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6119.- Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Da Formiche.net, di Ferruccio Michelin, 11/02/2024 – 

Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Il Pentagono racconta come procede la Indo-Pacific Strategy a due anni dal lancio, tra cooperazione nel Quad, impegni storici con Giappone, Australia e Corea del Sud, la centralità dell’India e nuove attività con Filippine e Asean

Nel biennio successivo alla pubblicazione della Indo-Pacific Strategy  da parte dell’amministrazione Biden-Harris, il Pentagono ha lavorato come non mai con alleati e partner per promuovere una visione condivisa di una regione libera e aperta. “Le nazioni dell’Indo Pacifico stanno contribuendo a definire la natura stessa dell’ordine internazionale, e gli alleati e i partner degli Stati Uniti in tutto il mondo hanno un interesse nei suoi risultati”, afferma la strategia in un passaggio che è guida per comprendere l’impegno americano nella regione (e non solo: anche quello europeo descritto nell’ultima edizione di “Indo Pacific Salad” nasce e procede secondo certi cardini).

Il Pentagono ha prodotto un “Fact-Sweet”, ossia una scheda informativa per fare il punto delle attività a due anni dal lancio della strategia (lo avevo fatto anche nel 2023, dopo il primo anno). La scheda è prodotta dal dipartimento della Difesa del Paese che sta celebrando l’anniversario, dunque tutto è meno che un’informazione scevra da narrazioni e interessi, tuttavia è molto interessante analizzare i contenuti trattati, i toni usati, la priorità. Il punto chiave è questo: !”Il nostro approccio si ispira e si allinea a quello dei nostri amici più stretti”.

Il primo dei punti salienti analizzati riguarda il vertice che ha dato vita ai “Camp David Principles”, l’accordo con cui i leader di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud si sono impegnati ad approfondire la cooperazione trilaterale di difesa (e guardano a successivi segmenti di sviluppo). L’incontro è stato un momento fondamentale del 2023, perché Tokyo e Seul, i principali partner indo-pacifici statunitensi, non erano in rapporti amichevoli e il vertice a tre di Camp David potrebbe aver rivoluzionato la storia (per esempio, si apre un meccanismo di condivisione dei dati di allerta missilistica in tempo reale sulla Corea del Nord).

Poi il rilievo viene spostato sul Quad – il sistema di comunicazione strategica tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone. Per il Pentagono, sta fornendo una maggiore trasparenza marittima attraverso il Partenariato Indo-Pacifico per la Consapevolezza del Dominio Marittimo (Ipmda) potenziando le capacità dei partner di monitorare le loro acque. Nel  corso dell’anno, probabilmente dopo le elezioni Usa2024, ci sarà un nuovo vertice tra i quattro leader, perché l’intesa è ormai istituzionalizzata e in rapida fase di implementazione.

Il ruolo indiano è prioritario non solo nel Quad. Washington e New Delhi stanno accelerando l’integrazione tra i settori industriali della difesa di entrambi i paesi e il dialogo sulle nuove tecnologie iCET, e gli Stati Uniti stanno sostenendo la modernizzazione della difesa dell’India, anche attraverso la coproduzione di motori per jet da combattimento e veicoli corazzati (obiettivo: rompere la profonda dipendenza indiana dalle armi russe, permettere al Subcontinente di avere una dimensione militare-strategica propria moderna per sostenere il confronto con la Cina).

Da qui, restando su un altro dei lati del Quad, l’Unbreakable Alliance tra gli Stati Uniti e l’Australia viene raccontata come “più forte che mai” e in effetti sta realizzando una serie di iniziative chiave di postura strategica, tra cui l’aumento delle rotazioni di bombardieri e caccia statunitensi e di mezzi navali dell’esercito statunitense, la cooperazione ampliata tra le forze marittime e terrestri, la cooperazione potenziata nello spazio e nella logistica, e il proseguimento degli aggiornamenti delle basi chiave. Ovviamente, non può essere tralasciato l’Aukus (che potrebbe anche essere ampliato).

Ultimo lato, quello nipponico: l’alleanza con Tokyo rimane la pietra angolare della pace e della stabilità nell’Indo Pacifico e gli sforzi degli ultimi due anni si sono concentrati sull’aumento del coordinamento dell’alleanza, sul potenziamento della capacità dell’alleanza di dissuadere e, se necessario, rispondere alle minacce, e sull’ottimizzazione della postura delle forze statunitensi in Giappone basata su concetti operativi migliorati e nuove capacità.

Poi viene dato spazio alle Filippine, con cui gli Stati Uniti nel 2023 hanno compiuto significativi progressi per aumentare l’interoperabilità, accelerare lo sviluppo delle capacità e investire in infrastrutture condivise, tra cui in quattro nuovi siti che rientrano nel’Accordo di Cooperazione per la Difesa Potenziata e attraverso oltre 100 milioni di dollari di nuovi investimenti. Davanti al bullismo geopolitico cinese, Washington ha rilanciato l’accordo di cooperazione sulla difesa con Manila.

Infine, l’attività complessa con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (Asean), un insieme di Paesi molto connesso con la Cina (sia sul piano economico sia culturale) con cui Washington lavora più profondamente che mai, anche attraverso programmi di capacity-building e corsi di formazione guidati dal Pentagono. L’Asean è strategicamente fondamentale, perché sono quei Paesi che pressano per evitare che la regione indo-pacifica diventi soltanto un terreno di scontro tra potenze.

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

6052.- Prove di G7 italiano. Tajani e Blinken tra sicurezza e risoluzione umanitaria

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 08/11/2023

Prove di G7 italiano. Tajani e Blinken tra sicurezza e risoluzione umanitaria

Nel documento finale della ministeriale di Tokyo non solo si chiede ai coloni israeliani di evitare atti di violenza “che poi si ritorcerebbero contro Israele stessa”, ma si indica una strategia anche per Cina, Iran e Ucraina

Interferenze straniere a Gaza, convenzione di Vienna, ruolo di Cina e Iran. I ministri degli Esteri del G7 di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America, fanno il punto sulle guerre in corso e dal vertice di Tokyo, assieme all’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, e lanciano un ventaglio di proposte ed azioni. Ma soprattutto il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, coglie l’occasione per illustrare al Segretario di Stato americano, Anthony Blinken, le priorità della prossima presidenza del G7. Obiettivo, lavorare insieme per garantire sicurezza a Israele e risolvere la crisi umanitaria a Gaza, partendo da due prospettive: la de-escalation e la soluzione politica 2 popoli 2 Stati.

G7 Italia

Secondo Tajani è tempo che i coloni israeliani non compiano atti di violenza “che poi si ritorcerebbero contro Israele stessa”, passaggio contenuto nel documento finale del G7 dove è scritto che “l’aumento della violenza estremista commessa dai coloni contro i palestinesi è inaccettabile, mina la sicurezza in Cisgiordania e minaccia le prospettive di una pace duratura”.

Con l’occasione il ministro ha annunciato che il prossimo vertice ministeriale Esteri G7 si terrà a Capri dal 17 al 19 aprile 2024 quando, durante la presidenza italiana, verrà coinvolto anche il Brasile come interlocutore per parlare del G20. Ma non è tutto, perché anche Nuova Zelanda ed Australia saranno interessate dal dialogo a trazione italiana, con eventi tematici in Lazio, Calabria ed Abruzzo. Tutti elementi che il vicepremier ha veicolato a Blinken.

Qui Gaza 

Oltre alla condanna degli attacchi terroristici di Hamas, avvenuti un mese fa, due sono i punti sottolineati dalla ministeriale del G7: il diritto di Israele a difendere se stesso e il suo popolo in conformità con il diritto internazionale e il rilascio immediato di tutti gli ostaggi senza precondizioni. Da qui parte il progetto concreto sia per impedire il deterioramento della crisi umanitaria a Gaza, compreso il libero sostegno umanitario ai civili (compresi cibo, acqua, assistenza medica, carburante, alloggi e l’accesso agli operatori umanitari), sia per garantire il rispetto del diritto internazionale. La conferenza internazionale di domani 9 novembre a Parigi sulle questioni umanitarie sarà un’occasione rilevantissima.

