Archivi categoria: Politica estera – Qatar

6128.- Mossad e Shin Bet, al Cairo, fissano la linea al Qatar e alla CIA. Ombre su Netanyahu e appello di Abbas.

Breve nota di Mario

Acclarato che sia il potere di Hamas che di Netanyahu regge sopratutto sulla vendetta, che Tel Aviv non intende retrocedere nei propri confini, quale altra via se non il genocidio e la diaspora dei palestinesi possono garantire a Israele un percorso di pace e, al mondo, la stabilità del Medio Oriente? Questi morti: i patrioti, i terroristi e gli innocenti, non siano morti invano. C’è concordo sulla soluzione dello Stato palestinese, ma ci sembra prioritario che l’ONU decida i confini di Israele. Può solo pensarlo? Sono in ballo due potenze nucleari: Israele e l’Iran. Alle spalle, c’è chi alimenta la guerra della NATO alla Federazione Russa e la guerra di Putin all’Ucraina. Entrambe impediscono a Washington e a Mosca di dettare, insieme, condizioni a Tel Aviv e a Teheran. Tutto il mondo è in agitazione: dall’Armenia, al Mar Rosso, alle Coree, a Taiwan. Potrebbero? Su tutto ciò sorvola la banalità di Tajani, che, tardi, ma punta al nocciolo della questione: “Da Israele reazione sproporzionata, troppe vittime civili che non c’entrano nulla con Hamas”. In questo momento, mentre l’inverno volge al termine, nella Striscia, ci sono 14°, poche nuvole, pochissimo cibo, acqua, niente elettricità. C’é l’odore dei morti, magari, di mamma e papà.

Appello dell’Anp a Hamas: “Accettate l’accordo con Israele, i palestinesi vanno salvati dalla catastrofe”

anp hamas

Da Il Secolo d’Italia, di Luciana Delli Colli, 14 febbraio 2024

Continueranno per tre giorni i colloqui al Cairo tra Stati Uniti, Israele, Qatar ed Egitto per cercare di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi in cambio dei detenuti palestinesi dopo che, finora, i negoziati non hanno portato a risultati. A scriverlo è il New York Times citando, a condizione di anonimato, un funzionario egiziano. Il tenore dei colloqui finora è ”positivo”, ha spiegato la fonte. Anche il Times of Israel ha parlato dell’estensione dei negoziati, mentre un lungo retroscena di Haaretz ha gettato ombre sulla volontà del premier Benjamin Netanyahu di arrivare davvero a un accordo. Intanto, il presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, oggi, ha lanciato un appello a Hamas affinché accetti un accordo per fermare la guerra.

I negoziati al Cairo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi

I negoziati sono stati aperti al Cairo da una delegazione di vertice, guidata dal capo del Mossad David Barnea, accompagnato dal capo dello Shin Bet, Ronen Bar. I due funzionari hanno incontrato il primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani e il capo della Cia William Burns. Poi hanno fatto rientro in Israele. Il tavolo ora proseguirà a livelli inferiori. Egitto Qatar e Stati Uniti stanno cercando ancora una volta di raggiungere un cessate il fuoco più lungo per la Striscia di Gaza. In cambio, gli ostaggi ancora nell’enclave palestinese dovrebbero essere liberati, così come alcuni detenuti palestinesi nelle carceri di Israele.

L’appello dell’Anp a Hamas: “Accettate l’accordo per salvare il popolo palestinese dalla catastrofe”

Oggi il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, ha rivolto un appello a Hamas, che è suo rivale politico, affinché accetti un accordo con Israele per fermare la guerra nella Striscia di Gaza. ”Chiediamo al movimento di Hamas di accettare velocemente l’accordo sui prigionieri per risparmiare il nostro popolo palestinese dalla calamità di un altro evento catastrofico con conseguenze terribili, non meno pericolose della Nakba del 1948”, ha detto Abbas, citato dall’agenzia di stampa palestinese Wafa. Il presidente dell’Anp ha poi ”invitato l’Amministrazione americana e i fratelli arabi”, ovvero i mediatori di Egitto e Qatar, ”a lavorare diligentemente per raggiungere un accordo sui prigionieri il più rapidamente possibile, al fine di risparmiare al popolo palestinese il flagello di questa guerra devastante”.

Il retroscena di Haaretz sulle intenzioni di Netanyahu

Secondo un’analisi del quotidiano israeliano Haaretz, però, a non considera un accordo come una priorità sarebbe prima di tutti Netanyahu. Il giornale riferisce che il premier avrebbe concesso alla delegazione guidata da Barnea un margine di manovra limitato, proprio perché non avrebbe fretta di arrivare alla sottoscrizione del patto. Il capo del governo israeliano, si legge nell’edizione web, continuerebbe a insistere sul fatto che le pressioni militari alla fine porteranno a un accordo con condizioni migliori per Israele, indipendentemente dalle proteste delle famiglie degli ostaggi, che oggi per altro, in una delegazione di circa un centinaio, si sono recate all’Aja per denunciare formalmente Hamas al Tribunale internazionale per crimini di guerra. Haaretz ricorda anche che Tel Aviv ha definito inaccettabili finora le richieste avanzate da Hamas, sottolineando il fatto che a confermare che lo stesso Netanyahu non creda molto a un accordo in questa fase ci sarebbe anche l’assenza nella delegazione volata ieri al Cairo del generale Nitzan Alon, capo dell’unità dell’esercito incaricata di raccogliere intelligence sugli ostaggi. Il quotidiano, inoltre, ha richiamato anche il pressing degli Usa contro la linea aggressiva di Netanyahu, il quale però l’ha confermata rilanciando l’offensiva a Rafah.

Tajani: “Hamas vuole una reazione dura di Tel Aviv per isolarla”

“Noi siamo amici di Israele, abbiamo condannato con grande fermezza ciò che è accaduto il 7 ottobre, abbiamo riconosciuto il diritto di Israele a difendersi e a colpire le centrali di Hamas a Gaza perché quello che è accaduto è stata una caccia all’ebreo: sono scene che hanno provocato una giusta reazione”, ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, sottolineando anche che “noi però abbiamo come obiettivo la pace, vogliamo che ci sia un cessate il fuoco perché non bisogna permettere a Hamas di raggiungere il suo obiettivo”, che è quello “di mettere Israele in un angolo”. “Hamas sta usando la popolazione civile come scudo. Hamas vuole che Israele abbia una reazione ancora più dura per poi dire ‘isoliamo Israele’. È il disegno di Hamas. Non bisogna cadere nella trappola di Hamas”, ha quindi avvertito Tajani, sottolineando che ”senza uno Stato palestinese rischiamo che Hamas diventi l’unica speranza per i palestinesi”, ma ”Hamas è una organizzazione militare terroristica”.  Il vicepremier, quindi, ha ricordato che “l’Italia è protagonista in tutte le iniziative politiche” volte a mettere fine ai combattimenti tra Israele e Hamas e che è ”importante sostenere il dialogo in corso al Cairo tra Stati Uniti, Qatar, Israele ed Egitto per la sospensione dei combattimenti, aiutare la popolazione civile palestinesi e liberare gli ostaggi”. ”Netanyahu sta usando la linea dura, ma è nell’interesse di tutti lavorare per una de-escalation”, ha proseguito il titolare della Farnesina, che questo fine settimana a Monaco di Baviera incontrerà anche i ministri degli Esteri dei Paesi Arabi “con i quali potrò consolidare il dialogo”.

