Archivio mensile:gennaio 2019

2206.- Ce la meritiamo tutta, la recessione. E il peggio deve ancora arrivare

Giuseppe Conte è il quinto presidente del consiglio dei ministri non eletto

Abbiamo speso tutti i soldi e la credibilità che avevamo per misure inutili. Ci siamo convinti di una crescita che non ci sarebbe stata. E adesso che arriva la gelata, dovremo tagliare la spesa e aumentare le tasse, mentre gli altri Paesi europei faranno il contrario. Peggio non si poteva fare.

È inutile che fate finta di niente, lo sapevate.
Sapevate benissimo che il governo diceva palle, quando raccontava che il Pil sarebbe cresciuto dell’1,5%, che fosse un denominatore farlocco messo lì solamente a far quadrare i conti di un deficit che si era deciso dovesse essere del 2,4%.
Sapevate benissimo che nella legge di bilancio non c’era nessun magico moltiplicatore in grado di far accelerare l’economia italiana, che Quota 100 non avrebbe prodotto nuova occupazione giovanile e che il reddito di cittadinanza non avrebbe ridato slancio ai consumi italiani, o viceversa.
Sapevate benissimo anche che le questioni dell’economia italiana, dalla produttività stagnante alla sotto-occupazione femminile, dall’opprimente pressione fiscale alla folle burocrazia italiana rimanevano tutte lì, sul tappeto, come se non fossero nemmeno problemi.
Sapevate benissimo, pure, che l’economia globale stava rallentando, a causa di guerre commerciali che avevate auspicato, di dazi americani alle importazioni cinesi che avevate benedetto e invidiato, di un rallentamento dell’export tedesco che avevate addirittura festeggiato, tanto eravate convinti fosse la causa dei mali italiani.

Quota 100 ci costerà 40 miliardi, da qui al 2026. Dove li troviamo quei soldi? O meglio: ha senso trovarli, mentre ci toccherà aumentare le tasse o tagliare altrove?

Sapevate tutto, e avete continuato a far finta di nulla. A dire che le fosche previsioni sulla crescita dell’economia italiana fossero fasulle, create ad arte per indebolire il governo del cambiamento. A raccontarvi che se le agenzie di rating bocciavano la manovra del popolo era un bene, che non avevano mai capito nulla di economia. Che a tirare le fila dello spread fossero le cancellerie europee, quella tedesca in primis. Che fosse tutto un gigantesco complotto ordito dalle solite élite globali – le stesse che ci mandano i migranti, ovviamente -, che appena la nebbia della disinformazione si fosse diradata ci saremmo trovati nel bel mezzo del nuovo boom economico italiano. Pure Paolo Savona l’aveva detto, del resto: altro che uno e mezzo, si può crescere pure del 2% o del 3%.

E invece l’1,6% è diventato 1%, e poi 0,6%, stando alle stime di Bankitalia e del Fondo Monetario Internazionale. Stime fin troppo ottimistiche, visto che l’Istat ha certificato un calo del Pil sia nel terzo che nel quarto trimestre dell’anno e che, tecnicamente, siamo già in recessione.
Certo, chi più chi meno, le stanno tagliando tutti, le loro aspettative di crescita. Ma gli altri, con ogni probabilità, mitigheranno il crollo con interventi di sostegno agli investimenti e alla domanda interna. Tradotto, promuoveranno investimenti pubblici, abbasseranno le tasse. Noi invece, no. Ed è questo il vero grande problema italiano.
Che il peggio deve ancora arrivare.

Che abbiamo buttato nel cesso un mare di soldi, tutti i nostri margini di flessibilità e tutta la residua credibilità che avevamo in Europa per provvedimenti che non servono a nulla, forse nemmeno a far crescere i consensi di Lega e Cinque Stelle in vista delle elezioni europee. Che le abbiamo finanziate con clausole di salvaguardia da 25 miliardi e con previsioni clamorosamente errate da obbligarci, forse ancora prima dell’autunno a una brusca correzione di rotta. Che vuol dire tasse e tagli alla spesa nel bel messo di una fase recessiva del clclo economico. Tanto per essere chiari: Quota 100 ci costerà 40 miliardi, da qui al 2026. Dove li troviamo quei soldi? O meglio: ha senso trovarli, mentre ci toccherà aumentare le tasse o tagliare altrove?

Tutto quel che NON si doveva fare l’abbiamo fatto, insomma. E l’abbiamo fatto solamente per evitare di fare quel che avremmo dovuto fare: tagliare il debito e la spesa corrente, abbassare le tasse, investire nella scuola e nelle infrastrutture. Da qui in poi, tutto quel che verrà, ce lo siamo meritato, e non sarà colpa di nessuno, se non nostra.
​Buona recessione, Italia.

Francesco Cancellato

Nato a Lodi nel 1980, laureato in economia, dirige Linkiesta da dicembre 2014, dopo aver lavorato per dieci anni presso il Consorzio Aaster diretto da Aldo Bonomi. Ama la Cina e il Milan, David Foster Wallace e David Lynch. Ha due figlie e un figlio.

2205.- “LO STRAPOTERE DELLA MAGISTRATURA” (CHE POTERE NON E’)


Maurizio Blondet  29 Gennaio 2019 

di Patrizia Stella

L’Avvocato Giuseppe Palma, noto per le sue posizioni anticonformiste nei riguardi soprattutto del potere di certa Magistratura, dell’Unione europea e del pericolo dell’euro, ha ricordato in modo chiaro e inconfutabile in che cosa consiste il compito della Magistratura in rapporto con la Costituzione italiana. L’avv. Palma ricorda che, secondo la classica tripartizione politica operata dal Montesquieu e tuttora vigente anche in Italia, i poteri dello Stato si suddividono in: Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo, e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. 

Pertanto la Magistratura mai deve sentirsi legittimata a sostituirsi al Governo, perché suo compito è di esercitare “in nome del popolo” la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e soprattutto nel fedele rispetto della legge approvata dai due organi deputati ad adottarla: il Parlamento e il Governo. Continua l’avvocato Palma: “Se si legge il Titolo Quarto della Carta costituzionale è scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”

PERTANTO LA MAGISTRATURA NON E’ UN POTERE MA E’ “UN ORDINE” come quello dei giornalisti, dei medici, degli avvocati ecc. che ha dei diritti e dei doveri ben chiari e delimitati che le impongono di non sopraffare né il Governo, né il Parlamento, a maggior ragione se determinate leggi o norme sono state ratificate anche dal Quirinale, cioè dal Presidente della Repubblica. La Magistratura non deve usare la politica per i propri scopi e non ha il potere di buttare al macero le norme legittimamente approvate dal Governo, arrivando perfino all’assurdo di condannare l’operato dei singoli ministri nel legittimo esercizio del loro mandato voluto democraticamente dal popolo.

Questo non solo in riferimento alle pretestuose accuse rivolte contro l’operato dell’On. Salvini in merito agli sbarchi, però a tutta una situazione arbitraria in atto da interi decenni, continua l’avv. Palma, come quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E quel loro motto “resistere, resistere, resistere” che altro poteva significare se non resistere contro il Parlamento e il Governo, cioè contro l’autorità costituita?

Si potrebbero aggiungere altri esempi come quando la Magistratura si arrogò il diritto tre anni fa di approvare adozioni di minori per omosessuali, ottenuti anche con uteri in affitto, quando in Italia queste leggi non sono ancora state approvate! Eppure tutti zitti e buoni a obbedire a ciò che la Magistratura aveva decretato arbitrariamente! Come quando la Magistratura ha condannato più volte le vittime a risarcire i ladri che li hanno derubati e perfino malmenati, ha compiuto un gesto di sopraffazione perché mai in nessuna Costituzione italiana è scritto che il ladro deve essere risarcito dalla vittima se non è riuscito a portare a casa sano e salvo il suo bel bottino!

Nel caso del ministro Salvini che la Magistratura vuole giudicare per aver adempiuto a suo preciso dovere politico previsto dalla legge, è auspicabile che l’on. Salvini non si presti al loro gioco di presentarsi in tribunale per essere giudicato, nemmeno qualora avesse la certezza di essere abbondantemente assolto! Perché questo atteggiamento iniziale di totale sottomissione presenta già un pericoloso vizio di forma che sa di regime totalitario e che rischia di creare dei precedenti che non giovano né a lui, né al governo, né all’Italia e ancora meno agli italiani che si augurano che venga applicata la giustizia ma non il giustizialismo.

patrizia@patriziastella.com

2204.- GLOBALIZZAZIONE E MONDIALISMO: IL TRUCCO C’E’ . E PURE LA BENDA MEDIATICA SUGLI OCCHI.

Repubblica. it pubblica “Salviamo Casa Europa”  è il manifesto-appello dei patrioti europei che il filosofo francese Bernard-Henry Lévy ha promosso in vista delle prossime elezioni europee. Tra i firmatari anche Eugenio Scalfari e Roberto Saviano. Dicono: “l’Europa è a rischio a causa del programma delle forze populiste che spazzano il continente”. Non dicono che è a rischio perché è un’anomalia istituzionale, perché non è frutto di una costituzione fondante, accettata, approvata e condivisa dai popoli europei, cui è stata imposta, invece, attraverso i trattati, l’austerità da una banca centrale privata: la BCE.