Interferenze

I ministri del G7, inoltre, restano profondamente preoccupati per le interferenze straniere, che si concretizzano nella manipolazione delle informazioni con il solo fine di indebolire le democrazie. “Chiediamo a tutti i paesi di rispettare gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche. Sottolineiamo la necessità di portare avanti tutti gli Obiettivi di sviluppo sostenibile per promuovere la pace e la prosperità per le persone e per il pianeta, come emerge dal vertice sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile del 2023”, osservano.

In questo senso si inseriscono gli impegni sul fronte ucraino, dove resta fermo il sostegno alla lotta dell’Ucraina per la sua indipendenza e sovranità nella consapevolezza che una pace giusta e duratura “non può essere realizzata senza il ritiro immediato, completo e incondizionato delle truppe e dell’equipaggiamento militare russo dal territorio riconosciuto a livello internazionale dell’Ucraina”.

Un passaggio preciso riguarda quella che viene definita “l’irresponsabile retorica nucleare della Russia e il suo annunciato dispiegamento di armi nucleari in Bielorussia”, azioni considerate inaccettabili. Anche per questa ragione e al fine di ridurre le entrate che la Russia ricava dalle sue esportazioni, verrà data corsia preferenziale alla consultazione su energia, metalli e tutti i diamanti non industriali, compresi quelli estratti, lavorati o prodotti in Russia. Il passo successivo riguarda la ricostruzione immediata, che si lega al coinvolgimento dei settori privati G7 nella ripresa economica sostenibile dell’Ucraina.

Indo Pacifico e Cina

​Un’area indopacifica libera e aperta, in grado di essere inclusiva e prospera: nella dichiarazione finale trova spazio il macro tema legato all’indopacifico, al cui interno gravitano la centralità e l’unità dell’Asean e la strategia 2050 del Forum delle Isole del Pacifico per il continente blu del Pacifico. Viene condannato l’accumulo da parte della Corea del Nord dei suoi programmi illegali di armi di distruzione di massa e di missili balistici.

Circa la postura da tenere con il governo di Pechino l’obiettivo è certamente costruire relazioni costruttive e stabili con la Cina, ma esprimendo in modo sincero “le nostre preoccupazioni direttamente alla Cina”. E scrivono: “Non ci stiamo disaccoppiando né ci stiamo rivolgendo verso l’interno. Allo stesso tempo, riconosciamo che la resilienza economica richiede la riduzione dei rischi e la diversificazione. Al fine di consentire relazioni economiche sostenibili con la Cina e rafforzare il sistema commerciale internazionale, continueremo a spingere per garantire condizioni di parità per i nostri lavoratori e le nostre aziende”.

Il riferimento palese è a quelle pratiche messe in atto dalla Cina nel passato (e nel presente) che distorcono l’economia globale, prime fra tutte il trasferimento illegittimo di tecnologia o la divulgazione di dati. Resta alta la sfera di attenzione su Taiwan, Xinjiang e Tibet, dove la situazione dei diritti umani è preoccupante.

Asia e Africa

Infine la macro area che va dal Caucaso all’Asia, fino all’Africa. È di tutta evidenza che si tratta di una fascia di Paesi sempre più strategici, che portano in dote una notevolissima cooperazione regionale che mira a favorire la creazione di opportunità commerciali sempre maggiori. Afghanistan, Nagorno-Karabah, Azerbaigian, Armenia sono alcuni fronti caldi da tenere sotto osservazione, ma prima di ciò i ministri del G7 si rivolgono a Teheran chiedendo di astenersi dal fornire sostegno ad Hamas e agli Hezbollah libanesi. Il tutto all’interno di una riflessione sulla complessità delle attività destabilizzanti dell’Iran, come lo sviluppo di programmi di missili balistici, anche sotto la maschera di veicoli di lancio spaziale, il trasferimento di missili, veicoli aerei senza equipaggio e tecnologie correlate ad attori statali e non statali, così come formazione e finanziamento di attori non statali.

La principale novità relativa al continente nero è l’ingresso dell’Unione Africana (UA) come membro permanente del G20, anticamera alla sua presenza in altri forum internazionali, compreso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. All’orizzonte l’Agenda 2063, prima della quale però andranno gestiti i pericolosi deterioramenti politici, come dimostrano i golpe scoppiati quest’anno.

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

5712.- Stati Uniti e Cina “vanno alla deriva verso la guerra”: ex presidente di Joint Chiefs

La visita di Antony Blinken a Pechino ha dimostrato l’urgenza di rimodulare i rapporti fra Cina e Stati Uniti, non più nel solo Mare Cinese Meridionale, ma nel mondo e ha detto anche che, dal punto di vista militare, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire la sicurezza di Taiwan senza dover ricorrere alle armi nucleari.

Possiamo dedurre che la strategia di Washington di dominare economicamente e militarmente l’Europa e la Federazione russa per poter affrontare la Cina sia stata un fiasco. Già qui, la leadership degli Stati Uniti non garantisce più l’Occidente rispetto alle potenze asiatiche emergenti e questo sarà molto chiaro, innanzitutto, a Nuova Delhi, a Seoul, Camberra e a Tokio.

Urge un cambio di rotta e sovviene la Dichiarazione di Pratica di Mare del 28 maggio 2002 e denominata NATO-Russia Relations: A New Quality  e, oggi, gli elogi commemorativi di Vladimir Putin e della Duma a Silvio Berlusconi assumono nuovamente il significato di una necessaria normalizzazione fra i rapporti della Federazione russa con la NATO e, forse, l’auspicio di una nuova NATO e di una nuova Ue.

Fishermen in a harbor on Pingtan island, opposite Taiwan, in China's southeast Fujian Province on April 9, 2023. - China was conducting a second day of military drills around Taiwan on April 9, in what it has called a "stern warning" to the self-ruled island's government following a meeting between its president and the U.S. House speaker. (Greg Baker/AFP via Getty Images)

Pescatori in un porto sull’isola di Pingtan, di fronte a Taiwan, nella provincia cinese sud-orientale del Fujian, il 9 aprile 2023. – Il 9 aprile la Cina stava conducendo una seconda giornata di esercitazioni militari intorno a Taiwan, in quello che ha definito un “severo governo dell’isola autogovernato, facendo seguito a un incontro tra il suo presidente e il presidente della Camera degli Stati Uniti. (Greg Baker/AFP tramite Getty Images)

Andrew Thornebrooke

Da Epoch Times. Di Andrew Thornebrooke, 21 giugno 2023. Traduzione libera e note di Mario Donnini.

Gli Stati Uniti stanno andando alla deriva in una guerra con il regime comunista cinese che potrebbe sconvolgere l’ordine globale e distruggere le economie di tutto il mondo, secondo l’analisi di due ex leader militari. Un potenziale conflitto tra Stati Uniti e Cina su Taiwan si tradurrebbe in una catastrofe globale, ma è, tuttavia, o sta diventando uno scenario sempre più probabile, secondo l’ex presidente del Joint Chiefs of Staff Mike Mullen.

“Sono preoccupato perché stiamo andando alla deriva verso una guerra”, ha detto Mullen durante un colloquio del 20 giugno con il think tank del Council on Foreign Relations.

Ha aggiunto che “[Taiwan] è un’isola che si trova al centro di quattro delle cinque principali economie del mondo”. “Inoltre, ha detto, dato che Taiwan produce il 90 percento dei semiconduttori avanzati del mondo, utilizzati in tutto, dai camioncini ai missili ipersonici, un conflitto per l’isola “devasterebbe il globo”.

Mullen ha affermato che gli sforzi degli Stati Uniti per scoraggiare un’escalation verso il conflitto nello Stretto di Taiwan “falliscono da molti anni”.

Mullen non dice come gli Stati Uniti intenderebbero scoraggiare un escalation. ndt.

La Cina “sta costruendo un esercito per affrontare gli Stati Uniti”

Il Partito Comunista Cinese (PCC), che governa la Cina come stato a partito unico, afferma che Taiwan fa parte del suo territorio e deve essere unita alla terraferma con ogni mezzo necessario. I funzionari del PCC hanno quindi minacciato di iniziare una guerra per impedire il riconoscimento internazionale dell’indipendenza de facto di Taiwan.

Nonostante ciò, il regime non ha mai controllato nessuna parte dell’isola, che è governata da un governo democraticamente eletto.

Il PCC ha aumentato la sua aggressività sia contro Taiwan che contro gli Stati Uniti negli ultimi anni, inviando spesso aerei da combattimento e navi militari nelle acque e negli spazi aerei vantati da Taiwan per molestare le forze statunitensi e taiwanesi nella regione.