 6168.- “Non ci sarà una presenza israeliana civile a Gaza”, ma… Blinken ad Amman

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu. AFP PHOTO / POOL /GALI TIBBON

I piani parlano di dispersione nel mondo (non imposta, ma provocata dall’IDF) del popolo palestinese e delle sue istituzioni e di una forza internazionale a guida USA per la ricostruzione: un eufemismo. E, poi, si scrive “ricostruzione”, ma si legge “gasdotto”.

Del futuro del giacimento multimiliardario di Gaza si parla dalla sua scoperta (dalla British Gas), più di vent’anni fa e avrebbe dovuto provvedere ai bisogni di Gaza e della Cisgiordania. Ora, invece, Israele riuscirà a impossessarsi del giacimento di gas naturale offshore e il gasdotto sottomarino Gaza Marine-Ashqelon è previsto che segua un tracciato tutto esterno al territorio palestinese.

Il cosiddetto “dono di Allah” come lo definì lo scomparso Yasser Arafat, potrebbe fornire 32 miliardi di metri cubi di gas, vale a dire 15 anni di energia per Gaza e la Cisgiordania, quindi, centrali elettriche alimentate dal gas, senza dover ricorrere a forniture israeliane o egiziane, ma sempre sotto il controllo delle compagnie israeliane.

Ora, un anno fa, l’inviato speciale della Casa Bianca per le risorse energetiche, Amos Hockstein ha mediato l’accordo sul gas tra Tel Aviv e Beirut tra Usa, Europa e Israele, con l’apporto del Qatar, raggiunto in sordina per definire il «futuro di Gaza», dopo anni. Se si riconosce che il Gaza Marine-Ashqelon è palestinese, si dettano però condizioni, come l’eradicazione di Hamas e l’amministrazione della striscia da parte di famiglie fidate. Solito sistema colonialista.

Il Gaza Marine-Ashqelon soddisferà i bisogni di Israele, con la protezione degli USA. Resteranno gli oggi 22.600 morti a ricordare quel giardino che era la Palestina prima del 1948 e una prigione controllata dall’esercito di Israele, che – attenzione – non ha posto limiti temporali né spaziali alle operazioni militari. A questo sono serviti il 7 ottobre, i 1.400 morti israeliani e i 160 caduti fra i militari.

Torna in gioco il gas al largo di Gaza, un «dono di Allah» mai consegnato ai palestinesi. Ma è un’illusione

Bombole di gas per cucinare in vendita a Rafah nel secondo giorno di tregua – Ap/Hatem Ali. Da Il Manifesto.

Il piano per la futura Gaza: amministrata dalle famiglie scelte da Israele, controllata da USA e Tel Aviv.

Ma le famiglie più importanti della Striscia hanno immediatamente fatto sapere che non saranno mai disponibili per un progetto del genere.

Da Pagine Esteri, di Eliana Riva | 5 gennaio 2024

Il piano per la futura Gaza: amministrata dalle famiglie scelte da Israele, controllata da USA e Tel Aviv

Pagine Esteri, 5 gennaio 2024. “Non ci sarà una presenza israeliana civile a Gaza”. È stato chiaro il ministro della Difesa Yoav Gallant, parlando ieri sera con i giornalisti, poco prima che il Gabinetto di guerra israeliano si riunisse per discutere del destino della Striscia e dei suoi abitanti.

Le pressioni per la creazione di insediamenti israeliani sono, tuttavia, ancora molto forti, soprattutto da parte dei membri del partito di estrema destra Otzma Yehuditche fa capo al ministro della sicurezza nazionale, il suprematista Itamar Ben-Gvir. Ma sono anche altri i membri di spicco del governo Netanyahu, come il ministro del Patrimonio Amichai Eliyahue (il quale propose di lanciare una bomba atomica su Gaza), a ritenere che sostituire la popolazione palestinese con quella israeliana sia l’unica logica conclusione della guerra in corso.

Gallant ha definito il “day after” della Striscia come un piano in 4 semplici punti.

Il primo. 

Una sorta di governo clanico-tribale nominato più o meno direttamente da Tel AvivHamas non controllerà in alcun modo la Striscia. Ma non lo farà neanche l’ANP di Abu Mazen. L’amministrazione civile sarà affidata ai palestinesi. Non a tutti, però, né a persone a caso: solo alcune potenti famiglie locali favorevoli a Tel Aviv potranno esser nominate, da Israele stesso, a governare Gaza. Il potere civile sarebbe affidato, dunque, a comitati locali a condizione che non operino contro Israele né si dichiarino ostili ad esso. Le famiglie più importanti della Striscia hanno immediatamente fatto sapere che non saranno mai disponibili per un progetto del genere.

Il secondo. 

Una forza internazionale a guida USA per la ricostruzione. Alla task forcepotranno partecipare i Paesi dell’Europa occidentale e quelli arabi giudicati moderati. Saranno loro a controllare l’operato delle organizzazioni internazionali che porteranno soccorso alla popolazione di Gaza. Tutto ciò che riterranno necessario far entrare nella Striscia dovrà essere controllato, supervisionato e approvato da Israele. È da verificare la reale disponibilità degli Stati arabi, molti dei quali, già alcune settimane fa, si sono detti non disposti a dispiegare le proprie truppe su Gaza. Ma una forza internazionale composta da soli Paesi occidentali non sarebbe facilmente presentabile né digeribile.

Il terzo. 

L’Egitto. Gallant ha dichiarato che sono già in corso colloqui trilaterali tra Stati Uniti, Israele e l’Egitto per garantire la sicurezza del valico di Rafah e del confine con Gaza, che dovrà essere isolato e fortemente controllato dai tre Paesi.

Il quarto.