E, ancora, dicono: “È in questo clima nefasto che nel maggio 2019 si terranno le elezioni europee. A meno che qualcosa non cambi, a meno che qualcosa non intervenga ad arginare la marea che cresce, preme e monta, a meno che in tutto il continente non si manifesti al più presto un nuovo spirito di resistenza, quelle elezioni rischiano di essere le più disastrose che mai abbiamo conosciuto: vittoria dei demolitori”… Non dicono che sperano che il qualcosa che cambi sia la repressione armata della reazione alla brutale, sanguinaria violenza con cui stanno arginando la protesta dei Gilet Jaunes in otto paesi d’Europa. Una violenza che ha fatto 13 morti e oltre 2.000 feriti fra i manifestanti, alcuni orbati dalle granate flashback sparategli in faccia da brevissima distanza; ma che ha prodotto anche 11 suicidi fra le forze della Police e della Gendarmerie costrette ad attuarla.

Dicono i commentatori di Orizzonte48: “Invocano la Casa Europa perché, dandocela come casa, ti tolgono la possibilità di avere una casa reale (che vuol dire anche una casa che si trovi innestata in un tessuto di una comunità) per avere una “casa” metaforica ed ideale con deflazione salariale, sradicamento dalle famiglie, dal territorio e decomposizione sociale”. “E’ il frutto di una pianificazione politica, economica e finanziaria, che ha creato le condizioni per accrescere esclusivamente la ricchezza delle multinazionali, entità economiche prive di territorialità, ma dotate di un immenso potere finanziario”.

Stiamo vivendo l’ultima battaglia degli Stati nazione, sociali, che devono esistere per garantire gli ordinamenti giuridici, fiscali che ognuno di essi esprime in modo proprio. L’alternativa è il disordine, la solitudine e la debolezza di ognuno di noi: ognuno perdente. Gli Stati sono la nostra forza. Uniamoli, senza cancellarli. Facciamo che l’ultima battaglia non sia il nostro canto del cigno e la sconfitta del sogno europeo, quello dei popoli, non quello delle multinazionali, prima fra tutte, quelle finanziarie dei farisei.

Orizzonte48, il blog di Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario di Stato, giudice e costituzionalista, titolava così il 7 aprile 2016:

“GLOBALIZZAZIONE E MONDIALISMO: IL TRUCCO C’E’ . E PURE LA BENDA MEDIATICA SUGLI OCCHI”. È attuale.

1. Perchè, vedete, il “trucco” è sempre lo stesso: prima si crea una situazione istituzionale sovranazionale (cioè un vincolo da trattato internazionale) che non consente agli Stati democratici la tutela dei diritti fondamentali (occupazione, salute, istruzione, previdenza) delle comunità sociali, le più ampie possibile in omaggio alla dottrina che i “confini” statali sono cattivi e guerrafondai. Poi si invoca un rafforzamento di questa situazione istituzionale come rimedio alla insostenibilità creata da essa stessa.Sappiamo ormai che questo è il metodo seguito con la moneta unica europea. Nonostante che questa metodologia fosse stata abbondantemente deunciata in anticipo, e tutt’ora, come distruttiva del benessere e della democrazia.

2. Ma, in realtà, come s’è pure già detto, il trucco del mondialismo, di cui l’UE-UEM sono l’esperimento-pilota, orwelliano, più avanzato – nel senso che se funziona sulle democrazie costituzionali di paesi economicamente e socialmente sviluppati, nulla poi sarà capace di opporglisi-, ha un’unica e solida matrice:in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (Hayek, 1939, “The Economic Conditions of Interstate Federalism”pagg.121-122)”.
3. Muovendo da questa matrice, il discorso può essere strategicamente sofisticato in modo tale da risultare incontestabile e da rendere definitivamente impotenti le reazioni democratiche dei paesi i cui popoli sono sottoposti alla condizionalità e al senso di colpa.Un esempio di questa strategia l’abbiamo vista nelle teorie della Sassen sulla “globalizzazione buona”, cosa che a sua volta presuppone quel diffuso benessere  conseguente al molto presunto “maggior” progresso tecnologico che ne deriverebbe.Nel suo linguaggio paludato, – ma circondato da un’ammirazione incondizionata negli ambienti mondialisti, divenuti paradigma mediatico del bene e della pace-, la Sassen ci spiega infatti che:”La globalizzazione è frutto di “nuovi regimi giuridici“, che, come sappiamo, fanno capo alla conclusione di trattati internazionali che, – come ammette senza alcuna preoccupazione, anzi, con un certo “apprezzamento”, la Sassen-, constano:a) di un punto di riferimento finale, cioè il titolare dell’interesse tutelato e realizzato dai trattati, individuato nelle “marche globali” (sarebbe poi a dire, le industrie multinazionali);b) un punto di riferimento statuale nazionale, individuato in “alcuni settori“, o “alcune componenti” interne allo Stato nazionale (!) che con un lavoro “altamente specializzato” – cioè di quelli ben retribuiti- portano avanti la denazionalizzazione per edificare uno spazio internazionalizzato nell’interesse non dei cittadini – che, necessariamente, sono coloro nel cui interesse devono agire i vari “settori” dello Stato-, ma delle imprese multinazionali.  Infatti queste, poverine, non avendo una persona giuridica che le tutela (a livello mondiale), si devono accontentare di…catturare settori dello Stato per fargli attuare politiche di proprio interesse…non nazionale!”La Sassen poi precisa ulteriormente:”Perché se riconosciamo i processi di denazionalizzazione, se in altri termini comprendiamo che la globalizzazione è un processo parzialmente endogeno al nazionale piuttosto che a esso esterno, possiamo capire che è proprio all’interno del nazionale che si stanno aprendo nuovi spazi politici potenzialmente globali per tutta una serie di attori confinati nel nazionale. Attori che possono prendere parte alla politica globale non solo attraverso strumenti globali, di cui possono anche non disporre, ma attraverso gli strumenti formali dello stato nazionale…”. 
Questo passaggio può apparire un po’ criptico e, addirittura, (nella tentazione di andare oltre), può indurre a soprassedere. Mal ve ne incoglierebbe! Quello che la Sassen ci sta dicendo nel suo metalinguaggio (che l’ha ormai resa celebre) è, tradotto in corretti e concreti termini giuridico-economici: – i politici che assumono il ruolo di promuovere, concludere e, successivamente, attuare i trattati internazionali che tutelano gli interessi delle “marche globali”(=”multinazionali”) acquistano un maggiore e crescente spazio istituzionale, funzionalmente giustificato dallo sviluppo dell’azione agevolatrice già svolta.”

4. Ora, in margine al famoso trilemma di Rodrik, che in realtà è una versione abbastanza standard di cose che altri dicono ancor più esplicitamente – come Sen sopra riportato o prima ancora Rawls, Keynes e Caffè -, si è riaccesa l’attenzione: ovviamente per la preoccupazione di confutarlo, in un momento in cui il capitalismo sfrenato, che è il volto nascosto del mondialismo, pare impaziente di superare gli ostacoli che si frappongono alla sua definitiva affermazione istituzionale.Non sorprendentemente, provvede alla sua dose di confutazione il Sole24 ore.Si espone la spiegazione di Rodrik circa la soluzione per una globalizzazione più o meno, (moderatamente), democratica:«Io non ho dubbi: la democrazia e la determinazione nazionale devono prevalere sull’iperglobalizzazione – spega ancora Rodrik – . Le democrazie hanno il diritto di proteggere i loro sistemi sociali, e quando questo diritto entra in conflitto con le esigenze dell’economia globale, è quest’ultima che deve cedere. Restituire potere alle democrazie nazionali garantirebbe basi più solide per l’economia mondiale, e qui sta il paradosso estremo della globalizzazione. Uno strato sottile di regole internazionali, che lascino ampio spazio di manovra ai Governi nazionali, è una globalizzazione migliore, un sistema che può risolvere i mali della globalizzazione senza intaccarne i grandi benefici economici». Non ci serve una globalizzazione estrema, riassume con uno slogan, ma una globalizzazione intelligente.” 

5. Ma il gran finale dell’articolo del Sole è dedicato alla confutazione di questa idea (implicitamente bislacca e retrograda). La liquidazione di Rodrik, come vedrete, è alquanto perentoria (abbiamo aggiunto il link al c.v. di Rosa Lastra. A proposito, perchè rivolgersi proprio e solo a lei, esperta di diritto internazionale della finanza e della moneta, per dare una valutazione sul pensiero di un economista dello sviluppo, in tema di implicazioni istituzionali di assetti macroeconomici internazionali?):“Dunque la ricetta per una globalizzazione intelligente sarebbe un ritorno agli Stati nazionali? Rosa Lastra, docente di International Financial and Monetary Law alla Queen Mary University of London, non è per nulla d’accordo. «Secondo me la dicotomia tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni che governano i mercati mondiali – spiega – . La risposta è quella di più leggi internazionali e meno nazionali». Quindi una strada opposta rispetto a quella indicata da Rodrik. L’eccessiva fiducia nelle leggi nazionali accompagnata da deboli standard normativi internazionali è stata anzi una delle cause della crisi finanziaria globale, spiega ancora Lastra. Ma chi può gestire il cambiamento? «Il Fondo monetario internazionale, istituzione al centro del sistema monetario e finanziario internazionale, è nella miglior posizione per diventare uno “sceriffo globale” della stabilità», conclude la studiosa. Con buona pace del trilemma”.