Garantire la continua sicurezza di Taiwan è un “interesse vitale per gli Stati Uniti”, ha affermato Mullen. Scoraggiare un’invasione dell’isola da parte del PCC, tuttavia, richiederà agli Stati Uniti di intraprendere azioni coraggiose contro il regime il prima possibile.

“Chiaramente, la Cina, oggi, è molto più aggressiva, molto più coercitiva dal punto di vista militare, diplomatico, economico e politico”, ha detto Mullen.

“Riequilibrare ciò significa che dovremo compiere passi piuttosto aggressivi che, in un momento di forti tensioni, potrebbero essere interpretati nel modo sbagliato”.

Tale stato di cose accentua ancora più l’instabilità, dato che la leadership militare statunitense ha riferito che il PCC sta sviluppando le sue forze armate per superare il livello delle difese statunitensi nella regione.

Parla l’ammiraglio in pensione Harry Harris

Questo è quanto l’ammiraglio in pensione Harry Harris, che in precedenza era stato comandante del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, ha riconosciuto durante l’evento del Council on Foreign Relations.

“Stanno costruendo il loro esercito per affrontare gli Stati Uniti, i nostri militari e quelli dei nostri amici, alleati e partner”, ha detto Harris.

Avendo questo in mente, Harris ha affermato che impedire a poteri come il PCC di divorare governi più piccoli e democratici diventa vitale per prevenire il sovvertimento dell’ordine in tutto il mondo.

Harris non realizza o non vuole accettare che, rispetto a ieri, gli Stati Uniti non hanno la stessa capacità i sostenere il loro ordine mondiale. ndt.

“Se permettiamo a un grande paese autocratico di farsi strada con paesi democratici più piccoli, ad esempio Ucraina e Taiwan, l’ordine mondiale globale come lo conosciamo è finito. Potrebbe fare bene “, ha detto Harris.

“Ci sono 24 milioni di taiwanesi che vogliono vivere la loro vita proprio come facciamo io e te. Non vogliono vivere in un sistema comunista governato da un paese che sta commettendo un genocidio contro il proprio popolo e brutalizzando Hong Kong per portarlo sotto il dominio cinese”.

Tuttavia, ha detto Harris, difendere Taiwan dall’invasione del PCC comporterebbe perdite in vite umane e tesori mai visti dalla seconda guerra mondiale. Con questo in mente, ha detto, gli americani dovrebbero considerare fino a che punto sono disposti a sacrificare per preservare la democrazia.

Il Nuovo Ordine Mondiale sta procedendo ovunque verso lo stato di sorveglianza di modello cinese, una nuova era del controllo sociale e questa non è democrazia. ndt.

“Il costituente più importante è il popolo americano perché sono i tuoi figli e le tue figlie che combatteranno e moriranno per Taiwan se andiamo in guerra contro la Cina”, ha detto Harris.

Hualien Air Force base

Qui, i soldati dell’aeronautica sgombrano la piazzola di un caccia F-16V, armato, durante un’esercitazione alla base dell’aeronautica militare di Hualien nella contea di Hualien, Taiwan, il 17 agosto 2022. (Sam Yeh/AFP tramite Getty Images)

Biden Admin prende tempo, cercando la pace con il PCC

I commenti di Mullen e Harris si collocano sulla scia di un nuovo tentativo dell’amministrazione Biden di stabilizzare i rapporti con un PCC sempre più belligerante.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha visitato Pechino durante il fine settimana, dove ha incontrato il leader del PCC Xi Jinping.

Non sono stati raggiunti progressi durante i due giorni del segretario nella Cina comunista, ma il leader del PCC Xi Jinping ha affermato che l’incontro è stato un “progresso” e, secondo quanto riferito, i due hanno convenuto che un conflitto aperto tra le nazioni sarebbe stato catastrofico.

Antony Blinken è tornato da Pechino a mani vuote, ma il suo tentativo ha dimostrato a Xi Jinping che Washington non ha in mano le carte per un intervento tradizionale a favore di Taiwan. Nel contempo, la Cina appaggia le pretese argentine sulle Malvines. Il livello del pericolo nucleare nel mondo si è alzato. ndt.

Blinken è il funzionario statunitense di più alto livello a mettere piede in Cina da quando il presidente Joe Biden è entrato in carica nel 2021 e il primo segretario di stato a visitarlo dal 2018, quando il suo predecessore, Mike Pompeo, ha visitato la Cina per un giorno.

Blinken aveva precedentemente affermato che il suo viaggio in Cina mirava a costruire sulla “discussione produttiva” di Biden e Xi a novembre, quando i due leader si sono incontrati a margine del vertice del G-20 a Bali, in Indonesia.

Tuttavia, il suo viaggio originariamente programmato in Cina a febbraio è stato rinviato in risposta alla scoperta di un pallone di sorveglianza cinese che sorvolava diversi stati, che è stato abbattuto dall’esercito americano.

All’epoca, Blinken ha affermato che l’incidente “ha creato le condizioni che minano lo scopo del viaggio”.

Yang Tao, un alto funzionario del ministero degli Esteri cinese, ha dichiarato dopo i colloqui che la Cina continuerà il suo blackout delle comunicazioni militari fintanto che continueranno le sanzioni statunitensi sulle tecnologie critiche e sui personaggi del PCC.

Alla domanda sui progressi compiuti dalle due parti, Yang ha affermato che la Cina e gli Stati Uniti hanno concordato di prevenire un’ulteriore spirale discendente nelle relazioni. Il ministro degli Esteri cinese, ha aggiunto, visiterà gli Stati Uniti in futuro.

Biden ha detto più tardi, il 19 giugno, che pensa che le relazioni tra i due paesi siano sulla buona strada e ha indicato che sono stati compiuti progressi durante il viaggio di Blinken.

Dopo l’incontro, il massimo diplomatico del PCC, Wang Yi, ha affermato che “la Cina non ha spazio per compromessi o concessioni” sulla questione di Taiwan.

La Cina è entrata in guerra molto tempo fa, ma gli Stati Uniti non se ne sono accorti. Scriveva Grant Newsham su Epoch Times il 17 settembre 2021.

Chinese regime leader Xi Jinping begins a review of troops from a car during a military parade at Tiananmen Square in Beijing on Oct. 1, 2019. (Greg Baker/AFP/Getty Images)

Xi Jinping passa in rivista le truppe durante una parata militare in Tiananmen Square in Beijing il 1° ottobre 2019. (Greg Baker/AFP/Getty Images).


5143.- Grazie alle isole Fiji, l’avanzata di Pechino nel Pacifico è saltata sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

Da Formiche.net, di Gabriele Carrer | 30/05/2022 – 

È partita male l’avventura cinese nel Pacifico. Ecco perché 

La riunione tra il ministro Wang e gli omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma dell’annunciato ampio accordo, dalla pesca alla sicurezza. Pesano i dubbi delle Fiji e di altri Stati della regione sul progetto di Pechino per un’ordine globale alternativo a guida americana

Non sembra essere partita come Pechino sperava l’offensiva diplomatica nel Pacifico guida da Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, per raccogliere consenso e sostegno all’iniziativa di sicurezza con cui il presidente Xi Jinping è deciso a costruire un ordine globale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti.

La riunione ministeriale nella capitale figiana Suva con Wang e i suoi omologhi di dieci Paesi insulari nel Pacifico non si è conclusa con la firma di un nuovo accordo di vasta portata che avrebbe dovuto coprire moltissimi settori, dalla sicurezza alla pesca. La Cina cercava un accordo che riguardasse anche il libero scambio e la cooperazione tra forze di polizia. Ma Qian Bo, ambasciatore cinese alle Fiji, è stato costretto ad ammettere che alcune nazioni hanno espresso preoccupazioni su elementi specifici della proposta. “Non imponiamo mai nulla agli altri Paesi, tanto meno ai nostri amici in via di sviluppo e ai piccoli Paesi insulari”, ha aggiunto il diplomatico respingendo le preoccupazioni di alcuni Stati.

