assisterli nel corso della loro vecchiaia, poiché le donne, una volta sposate, vanno solitamente a vivere presso la famiglia del marito. Un secondo fattore è lo sviluppo tecnologico applicato alla diagnostica prenatale, che ha permesso ai genitori di conoscere il sesso del bambino ancor prima della nascita. L’ultimo fattore è la bassa fertilità (in media ogni donna armena partorisce 1,7 figli), che riduce la probabilità di avere un figlio maschio nelle famiglie più piccole aumentando di conseguenza la necessità di selezionare il sesso.

Sebbene una statistica di UNFPA Armenia (2012) stabilisca che nel 70% dei casi siano le donne a scegliere di abortire, non sempre esse sono messe in condizione di prendere questa decisione in piena autonomia. Secondo uno studio qualitativo condotto da Ani Jilozian, basato su una serie di interviste realizzate con alcune donne che hanno fatto ricorso all’aborto selettivo, la maggioranza delle intervistate, pur rivendicando inizialmente la decisione di abortire, ha successivamente ammesso che la scelta è stata di fatto indotta dalla forte volontà del marito o della sua famiglia di avere un figlio maschio. Talvolta sono gli stessi mariti a prendere la decisione per la moglie, ricorrendo in molti casi anche a pressioni psicologiche.

Una legislazione inefficace

Secondo la legge armena una donna può effettuare un aborto fino alla 12ma settimana di gravidanza, periodo nel quale il sesso del feto non può ancora essere determinato, il che dimostra come la maggior parte degli aborti selettivi siano illegali e rischiosi. Solo il 57% delle donne è però al corrente dell’illegalità di questo processo e dei rischi che esso comporta.

Recentemente il governo armeno ha introdotto una nuova legge per combattere il fenomeno degli aborti selettivi. Secondo la nuova norma, prima di poter effettuare un aborto, una donna deve partecipare a una sessione di consulenza con il proprio medico, e successivamente aspettare tre giorni prima di ricevere l’autorizzazione per l’intervento. Secondo il governo armeno questa legge dovrebbe aiutare a sensibilizzare le donne sui rischi che comporta l’aborto e a metterle nella condizione di riflettere meglio.

Come spiega però Ani Jilozian, questa legge è inadeguata, in quanto limita la libertà riproduttiva della donna e ne mette a rischio la stessa salute. Dichiarare illegali gli aborti selettivi non è una soluzione che può combattere efficacemente il problema, in quanto non elimina le cause principali di questa preferenza sessuale, le quali sono profondamente radicate nella società patriarcale armena. Il tentativo di limitare l’accesso all’aborto senza affrontare le principali cause della preferenza del sesso potrebbe quindi finire per provocare una maggiore domanda di aborti illegali o non sicuri, in particolare per le donne provenienti dalle comunità più emarginate.

Inoltre, seppure negli ultimi anni in Armenia il numero di aborti selettivi sia in leggera diminuzione, secondo alcune proiezioni, se nel lungo periodo questo fenomeno non verrà adeguatamente contrastato, entro il 2060 in un paese di soli tre milioni di abitanti verranno a mancare circa 93.000 donne, ovvero il 3% dell’attuale popolazione totale. Questo causerebbe un conseguente processo di emigrazione di una parte della popolazione maschile, destinata ad andare in cerca di una partner al di fuori del paese, mettendone a rischio l’equilibrio demografico.

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Mariam, 31 anni, è madre di due bambine ed è originaria della regione di Armavir, Armenia occidentale. Anche dopo la nascita della seconda figlia, ha continuato a inseguire il suo sogno, avere un maschio, affidandosi ad un calcolo di probabilità. Ma non appena saputo di essere rimasta incinta e che si sarebbe trattato di un’altra femmina ha scelto di ricorrere all’aborto. “Mi sento colpevole di aver preso questa decisione, ma continuo a sperare di avere un figlio maschio un giorno. Non voglio scoprire ancora una volta che si tratta di una femmina e abortire di nuovo, non posso… Continuo a ripetermi che la prossima volta sarà quella buona”.

997.-CAUCASO. NAGORNO KARABAKH.

 

Siamo ancora nel Caucaso, dove si confrontano due mondi. La Repubblica del Nagorno Karabakh (Lernayin Gharabaghi Hanrapetutyun), per gli armeni comunemente Artsakh dal nome dell’omonima storica regione, è de facto uno stato a riconoscimento limitato, non riconosciuto da alcun membro dell’ONU, autoproclamatosi indipendente dall’Azerbaigian.
Situato nel Caucaso meridionale, nella regione del Nagorno Karabakh (anche “Alto Karabakh” o “Karabakh Montuoso”), confina a ovest con l’Armenia, a sud con l’Iran a nord e ad est con l’Azerbaigian. Per capirci, siamo tra la Russia e la Turchia. Gli attuali confini territoriali sono stati determinati al termine del conflitto scoppiato nel gennaio del 1992, dopo l’avvenuta proclamazione di indipendenza e corrispondono, grosso modo, a quelli dell’antica regione armena di Artsakh. Alcune porzioni del territorio (parte della regione di Shahoumyan e i bordi orientali delle regioni di Martouni e Martakert) sono sotto controllo azero pur essendo rivendicate dagli armeni come parte integrante del loro Stato. La guerra del Nagorno Karabakh è stato un conflitto armato che si è svolto tra il gennaio 1992 e il maggio 1994, nella piccola enclave del Nagorno Karabakh. Lo scorso 20 giugno la Russia ha tentato di assumere un ruolo di mediazione diretta nel conflitto fra Armenia e Azerbaigian relativo alla regione contesa del Nagorno-Karabakh: il presidente Vladimir Putin ha accolto, infatti, a San Pietroburgo gli omologhi armeno e azero, rispettivamente Serzh Sargsjan e Ilham Alyev. In questa occasione, i tre capi di stato hanno concordato sulla necessità di dare nuovo impeto al processo di pace nel Nagorno-Karabakh. I presidenti dei tre paesi hanno concordato su una dichiarazione trilaterale che esprime l’impegno nel cercare progressi concreti per la pacificazione politica. L’iniziativa russa esula dal formato regolare dei negoziati, gestiti dal Gruppo di Minsk, che si era riunito l’ultima volta lo scorso 16 maggio e che al momento, tuttavia, non sembra portare a particolari risultati, nonostante le dichiarazioni del presidente di turno dell’Osce – il ministro degli Esteri austriaco Sebastian Kurz – che dopo avere assunto l’incarico ha detto che concentrerà le sue attività sulla risoluzione dei “frozen conflict” in Europa.