6. Circa la mission del FMI e di come si sia andata trasformando nel tempo, rinviamo a quanto illustrato qui, citandone un passaggio saliente:”Siamo di fronte, oggi più che mai, a quello che Lordon chiama il diritto internazionale privatizzato (cioè, poi, come evidenzia Chang, non certo a vantaggio delle comunità sociali, ma rispondente agli interessi degli eletti, i Bad Samaritans“, professanti il free-trade da invariabili posizioni di forza). 
Anzi tale sistema “istituzionalizzato” risponde, più esattamente, alle potenze vincitrici “occidentali” (problema che ha prima reso scarsamente efficace lo stesso ruolo dellONU e che poi lo ha quasi del tutto reso inutile). Tali potenze hanno esercitato e tutt’ora cercano di esercitare, secondo la loro convenienza politico-economica, il controllo (governance) su WTO, OCSE, WB, e, più che mai, sul FMI.  Quest’ultimo è ormai irreversibilmente trasformato in un organismo che nulla più ha a che fare, semmai in passato l’abbia avuto, con i principi della Carta della Nazioni Unite, cioè con gli scopi fondamentali di queste ultime. Tant’è che nessuno penserebbe di rivolgersi con qualche speranza di essere ascoltato, all’Assembea o altro organo arbitrale delle NU, – divenute ormai troppo “deboli” se non inutili-, per dedurre l’illegittimità provocata dalla inosservanza dell’accordo (di mera forma, ai sensi degli artt.57 e 63 della Carta ONU) concluso dal FMI con le NU, violazione concretizzatasi nella imposizione di una “lettera di Intenti”. Queste “lettere di intenti” sono normalmente impositive, allo Stato indebitato con l’estero, di pesanti “condizionalità” in cambio dell’accesso, mediato attraverso i c.d. “diritti speciali di prelievo”, alla valuta di riserva occorrente nelle transazioni internazionali (quella valuta che i paesi del c.d. “terzo mondo” prima, e poi, grazie alla asimmetria strutturale dell’euro, i paesi “periferici” dell’UEM, non vantano più come “riserva”, essendo impediti, grazie al funzionamento dei mercati “liberalizzati”di capitali e di merci, a procurarsela mediante dei fisiologici attivi della bilancia dei pagamenti, resi impossibili dal funzionamento del free-trade). 
Ma non risulta che tali “condizionalità” imposte dal FMI siano mai state oggetto di censura, mediante raccomandazioni (art.63 della Cartta), di organi dell’ONU, ovvero di lamentela da parte degli Stati per aver violato ciò che l’accordo che “dovrebbe” legare il FMI all’ONU sarebbe teso a garantire: cioè che il FMI (in quanto istituto specializzato delle NU) debba operare nel quadro dei fini indicati come prioritari dall’art.55 della Carta.…..Gli esiti delle “cure” propinate ai vari paesi dalle condizionalità imposte dal FMI non possono certamente ricondursi, neppure nelle più sfrenate fantasie, a tali finalità ed obiettivi.
E le Nazioni Unite, prescegliendo, attraverso il proprio Consiglio economico e sociale, di tralasciare la verifica sostanziale del rispetto dell’art.55 da parte dei suoi istituti o “agenzie” specializzati, hanno lasciato mano libera al FMI per instaurare una precisa concezione del ruolo della moneta e dei modi di correzione degli squilibri nei pagamenti internazionaliche ha finito per negare, anzichè tutelare, diritti umani piena occupazione, elevazione culturale autodecisione dei popoli.

7. Insomma, si poteva chiedere anche una serie di pareri sul tema della globalizzazione, e sulle stesse teorie di Rodrik, a chi, per c.v. e autorevolezza scientifica, è più noto per essersene occupato. Tipo lo stesso Lordon o Chang, che non sono certo gli ultimi arrivati. E lo si poteva fare, se non altro, per completezza di contraddittorio e di informazione.Di Lordon riportiamo questa citazione, proprio perché è particolarmente attinente al tema (ed essendo tratta da “Le Monde Diplomatique”, non era certo meno autorevole):”Ripiegamento nazionale“, in ogni caso, è diventato il termine spauracchio, suscettibile, nella sua genericità, di essere opposto a qualsiasi progetto di uscita dall’ordine neoliberale. Dal momento che, se quest’ordine in effetti si definisce come sforzo di dissoluzione sistematica della sovranità dei popoli, perché possa così dispiegarsi senza intralcio la potenza dominante del capitale, qualsiasi idea di porvi fine non può avere altro senso che quello di una restaurazione di questa sovranità. […] Pronunciare la parola “nazione”, come una delle possibili vie di questa restaurazione della sovranità popolare, forse anche la più agevole o almeno la più facilmente accessibile a breve termine – precisazione temporale importante, visto che il jacquattalismo mondiale può aspettare – pronunciare la parola “nazione”, dunque, significa esporsi ai fulmini dell’internazionalismo, o almeno della sua forma più inconseguente: quella che, o sogna un internazionalismo politicamente vuoto, visto che non indica mai le condizioni concrete della deliberazione collettivaoppure, indicandole, non si accorge che sta semplicemente reinventando il principio (moderno) della nazione su scala più ampia!” 
8. In definitiva, la soluzione offerta dalla Lastra è proprio quel meccanismo sul quale abbiamo portato l’attenzione all’inizio del post: un vincolo esterno rende gli Stati impotenti perchè, contrariamente a quello che afferma la Lastra, le regole derivanti dal diritto internazionale “privatizzato”, dei trattati, vengono affermate in assunto come più forti.Ma tali regole sono forti proprio in quanto hanno un inarrestabile effetto programmatico liberalizzante di scambi e movimenti dei capitali; quindi, sono volte ad affermare la deregolazione dell’intervento e degli interessi pubblici, come discende appunto dalle lettere di intenti del FMI (o dai memorandum della trojka UE), per giungere alla neo-liberista “libertà” degli operatori economici sovranazionali. In altre parole, gli standard delle “leggi” internazionali sono già estremamente forti.Se dovessero non avere più questo contenuto “debole”, che è appunto segno di una grande forza normativa (capace di destrutturare Stati e sovranità!),  semplicemente dovrebbero regolare altri, nel senso di “ulteriori”, interessi: ma gli interessi di chi e, soprattutto, prescelti come?E quali sarebbero le sedi di rappresentanza istituzionale di tali interessi a livello internazionale?Come e da chi sarebero “votate/adottate” leggi di regolazione nel pubblico interesse del sub-strato sociale internazionale? Ammesso che è questo quanto si intenderebbe fare e ammesso che questo pubblico interesse internazionalizzato sia identificabile e concretizzabile, cosa che Hayek nega radicalmente, con una geniale intuizione, ponendo tale negatoria alla base dell’internazionalismo istituzionalizzato (ovvero, del mondialismo della globalizzazione per trattato, ai nostri giorni)?
E un tale paradigma è, sia pur in negativo, cioè come paralisi delle potestà normative statali (avete presente la storiella degli “aiuti di Stato” di fronte a una crisi bancaria che travolga i risparmi tutelati dall’art.47 Cost.?), il massimo della forza cogente storicamente raggiunta dai trattati: cioè la paralisi e la delegittimazione delle fonti giuridiche supreme degli Stati nazionali, cioè le Costituzioni. Questi problemi non sono neppure considerati lontanamente nella semplificata e apodittica confutazione del trilemma di Rodrik da parte della Lastra (e dunque nell’articolo del Sole24h.). Gli interrogativi sopra posti non hanno cioè alcun tipo di risposta.Ma questo, se dal punto di vista mediatico, può essere un abile sistema semplificato di sostegno al paradigma mondialista, dal punto di vista pratico, cioè della soluzione dei problemi macroeconomici e sociali, che si pongono a causa del mondialismo, è solo quello che appare: una pericolosa non risposta

2203.- Ci si chiede: E’ realistico ipotizzare un piano Marshall per l’Africa?

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Per riuscire a stabilizzare aree conflittuali o in fase post conflittuale, dare prospettive di lavoro alle popolazioni, formare una vera borghesia e un tessuto realmente produttivo in Paesi dalle rilevanti risorse naturali sfruttate da altri con la complicità delle oligarchie locali, si dovrebbe percorrere la via di un massiccio programma di assistenza ad alta intensità di mano d’opera tenendo finalmente conto anche degli interessi dei Paesi africani da coinvolgere. Le barriere da superare restano enormi e di grande complessità.

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Lo sforzo internazionale dovrebbe essere collettivo, includendo anche Cina e Russia attori importanti nel continente africano, sancito e blindato da accordi e controlli rigorosi utilizzando tuttavia una macchina burocratica meno rigida nelle procedure, più snella e adattabile alle realtà locali, assolutamente diversa da quella operante nel presente.

L’orientamento pragmatico sarebbe quello di mirare ad un approccio coordinato e multisettoriale capace di innescare obiettivi di sviluppo realistici, quantificabili, sostenibili nel tempo, realizzabili con un impatto concreto e visibile per le popolazioni. Il fine ultimo dovrebbe essere quello di migliorare sostanzialmente le infrastrutture, collegamenti, servizi, fornire posti di lavoro ai giovani, formare realmente una borghesia produttiva capace a sua volta di proporre una nuova classe dirigente sicuramente meno debole e corruttibile.