Nel corso di un’insolita conferenza stampa con il ministro Wang, durata mezz’ora e conclusa con i giornalisti che urlavano le domande mentre i protagonisti lasciavano il podio, il primo ministro figiano Frank Bainimarama ha spiegato che “come sempre, mettiamo al primo posto il consenso tra i nostri Paesi in ogni discussione su nuovi accordi regionali”. Le Fiji “continueranno a cercare un terreno fertile per le nostre relazioni bilaterali”, ha aggiunto ringraziando il ministro Wang per “lo spirito di collaborazione”. Ma Bainimarama ha detto di aver cercato, e non trovato, un impegno più importante da parte della Cina sul clima e sulla riduzione delle emissioni.

Proprio la posizione figiana sembra aver fatto saltare l’intesa. Anche perché nei giorni scorsi le Fiji avevano deciso di aderire in qualità di membro fondatore all’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity, un nuovo meccanismo lanciato dal presidente statunitense Joe Biden nel recente viaggio in Asia per compensare il fallimento dell’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership con i Paesi asiatici e anticipare l’offensiva diplomatica cinese. “Il futuro dell’economia del XXI secolo sarà in gran parte scritto nell’Indo-Pacifico” e il meccanismo “contribuirà a promuovere una crescita sostenibile per tutte le nostre economie”, aveva dichiarato Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, accogliendo la decisione del governo figiano. “Gli Stati Uniti ringraziano il primo ministro Bainimarama e si augurano di approfondire la nostra partnership a beneficio dei nostri Paesi, delle isole del Pacifico e dell’Indo-Pacifico”, aveva aggiunto.

Ma altri Paesi nella regione avevano espresso preoccupazioni. David Panuelo, presidente degli Stati Federati di Micronesia, aveva messo in guardia le nazioni dal firmarlo temendo che potesse scatenare una nuova guerra fredda. Surangel Whipps Jr., presidente di Palau (che non ha legami diplomatici con la Cina e riconosce Taiwan) aveva avvertito i leader del Pacifico che patti commerciali e di sicurezza ad ampio raggio con la Cina avrebbero potuto avere conseguenze dannose. Ha anche auspicio che la regione abbia imparato dai traumi del passato: “Vogliamo avere pace e sicurezza nella regione e non vogliamo rivivere quello che abbiamo vissuto durante la Seconda guerra mondiale, quindi quando vediamo questo tipo di attività ci preoccupiamo”.

È saltato, dunque, quell’accordo multilaterale che prevedeva l’addestramento degli ufficiali di polizia del Pacifico da parte della Cina, la collaborazione in “sicurezza tradizionale e non tradizionale” e l’allargamento della cooperazione giudiziaria. Oltre a ciò la Cina vorrebbe sviluppare congiuntamente un piano per la pesca, aumentare la cooperazione nella gestione delle reti internet della regione e creare istituti e aule Confucio. A Pechino rimangono accordi bilaterali più piccoli firmati con i Paesi del Pacifico e “un proprio documento di posizionamento” sulle relazioni nella regione che la diplomazia cinese presenterà come dichiarato da Wang in conferenza stampa. “E in futuro, continueremo ad avere discussioni e consultazioni continue e approfondite per creare un maggiore consenso”, ha aggiunto il ministro degli Esteri.

Una figuraccia diplomatica per Pechino. “Gli Stati Uniti concludono sempre gli accordi in anticipo. È davvero imbarazzante!”, ha commentato Derek J. Grossman, esperto di sicurezza nazionale e Indo-Pacifico, della Rand Corporation. La propaganda cinese si è subito mossa per tentare di rimediare. Il Global Times, megafono in lingua lingua, ha pubblicato un articolo che sostiene che i Paesi insulari del Pacifico non saranno usati da nessuno per diventare fronti di competizione tra grandi potenze. Come a dire: o con noi, o con nessuno. Questa almeno è l’intenzione della propaganda di Pechino.

Ma il flop diplomatico cinese rappresenta una vittoria per gli Stati Uniti, con Kurt Campell, coordinatore dell’Indo-Pacifico al Consiglio per la sicurezza nazionale, impegnato nella strategia per la regione anche in questi mesi di guerra in Ucraina. “La Cina è l’unico Paese che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più, il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”, ha detto nei giorni scorsi Antony Blinken, segretario di Stato americano, nell’atteso discorso sulla politica dell’amministrazione Biden verso la Cina. “La visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali che hanno sostenuto gran parte del progresso mondiale negli ultimi 75 anni”, ha aggiunto. Per Pechino è soltanto disinformazione per “contenere e sopprimere lo sviluppo della Cina e sostenere l’egemonia statunitense”, utilizzando le parole di Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri.

Se la sicurezza ha sostituto lo sviluppo come la parola chiave della politica estera della Cina, gli Stati Uniti sembrano voler “puntare su iniziative economiche riconoscendo l’importanza dell’agenda di prosperità, e non soltanto di sicurezza, verso i Paesi più piccoli e quelli in via di sviluppo, dove si concentrerà in futuro il confronto” tra le due superpotenze, come ha spiegato recentemente Alessio Patalano, professore di War & Strategy in East Asia presso il King’s College London, a Formiche.net. L’Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e il caso delle Isole Salomone lo dimostrano. Le iniziali difficoltà cinesi potrebbero rappresentano un piccolo segnale che la strada è quella giusta.

(Nella foto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi e il primo ministro figiano Frank Bainimarama, Twitter @FijiPM)

5126.- Washington faccia i conti con Pechino.

Da un briefing di Veneto Unico, di Mario Donnini, 25 maggio 2022, aggiornato 26 maggio 2022.

La competizione per il potere marittimo

Il patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, AUKUS, risale al 15 settembre 2021 ed è stato ottimisticamente definito la Triplice alleanza di Biden per l’Indo-Pacifico – ISPI. Ha acquistato notorietà immediatamente per la messa fuori gioco della Francia nel contratto per la fornitura all’Australia di sottomarini a propulsione nucleare, già stipulato. Che fosse una misura strategico militare di Washington, volta a ostacolare le politiche espansionistiche di Pechino, ma con insufficiente pianificazione, lo dimostra la reattività e, probabilmente, il successo di Pechino nel contrastarlo, precedendo gli Stati Uniti nella stipula di alleanze, nella zona indo-pacifica. Prescindendo dal giudizio impietoso sulla politica dei democratici, osserviamo subito, che se gli Stati Uniti vogliono mantenere la leadership dell’Occidente e anche del mondo, non possono cambiare politica estera ad ogni nuovo presidente, sopratutto oggi che non godono di una supremazia assoluta in campo militare.

Navi da guerra senza equipaggio

È vero che nessuna nazione possiede i carrier nucleari dell’US.NAVY, ma è anche vero che ne schierano soltanto dieci, con tempi di sosta per i lavori di manutenzione e aggiornamento significativamente più lunghi di quelli della marina cinese.

USS Sea Hunter

La competizione fra l ’US.NAVY e la PLAN ha aperto nuovi scenari. Con il programma DARPA per la lotta antisommergibile, l’US.NAVY, nel 2016, ha varato la USS Sea Hunter. Un vascello a pilotaggio remoto, un drone, di 40 m., 145 tonn. e 27 nodi, gestito interamente dall’intelligenza artificiale, quindi, senza equipaggio, costruito dalla Vigor Industrial di Portland. Dal 2019, gli USA stanno valutando , questa loro prima nave drone, specializzandola, per ora, in missioni di lotta anti sommergibile. 

Zhu Hai Yun

Ed è di oggi la notizia del varo della cinese Zhu Hai Yun, nave porta droni aerei, marini o sommergibili, guidata da intelligenza artificiale e senza equipaggio. La nave è stata costruita dal cantiere navale Huangpu Wenchong di Guangzhou, della China State Shipbuilding Corporation; è lunga 88 metri e potrà soddisfare esigenze sia civili sia militari.

Le navi porta droni sono dei droni anch’esse. Certamente rivoluzioneranno la sorveglianza degli oceani, ma richiederanno una rete logistica importante e un sistema di comando e controllo spaziale.

Attenti a Taiwan!