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Referendum costituzionale, nascerà la “repubblica di Artsakh”?

flag_of_nagorno-karabakh-svg                 In Nagorno Karabakh l’affluenza alle urne per il referendum costituzionale svoltosi il 20 febbraio è stata alta. L’87,6% dei votanti si è espresso a favore del cambio di sistema di governo da semi-presidenziale a presidenziale, e della modifica del nome della repubblica de facto in Artsakh. Una riforma “dettata dalle circostanze” La nuova costituzione sostituisce quella approvata nel 2006, quando a seguito di un altro referendum il Nagorno Karabakh si era dotato di una forma di governo semi-presidenziale. In realtà, la Commissione sulle riforme costituzionali istituita nel marzo 2016 avrebbe inizialmente dovuto elaborare un progetto costituzionale per trasformare il Nagorno Karabakh in una repubblica parlamentare. Si sarebbe così seguito l’esempio dell’Armenia che nel dicembre 2015 aveva organizzato un discusso referendum costituzionale avente lo stesso scopo. Invece, dopo il riaccendersi degli scontri armati sulla linea di contatto che divide l’esercito armeno da quello azero ad est del Nagorno Karabakh nell’aprile 2016, il progetto venne stravolto in senso opposto: la nuova costituzione approvata lo scorso 20 febbraio rinforzerà i poteri del presidente Bako Sahayan, in particolare permettendogli di prendere decisioni più rapide in materia di sicurezza. Inoltre, la riforma permetterà a Sahayan di restare al potere anche dopo la scadenza del suo mandato (a luglio di quest’anno) durante il periodo di transizione verso la nuova costituzione, ovvero fino al 2020. Per poi potenzialmente candidarsi per altre due volte alle elezioni presidenziali e quindi restare in carica fino al 2030. “Cosa c’è in un nome?” “Nelle sei sillabe che compongono ‘Na-gor-no Ka-ra-bakh’ si combinano tutti e tre gli imperi che si contesero l’influenza sul Caucaso: l’impero ottomano, quello persiano e quello russo. E’ forse la più condensata dimostrazione di potere e lingua esistente su questa riva del Volga: un grande impero (spesso in declino) per ogni due sillabe. Letteralmente, il nome significa altopiano, ‘nagornij’ in russo, e giardino nero, ‘karabagh’ in turco-persiano.” (Slavs & Tatars, Kidnapping Mountains, 2009) La nuova denominazione, Artsakh, approvata in seguito al referendum, racconta un’altra storia. Artsakh è una parola armena che fa riferimento ad una delle dieci province storiche del Regno di Armenia, corrispondente oggi in buona parte al territorio del Nagorno Karabakh: l’Artsakh fu l’ultima delle province a mantenere la propria autonomia anche in seguito all’invasione ottomana tra il XI e il XIV secolo. Sebbene il termine sia già comunemente usato in Armenia per riferirsi al Nagorno Karabakh, un cambio ufficiale di denominazione è visto come un’ulteriore rivendicazione nei confronti di Baku in risposta alla cosiddetta “guerra dei quattro giorni” dell’aprile 2016. La reazione di Baku: L’Azerbaigian non ha ovviamente riconosciuto il referendum svoltosi nel Nagorno Karabakh, né i suoi risultati. Secondo Elmar Mammadyarov, ministro degli esteri azero, il referendum non è altro che una provocazione, essendo contrario alla costituzione azera e ai principi del diritto internazionale. ll ministro ha inoltre dichiarato che “il tentativo da parte dell’Armenia di cambiare il nome della regione del Nagorno Karabakh, parte integrante dell’Azerbaigian, dimostra chiaramente che l’Armenia non è interessata a una risoluzione politica del conflitto armato”. E intanto si allunga la lista di personae non grate del presidente azero Aliyev: il procuratore generale dell’Azerbaigian ha infatti già avviato procedimenti penali contro i tre europarlamentari che si sono recati in Nagorno Karabakh per monitorare lo svolgimento del referendum.

Laura Luciani. Nata il giorno in cui tre presidenti riuniti in una dacha decidevano la dissoluzione dell’URSS, è appassionata di mondo post-sovietico e russofono. E’ laureata in lingue slave, comunicazione e scienze politiche all’Université Libre de Bruxelles.