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Non sarà facile senza una conoscenza profonda di contesti, mentalità, culture, fattori etnici, tradizioni da cui far nascere, evitando forzature improprie, nuove responsabilità e competenze.

Un ampio programma pilota potrebbe essere lanciato con priorità nell’Africa sub sahariana e in quei paesi da cui provengono il maggior numero di migranti. Inammissibile, ad esempio, che da paesi ricchi di risorse come Costa d’Avorio e soprattutto Nigeria giungano tanti migranti illegali.

L’assistenza dovrebbe prevedere l’accettazione da parte delle dirigenze locali di chiari accordi sulle riforme economiche e sociali, sui rimpatri e su stretti controlli degli esborsi dei fondi stanziati quali necessarie pre-condizioni al lancio delle attività.

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Considerate le sfide, le serie minacce terroristiche alla stessa stabilità degli Stati, non vi sono altre strade praticabili se non che un’alta percentuale degli stanziamenti giungano realmente alle fasce più deboli delle popolazioni creando un visibile, significativo impatto. Un nuovo piano Marshall adattato ai tempi e al contesto in funzione di un realistico sviluppo economico sociale e di contrasto anti terrorismo e criminalità organizzata.

Dal 2017 si attende invano un deciso cambio di passo dell’unione europea riguardo alla effettiva preparazione e lancio delle prime attività di un “Piano Marshall” africano i cui finanziamenti integrativi al Fondo europeo di sviluppo furono richiesti dalla Commissione europea agli Stati Membri e poi convogliati su vari fondi emergenziali e di sviluppo, rivelatisi alla prova dei fatti inefficaci come la presidenza della stesa Commissione.

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A parole gli Stati Membri appoggiarono pienamente le proposte di Juncker, nei fatti fatta eccezione per Germania, Italia e in misura minore Paesi Bassi e Spagna nessuno ha versato bilateralmente quanto promesso.

Men che mai la Francia la quale ha troppi interessi in Africa occidentale per pensare di sostenere, se non formalmente, a livello multilaterale azioni di sviluppo che rischierebbero di intralciare la sua influenza bilaterale sugli stessi Paesi assistiti.  Anche i programmi Onu dopo decenni di attività fra emergenze e sviluppo non sono riusciti a mutare in senso positivo le problematiche economiche, sociali e di gestione che affliggono il grande Continente.

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Gli attuali contesti africani ed europei, con la crisi delle burocrazie internazionali in particolare Onu e UE, non consentono di essere ottimisti nel breve termine, mancando le condizioni necessarie per iniziare una tale operazione da parte Comunità internazionale. Peraltro il perdurare della instabilità Libica non consentirebbe di intervenire compiutamente in Libia e nei Paesi Sub sahariani ad essa connessi per sicurezza, migrazioni illegali, lotta al terrorismo e traffici di tutti i generi.

Apparirà come un paradosso eppure ai giorni nostri la crisi del multilateralismo, per giungere ad  un migliore e più efficace assetto dello stesso multilateralismo, sembrerebbe risolversi non con demagogie utopistiche, piuttosto con il confronto fra Stati più interessati a tutelare anche interessi e priorità nazionali che a seguire acriticamente, rischiando la subalternità, logiche internazionali ormai superate dagli eventi, salvo poi accordarsi su giusti compromessi raggiunti fra soci di pari dignità.

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La competizione fra Stati alleati, il realismo imposto dalle numerose crisi economiche e regionali non hanno, purtroppo, portato al rispetto da parte di tutti degli impegni assunti in sedi istituzionali multilaterali a meno che non coincidessero con le priorità nazionali.

Si è trattato di una lezione amara per Paesi come l’Italia che dal 2012 fino alle elezioni del 2018 hanno preferito rinunciare ad una propria visione strategica perseguendo una politica di passi felpati conservativa, tesa ad evitare anche spifferi d’aria. Ne è risultata una delega ad altri (istituzioni internazionali e non solo) di decisioni spesso in contrasto con gli interessi nazionali pur di assecondare una politica da buon allievo del multilateralismo nonostante declinassero nel tempo ruolo e rilevanza internazionale spettante ad una media potenza.

Quale ruolo per l’Italia?

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Il cambiamento di atteggiamento politico a livello internazionale del nuovo Governo italiano si è quindi reso necessario per il contesto internazionale, per le crisi regionali, non solo riferibili alle migrazioni incontrollate, in Mediterraneo e Africa sub sahariana, per le attitudini aggressive di Paesi alleati, per le precedenti esperienze infruttuose di diligenza assoluta verso le istituzioni internazionali, infine per riacquisire una rilevanza persa e il ruolo a noi spettante, in particolare nel cosiddetto Mediterraneo allargato.

L’Italia si è dovuta e si dovrà adattare anche con piglio alle azioni di disturbo, se non ostili, altrui mostrando la propria identità, tutelando priorità e interessi nazionali in modo chiaro e non più ambiguo. Si dirà così han sempre fatto i nostri partner eppure per il nostro Paese un’attitudine semplicemente più aggressiva pur nel rispetto di accordi e alleanze non è mai stata cosa scontata, al contrario.

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Si intravede finalmente una strategia verso l’Africa sub sahariana lasciata colpevolmente decadere dai tempi dei governi Craxi la cui visione e azione incisiva permisero al nostro Paese di acquisire rilevanza e amicizie nei Paesi saheliani, considerati allora per la prima volta prioritari, perfino di rivaleggiare con la Francia in alcuni casi.

Ora si tratta di ricostruire concretamente e stabilmente relazioni e quei rapporti privilegiati in Paesi in cui abbiamo lasciato tracce positive, siamo stati ben considerati forse anche per la volontà di diversificare la capillare influenza francese.  Un ruolo alla nostra portata, soprattutto dovrà essere apprezzata la nostra credibilità dai Paesi africani coinvolti consentendo agli stessi di ritenerci partner importante, solido e ascoltato per lo sviluppo economico sociale e gestionale del Paese come fu fatto in tempi passati con gli USA, la Cina e recentemente la Turchia.

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Di sicuro occorrerà ottimizzare risorse finanziarie bilaterali, tenuto conto delle ristrettezze di bilancio, con azioni mirate, visibili, incisive nell’area sub sahariana. Una fase preparatoria al lancio del Piano Marshall africano dove sarà lungimirante farsi trovare già pronti in loco con le nostre relazioni consolidate e una nostra visibilità già acquisita. A tal fine ad integrazione di iniziative in campo agricolo, idraulico, sanità, piccole e medie imprese, sicurezza, dove l’Italia ha lasciato ricordi positivi, diverrebbe prioritario promuovere concretamente il lavoro svolto e le caratteristiche più conosciute e apprezzate del nostro Paese.

A tutt’oggi manca una comunicazione italiana efficace, costante e soprattutto presente localmente indirizzata verso i Paesi africani Sub sahariani.

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Creare un centro di comunicazione regionale, stampa, media, cultura, promozione (inclusa la sicurezza) in un Paese da cui si possono facilmente raggiungere altri Paesi limitrofi garantendo presenze nell’area potrebbe divenire, a costi non esorbitanti, un prezioso elemento di accompagnamento, di supporto e di innovazione dell’azione italiana sia in ambito bilaterale che multilaterale.

Fungerebbe da supporto anche per un eventuale visibile Inviato speciale italiano per il Sahel figura di riferimento regionale e dei ministeri italiani maggiormente coinvolti nelle attività dell’area.  L’iniziativa avrebbe anche il compito di costruire solidi rapporti con stampa e media locali, essenziali questi ultimi per una solida promozione italiana fra le popolazioni e i governi.

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Da esperienze dirette nel settore già vissute con organismi internazionali nel Sahel posso affermare che i risultati benefici che se ne possono ricavare, se ben diretti e gestiti, possono persino superare le aspettative.

Infine l’azione preparatoria italiana non potrò fare a meno delle reali competenze e delle esperienze qualificate per approntare una qualsiasi squadra da mettere in campo, siano squadre del pubblico che del privato, integrate da personale della sicurezza non prescindibili considerati tempi e luoghi. Di pari passo non si potrà continuare ad operare senza un sostanziale incremento quantitativo e qualitativo di funzionari italiani negli organismi internazionali operanti nella zone di interesse e nei quartieri generali degli stessi organismi beneficiari di cospicui contributi italiani quasi mai tradotti in posizioni di rilevanza decisionale nei quartier generali e spesso anche sul terreno.

2202.- PERCHÉ C’È IL SILENZIO SUI GILET JAUNES

Proteste a Parigi
Oggi, alla 11esima giornata e alla prima notte di protesta sociale, stanno partecipandoo 4.000 parigini e, in tutta la Francia, 69.000 francesi. È incredibile come a distanza di undici settimane di protesta, la gendarmeria, su ordine di Macron, continui a sparare flashball in faccia ai gilet gialli. Oggi hanno colpito proditoriamente Jerôme Rodriguez, vicino al leader Eric Drouet e sempre presente con la sua telecamera durante le manifestazioni, che ha probabilmente perso un occhio. Maxime Nicolle, uno dei leader dei gilet gialli, è stato arrestato questa notte a Bordeaux. Chi oggi va in piazza per protestare contro Macron, va in galera. Nel silenzio dell’Unione europea sulla dittatura di Emmanuel Macron, continua la mattanza del popolo francese da parte dei macellai della Police e della Gendarmerie. Stranamente, però, l’Ue attacca la Russia, il Venezuela e l’Ungheria. Non credo che voterò a maggio, ma, mi raccomando, non parlatemi di esercito europeo!