Israele. Il ministro ha spiegato che non vi saranno limiti temporali né spaziali alle operazioni militari che Israele potrà compiere nella Striscia di Gaza. Tel Aviv manterrà il diritto a operare in totale libertà, controllerà tutto ciò che entra e che accade a Gaza e potrà intervenire militarmente ogni volta che lo riterrà opportuno.

Non è ancora chiaro quali siano gli obiettivi che Israele dovrà raggiungere per considerare “finita” la guerra e dare il via a questa fase progettuale che al momento non sembra basarsi su riscontri e disponibilità reali quanto sui desideri e le aspirazioni israeliane. Sempre secondo Gallant le operazioni militari continueranno nel nord della Striscia, anche se con forme diverse: i raid aerei saranno frequenti e anticiperanno operazioni speciali di terra. Il numero dei soldati israeliani uccisi dentro Gaza (170 fino ad oggi) comincia a diventare importante e il governo ha la necessità di limitare i danni.

Nel sud della Striscia al momento la strategia non cambierà. E alla popolazione, composta quasi totalmente da rifugiati, non verrà permesso di ritornare al nord nelle proprie case o in ciò che ne rimane. Lo spostamento è ciò con cui Israele intende trattare la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Il numero delle vittime civili continua a crescere a dismisura, così come le denunce di attacchi alle strutture che ospitano centinaia di profughi, alle scuole-rifugio, alle strutture sanitarie. Secondo il Ministero della Sanità, 162 persone sono state uccise nelle ultime 24 ore, portando il bilancio dei morti a 22.600, l’1% dell’intera popolazione della Striscia di Gaza.

Ultima da Amman: Amos Blinken dal re di Giordania ribadisce impegno per palestinesi

Contro sfollamento da Gaza-Cisgiordania e contro violenze coloni

WASHINGTON, 07 gennaio 2024, 15:08, di Redazione ANSA

– SOLO LETTURA

-     RIPRODUZIONE RISERVATA

Nel suo incontro ad Amman con il re di Giordania Abdullah II, il segretario di Stato Antony Blinken ha “sottolineato l’opposizione degli Stati Uniti allo spostamento forzato dei palestinesi dalla Cisgiordania e da Gaza e la fondamentale necessità di proteggere i civili palestinesi in Cisgiordania dalla violenza dei coloni estremisti”.

Lo riferisce il dipartimento di stato Usa in una nota. 
    Blinken ha inoltre sottolineato “l’impegno degli Stati Uniti a raggiungere una pace e una sicurezza durature per israeliani e palestinesi attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente”.

Il capo della diplomazia ha ringraziato il re Abdullah II “per il ruolo e la leadership della Giordania nel fornire aiuti salva vita ai civili palestinesi a Gaza. Entrambi hanno convenuto di continuare uno stretto coordinamento per un’assistenza umanitaria duratura”. 
   

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

6096.- La legittima difesa di Israele è una vendetta che va oltre il diritto internazionale: “Niente ci fermerà”

Netanyahu è andato a Gaza: “Andiamo fino in fondo, fino alla vittoria” “Niente ci fermerà”. In attesa della fine della tregua e di altre bombe, migliaia di civili, sono allo stremo, per fame e disidratazione. Non ci sono medicinali, non c’è cibo, né acqua, elettricità e carburante. La tregua non è un cessate il fuoco. Fa continuare la guerra e giova a Netanyahu e ad Hamas. Non giova ai popoli israeliano e palestinese. Qatar ed Egitto trattano per gli ostaggi. Liberati altri 17, ma una è molto grave.

I bombardamenti su Gaza distruggono case e infrastrutture

Gaza è una macelleria umana. Immagine tratta da Oxfam

Larison: “Israele sta commettendo crimini di guerra conducendo una ‘guerra della fame’ contro i civili di Gaza”

Da La Nuova Bussola Quotidiana, 27 novembre 2023. Di Daniel Larison.

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Daniel Larison e pubblicato su . Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella traduzione da me curata. Sabino Paciolla.

Il taglio di cibo, acqua e carburante imposto a Gaza ha creato condizioni terribili per i palestinesi in quelle zone solo nelle ultime sei settimane. Presto potrebbero morire di fame.

Il rivolo di aiuti che è stato permesso di far entrare sotto le pressioni internazionali non è nemmeno lontanamente sufficiente a sostenere la popolazione civile. Secondo il Programma Alimentare Mondiale, solo il 10% del cibo necessario sta entrando nella Striscia di Gaza e la popolazione si trova ora ad affrontare una “possibilità immediata di morire di fame”. Il PAM avverte anche che “le infrastrutture alimentari a Gaza non sono più funzionanti” e che il poco cibo disponibile viene venduto a prezzi gonfiati e gran parte di esso non può essere utilizzato perché la gente non ha i mezzi per cucinarlo.

A Gaza si sta verificando una catastrofe umanitaria sotto i nostri occhi. La gente non solo muore di fame, ma viene affamata, e questo avviene con il sostegno del nostro governo.

Human Rights Watch e gli studiosi di diritto affermano che Israele sta commettendo crimini di guerra conducendo una “guerra della fame” contro i civili di Gaza. Nella misura in cui Washington continua ad assistere la campagna militare e il blocco di Israele, contribuisce a renderlo possibile.

Le scarse quantità di aiuti umanitari che l’amministrazione Biden si vanta di facilitare sono una goccia nel mare di ciò di cui la popolazione ha bisogno e, ai ritmi attuali, non possono evitare perdite su larga scala di vite innocenti. La necessità di un cessate il fuoco e di uno sforzo di soccorso di emergenza è innegabile e la resistenza di Washington è una potenziale condanna a morte per migliaia di persone.

La fame è stata usata come arma con una frequenza inquietante in diversi conflitti dell’ultimo decennio, dalla Siria allo Yemen, dal Tigray al Sud Sudan. I governi di solito usano la guerra economica e i blocchi fisici per raggiungere i loro scopi. L’attuale blocco di Gaza comporta entrambe le cose, chiudendo di fatto l’economia di Gaza e tagliandola fuori dai rifornimenti esterni.

L’inedia forzata di una popolazione civile è una forma di punizione collettiva. Israele ha l’obbligo, secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, di “garantire l’approvvigionamento alimentare e medico della popolazione”. È evidente che il governo israeliano non sta adempiendo a tale obbligo, anzi sta facendo il contrario.