Come avevamo previsto il 24 febbraio, aver messo all’angolo la Russia, non rispondendo ad alcuna delle sue richieste di sicurezza, ha fatto rompere ogni indugio: “Ricorrerò alle armi”, aveva preavvertito Putin. Ha messo in moto l’esercito russo e ha dato ottime carte a Xi Jinping, senza dubbio a conoscenza delle iniziative di Putin. All’alba dell’invasione dell’Ucraina, dicemmo: “Se c’era Donald Trump, tutto questo non accadeva. Questa operazione di Putin ha sicuramente l’avvallo di Xi Jinping: Attenti a Taiwan, Attenti a Taiwan!” Meglio, disse Donald Trump, considerando le tensioni internazionali intorno al conflitto tra Mosca e Kiev. La Cina sarà la prossima” disse  l’ex presidente degli Stati Uniti d’America,  intervistato durante un programma radiofonico, annunciando che Pechino sarebbe la prossima potenza ad attaccare. L’impressione fu che la governance della Casa Bianca stesse giocando su tavoli troppo grandi per lei e l’annuncio dell’A.UK.US. non fece sperare di meglio. La portavoce del ministero degli esteri cinese Hua Chunying, riaffermò la posizione di Pechino su Taiwan, affermando che il tentativo di indipendenza di Taipei dalla Cina è “un vicolo cieco” e non ci dovevano essere “malintesi” sul punto. Notiamo che anche tentare di controllare il potere marittimo cinese nell’indo-pacifico, facendo perno su Taiwan è “un vicolo cieco”. Ieri, in una conferenza stampa congiunta con il premier nipponico Fumio Kishida, il presidente Joe Biden non ha usato mezzi toni su Taiwan e ha dichiarato: “Gli Stati Uniti interverranno militarmente se la Cina tenterà di prendere Taiwan con la forza”. Ci chiediamo se il presidente Joe Biden è consapevole di ciò che dice. Sicuramente, lo è Xi Jinping che lo ha accusato, anzi ha accusato gli Stati Uniti di giocare con il fuoco. Ancor più dura la replica per bocca del portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin: una risposta che ha già il sapore di guerra: “Non puoi resistere a 1,4 miliardi di cinesi”. La Cina ha ridicolizzato Joe Biden e gli USA: “Completeremo la riunificazione con Taiwan. Così Pechino ci pone dinanzi a una realtà dove non possiamo fare conto sulla saggezza e sull’abilità di Vladimir Putin e dove Joe Biden appare come un ragazzaccio o come un messaggio di morte. Del resto, alcuni anni or sono, si diceva che se il dollaro non avesse riguadagnato la sua supremazia, l’unico modo per fermarne la caduta sarebbe stata una guerra. Ma dove?

Henry Kissinger, 98 anni ben portati, ha gelato Davos.

Concludendo questa analisi impietosa della politica USA verso la Russia, la Cina e l’Europa, non possiamo non manifestare il nostro disappunto di membri della Nato e rilevare che il giudizio trova più valenti sostenitori negli stessi Stati Uniti. Parliamo di Henry Kissinger, 98enne, già consigliere per la sicurezza nazionale e Segretario di Stato degli Stati Uniti durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford negli anni tra il 1969 e il 1977 e qualcosa di più nella élite e nella politica americana non sostiene la linea dura di Biden contro la Russia e la partecipazione attiva degli Stati Uniti nella guerra tra Russia ed Ucraina. Sarebbe interessante sapere se la condivideva anche prima del 24 febbraio. A Davos, Kissinger, presenziando, come sempre, al World Economic Forum, ha affermato: “L’Occidente non cerchi la sconfitta russa, l’Ucraina rinunci a qualcosa”, che significa che, in Ucraina, la Nato non ha vinto la partita e che l’Occidente dovrebbe cercare di favorire la pace. Esattamente, ha detto: “avviare negoziati prima che si creino rivolte e tensioni che non sarà facile superare.” Tirando le somme, un’altra ritirata dopo il Kurdistan e l’Afghanistan. Ce n’è abbastanza per predire un addio a Taiwan, per invitare alla riflessione il segretario della Nato Jens Stoltenberg e per correre ai ripari con la Federazione russa. Non ultimo, a distanza di oltre mezzo secolo, ripensare alle note sotto-organizzazioni internazionali per lo sviluppo del Nuovo ordine mondiale, quali la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, FMI, l’Unione europea, le Nazioni Unite e la Nato, spesso nominate come molto attive, ma poco vincitrici. L’Occidente avrà un futuro soltanto se l’Unione europea diverrà una confederazione sovrana, capace di fungere da punto di equilibrio fra gli Stati Uniti e la Federazione russa, anch’essa affiliata; la Nato dovrebbe garantire la sicurezza dall’Alaska all’Alaska. La cooperazione con le nuove potenze, per ora solo asiatiche, dovrà essere accompagnata da politiche fiscali a sostegno dei valori del rispetto del lavoro, della dignità della persona umana e della libertà.

Guerra di alleanze. Pechino installa basi nel Pacifico, sulle rotte del patto di cooperazione A.UK.US.

Fatta questa ampia premessa, come avevamo previsto il 24 febbraio di quest’anno tragico, la guerra del Nuovo Ordine Mondiale in Ucraina provocata da Biden, contro la Russia, ha aperto la strada all’espansione cinese e alle rivendicazioni di Pechino su Taiwan, sulle isole del Mar Cinese Meridionale e anche su tutte le entità strategiche del Sud del Pacifico. Sono rivendicazioni possibili se consideriamo che, dalla fine del 2020, le navi militari cinesi sono oltre 60 in più rispetto a quelle di cui dispone la Marina degli Stati Uniti. Sono diventate 360 contro circa 300, anche se l’US. NAVY schiera 10 super portaerei d’attacco, che sono pur sempre, però, anche grandi bersagli e non possono essere sempre tutte operative. Aggiungiamo che le coste del Mare Cinese sono un istrice di missili di ogni tipo con cui dovrebbe fare i conti qualunque nave e la fine dell’incrociatore russo Moskwa lo ha mostrato.

Cacciatorpediniere antiaereo cinese tipo 052L. Tale è il ritmo di entrata in servizio delle nuove unità che la PLAN ha problemi di addestramento degli equipaggi.

Notiamo, infine, che le moderne navi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese sono presenti nell’Oceano Indiano, nell’Artico, si sono affacciate in Mediterraneo a sostegno della Marina russa in Siria. Sopratutto, contendono apertamente il dominio dell’US.NAVY nel Pacifico Occidentale.

Alla fine di novembre 2021 è scoppiata una massiccia protesta contro il primo ministro delle Isole Solomone Manasseh Sogavare perché, a partire dal 2019, aveva deciso di aprire ai rapporti diplomatici con la Cina, chiudendo, dopo 19 anni, le relazioni con Taiwan. La rivolta andò accrescendosi fino a che non fu domata con la forza, grazie al supporto di reparti di polizia e di soldati dell’Australia, di Figi, di Papua Nuova Guinea e anche della Nuova Zelanda, in tutto 275 uomini. Pechino ha accordi di sicurezza con Figi e Papua Nuova Guinea.

Alla luce delle intenzioni, ora manifeste, di cambio di campo di Sogavare, malgrado la contraria volontà del suo popolo, dobbiamo rilevare sia l’incongruenza della politica, evidentemente mercantile, del Commonwealth, che manda il gruppo Queen Elizabeth in crociera nell’Indo Pacifico e, poi, reprime le rivolte contro la Cina, sia l’abilità della diplomazia cinese che, a marzo di quest’anno, placate le proteste contro Sogavare e dopo anni di paziente tessitura, di aiuti, di promesse di investimenti, ha portato alla firma dell’accordo sui “porti aperti”. Il patto è stato sottoscritto dal premier cinese Li Keqiang e dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi e ha per oggetto la sicurezza delle Isole Salomone. La preoccupazione, tardiva, per il successo del ministro degli Esteri cinese Wang, ha visto precipitarsi nella capitale delle Salomone sia Kurt Campbell, uomo di Biden per l’Indo-Pacifico, sia il capo della diplomazia nipponica Hayashi. Si ha, ora, notizia della discussione di un altro accordo con la Repubblica di Kiribati e di un altro ancora con la Repubblica di Vanuatu, entrambe sulle rotte di collegamento degli Stati Uniti con l’Australia.