Una granata flashback, sparata in faccia e senza ragione da brevissima distanza, ha colpito Jerôme Rodriguez, che ha ripreso lui stesso l’attimo dello sparo. Qui, di seguito, l’attimo dello sparo e la fiammata:

Il fenomeno dei gilet gialli francesi, per certi osservatori e certa stampa, sembra essere quasi un meteorite misterioso, precipitato nel bel mezzo dell’Europa.

Pietro Vinci

Hanno cercato, anche goffamente e in modo sicuramente poco decoroso, di dipingere i tantissimi francesi tutt’ora in mobilitazione generale come scherati al soldo della Russia o di chissà chi: si è trattato dell’ennesimo ridicolo insulto nei confronti di una nazione con la quale sarebbe giusto, e opportuno, essere amici e soprattutto un affronto alla coscienza delle masse francesi.

Emmanuel Macron

Macron vuole approfittare delle proteste per risolvere i problemi nazionali

Non si è trattato né si tratta, dunque, di un fenomeno “misterioso”, precipitato da oscure lande inesplorate: la rabbia sociale, in Francia così come praticamente in tutta l’Europa occidentale, è qualcosa di reale, con motivazioni serie e che sarebbe stato possibile prevedere con largo anticipo. Forse si è deciso di non parlarne, di non alzare il tappeto per mostrare quanto sporco si annida nella Ue, quanta ingiustizia e malessere; si è trattato di un “regalo” magnifico per affaristi, politici europeisti e per l’establishment nel suo complesso, ma questo “silenzio” è rivoltato contro i responsabili della catastrofe socio-economica in atto.

Siamo alla presenza di una crescita economica ambigua, o definibile con maggior precisione a favore di pochi possidenti: l’economia ha un trend in crescita, così come l’occupazione, ma la povertà dei lavoratori nell’Unione europea continua a lacerarne le vite.

Il Financial Times , a dicembre, ha tracciato con precisione questo paradossale stato di cose: citando i dati statistici dell’Eurostat, si dimostra che i lavoratori in una condizione familiare al di sotto del livello di povertà sono uno ogni dieci; si tratta di dati feroci, stazionari da un paio di anni e al livello più alto mai registrato. I governi europeisti continuano a colpire a suon di tagli gli aiuti sociali, che sono in ogni caso ben poco rispetto a un sacrosanto livello di benessere generale dato da salari decenti e opportunità lavorative, le famiglie si sostengono a malapena con un solo salario al loro interno e le paghe sono misere.

L’Eurostat fornisce un quadro impietoso: riferendosi al 2017, lo spettro della povertà minaccia e colpisce sempre più persone, soprattutto i lavoratori temporanei o part-time. Aumenta questo rischio persino per gli impiegati a tempo pieno o con contratti permanenti. Si cerca disperatamente un lavoro full-time, ma queste ricerche finiscono per scontrarsi con l’assenza quasi totale di offerte di lavoro simili: il lavoro temporaneo impera, soprattutto in Italia e Spagna; le nazioni fuori da questo trend negativo risultano essere la Germania e il Regno Unito — che chissà come abbandonerà l’Unione europea.

Un aumento spropositato dei contratti di lavoro part-time si è avuto in Germania, ad esempio, a seguito delle massicce riforme legislative sul mercato del lavoro nel 2003; unendo questo dato storico con la realtà lavorativa e sociale europea, di una crescita mutilata che arricchisce i pochissimi e deprime i moltissimi, non è difficile parlare di uno status quo che ha favorito non i lavoratori ma i detentori di capitali, più ricchi inoltre. Si è trattato di scelte, in campo di leggi realizzate e di scelte economiche attuate, volute e sicuramente apprezzate da chi si sta approfittando del nuovo esercito di “working poor“. Questo è il neologismo che indica coloro che, sebbene lavorino e stringano la cinta, non riescono a elevarsi al di sopra di una mesta condizione di miseria reale.

L’irlandese Irish Examiner, sempre il mese scorso, parlava laconicamente coi dati implacabili dell’Ufficio centrale di statistica: aumentano i segni di privazioni sociali, come non poter cambiare mobili rotti, l’impossibilità di vedersi con amici per un pasto fuori o una bevuta oppure la difficoltà a tener riscaldata la propria dimora.

Angela Merkel
Merkel ricorda il ruolo del G20 nel risolvere problemi dell’economia mondiale e sviluppo.© REUTERS / VINCENT KESSLER

La radio tedesca in lingua inglese Deutsche Welle, ha analizzato il tenore dei salari minimi in Germania constatando che sono vicinissimi alla soglia della povertà. “Si considera a rischio di povertà chi ha un salario minore del 60% della media nazionale” si legge e, al contempo, si equipara quanto un lavoratore tedesco con salario minimio riesce a ricavare — successivamente anche alla falce delle tasse — 1.110 Euro mensili, se non si ha prole. Le nazioni che seguono, tragicamente, questo principio secondo il quale la retribuzione base è sin troppo vicina alla soglia della povertà sono per esempio — nell’Europa occidentale — Lussemburgo (lo avreste mai pensato?), Malta, Francia, Spagna e Belgio. Un po’ come se in queste nazioni si dicesse “Lavorate, schiavi! Dovete spezzarvi la schiena ed esser felici per le bricioline che riceverete!“.

In Italia, spaventosamente, persiste una differenza retributiva gigantesca fra il Settentrione e il Mezzogiorno: nella prima parte del Paese, dove vi è la maggior concentrazione di industrie e attività produttive, i salari sono mediamente sui 24mila Euro annui; al Sud, fra deindustrializzazione (ossia la fine di quelle poche industrie, spesso a conduzione familiare o persino più piccole), mancanza di infrastrutture adeguate, di piani nazionali per l’industrializzazione e povertà dilagante si arriva a 16mila Euro. L’Italia è come se avesse, al suo interno, una porzione di Mondo sottosviluppato, lasciato all’indigenza o al massimo alla sopravvivenza “assicurata” dall’assistenzialismo. Alla fine di questa classifica nazionale vi è la Calabria, già salassata da malaffare e mafie, con lo scioccante dato di Vibo Valentia: 12mila Euro.

C’è forse da meravigliarsi se, proprio nel cuore dell’Occidente, le masse popolari si ribellano o perlomeno iniziano a mostrare gravi segni di insoddisfazione? Certo che no.

Le bandiere britannica e UE
© REUTERS / JON NAZCAEsperta russa: Brexit senza un accordo è catastrofe per Gran Bretagna e UE

Il giornale online Euractiv, con sede centrale a Londra ma interessato alla realtà di tutta Europa (dalla Spagna sino a Romania e Serbia), ha lacerato il velo di silenzio e mancanza di notizie dalle campagne francesi: qui si suicida un contadino ogni due giorni, come media. Lo appurò l’Agenzia nazionale di sanità pubblica di Francia, comparando i dati di 5 anni fa. Percentuali di disperazione alle stelle, salari e introiti da fame (sui 350 Euro), picchi indicibili di morti nei periodi nei quali il prezzo del latte crollava. Nel 2017 l’Istituto nazionale francese per la ricerca agricola dimostrò che erano soprattutto i piccoli proprietari, e non i grandi latifondisti o le grandi aziende agricole, a essere inghiottiti dall’angoscia e quindi portati al suicidio.

La Commissione europea, e non è la prima volta, agisce col bisturi sulla carne viva: si ridurrà del 5%, dal 2020, il budget per la Politica agricola comune e dovranno essere le nazioni, singole, a dover incrementare i pagamenti diretti per i contadini.

Chissà perché, in Francia ad esempio, impazza la protesta e l’indignazione di massa verso l’Unione europea e i governi a lei fedeli. In uno scenario simile, la “diserzione” di queste armate di sfruttati, immiseriti o truffati dalla saga propagandistica della “bellezza” dell’assenza di protezionismo, della liberalizzazione dei salari, delle privatizzazioni selvagge è soltanto l’inizio: ogni corpo immerso parzialmente o completamente in un fluido (le ingiustizie sociali e salariali) riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto, uguale per intensità al peso del volume di fluido spostato.

Si tratta del principio di Archimede: applicandolo alla società, bisogna aspettarsi la grande ondata dell’insorgenza.