Non sorprende che il Presidente Biden non abbia avuto nulla di serio da dire su tutto questo nel suo recente articolo sul Washington Post. Il Presidente ha riconosciuto che molti palestinesi innocenti sono stati uccisi in guerra, ma non ha detto nulla sui responsabili della loro uccisione. Biden insiste che non ci deve essere “nessun assedio o blocco” finché entrambi sono in corso. Non ha menzionato alcuna conseguenza se il governo israeliano ignora la sua lista di cose che “non devono” accadere. L’amministrazione Biden può aver “chiesto il rispetto del diritto umanitario internazionale”, ma non sta agendo per sostenerlo e non ritiene responsabili i trasgressori.

Il presidente ha nuovamente respinto l’opzione del cessate il fuoco: “Finché Hamas si aggrappa alla sua ideologia di distruzione, un cessate il fuoco non è pace”. Questo non prende in seria considerazione le conseguenze devastanti che il protrarsi della guerra avrà per tutte le parti in causa. Nessuno immagina che un cessate il fuoco possa risolvere il conflitto o creare immediatamente le condizioni per una soluzione permanente, ma è indispensabile per proteggere la vita e la salute di milioni di persone che rischiano di morire di fame, di malattie e di conflitti.

Come ha spiegato la politologa Sarah Parkinson su Foreign Affairs, “un cessate il fuoco è l’unica politica ragionevole, che aumenta la sicurezza e che è moralmente difendibile, soprattutto se Washington ha qualche speranza di rimanere un attore rispettato in Medio Oriente”. Opporsi a un cessate il fuoco in questa guerra è un profondo errore strategico e morale che costerà caro agli Stati Uniti nei mesi e negli anni a venire”.

Biden sottolinea che gli Stati Uniti stanno aiutando Israele nella sua autodifesa, ma l’autodifesa non dà a uno Stato il diritto illimitato di fare tutto ciò che vuole. All’inizio del mese, Adil Ahmad Haque ha scritto un articolo incisivo sulla legittima difesa e la proporzionalità su Just Security, in cui afferma quanto segue: “Secondo la legge della legittima difesa, anche un obiettivo legittimo deve essere accantonato se è superato dagli effetti dannosi della forza necessaria per raggiungerlo. Anche se il diritto di Israele all’autodifesa è in vigore, il suo attuale esercizio è sproporzionato”.

Se questa guerra stesse accadendo in qualsiasi altro luogo e se non coinvolgesse uno Stato cliente degli Stati Uniti, è molto probabile che il nostro governo insisterebbe sulla necessità di un cessate il fuoco e i funzionari statunitensi ripeterebbero che non esiste una soluzione militare. È solo quando a combattere sono gli Stati Uniti o un governo sostenuto dagli Stati Uniti che Washington non vede il merito di aderire al diritto internazionale. Purtroppo, sembra che gli Stati Uniti siano meno interessati a fermare le guerre su cui hanno una notevole influenza, mentre chiedono a gran voce il cessate il fuoco nelle guerre in cui hanno poco o nessun peso.

Se milioni di persone stessero affrontando una minaccia immediata di fame in qualche altro conflitto, gli Stati Uniti farebbero appello ai belligeranti affinché depongano le armi e facciano tutto il possibile per facilitare la consegna di aiuti salvavita. Questo è esattamente ciò che il nostro governo dovrebbe fare ora in questa guerra. Non basteranno brevi pause nei combattimenti per garantire la consegna sicura e costante degli aiuti.

Agire per autodifesa non libera un governo dagli obblighi che gli derivano dal diritto internazionale, e l’autodifesa non è una scusa valida per violare la legge. Alcuni obiettivi politici e militari non possono essere raggiunti a un costo accettabile. Gli effetti dannosi di questa guerra sono già troppo grandi per giustificarne il proseguimento, e non potranno che peggiorare quanto più a lungo si permetterà a questa guerra di continuare.

Daniel Larison 


6021.- USA rivogliono gli ostaggi: No all’invasione di Gaza; ma Israele non vivrà con l’incubo di Hamas e Gaza muore. Occhi sulla Cina.

Massiccia raffica di razzi sul centro Israele. Colpita la rete elettrica nei pressi di Tel Aviv. Esercito Idf: “Nuove incursioni di terra a Gaza” Nuovo raid israeliano nella Striscia di Gaza. Almeno 18 persone sono morte e 40 sono rimaste ferite per l’attacco aereo mirato a Khan Yunis contro la famiglia di Yunis Al Astal, membro di Hamas. Netanyahu: “Stiamo facendo piovere il fuoco dell’inferno su Hamas!” e il presidente israeliano Isaac Herzog auspica un Medio Oriente di pace, ma quale pace?

Occhi sulla Cina e sull’India, non su Mosca né su Teheran né su Ankara. La nuova «via del Cotone» benedetta al G20 da Biden congiunge India, Arabia Saudita, Israele ed Europa. Se l’obiettivo terroristico è Israele, quello economico mira a rallentare se non a eliminare il contrasto proprio con la «via della Seta». Perciò, occhi sulla Cina.

La situazione vista attraverso le notizie di RAI news 24 di LaPresse di ieri 26 ottobre e i commenti.

Il ruolo della Cina nella guerra che colpisce tutti

Immagine di Gaza da Nicola Porro, vicedirettore de il Giornale

(LaPresse) L’aumento degli attacchi aerei israeliani continua a devastare parti della Striscia di Gaza, mettendo a repentaglio le operazioni di soccorso e lasciando i quartieri nel caos. Gli ultimi bombardamenti hanno distrutto case e attività commerciali. Le immagini satellitari rilasciate da Maxar Technologies mostrano l’entità dei danni causati dai bombardamenti quotidiani nel nord di Gaza.

Gaza com’è oggi.  Le testimonianze: “Qui si rischia la morte sotto le bombe anche in fila per comprare il pane”

Si muove la diplomazia di Putin

Delegazione Hamas a Mosca: “Apprezziamo sforzi Putin”. Mosca: “Con Hamas discussa liberazione ostaggi”. Israele: “Russia cacci subito i terroristi”. Ucciso il vice capo dell’intelligence di Hamas. Esercito: “Blitz mirati nel nord della Striscia”.

Mosca: “Discusso con Hamas di liberazione degli ostaggi”

Secondo quanto riportato dalla Tass, che cita una dichiarazione di Hamas, la delegazione del gruppo palestinese ha incontrato a Mosca Mikhail Bogdanov, viceministro degli Esteri e inviato speciale presidenziale della Russia per il Medio Oriente e l’Africa. Nell’incontro è stato discusso “il rilascio immediato degli ostaggi stranieri che si trovano nella Striscia di Gaza, e le questioni relative alla garanzia della evacuazione dei cittadini russi e di altri cittadini stranieri dal territorio dell’enclave palestinese”, ha riferito il ministero degli Esteri russo. “È stata confermata la posizione immutabile della Russia a favore dell’attuazione delle decisioni ben note della comunità internazionale, comprese le pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che prevedono la creazione di uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967 con capitale a Gerusalemme Est e la convivenza in pace e sicurezza con Israele”, ha aggiunto. 