Gli accordi verterebbero su un’ampia libertà di scalo, di manutenzione e di appoggio per le navi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese, ma anche su aiuti militari. Ci aspettiamo la costruzione di una o più basi logistiche e la riattivazione delle basi aeree americane di Kanton (Vanuatu) e Luganville. Qui, su otto delle compagnie appaltatrici dei lavori, cinque sono cinesi, due sono della Nuova Zelanda e una è della Nuova Caledonia. Da marcare la possibilità di interventi della guarnigione cinese in supporto all’ordine pubblico, probabilmente in ragione degli scontri del novembre scorso, perché questo significa che la sicurezza sarà amministrata in accordo con e per i cinesi. Dura, quanto tardiva e inutile, la reazione USA: “intollerabile una presenza cinese a soli 2mila km dalla costa australiana”. Strano che non valga anche per la Nato. Stupisce molto e crea ansia il fatto che l’A.UK.US. si sia fatto precedere da Pechino. Come si è sempre saputo, il potere marittimo non è solo un fatto di numeri e di tonnellate di naviglio, ma sopratutto, di politica e di diplomazia. L’élite che domina gli Stati Uniti ha dimostrato di saper gestire le borse, e basta!

Nel migliaio di isole Salomone troviamo la famosa Guadalcanal, che dista circa 3.552 miglia da Pearl Harbour. Guadalcanal fu per gli Stati Uniti il turning point della Battaglia del Pacifico. Rischia di esserlo ancora, ma in negativo. Le Isole Salomone sono una monarchia costituzionale del Commonwealth e il sovrano è Elisabetta II, Regina delle Isole Salomone. Il governatore generale è Sir David Vunagi, dal 7 luglio 2019 e il primo ministro, che ha sottoscritto con la Cina l’accordo per la sicurezza  è Manasseh Sogavare. Ricordiamo che i poteri della Regina nei 16 reami del Commonwealth si limitano alla nomina del governatore generale, su “consiglio” del primo ministro, il suo nome e la sua immagine continuano a giocare un ruolo importante nei simboli e nelle istituzioni politiche, ma gli stati del Commonwealth sono politicamente separati tra loro e indipendenti.

Un accordo simile a quello concluso con risulta prossimo alla firma con la Repubblica delle Kiribati. Parliamo di tre arcipelaghi con un isola e 32 atolli, nel mezzo del Pacifico, a cavallo dell’Equatore e della linea del cambio data e, ancora, di un altro accordo con la Repubblica di Vanuatu, l’arcipelago dei vulcani, composto da 83 isole, noto come il paradiso della Melanesia. Questi accordi prevedono che le navi cinesi saranno presenti sulle rotte fra le Hawaii e l’Australia, distante 2mila km dagli arcipelaghi.

L’arcipelago delle Kiribati si trova in posizione strategica rispetto alle rotte marittime che collegano Stati Uniti e Australia. Poco più a nord, abbiamo le Isole Marshall, con l’atollo di Kwajalein, poligono militare statunitense per i test missilistici.

5078.- La Cina prende il controllo delle Isole Salomone, e del Pacifico

L’isola di Guadalcanal, nel Sud Pacifico, appartiene all’arcipelago delle Isole Salomone e dista circa 3.552 miglia da Pearl Harbour. Da Guadalcanal iniziò la rivincita degli Stati Uniti sul Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Oggi, è la volta della Cina. Con le forze armate cinesi nelle Salomone, vediamo problematica la tenuta dell’AUKUS. La Cina non sarebbe distante dalle Hawaii e potrebbe interrompere le rotte marittime e i collegamenti aerei tra gli Stati Uniti e i loro alleati e partner, Australia e Nuova Zelanda. Cosa farà Tokyo? Questa volta, Washington ha tardato a sostituire il presidente dell’arcipelago con uno a suo favore. Un altro passo di Pechino verso il pieno controllo dell’Oceano Pacifico.

di Gordon G. Chang  •  18 aprile 2022

La Cina comunista si sta muovendo attraverso il Pacifico da un gruppo di isole a un altro e presto l’Esercito Popolare di Liberazione sarà a breve distanza dalle Hawaii. Il nuovo accordo quinquennale tra la Cina e le Isole Salomone, soggetto a rinnovi automatici, consentirà a Pechino di utilizzare le isole come base per le proprie forze armate e di fare più o meno ciò che vuole l’esercito cinese. Nella foto: il premier cinese Li Keqiang indica la strada al primo ministro delle Isole Salomone Manasseh Sogavare, a Pechino, il 9 ottobre 2019. (Foto di Thomas Peter/Pool/AFP tramite Getty Images)

Il 25 marzo, le Isole Salomone hanno annunciato che stavano “estendendo” gli accordi di sicurezza, “diversificando la partnership per la sicurezza del Paese, anche con la Cina”.

L’annuncio ha un tono difensivo. Il giorno prima, gli oppositori di un patto di sicurezza con la Cina hanno fatto trapelare quella che è stata etichettata come una “bozza” di accordo. Il governo del primo ministro Manasseh Sogavare non ha confermato l’autenticità del documento trapelato, ma gli osservatori ritengono che il premier intenda come definitiva quella versione. L’Australia, che ha espresso “grande preoccupazione”, ha confermato l’autenticità della bozza.

Il patto, intitolato “Accordo-quadro tra il governo della Repubblica Popolare cinese e il governo delle Isole Salomone sulla cooperazione in materia di sicurezza”, evidenzia una tendenza inquietante: la Cina, dopo anni di persistenti sforzi commerciali, diplomatici e militari, sta assumendo il controllo del Pacifico.

Pechino si sta muovendo attraverso il Pacifico da un gruppo di isole a un altro e presto l’Esercito Popolare di Liberazione sarà a breve distanza dalle Hawaii.

Secondo quanto detto al Gatestone da Cleo Paskal della Foundation for Defense of Democracies, l’accordo-quadro è frutto di una “decisione unilaterale di Sogavare”. E la Paskal ha sottolineato che “Non c’è stata alcuna consultazione pubblica”.

L’accordo quinquennale, soggetto a rinnovi automatici, consentirà a Pechino di utilizzare le isole come base per le proprie forze armate e di fare più o meno ciò che vogliono i generali e gli ammiragli cinesi. “La Cina”, afferma il patto all’articolo I, “può, secondo le proprie esigenze e con il consenso delle Isole Salomone, effettuare visite navali, rifornimenti logistici, fare scalo e transitare nelle Isole Salomone, e le relative le forze della Cina possono essere utilizzate per proteggere la sicurezza del personale cinese e per importanti progetti nelle Isole Salomone”.

Se applicato nella sua piena estensione, l’accordo-quadro darà alla Cina la possibilità di interrompere le rotte marittime e i collegamenti aerei tra gli Stati Uniti e i loro alleati e partner, Australia e Nuova Zelanda.

Per decenni, Washington ha consentito a Canberra e a Wellington di gestire le Salomone e la loro area, ed entrambe le potenze occidentali, attraverso una combinazione corrosiva di negligenza e condiscendenza, hanno consentito alla Cina di fare importanti incursioni. Pechino, mediante fondi ora circostanziati pubblicamente, in pratica ora controlla il governo di Sogavare.

Non stupisce che il premier delle Isole Salomone stia eseguendo gli ordini di Pechino. Nel 2019, ha trasferito il riconoscimento diplomatico da Taipei a Pechino e, in patria, ha spalancato le porte agli investimenti cinesi.

Sogavare ha inoltre malgovernato il Paese, ad esempio, emarginando Malaita l’isola più popolosa delle Salomone, e ha minacciato il suo governatore, Daniel Suidani. Mettendo a rischio la propria vita, Suidani si è opposto fermamente all’acquisizione da parte cinese delle Salomone.

Nel novembre scorso, il malgoverno di Sogavare ha provocato rivolte sanguinose nella capitale Honiara, sull’isola di Guadalcanal, dove tra il 1942 e il 1943 morirono 1.600 americani nel liberare l’isola dal controllo giapponese.

Per ristabilire l’ordine, l’Australia ha inviato forze di polizia e militari, salvando in tal modo il governo di Sogavare che sembrava sull’orlo del fallimento. Pertanto, l’incauto intervento di Canberra ha consentito a Sogavare di sollecitare a febbraio l’entrata in azione della polizia cinese. La presenza di Pechino ha consolidato la sua presa sul potere.

L’accordo-quadro prevede inoltre, all’articolo 1, che “le Isole Salomone possono, secondo le proprie esigenze, richiedere alla Cina l’invio di polizia, polizia armata, personale militare e altre forze dell’ordine e forze armate per aiutare a mantenere l’ordine sociale, a proteggere la vita e i beni delle persone, a fornire assistenza umanitaria, a prestare soccorso oppure a fornire assistenza per altre funzioni concordate dalle Parti”.

Il 25 marzo, Honiara ha dichiarato che manterrà in vigore il suo accordo di sicurezza del 2018 con Canberra, ma è chiaro che Sogavare sta ricorrendo soltanto alla Cina per l’assistenza della polizia e dell’esercito.