2201.- Prima se ne va Maduro meglio sarà per il popolo del Venezuela. Antonio Tajani·venerdì 25 gennaio 2019

Mercoledì scorso Juan Guaidó, presidente dell’Assemblea Nazionale del Venezuela, si è autoproclamato Presidente “ad interim” fino a nuove elezioni libere e credibili, richieste dalla grande maggioranza del popolo venezuelano.È una risposta alla disperata domanda di aiuto del popolo venezuelano, soffocato da anni di deriva autoritaria, con la violazione sistematica dei diritti fondamentali, continui soprusi del governo e delle forze di polizia, repressione, arresti, giustizia sommaria, torture. Il livello del malgoverno ha portato una percentuale di povertà che supera il 90%, inflazione fuori controllo, mancanza di beni primari, quali medicine e alimenti di base, il ritorno di malattie un tempo sradicate e molti casi di malnutrizione, specie nei più giovani. Il Paese con le più grandi riserve di petrolio al mondo si è ridotto ad importare energia. Oltre 3 milioni di venezuelani sono stati costretti a lasciare il Paese, di cui più di un milione solo nel 2018.Per questo, ieri ho parlato nuovamente con il Presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó, per comunicargli il sostegno del Parlamento europeo a un Venezuela democratico e rispettoso dei suoi cittadini. Dal momento della sua autoproclamazione, si sono moltiplicate le manifestazioni in suo sostegno in tutto il Paese. È bene ricordare che Maduro è un usurpatore senza alcuna legittimità democratica. Le elezioni presidenziali dello scorso maggio, non sono mai state riconosciute dalla comunità internazionale, in quanto si sono svolte con l’opposizione messa fuori gioco dal regime.L’unica istituzione legittimata da elezioni regolari, è l’Assemblea Nazionale, di cui è Presidente Guaidò. La sua autoproclamazione si basa sulla Costituzione del Venezuela, approvata durante il governo Chavez, che prevede che l’Assemblea Nazionale riprenda il potere esecutivo in via transitoria quando questo resta vacante, in vista dell’organizzazione di nuove elezioni. La presidenza ad interim Guaidó è dunque legittima e legale. Inoltre, il nuovo presidente, che ha dietro di sé tutte le forze di opposizione, sembra chiaramente godere di un grande sostegno popolare.Per questo, auspico che tutti i Paesi europei si schierino senza esitazioni dalla parte della libertà, della democrazia e della legalità. Buona parte dei Paesi democratici si è già schierata a favore del nuovo Presidente. Maduro deve lasciare il Paese prima possibile e pacificamente, senza creare ulteriori sofferenze al popolo venezuelano. Il dittatore sembra invece volersi aggrappare al potere con il sostegno dei militari e ha iniziato una dura repressione, con decine di morti e centinaia di arresti solo negli ultimi giorni. Il Parlamento europeo negli ultimi anni si è espresso più volte, (ben otto!) in difesa dei diritti dei cittadini venezuelani e dei valori democratici nel Paese. Nel 2017 abbiamo consegnato il premio Sakharov all’opposizione del Venezuela. Mercoledì prossimo, durante la sessione plenaria, si terrà un nuovo dibattito sulla situazione in Venezuela, con l’adozione di una risoluzione d’urgenza per dare un forte sostegno europeo alla transizione verso il ritorno alla democrazia.Da Presidente del Parlamento, voglio far sentire al popolo venezuelano il nostro sostegno nella loro coraggiosa lotta per la libertà. La mia maggiore preoccupazione sono i rischi legati alla violenza e alla repressione messa in atto dal regime. Mi appello a Nicolás Maduro perché fermi immediatamente le violenze contro il popolo venezuelano. Ricordo che il Parlamento europeo ha già chiesto alla Corte penale internazionale l’apertura di un’inchiesta sui crimini perpetuati in Venezuela.


2200.- C’è anche sangue italiano in Venezuela

Juan Guaidó,  presidente della disciolta Assemblea nazionale, autoproclamatosi capo dello Stato ad interim

Il paese che Chavez voleva trasformare nel centro della cultura e dell’arte in Sudamerica è da anni in una grave crisi economica. Qui, la delinquenza, la mancanza cibo e di medicine ne fanno un paese a rischio, più di quello di un paese in guerra, come, ad esempio, la Siria. Nel 1985, il Venezuela vantava il PIL più alto dell’America Latina. In non molti anni, le solite politiche socialiste, male attuate da amministrazioni corrotte, e, dal 1999, la presidenza di Hugo Chàvez, prima e di Nicolàs Maduro, poi, sono riuscite a ridurre il paese letteralmente alla fame. Come di solito, dove c’è una dittatura comunista il paese si impoverisce. In tre anni, due milioni di venezuelani hanno lasciato il loro paese, per la Colombia, il Cile, il Perù e il Brasile. Caracas, la bella città di un tempo, è stata ridotta a una bidonville. Dal 2014, la caduta del prezzo del petrolio ha fatto il resto. Il Venezuela è passato da tre milioni di barili a uno.

Il Venezuela, con appena 30 milioni di abitanti, è il paese detentore delle più grandi riserve mondiali di petrolio: circa il 17,6% del totale e l’11° per numero di barili estratti.

Si infiamma la competizione tra il trentacinquenne Juan Guaidó,  presidente della disciolta Assemblea nazionale, autoproclamatosi capo dello Stato ad interim e leader delle opposizioni e l’altro presidente, Nicolàs Maduro, testè rieletto per un secondo mandato, ma con molti brogli dei fedelissimi del comunismo bolivariano; ora, il primo sta passando la parola all’esercito, il secondo gli offre l’amnistia. Maduro aveva sospeso i diritti civili di uno dei rivali e fatto arrestato l’altro. La comunità internazionale non aveva riconosciuto la validità del voto. Gli scontri fra forze di polizia e i cittadini hanno già provocato 26 morti. Più di 350 gli arresti.

Il golpe di Juan Guaidó ha diviso il mondo in due. Trump rompe gli indugi e riconosce il presidente dell’Assemblea Nazionale come capo dello Stato e gli Stati Uniti chiedono una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, l’Unione europea, sostiene Guaidó, mentre, Mosca, Pechino e la Turchia sono con Maduro: per ora, dicono no a interferenze e osservano. Tre aerei russi hanno sorvolato Caracas nei giorni scorsi. Secondo la Reuters, contractors russi sarebbero stati inviati a Caracas per proteggere Maduro. Si parla di 400 mercenari. Juan Guaido, ha giurato  sulla Costituzione davanti ai suoi sostenitori, sfidando Maduro. Ieri, all’aeroporto Catullo di Verona, esponenti venezuelani hanno incontrato il Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. Molto potrebbe fare l’Unione europea e, molto ancora, la pubblica opinione.

Nicolàs Maduro, presidente del Venezuela dal 2013


“Non è solo per il soffocamento delle istituzioni democratiche e l’imposizione strisciante di una dittatura che migliaia di venezuelani da mesi protestano e si scontrano con le forze dell’ordine e i gruppi paramilitari filogovernativi, lasciando sul terreno decine di vittime. A spingere una parte del popolo a rischiare la vita e la libertà nelle piazze del paese sono soprattutto la povertà e la miseria, che in Venezuela hanno conosciuto una recrudescenza negli ultimi due anni.” Così, Rodolfo Casadei su Tempi.

Questo momento drammatico del Venezuela coinvolge gli italiani del Venezuela ed i loro discendenti. Gli Italo-venezuelani sono soltanto il 20% della popolazione e hanno un peso politico relativo; ma non è soltanto questione di numeri. I due milioni di oriundi nazionali hanno sofferto del male endemico nazionale delle divisioni politiche e, anche, di una poca integrazione. Oggi, Caracas è in mano ai violenti, in preda ai saccheggi e gli italiani di tre generazioni fuggono, con qualunque mezzo: autobus, treni, i pochi aerei, ormai, fuggono in Colombia per trovare rimedio alla fame vera. Fuggono, portando con sé le reliquie di una vita. Chiedono aiuto alla Madre Patria, che dovrebbe rimpatriarli e ripetere l’intervento legislativo ad hoc attuato al tempo della crisi argentina. Hanno fatto la fila ai consolati con le testimonianze della loro radice italiana, chiedendo di riottenere la cittadinanza italiana, ma l’ambasciatore e i consoli non hanno risposte per loro. Sono 142 mila gli emigrati in Venezuela iscritti all’Aire, il registro dei residenti all’estero. Per loro, come per gli oriundi, la Patria, muta, tace.

Parliamo di solidarietà. Ieri sera, a Martellago, nell’ambito dell’incontro pubblico “The long run: l’Europa che verrà”, ho ascoltato una conferenza sull’Unione europea, propedeutica al voto di maggio, ma troppo addomesticata, anzi, fra omissioni, ribaltoni e “non so”, ai limiti della bugia, fino a che, da Venezia, è giunto il Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani e ha preso la parola. Perché bugia? Chiariamo subito. Ho dovuto sentire che questa Unione europea tutela e pone al suo centro i diritti dei lavoratori i cittadini. È vero? Non è vero perché la sua decostituzione, il trattato di Lisbona, pone al suo centro “la competitività dell’Europa sui mercati internazionali”, cioè a dire che se il lavoratore indiano, o cinese portano a casa una scodella di riso, quello competitivo deve portarne di meno. Non per caso, Mario Draghi ha appena invocato l’abbassamento dei salari per garantire stabilità all’euro. Forse e senza il forse, è la Costituzione della Repubblica, costruita intorno alla dignità della persona umana, che pone al suo centro il lavoro e il popolo sovrano e non, invece, il trattato aggiornato, infarcendolo furbescamente degli articoli della proposta di costituzione europea bocciata dai referendum dei popoli nel 2005. Anzi, diciamo che l’Unione europea, senza una costituzione, è una anomalia istituzionale. Singolare, poi, che non vi sia stata una sola parola di accenno alla rivolta dei Gilet Jaunes contro l’austerità dell’Unione e che ha coinvolto otto paesi e prosegue. Quindi, da queste carenze e da convinto europeista, traggo la conclusione che i relatori, che hanno preceduto il presidente, volessero ben figurare, senza essere preparati dal punto di vista giuridico.