Secondo l’agenzia di stampa russa Ria, Hamas ha rilasciato una propria dichiarazione in cui elogia gli sforzi del presidente russo Vladimir Putin e del ministro degli Esteri per porre fine a quelli che definisce “i crimini di Israele sostenuti dall’Occidente”.

Anche il viceministro degli Esteri dell’Iran è a Mosca, nello stesso giorno della visita della delegazione di Hamas

Il ministero degli Esteri russo ha confermato che una delegazione di Hamas è arrivata oggi a Mosca per parlare con “gli attori chiave, per risolvere la crisi il più presto possibile”. Hamas non è considerato un gruppo terroristico dalla Russia. La testata russa RIA Novosti, rilanciata dalla Bbc, ha detto che la delegazione era guidata dalla figura di spicco Moussa Abu Marzouk, che si pensa viva a Doha, in Qatar. Una foto pubblicata sui social media lo mostra mentre incontra il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov. Il ministero degli Esteri russo ha inoltre rivelato che nella capitale moscovita si trova anche il viceministro degli Esteri iraniano. L’Iran è l’arcinemico di Israele e da lungo tempo sostiene Hamas, ma ha sviluppato stretti legami anche con la Russia. Il Cremlino afferma inoltre che è imminente la visita del Presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Ministro Esteri Iran: Hamas pronto a rilascio civili

Il ministro degli Esteri iraniano, Hussein Amirabdollahian, ha fatto sapere che Hamas è pronto a liberare gli ostaggi civili. Il mondo, ha aggiunto, dovrebbe sostenere la liberazione di 6 mila prigionieri palestinesi. Lo riferisce Reuters.

Israele: invito delegazione Hamas a Mosca è osceno

“Israele vede l’invito di alti funzionari di Hamas a Mosca come un passo osceno che dà sostegno al terrorismo e legittima le atrocità dei terroristi di Hamas”. Lo afferma il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Lior Haiat in un post pubblicato su X. “Le mani degli alti funzionari di Hamas sono macchiate del sangue di oltre 1.400 israeliani che sono stati massacrati, assassinati, giustiziati e bruciati e sono responsabili del rapimento di oltre 220 israeliani tra cui neonati, bambini, donne e anziani”, si legge nel post. Una delegazione di Hamas è stata ospite oggi a Mosca dove ha incontrato il viceministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov.

Iran all’Onu: se a Gaza continuano, Usa non risparmiati

Il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, ha avvertito gli Stati Uniti che se la ritorsione di Israele contro Gaza non finirà, gli Stati Uniti “non saranno risparmiati da questo fuoco”. Il ministro ha affermato che Hamas è pronto a rilasciare i suoi ostaggi civili, ma il mondo dovrebbe sollecitare il rilascio di migliaia di palestinesi nelle carceri israeliane. “Non accogliamo con favore l’espansione della guerra nella regione. Ma se il genocidio a Gaza continua, non saranno risparmiati da questo fuoco”, ha detto Amir-Abdollahian, rivolgendosi ai leader americani. La minaccia vale quanto vale l’Iran, la cui economia, sotto embargo, dipende da sei miliardi di proventi del petrolio, quindi, da Washingtona che può bloccarlo quando utile e neceessario. 

Libano: incontro tra il capo Hezbollah e i dirigenti di Hamas e della Jihad islamica

Al centro del vertice i modi per sostenere questi movimenti palestinesi nelle loro guerre contro Israele. Lo ha riferito la formazione pro-iraniana.

“Hamas e Hezbollah, secondo alcune fonti vicine a Hezbollah, hanno costituito, molto prima dell’attacco del 7 ottobre, un centro di “operazioni comuni” con la Jihad islamica e la forza Al-Qods, l’unità che sta ai vertici delle Guardie della Rivoluzione in Iran.

I tre gruppi fanno parte dell’”asse della resistenza” a favore degli iraniani contro Israele e coordinano le loro azioni con fazioni palestinesi, siriane, irachene e altre. L’incontro ha anche menzionato “il confronto in corso sulle frontiere libanesi”.

Queste azioni hanno fatto 52 morti dal lato libanese di cui quattro civili, 39 combattenti di Hezbollah e nove altri militanti delle organizzazioni correlate, secondo il nuovo calcolo condotto da Afp, considerando l’annuncio degli Hezbollah della morte di altri suoi membri. Quattro persone sono state uccise dal lato israeliano della frontiera. Per ora gli scontri restano limitati, così come i bombardamenti israeliani sui villaggi al confine nel Sud del Libano.”

Hamas ha chiesto a Hezbollah un maggior impegno nella lotta a Israele.

Washington ha ordinato di non invadere Gaza e anche il fronte interno in Israele è diviso. Familiari ostaggi a Netanyahu: nostra pazienza è finita

Le famiglie degli ostaggi nelle mani di Hamas hanno affermato in una dichiarazione che la loro pazienza “è esaurita” chiedendo al governo di agire immediatamente. Lo riporta la Cnn. L’accusa al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è quella di “tacere” sulla sorte dei loro cari. “Sono lì da 20 giorni, 20 giorni in cui non abbiamo idea delle loro condizioni, se vengono curati, se respirano, 20 giorni in cui ci viene chiesto di essere pazienti”, ha detto Meirav Leshem Gonen, la cui figlia Romi Gonen è stata rapita dal festival musicale Nova , si legge nel comunicato.
Ditza Or, la madre di Avinatan Or, anche lui rapito dal festival musicale Nova, ha detto: “Se gli ostaggi non ritornano, abbiamo un problema esistenziale. Mi rivolgo a tutti i governanti di questo Paese: non li chiamo leader perché non ci guidano. Questo non è di destra o di sinistra”.

Casa Bianca: “Sosterremo pause umanitarie a Gaza”

US sends military officers to Israel to advise on operations ...

John Kirby

C’e’ un onere aggiuntivo per Israele: assicurarsi che stiano facendo tutto il possibile per ridurre al minimo le vittime civili, e siamo in costante comunicazione con loro al riguardo”.