Sogavare, sostenuto dall’esercito di Pechino e dall’accordo-quadro, può di fatto porre fine alla democrazia nelle Salomone. Secondo Cleo Paskal, la quale segue attentamente l’area del Pacifico, il primo ministro sta cercando di posticipare le elezioni. “Se Sogavare può innescare una crisi della sicurezza interna, la userà come scusa per continuare a governare”, osserva l’analista. “La Cina aiuterà il primo ministro a provocare una guerra civile. Quella guerra fornirà a Sogavare una scusa per chiedere l’invio dell’esercito cinese, secondo il nuovo accordo”.

Come la Paskal ha detto al Gatestone, Pechino ha già esacerbato le tensioni in modo da poter venire in “salvataggio del Paese”.

Le tensioni interinsulari che alimentano la crisi in corso non sono una novità. Nel 2000, controversie simili furono risolte dall’accordo di pace di Townsville, che Sograve anche allora primo ministro, non attuò. La Paskal ritiene che l’accordo potrebbe essere la base di un altro accordo.

Le Salomone non sono un esempio isolato dell’infiltrazione cinese nei governi dell’oceano Pacifico. Si dice che la Cina firmerà un accordo di sicurezza con la Papua Nuova Guinea, appena a nord dell’Australia.

Inoltre, la Cina vuole rimodernare una pista di atterraggio nelle isole Kiribati. Pechino afferma che i miglioramenti sono esclusivamente per scopi civili, ma gli usi militari sono evidenti e nessuno crede alle rassicurazioni cinesi.

La struttura si trova a sole 1.900 miglia a sud delle Hawaii, pertanto, relativamente alla loro posizione geografica nel Pacifico le Kiribati sono vicine di casa dell’America.

Gordon G. Chang è l’autore di “The Coming Collapse of China”, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute e membro del suo comitato consultivo.

4465.- Taiwan e Cina sul filo del rasoio. Ma Xi Jinping si modera.

Esistono le condizioni per una guerra nel teatro IndoPacifico? Mai dire mai.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Stefano Magni

Colloqui al vertice fra Cina e Ue e fra Cina e Usa, sul pomo della discordia principale: Taiwan. Il Paese, di fatto indipendente, non è riconosciuto ufficialmente da nessuno. Ma, anche per merito del peggioramento dei rapporti con Pechino, informalmente ha più contatti con l’Ue e con gli Usa. La crisi cresce, ma Xi Jinping smorza i toni. Per la crisi interna.

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Taiwan, la festa nazionale del 10 ottobre

Taiwan e Cina, senza l’accento sulla “e”. Taiwan è Cina, con l’accento sulla “è”. È tutta in questa differenza la crisi ormai quasi secolare fra Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, che in questi ultimi tre mesi sta vivendo una notevole recrudescenza, con colloqui a livello internazionale per cercare di placare la tensione, ma anche esercitazioni militari veramente minacciose.

“Taiwan è Cina” è la tesi del Partito Comunista Cinese: dichiarandosi il vincitore della guerra civile (1945-49) rivendica il possesso di tutto il territorio cinese, non ammette l’esistenza di un territorio separato, occupato, nella ritirata, dalle ultime divisioni nazionaliste cinesi nel 1949. “Taiwan e Cina” è invece l’obiettivo del Partito Progressista Democratico, la sinistra di Taiwan, che non rivendica più lo status di unico governo cinese legittimo, come era tipico dei nazionalisti, ma chiede di formalizzare un’indipendenza che già c’è di fatto. Taiwan e la Cina sono separate da uno stretto braccio di mare, ma fra loro c’è un abisso. La prima è una delle più promettenti democrazie orientali, all’avanguardia nelle nuove tecnologie ed è un Paese libero, in cui tutti i diritti sono garantiti. La seconda, come è noto, è sotto il più grande regime comunista del mondo, un regime che ha saputo rinnovarsi e stare al passo coi tempi, ma sempre estremamente repressivo e dotato della capacità di controllare strettamente i suoi cittadini.

La recrudescenza della crisi, in questi mesi, è dovuta al peggioramento generale delle relazioni fra la Cina e le democrazie occidentali, soprattutto dopo la diffusione (dalla Cina) del Covid-19. La tensione più forte è fra Cina e Australia, con quest’ultima che ha deciso, con il trattato Aukus, di dotarsi anche di sottomarini a propulsione nucleare. Ma anche con gli Usa stessi (nonostante il cambio di presidenza, da Trump a Biden) e con l’Ue, le relazioni sono più tese del solito.

Innanzitutto con l’Ue, il 15 ottobre (domani, per chi legge), è previsto un incontro virtuale fra Charles Michel, presidente del Consiglio europeo e il presidente cinese Xi Jinping. Il pomo della discordia è la Lituania. La piccola repubblica baltica ha aperto nella capitale Vilnius una nuova rappresentanza diplomatica di Taiwan. E il dettaglio che Pechino considera grave è che porti il nome di “Taiwan”, che per Pechino non deve esistere. Per il prossimo mese, è prevista una visita di una delegazione taiwanese in Lituania e in altri Paesi dell’Europa centrale. E in dicembre, invece, è in agenda una visita di un gruppo parlamentare lituano sull’isola “ribelle”, guidato da Matas Maldeikis (capo del gruppo di amicizia Taiwan-Lituania). Ma le relazioni pericolose fra Ue e Taiwan non si limitano alla sola Lituania. La Francia stessa è nel mirino dopo che, lo scorso 10 ottobre, una delegazione parlamentare francese, guidata dal senatore Alain Richard ha visitato l’isola. E l’Ue, nel suo insieme, non ha affatto terminato i colloqui con il governo di Taipei, per un accordo bilaterale sugli investimenti. Anche martedì 12 ottobre la presidente Tsai Ing-wen ha “incontrato” in remoto le massime cariche europee per questo motivo.

Il braccio di ferro con gli Usa, invece, assume tinte decisamente più forti, perché in ballo ci sono anche questioni militari, non solo diplomatiche e commerciali. Secondo le rivelazioni del quotidiano Wall Street Journal, uno dei più attenti sull’Asia orientale, una ventina di consiglieri militari statunitensi, appartenenti a forze speciali e al corpo dei Marine, sarebbero ancora presenti a Taiwan per addestrare le truppe di terra locali. La presenza americana, piccola e non ufficiale, è motivata dalla preoccupazione per l’atteggiamento ostile cinese, ma anche dalla condizione stessa delle forze di difesa taiwanesi. Forse cullati dall’illusione di una pace con Pechino, infatti, nei primi 15 anni dei 2000, i governi precedenti di Taipei hanno trascurato gli investimenti nella difesa. Nonostante negli ultimi sei anni vi sia stato un po’ di recupero, l’esercito taiwanese rischia di non costituire più un deterrente sufficiente a scoraggiare un’azione di forza cinese. La presenza americana ha però provocato l’ira di Pechino, che ha affidato a un editorialista del Global Times, dunque un giornale in inglese e semi-ufficiale, le dichiarazioni più bellicose: la presenza di truppe statunitensi sull’isola è una “linea rossa che non deve essere passata” e in caso di guerra, gli americani “saranno i primi ad essere eliminati”. Eppure un canale diplomatico resta aperto. Non è ancora stata fissata la data, ma è comunque previsto un incontro telefonico fra il presidente Biden e Xi Jinping entro la fine dell’autunno.

Lo scorso 6 ottobre, il ministro taiwanese della Difesa Chiu Kuo-cheng ha affermato che la Cina sarà in grado di lanciare un attacco su “vasta scala” contro l’isola entro il 2025. E lo ha detto nel bel mezzo di un’escalation di esercitazioni molto bellicose e realistiche. Oltre a manovre di sbarco sulla costa di fronte a quella di Taiwan, ben 150 aerei cinesi, fra cui anche bombardieri H-6 capaci di portare testate nucleari, hanno sorvolato le acque vicine a Taiwan, a ridosso del suo spazio aereo (che non è riconosciuto come un confine ufficiale, ma come un’area di difesa aerea esclusiva).