Tajani ha parlato del ruolo dell’Italia nell’Europa di oggi e di domani, di cristianità, di identità, di renderci nuovamente parte dirigente per riformare questa Unione. Lo abbiamo ascoltato in silenzio, attenti; ma, quando ha pronunciato la parola “solidarietà”, la massa dei 200 è esplosa, come a un comando, in un fragoroso e lungo applauso. Avranno compreso cosa diceva? La massa del popolo italiano è ignorante, come tutte le masse, ma quella parola ha preso il posto delle bandiere arcobaleno della pace e spesso non sanno cosa significa pace e che cosa significa solidarietà. Lo affermo perché non hanno mai letto l’articolo 38 della Costituzione e non hanno compreso il messaggio della Rivoluzione cristiana: “l’amore per il prossimo”. Lo dimostrano con i terremotati e ne travisano il senso con i migranti economici. Lo dimostriamo anche con i nostri oriundi venezuelani.

Articolo 38. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.

La patria tace e, se chiedi il perché, piange. Il consolato riceve la richiesta di cittadinanza e la inoltra al comune di origine del richiedente, che deve effettuare la ricerca anagrafica sulla discendenza, presupposto necessario per concedere il passaporto ed ecco il povero impiegato comunale, solo e oberato di lavoro, che blocca la procedura. La Pubblica Amministrazione vive in un mondo suo. Risponde dopo mesi, se risponde.

Cari fratelli, siete sicuri di voler tornare? C’è chi è al Governo che dice “Prima gli italiani” e che, ora, deve dimostrarlo. Si istruiscano i prefetti e i sindaci: per la priorità da assegnare alle pratiche anagrafiche, per la ricerca e la ristrutturazione di abitazioni in quei paesi spopolati da anni, ai ministeri della Sanità e della Pubblica Istruzione, agli ordini professionali, per riassorbire questi italiani, riconoscendo i loro titoli. Abbiamo un problema di crescita demografica? Beh! questa è un’occasione e, sopratutto, anche un modo per saldare un debito morale verso chi dovette espatriare.



2199.- I pm: Deutsche Bank barò sullo spread, rovinando l’Italia, con la regia di Giorgio Napolitano.

Spuntano carte e prove bollenti, qui crolla il loro impero. TV e giornali ci nascondono tutto quello che sta di fatto accadendo dietro le quinte.

Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.*
A onor del vero, scrive Zacché, l’indagine sul gruppo bancario di Francoforte è vecchia di due anni, avviata dalla Procura pugliese di Trani (già attivasi in altri procedimenti finanziari come per esempio quello contro le agenzie di rating). E nel Napolitanosettembre scorso è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini, con i magistrati pugliesi pronti a chiedere il rinvio a giudizio di cinque banchieri che guidavano il gruppo nel 2011 (tra cui l’ex presidente Josef Ackermann e gli ex ad Anshuman Jail e Jurgen Fitschen) e della stessa Deutsche Bank. Poi però non se n’era saputo più nulla. Ora invece si apprende che l’indagine è stata trasferita a Milano dalla Corte di Cassazione, per motivi di competenza territoriale, su richiesta dei difensori della banca. «Come noto – ricorda il “Giornale” – la vicenda riguarda la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva, comunicando tutto soltanto il 26 luglio». Una notizia bomba, tanto che il “Financial Times” titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».Ora l’indagine che i pm milanesi hanno riaperto ricostruisce l’intera serie di operazioni decise dalla banca tedesca. E, secondo l’accusa, emergerebbe che già alla fine dello stesso mese di luglio del 2011, Deutsche Bank aveva ripreso a comprare Btp (per almeno due miliardi) senza annunciarlo, mentre altri 4,5 miliardi di titoli italiani erano posseduti da un’altra società tedesca acquisita nel 2010 dalla stessa mega-banca. Il 26 luglio, dunque, «Deutsche Bank comunicò le vendite avvenute entro il 30 giugno, ma non gli acquisiti successivi», avendo quindi «venduto prima del crollo dei prezzi, e ricomprato dopo». Una speculazione «che sembra aver fatto perno sulla crisi finanziaria italiana, causandone poi anche quella politica». Mario Monti, incaricato da Napolitano, ha così avuto modo di fare quello che i “mercati” (la Germania) chiedevano da tempo: demolire la domanda interna del paese, il cui Pil è crollato di colpo del 10% insieme alla produzione industriale, calata vertiginosamente del 25% aprendo la porta all’acquisto, a prezzi di saldo, di alcune tra le migliori firme del made in Italy.

Notizie Dal Mondo

2198.- Saba: L’incredibile scoperta della pratica bancaria

 
Bernard Maris:
“L’economia è resa appositamente incomprensibile, è il canto gregoriano della sottomissione degli uomini”
Denis Robert: “La raison pour laquelle je n’ai jamais fait un bon journaliste, c’est que je passe trop de temps à rêver à une vie meilleure”. Cioè:
La ragione per cui non sono mai stato un bravo giornalista è che passo troppo tempo a sognare una vita migliore)

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 Sono trascorsi già tre anni, ma questo articolo di Marco Saba, che ho letto sul blog di Nicoletta Forcheri, mente illuminata, lo dobbiamo leggere.

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L’ultimo testo del professor Richard Werner, che apparve pubblicato nella Rivista Internazionale di Analisi Finanziaria, s’intitola: “Un secolo perduto nell’economia: tre teorie bancarie e la prova conclusiva”.

Riportiamo la traduzione del sommario tradotta in italiano per la comodità del lettore:

“Come operano le banche e da dove arriva la provvista di denaro? La crisi finanziaria ha sollevato la consapevolezza che queste domande sono state inopportunamente sottovalutate da molti ricercatori. Nel secolo passato, in periodi differenti, hanno dominato tre differenti teorie sulla pratica bancaria:

1) La teoria bancaria correntemente prevalente dell’intermediazione finanziaria dice che le banche raccolgono i depositi e poi li prestano, proprio come gli altri intermediari finanziari non bancari.

2) La vecchia teoria bancaria della riserva frazionaria dice che ogni banca individualmente è un intermediario finanziario che non ha potere di creare moneta, ma che il sistema bancario nel suo insieme è capace di creare moneta attraverso il processo della “multipla espansione dei depositi” (il moltiplicatore monetario).

3) La teoria bancaria della creazione del credito, predominante un secolo fa, non considera le banche come intermediari finanziari che raccolgono depositi per poi prestarli, ma invece argomenta che ogni banca individualmente crea credito e moneta nuova ogni volta che la banca effettua un prestito.

Le teorie differiscono nel loro trattamento contabile del prestito bancario e anche per quanto riguarda le implicazione procedurali.

Poiché secondo la teoria dominante dell’intermediazione finanziaria le banche sono virtualmente identiche agli altri intermediari finanziari non bancari, queste non sono incluse nei modelli economici usati nell’economia o dai banchieri centrali. Inoltre, la teoria che vede le banche come intermediari ci procura il razionale per la regolazione bancaria basata sull’adeguatezza del capitale. Se questa teoria non fosse corretta, la corrente modellazione prevalente nell’economia e le politiche di regolazione sarebbero senza fondamento empirico.

Nonostante l’importanza della questione, finora solo una prova empirica delle tre teorie è stata riportata nelle riviste scientifiche. Questo documento presenta una seconda prova empirica, ricorrendo a metodi alternativi, che permette il controllo di tutti gli altri fattori. Le teorie bancarie dell’intermediazione finanziaria e della riserva frazionaria vengono rifiutate dalle prove presentate. Questa scoperta mette in dubbio le motivazioni per la regolamentazione dell’adeguatezza patrimoniale della banca al fine di evitare le crisi bancarie, come viene illustrato nel caso di studio di Barclays Bank durante la crisi. La scoperta indica che consigliare e incoraggiare i paesi in via di sviluppo a prendere in prestito dall’estero, è fuorviante. La trattazioneconsidera qual’è il motivo per cui gli economisti hanno fallito per gran parte del secolo scorso nel fare progressi per quanto riguarda la conoscenza del sistema monetario, e perché invece si sono spostati sempre più lontano dalla verità, come già era riconosciuta dalla teoria della creazione di credito ben più di un secolo fa. Viene trattato il ruolo dei conflitti di interessi delle parti interessate nel plasmare l’attuale consenso accademico che non tiene conto delle banche. Viene indicata una serie di percorsi per le ulteriori necessarie ricerche.”

E poi Werner, dopo aver analizzato il bilancio della Banca Raffeisen ed aver dimostrato empiricamente la validità dellla teoria della creazione del “credito”, e che questo credito è denaro, conclude:

“(quanto sopra) rinforza la necessità di una nuova agenda di ricerca interdisciplinare sul ruolo delle banche e della banca centrale in particolare, e del sistema monetario in generale, che dovrebbe essere saldamente radicata nella metodologia della ricerca empirica e induttiva per produrre economia scientifica. Mentre molti autori hanno proclamato un offuscamento continuo della divisione tra le banche e le istituzioni finanziarie non bancarie, l’autore ha mostrato esattamente quello che consente alle banche di creare denaro (e capitale) dal nulla, mentre le non-banche non sono in grado di farlo. E’ quindi richiesto un lavoro interdisciplinare con i ricercatori in politica, diritto, contabilità, gestione, ricerca operativa, informatica, ingegneria e sistemi di ricerca per assicurare che l’economia e la finanza per conto proprio non possano continuare ad ignorare la realtà empirica e si avviino in un altro secolo persa per le scienze economiche .”