La Casa Bianca sosterrà ”pause umanitarie” nella guerra tra Israele e Hamas per Gaza. Secondo il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, si tratta di ”pause sul campo di battaglia localizzate, temporanee e specifiche in modo che l’assistenza umanitaria arrivi alla popolazione che ne ha bisogno o che le persone possano lasciare la zona in relativa sicurezza”.Kirby sottolinea che ”pensiamo che sia un’idea da esplorare” e che le pause potrebbero durare ”ore” o ”giorni”. Kirby ha spiegato che non si riferisce al ”cessate il fuoco” chiesto dal Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e da diversi governi.

Usa inviano altri 900 soldati in Medioriente

Il gruppo da battaglia della portaerei Eisenhower

@ US Navy. Il gruppo d’attacco della portaerei nucleare USS Eisenhower (CVA69) è in Mar Rosso dal 10 ottobre.

Il Pentagono afferma che altri 900 soldati americani saranno inviati in Medioriente come parte “degli “sforzi per scoraggiare un conflitto più ampio e rafforzare ulteriormente le capacità di protezione delle nostre forze”, ha spiegato il portavoce il generale di brigata Patrick Ryder. Non è stato specificato dove le truppe saranno dislocate ma non in Israele.

La USS Carney intercetta missili dallo Yemen: «Puntavano verso Israele»

Il cacciatorpediniere lanciamissili USS Carney (DDG 64), in navigazione nel Mar Rosso settentrionale ha intercettato 3 missili e alcuni droni diretti verso Israele e provenienti dallo Yemen. Jet militari americani bombardano gli iraniani in Siria

Mentre parla di ”pause umanitarie’’, la Casa bianca ordina un raid in Siria sui gruppi sostenuti dall’Iran. Sarebbe una risposta ai droni iraniani. È l’Iran l’obiettivo di Washington. Austin però, ha assicurato che gli Usa non cercano il conflitto. Né hanno «l’intenzione o il desiderio di partecipare ad ulteriori ostilità». Ma «se gli attacchi iraniani contro le forze statunitensi continueranno, non esiteremo a prendere le misure necessarie per proteggere il nostro popolo». Ha anche detto che gli attacchi non sono legati alla guerra tra Israele e Hamas. Mentre le bombe USA colpiscono in Siria, Austin ha chiesto a tutti i paesi di evitare di adottare misure che potrebbero contribuire alla diffusione della guerra in altre regioni.

Intanto truppe dell’esercito americano – sembra 15.000 – e dozzine di veicoli militari come i sistemi missilistici MIM-104 Patriot e THAAD sono stati rischierati in Medio Oriente. Ciò è stato confermato dalla dichiarazione di Lloyd J. Austin III, secondo cui gli Stati Uniti hanno inviato una serie di truppe aggiuntive in preparazione allo schieramento di ordini come parte di un’attenta pianificazione di emergenza, per aumentare la loro prontezza e capacità di rispondere rapidamente quando necessario. L’ipocrisia di Washington è costante quanto sarebbe superflua perché c’è un modo diverso e sincero di protestare le proprie ragioni e, come in Siria, questo modo sono le bombe.

Massiccia raffica di razzi sul centro di Israele, Tel Aviv compresa

Una massiccia raffica di razzi è stata lanciata da Hamas sul centro di Israele, compresa Tel Aviv. Lo riferisce il Times of Israel.
Le sirene dei raid aerei hanno suonato in tutto il centro di Israele, tra cui Tel Aviv, Bnei Brak, Petah Tikva, Lod, Rishon Lezion, Holon, Rehovot e molte altre città.Danni alla rete elettrica presso Tel Aviv.

Esercito Israele ribadisce: carburante non entrerà a Gaza

Il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, conferma che l’ingresso del carburante a Gaza non sarà consentito. Le sue affermazioni si riferiscono alle voci secondo cui il governo stava valutando l’ingresso del carburante nella Striscia  in cambio del rilascio di un’ampia quantità di prigionieri detenuti da Hamas. “Al momento le istruzioni sono che il carburante non entrerà – ha affermato – se ci saranno cambiamenti vi aggiorneremo. Hagari ha aggiunto che gran parte della capacità operativa di Hamas “si basa sul carburante”.

Israele all’Onu: guerra è con Hamas, non coi palestinesi

“Questa non è una guerra con i palestinesi, Israele è in guerra con l’organizzazione terroristica genocida e jihadista di Hamas”. É quanto ha affermato l’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan intervenendo all’Assemblea generale dell’Onu. Lo riporta Haaretz. “Il massacro del 7 ottobre e ciò che ne è seguito non ha nulla a che fare con i palestinesi o con il conflitto arabo-israeliano o con la questione palestinese”, ha aggiunto.

Esercito Israele: “Nuove incursioni di terra a Gaza”. Almeno tre.

L’esercito israeliano sta continuando in incursioni di terra “locali” dentro la Striscia e proseguirà, aumentandole di intensità, anche nei prossimi giorni. Lo ha detto il portavoce militare Daniel Hagari. 

Sito britannico: piano israeliano prevede “gas nervino nei tunnel di Hamas”

Israele potrebbe “inondare i tunnel di Gaza con gas nervino e sostanze chimiche come parte di un attacco a sorpresa contro la Striscia”. Lo sostiene il sito britannico ‘Middle East Eye’ citando una ”fonte araba di alto profilo”, secondo cui il ritardo dell’invasione di terra israeliana di Gaza fa parte di una “campagna di disinformazione volta a ottenere l’elemento sorpresa in un attacco su più fronti”. L’articolo a firma del capo redattore David Hearst, ex giornalista del Guardian, ha attirato l’attenzione dei media arabi, compreso il canale satellitare Al Jazeera.
La fonte araba, secondo ‘Middle East Eye’, ha attribuito le sue informazioni a ”fughe di notizie provenienti dagli Usa”, la quale ha spiegato che il piano consiste, ”sotto la supervisione della Delta Force, nel pompaggio di grandi quantità di gas nervino nei tunnel di Hamas sufficiente per paralizzare i movimenti fisici per un periodo compreso tra le 6 e le 12 ore. Durante questo periodo, aggiunge la fonte, i tunnel verranno penetrati, gli ostaggi verranno liberati e migliaia di soldati delle Brigate Al-Qassam verranno uccisi”. Il sito web di ‘Middle East Eye’, considerato vicino all’autorità del Qatar, ha precisato, di non essere in grado di verificare in modo indipendente le informazioni contenute nella fuga di notizie, affermando di aver contattato la Casa Bianca e il dipartimento della Difesa per un commento, ma non ha ricevuto alcuna risposta al momento della pubblicazione.