Xi Jinping, nel suo discorso del 9 ottobre, però, ha menzionato l’aspirazione ad una “riunificazione pacifica”, dando per scontato che avverrà. Ma non ha menzionato né minacciato l’uso della forza militare. Secondo il politologo Walter Russel Mead (il cui editoriale sul Covid in Cina, pubblicato sul Wall Street Journal nel febbraio 2020, aveva provocato l’espulsione dalla Cina di tre giornalisti del quotidiano economico), si tratta di una pausa di riflessione, dettata dalla debolezza economica cinese. La crisi del colosso immobiliare Evergrande, la crisi energetica che impone un razionamento e provoca blackout in tutto il Paese, la ripresa di focolai pandemici in una nazione che aveva dichiarato debellato il Covid già nell’aprile del 2020, sono tutti segnali di forte debolezza. Che impone prudenza. Xi Jinping sa che, in una congiuntura come questa, non può permettersi di avere troppi nemici. Ma, come avverte lo stesso politologo americano, “Questa è una pausa, non è un cambio di direzione”.

4356.- AUKUS e le lezioni per l’Unione europea

I sottomarini per l’Australia e le lezioni per l’Europa

Su Analisi Difesa del 20 settembre 2021, lo storico e analista Gianandrea Gaiani, Consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno, titola “AUKUS, i sottomarini per l’Australia e le lezioni per l’Europa”. Ribadiamo che la lezione numero uno che gli europei devono trarre dall’AUKUS e annessi, è che devono, assolutamente e senza indugio, nominare una Assemblea Costituente, per dare luogo a una qualche forma istituzionale di nazione europea. Altrimenti, sarà superfluo parlare di rapporti interni alla NATO e schierarsi con l’asse anglo-americano non sarà un’opzione, ma una necessità, cui aderiranno in ordine sparso.

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Sono almeno tre gli elementi di valutazione che emergono dalla crisi tra la Francia e le potenze anglosassoni che hanno dato vita all’alleanza AUKUS con l’annuncio della rinuncia australiana ai 12 sottomarini francesi tipo Barracuda (convenzionali) previsti dal contratto del 2016 a cui ora sono sari preferiti battelli a propulsione nucleare da realizzare con gli anglo-americani.

Il primo riguarda il rafforzamento dell’asse strategico tra le potenze anglosassoni evidente in ogni angolo del mondo. Nel Pacifico l’AUKUS ripropone il blocco delle potenze occidentali vincitrici della Seconda guerra mondiale che, allargato a India e Giappone nell’ambito del QUAD, si pone come argine alla crescente potenza cinese Cina.

Un segnale che si aggiunge a quelli ormai molto evidenti in ambito NATO di una linea anglo-americana-canadese che si presenta ormai come traino dell’Alleanza Atlantica rispetto a vicende spinose come la crisi con la Russia e gli aiuti militari che le potenze anglo-sassoni forniscono all’Ucraina, stato non membro della NATO, alimentando le tensioni con Mosca.

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Del resto, al di là delle dichiarazioni ufficiali, molti militari e diversi governi europei hanno espresso malumori per come gli alleati anglosassoni hanno gestito “da padroni” il ponte aereo da Kabul che ha posto fine alla partecipazione al conflitto afghano.

Il secondo elemento, che resta parzialmente sotto traccia, riguarda il fatto che l’emarginazione a sorpresa della Francia dalla commessa multimiliardaria per i sottomarini australiani rappresenta uno schiaffo grave a Parigi e al suo ruolo di potenza nucleare peraltro ben presente con truppe e territori d’oltremare negli oceani Indiano e Pacifico.

Le potenze anglo-sassoni non si sono limitate a evitare di coinvolgere la Francia nell’alleanza nell’Indo-Pacifico ma hanno utilizzato l’annuncio a sorpresa della nascita dell’AUKUS per comunicare con brutalità a Parigi lo stop a una fornitura militare che certo non stava progredendo nella direzione migliore (ma anche quella per le fregate britanniche alla Marina Australiana procede con forti ritardi e aumenti di costo) ma che avrebbe dovuto venire negoziata, discussa e annunciata con ben altri metodi. Specie tra alleati, ammesso che questo termine oggi abbia ancora un senso.

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Di fatto le tre potenze anglosassoni hanno messo a punto in segreto anche dagli alleati occidentali (e infatti l’esclusione del Canada dall’intesa sta costando dure critiche al premier Trudeau) la costituzione dell’AUKUS e il “siluro” ai sottomarini francesi: un programma che sembrava da tempo destinato a fallire per le difficoltà tecniche e finanziarie insite nel trasformare in convenzionale un sottomarino progettato per la propulsione nucleare, per i problemi a rendere compatibili sistemi da combattimento ed elettronica americani su battelli francesi e per l’inadeguatezza di fondo  dell’industria australiana della Difesa rispetto a programmi così ambiziosi.

Inadeguatezza che peraltro sarà ancora più manifesta con il programma che prevede di realizzare ora almeno 8 sottomarini a propulsione nucleare con tecnologia fornita da Gran Bretagna e Stati Uniti.

L’umiliazione che Londra, Canberra e Washington hanno voluto infliggere alla Francia spiega la reazione di Parigi (che abbiano raccontato nei dettagli) dove si parla addirittura di mettere in discussione i rapporti interni alla NATO.

Con la sua dura risposta Parigi sottolinea con orgoglio il ruolo di potenza indipendente e risponde senza timori riverenziali a chi minaccia, per giunta con arroganza e pessime maniere, i suoi interessi nazionali e industriali.

Anzi, Parigi contrattacca proprio nel settore delle commesse militari “invadendo” un mercato della Difesa da sempre quasi esclusivamente statunitense come quello della Corea del Sud, come ha raccontato il sito Formiche.net. 

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L’ambasciatore francese a Seul ha detto in conferenza stampa che Parigi intende condividere la tecnologia delle portaerei e dei sottomarini a propulsione nucleare con la Corea del Sud, tecnologie che consentirebbero a Seul una maggiore autonomia strategica dagli Stati Uniti e di bilanciare nel Pacifico la crescente presenza di battelli di questo tipo cinesi, russi, presto australiani e in futuro anche indiani e probabilmente giapponesi.

Di certo l’AUKUS ha aperto la corsa ai sottomarini nucleari d’attacco (SSN) il cui valore strategico è abbinato a un formidabile business finanziario: un contesto in  cui tutte le potenze competitive in termini di prodotti e tecnologie cercheranno di acquisire quote di mercato.

Infine, l’orgogliosa reazione francese contro l’asse anglosassone, ben rappresentata dalle dichiarazioni di fuoco del ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian (nella foto sopra), potrebbe forse scuotere i partner europei che proprio in queste settimane hanno rispolverato il tema “sempre-verde” del cosiddetto “esercito europeo”.

La tentazione di schierarsi con l’asse anglo-americano, emarginando la Francia, percepibile in diverse nazioni europee inclusa l’Italia, non aiuterebbe il disegno di un’Europa della Difesa e confermerebbe la volontà di non emanciparci dal ruolo di meri gregari.

Certo la Francia ha sempre fatto di tutto per ostacolare il “made in Italy”, specie nella Difesa, ma non sono certo stati gli unici a farlo. Meglio infatti non dimenticare, per restare in Australia, che nella commessa per le nuove fregate la gara è stata vinta nel 2016 dalle Type 26 britanniche (nella foto sotto), esistenti solo sulla carta e già in ritardo sul programma, nonostante la Royal Australian Navy avesse espresso la preferenza per le Fremm di Fincantieri.

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Quanto all’Europa è difficile non notare che l’annuncio della costituzione dell’’AUKUS è giunto in contemporanea con la definizione dell’impegno strategico dell’Unione Europea nella regione dell’Indo-Pacifico in cui, oltre alla cooperazione economica e commerciale coi partner regionali, l’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell ha annunciato che la Commissione europea intende “esplorare modi” per un dispiegamento delle forze navali “potenziato” da parte degli Stati membri dell’Ue.

La vicenda AUKUS sembra quindi confermare come le potenze anglosassoni concepiscano sé stesse come unico motore strategico dell’Occidente, considerando gli alleati europei e NATO come utili gregari, acquirenti dei loro prodotti per la Difesa, ma da tenere ben lontani dai centri e dai processi decisionali così come dai più grandi contratti militari che hanno ovvi riflessi industriali e geopolitici.

Un’amara realtà che è giusto criticare senza illudersi di poterla modificare, che gli europei devono oggi necessariamente accettare e digerire ma che dovrebbe indurli poi a guardare oltre.