Nello studio precedente (2) Werner affermava che la legalità o meno del modo con cui le banche gestiscono la parte contabile necessita di una ulteriore ricerca legale al di là degli scopi dell’autore, tuttavia rimane aperta la questione contabile: le banche registrano l’operazione del prestito NON evidenziando la creazione di nuovo denaro ma lasciando supporre all’osservatore che esse utilizzino il denaro contenuto nei depositi, mentre, come empiricamente dimostrato, nella pratica si comportano in tutt’altro modo. Le conseguenze di questa tenuta contabile difforme dalla realtà dei fatti sono state da me evidenziate nel corso di varie assemblee degli azionisti presso le più importanti banche italiane nel 2014 e 2015.

In pratica, non contabilizzando nell’attivo di cassa il denaro creato ex novo, si simula una situazione passiva dell’istituto che non corrisponde a verità ma che influisce sulla nostra realtà visto l’affannarsi delle autorità nel cercare continuamente metodi per rimpinguare le casse delle banche, come l’esempio della recente legge sul BAIL-IN ben ci dimostra.

Si cerca cioè continuamente di riempire un falso buco contabile attingendo alle tasche dei cittadini, direttamente o indirettamente, perché non si vuol riconoscere l’enorme guadagno non contabilizzato che le banche ottengono creando soldi dal nulla e pretendendo di farseli restituire con gli interessi.

L’entità della grave situazione che così si crea è sotto gli occhi di chiunque. Basta andare in Grecia, o vivere in Italia aprendo gli occhi. per scoprire la realtà della miseria assurda e non necessaria che creano continuamente queste politiche bancarie di offuscamento contabile dell’abbondanza possibile dei mezzi monetari, e quindi della fattibilità immediata di un reddito di sussistenza per tutti, per capire che viviamo nella caverna di Platone.

Il vero problema oggi è che il sistema bancario è fuori controllo, ma non solo, c’è anche il fatto drammatico che il mostro di Bankenstein si è impadronito di tutto il resto. Autorità di controllo comprese, oltre a tutta l’ostentata ignoranza e indifferenza mostrata dai media col silenzio assordante su questo problema.

Note:

1) Werner, R.A., A lost century in economics: Three theories of banking and the conclusive evidence, International Review of Financial Analysis (2015)
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1057521915001477

2) “Whether the Client Money Rules were designed for this purpose, and whether it is indeed lawful for banks to reclassify general ‘accounts payable’ items as specific liabilities defined as ‘customer deposits’, without the act of depositing having been undertaken by anyone, is a matter that requires further legal scrutiny, beyond the scope of this paper.”
In: Werner, R.A., How do banks create money, and why can other firms not do the same? An explanation for the coexistence of lending and deposit-taking, International Review of Financial Analysis, Volume 36, December 2014, Pages 71–77
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1057521914001434 

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Nicoletta Forcheri

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2197.- “Avanti mano nella mano”. Cosa prevede l’accordo di Aquisgrana tra Merkel e Macron che lascia indietro l’Europa

Atto secondo, tra Francia e Germania, dopo il trattato di cooperazione siglato il 22 gennaio del 1963 da Charles de Gaulle e Konrad Adenauer. Nelle 16 pagine del trattato, si “arriva a delineare una concertazione talmente profonda tra le politiche dei due Paesi da prefigurare una fusione politica di fatto: vertici bilaterali prima di ogni riunione Ue per stabilire strategie comuni; uno spazio economico comune e battaglia per un seggio al Consiglio di Sicurezza Onu. Merkel e Macron hanno siglato un nuovo accordo ad Aquisgrana. Piano contro i populisti e i nazionalisti, ma anche le basi per un esercito europeo e un’industria bellica europea.  Diciamo chiaro che un esercito franco-tedesco per le strade, con i ricordi dell’occupazione nazista, le marocchinate e dopo le violenze sanguinarie delle forze di polizia francesi contro i Gilet Jaunes, non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Alle gerarchie militari tedesche interessa la Force de Frappe nucleare e il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma Marine Le Pen, i Gilet Jaunes e il popolo tedesco li fischia. Il nostro pensiero? La sfida è agli equilibri voluti dagli Stati Uniti e all’europeismo dei nostri popoli; ma quelli non sono mai andati d’accordo e non ci andranno mai.

APTOPIX Germany France TreatyASSOCIATED PRESS
TRATTATO DI ACQUISGRANA

Prima di ogni grande vertice europeo, i loro rappresentanti si incontreranno separatamente per consolidare le posizioni comuni. Si creerà uno spazio economico tra i due Paesi con regole prestabilite. E Parigi si impegna a sostenere l’annosa richiesta di Berlino di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, nonostante la storica opposizione di Stati Uniti (e dell’Italia). Francia e Germania firmano ad Aquisgrana il nuovo trattato di amicizia a 56 anni esatti di distanza da quello dell’Eliseo tra Charles De Gaulle e Konrad Adenauer nel 22 gennaio del 1963, stipulato per seppellire i decenni passati a muoversi guerra. Lette le 16 pagine e i 28 articoli, ce n’è abbastanza per far storcere il naso agli alleati a Bruxelles e sull’altra sponda dell’Atlantico.

Al di là delle rassicurazioni di rito ai partner Ue, è di fatto la formalizzazione in seno all’Unione Europea di un rapporto privilegiato tra le sue due prime potenze. Rapporto che spazia su diversi fronti: Difesa, frontiere, strategie comuni da perseguire in ambito comunitario, e soprattutto economia. Il richiamo al Trattato dell’Eliseo non è quindi un mero vezzo celebrativo ma il sigillo su un’integrazione sempre profonda. E quanto (se) sia nell’interesse degli altri alleati è tutto da dimostrare, nonostante a presenziare alla cerimonia ci fossero i presidenti di Commissione e Consiglio Ue, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk. Di certo non può piacere all’Italia che con la Francia ha ormai ingaggiato una costante sfida diplomatica su vari temi dai migranti alla Libia, fino all’ultima polemica sul franco coloniale nei paesi africani.

Per dire: in ambito economico, si legge nell’accordo di Aquisgrana, Germania e Francia intendono rafforzare l’integrazione fino alla creazione di “uno spazio economico franco-tedesco con regole comuni”: a questo fine i due Paesi creano un apposito “Consiglio di esperti economici”, in cui siederanno dieci esperti “indipendenti”. Grande enfasi, nel documento, anche alla voce Europa: “I due Paesi approfondiscono la loro collaborazione nel contesto della politica europea. Si impegnano insieme per una efficace e forte politica estera e rafforzano nonché approfondiscono l’unione economica e monetaria”. Nel testo si sottolinea anche che Francia e Germania terranno prima dei grandi vertici europei “consultazioni regolari a tutti i livelli” cercando così di consolidare le “comuni posizioni”.

Macron e Merkel si impegnano a procedere di pari passo, attraverso vertici bilaterali prima di ogni importante riunione a Bruxelles. E sorge il sospetto che ci sia proprio Bruxelles tra le ragioni che hanno spinto i due Paesi a caricare, anche mediaticamente, la firma di Aquisgrana. La necessità di procedere su alcune proposte di riforma per l’eurozona già avanzate dai due leader a Meseberg, ma pure l’importanza di portare avanti fusioni economiche come quella tra Alstom e Siemens. Forse irrituale, ieri è arrivata la duplice pressione di Parigi e Berlino sulla Commissione Ue per dare il via libera alla fusione tra i due colossi ferroviari: impedirla sarebbe “un grave errore politico ed economico”, è stato l’avvertimento dal sapore di minaccia di Peter Altmaier, ministro dell’Economia tedesco; “servono nuove regole sulla concorrenza all’interno dell’Ue”, ha detto l’omologo francese Bruno Le Maire, prima di incontrare la commissaria Ue alla Concorrenza Margrethe Vestager.

Non a caso nel capitolo del nuovo trattato dedicato alle frontiere si legge che dovranno essere eliminati “gli ostacoli ancora esistenti nei progetti transfrontalieri”. All’interno di questo contesto, si tratta di “facilitare la mobilità”, attraverso connessioni digitali ma anche migliorando le connessioni “ferroviari e stradali”.

Massima integrazione anche sul fronte della Difesa: Berlino e Parigi intendono “avvicinare” le rispettive politiche di difesa e della sicurezza. E’ anche previsto che “in caso di un attacco militare” Francia e Germania si assicurino “ogni possibile aiuto e sostegno”, il che potrà comprendere anche “strumenti militari”. L’organo politico preposto è il Consiglio di difesa e di sicurezza franco-tedesco, “che si riunirà regolarmente al massimo livello”. La Francia si impegna a sostenere la battaglia tedesca per avere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza Onu. Una poltrona per due e un altro messaggio di sfida a Trump che sull’apporto limitato delle potenze europee al budget militare della Nato ha in passato espresso feroci critiche, al limite dello scontro diplomatico tra contraenti del patto transatlantico.

I due leader, che in patria vivono un momento di grave difficoltà politica – uno alle prese con le proteste dei gilet gialli, l’altra per la drastica frenata dell’industria – sono però ostinati a proseguire lungo il percorso comune. “Vogliamo andare avanti mano nella mano”, ha dichiarato Merkel al fianco di Macron, cinquantasei anni dopo Adenauer e De Gaulle.

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Da Huffingtonpost, Claudio Paudice