Idf: uccisi 3 leader del battaglione di Hamas che partecipò all’assalto del 7 ottobre

Le Forze della difesa israeliane (Idf) hanno eliminato il comandante del battaglione Darj Tafah, Rafat Abbas, e il suo vice, Ibrahim Jadewa, che facevano parte della Brigata di Gaza City e avevano partecipato all’assalto del 7 ottobre contro Israele. Lo riporta l’emittente N12. Insieme a loro, nel raid aereo compiuto dalle Idf, è stato ucciso anche Tarek Maruf, che era comandante di supporto e si occupava dell’assistenza amministrativa al battaglione. Secondo l’Odf, il battaglione Darj Tafah, o Daraj-Tuffah come scrive il Times of Israel, fa parte della Brigata Gaza City di Hamas, che è “considerata la brigata più significativa dell’organizzazione terroristica di Hamas”.

Fonti spagnole: Ue deve lanciare messaggio chiaro su Gaza

Il capo del governo Pedro Sanchez ritiene che serva una voce chiara dell’Ue che aiuti il cammino verso una soluzione definitiva del conflitto, oltre che la consegna degli aiuti umanitari, ovvero la soluzione dei due Stati. Israele non può continuare a vivere così e la soluzione è dare alla Palestina una prospettiva: serve qualcosa di concreto e quindi mobilitare la comunità internazionale perché Israele e Palestina convivano in pace e sicurezza. Lo dice una fonte della delegazione spagnola a proposito della posizione di Madrid al Consiglio Europeo.

Washington Post: Qatar rivedrà rapporti con Hamas dopo crisi con ostaggi

Il Qatar rivedrà i suoi rapporti con Hamas dopo la crisi degli oltre 220 ostaggi seguita all’assalto sferrato contro Israele lo scorso 7 ottobre. Lo scrive il ‘Washington Post’ citando proprie fonti diplomatiche ben informate e a condizione di anonimato, secondo le quali il Qatar rivedrà i rapporti con Hamas dopo averne parlato con gli Stati Uniti. Durante un recente incontro a Doha tra il Segretario di Stato Usa Antony Blinken e l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani, si è infatti giunti a un accordo, di cui non si era a conoscenza, per la gestione dei rapporti con Hamas. Ancora incerto, spiegano le fonti citate dal Washington Post, se la revisione porterà all’espulsione dei leader di Hamas dal Qatar, dove per molto tempo hanno gestito il loro ufficio politico a Doha.
L’accordo è un tentativo di bilanciare l’obiettivo a breve termine dell’Amministrazione Biden di salvare il maggior numero possibile di ostaggi con l’obiettivo a lungo termine di cercare di isolare Hamas dopo la furia del 7 ottobre in Israele, si legge. Il Qatar è stato determinante nell’aiutare gli Stati Uniti e Israele a garantire il rilascio degli ostaggi e a comunicare con Hamas su altre questioni urgenti, compreso il flusso di aiuti umanitari a Gaza e il passaggio sicuro di palestinesi-americani fuori dall’enclave palestinese. Ma la decisione del Qatar di fornire un rifugio ai leader politici di Hamas e di ospitare un loro ufficio a Doha, presa più di un decennio fa, è stata esaminata dai repubblicani al Congresso e da altri sostenitori della linea dura filo-israeliana.

Herzog incontra famiglie beduini presi in ostaggio da Hamas

Il presidente israeliano Isaac Herzog ha incontrato oggi le famiglie di alcuni beduini presi in ostaggio da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre. “Siamo qui per condividere il dolore della popolazione arabo israeliana, in particolare dei beduini”, ha detto Herzog durante l’incontro nella città meridionale di Rehat, “questa non è una guerra fra ebrei e musulmani, ma fra persone che cercano di portare la luce e altre che vogliono l’oscurità”. “E’ per me importante dire alla società araba in Israele quanto ho apprezzato la responsabilità dimostrata da questa comunità in questi giorni difficili. Questa non è una lotta politica. Si tratta della nostra capacità di vivere in un Medio Oriente di pace, contrapposto ad un Medio Oriente di guerra e spargimenti di sangue”, ha aggiunto, secondo quanto riferisce Times of Israel.

Meloni a Bruxelles: “Serve l’impegno di tutti per una de-escalation. Hamas non è la Palestina”

26 Ott 2023

“Credo che uno degli strumenti più efficaci per sconfiggere Hamas sia dare una concretezza e una tempistica alla soluzione della questione palestinese. Dare maggiore peso all’Autorità nazionale palestinese. Questo è un ruolo che l’Unione europea può giocare e sicuramente una delle grandi chiavi di volta nel medio periodo. Nell’immediato c’è il tema umanitario, il tema degli ostaggi, dei civili che devono uscire da Gaza”. 

6006.- L’Italia al vertice del Cairo.

Meloni al Cairo: “Fare ogni sforzo per il dialogo. Sarebbe molto stupido cadere nella trappola di Hamas”

Da Il Secolo d’Italia, 21 Ott 2023, di Sveva Ferri

meloni cairo

Con un intervento improntato al realismo, Giorgia Meloni ha ribadito al Summit per la pace del Cairo che “l’Italia è pronta a fare tutto ciò che è necessario” per arrivare a “una soluzione strutturale” della crisi in Medio Oriente, “sulla base della prospettiva dei due popoli, due Stati”. Il premier non ha nascosto le difficoltà insite anche nel vertice, che vede Paesi arabi ed europei su posizioni di partenza diverse. Ma ha puntato su ciò che unisce per “continuare a dialogare e ragionare”. Uno sforzo necessario “per il quale è importante essere qui”. E ciò che unisce è innanzitutto evitare l’allargamento del conflitto ad altre aree e ad altri piani, evitare di fare il gioco dei terroristi, che punta ad azzerare qualsiasi possibilità di stabilizzare l’area. “Sarebbe una cosa molto, molto stupida – ha avvertito Meloni – cadere nella trappola di Hamas“. A margine dei lavori Meloni ha anche avuto un bilaterale con il presidente dell’Anp, Abu Mazen.

Meloni al Cairo: “L’attacco di Hamas a Israele lascia inorriditi. Va condannato senza ambiguità”

Meloni ha aperto il suo intervento al Cairo con la netta condanna dell’attacco del 7 ottobre a Israele, parlando di “efferatezza senza precedenti”, che “lascia inorriditi” e che si deve “condannare senza ambiguità”. Un passaggio che ha un valore politico molto forte, perché proprio la condanna netta di Hamas, secondo quanto trapelato, mancherebbe dalla bozza delle dichiarazioni finale del vertice, insieme a un altro passaggio considerato cruciale per l’Europa e sul quale pure Meloni si è soffermata nel corso del suo intervento: quello sul diritto di Israele a difendersi.

Il focus su ciò che unisce tutti i leader al Summit

Per l’Italia, ha spiegato Meloni, era “doveroso” partecipare al vertice del Cairo, per lo storico ruolo di “ponte per il dialogo tra Europa, Mediterraneo e Medio Oriente” e anche per la fiducia nel fatto che il summit, al di là dei diversi punti di vista iniziali, possa concentrarsi su un punto di interesse comune “perfettamente sovrapponibile” per tutti i leader presenti al tavolo, ovvero che “ciò che sta accadendo a Gaza non si trasformi in una guerra di religione, in uno scontro tra civiltà, rendendo vani gli sforzi che pure coraggiosamente in questi anni sono stati fatti per normalizzare i rapporti”.

Meloni: “Sarebbe una cosa molto, molto stupida cadere nella trappola di Hamas”

“L’impressione che ho io, e lo dirò con la franchezza che mi è propria – ha proseguito Meloni – è che per le modalità con le quali si è svolto fosse questo il vero obiettivo dell’attacco di Hamas: non difendere il diritto del popolo palestinese, ma costringere a una reazione contro Gaza che minasse alla base ogni tentativo di dialogo e creasse un solco incolmabile tra i Paesi arabi, Israele, l’Occidente, compromettendo definitivamente pace e benessere di tutti i cittadini coinvolti, compresi quelli che si dice di volere difendere e rappresentare”. “Il bersaglio” di Hamas, ha messo in guardia il premier, “siamo tutti noi e io non credo che noi possiamo cadere in questa trappola, sarebbe – ha sottolineato – una cosa molto, molto stupida”.

I tre “punti fermi” dell’Italia. Il primo: il vero volto del terrorismo

Meloni, quindi, ha voluto ribadire con forza e chiarezza “tre punti fermi”. Il primo: “Il terrorismo ha colpito il mondo musulmano più di quanto abbia colpito l’Occidente. Le azioni terroristiche hanno indebolito le legittime istanze dei popoli, soprattutto nel mondo musulmano. In questa dinamica si inserisce la scelta di Hamas, che usa il terrorismo per impedire qualsiasi dialogo”. “Nessuna causa – ha proseguito il premier – giustifica il terrorismo, nessuna causa giustifica donne massacrate e neonati decapitati, volutamente ripresi con una telecamera. Nessuna causa. Di fronte ad azioni di questo tipo uno Stato è pienamente giustificato a rivendicare il suo diritto all’esistenza e alla difesa”.

Il secondo: il modo in cui uno Stato deve esercitare il suo legittimo diritto alla difesa

“Ma”, ha aggiunto Meloni con altrettanta fermezza, “la reazione di uno Stato non può e non deve mai essere motivata da sentimenti di vendetta. Uno Stato fonda la sua reazione sulla base di precise ragioni di sicurezza, commisurando la sua forza e tutelando la popolazione civile. Questo è il confine nel quale la reazione di uno Stato deve rimanere di fronte al terrorismo e io sono fiduciosa – ha sottolineato – che sia anche la volontà di Israele”

Il terzo: la priorità di evitare sofferenze ai civili

Infine, il terzo punto: l’Italia considera “priorità immediata l’accesso umanitario, indispensabile per evitare sofferenze ai civili”, ma anche “esodi di massa che contribuirebbero a destabilizzare questa regione, cosa – ha sottolineato Meloni – di cui non abbiamo bisogno”. Il premier quindi ha riconosciuto l’importanza del lavoro fatto in questo senso da molti degli attori presenti alla conferenza, ha ricordato l’aumento degli aiuti a Gaza stabiliti dall’Ue e ha ricordato che anche l’Italia lavora in questa direzione, ma che considera indispensabile “un rigidissimo controllo su chi utilizza le risorse”. Poi un passaggio sull’apertura del valico di Rafah, che ha consentito l’ingresso nella Striscia di Gaza dei primi aiuti.

“L’accesso umanitario, indispensabile per evitare sofferenze ai civili” significa lo stop dei bombardamenti e la rinuncia di Israele alla vendetta, all’invasione di Gaza e alla distruzione dei labirinti sotterranei di Hamas, in due parole, “la Pace” fra i due popoli e il riconoscimento della Palestina come Stato. Saremmo sulla via auspicata anche da Putin e nuovamente nello spirito degli Accordi di Abramo del 2020, con Biden che passa la palla a Trump. Sorprende l’assenza della Turchia al vertice e lo sguardo va all’Armenia. ndr.

Meloni: “L’Italia pronta a tutto ciò che è necessario per la prospettiva di due popoli, due Stati”

“Novità incoraggianti”, l’ha definito Meloni, ringraziando per questo al Sisi e tornando sul tema della “grande preoccupazione per gli ostaggi nelle mani di Hamas”, tra i quali ci sono anche cittadini italiani, e per i quali chiede il “rilascio immediato, a partire da donne, bambini e anziani”, insieme alla richiesta di far uscire da Gaza i soggetti fragili e i cittadini stranieri. “Bisogna fare l’impossibile – ha detto Meloni – per evitare una escalation di questa crisi e di perdere il controllo di quello che può accadere, perché le conseguenze sarebbero inimmaginabili”. “Il modo più serio per ottenere questo risultato – ha chiarito Meloni – è riprendere un’iniziativa politica per una soluzione strutturale della crisi sulla base della prospettiva dei due popoli, due Stati. Una soluzione che deve essere concreta e avere una tempistica definita”. “Il popolo palestinese ha diritto ad avere un nazione che si governa da sé, in libertà, accanto a uno Stato di Israele cui deve essere pienamente riconosciuto il diritto all’esistenza e alla sicurezza. Su questo – ha concluso il premier – l’Italia è pronta a fare tutto ciò che è necessario”.

5995.- Non solo Iran, ecco chi coccola Hamas

C’è un lungo elenco di Paesi che trasferiscono denaro nelle casse di Hamas: Qatar, Egitto, Algeria e Tunisia. In primis, ovviamente, c’è l’Iran. Conversazione con Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange.

Hamas

Da Startmag, di Marci Orioles, 18 Ottobre 2023

Una finestra di tempo di almeno un anno e mezzo è stata necessaria all’Iran per addestrare, attraverso i propri Guardiani della Rivoluzione ed i fedeli Hezbollah, Hamas alle tattiche militari impiegate il 7 ottobre per sferrare il micidiale colpo a Israele e uccidere 1.400 persone. Se non bastassero i missili fabbricati a Gaza con know-how iraniano, è questa la più vistosa firma degli ayatollah individuata da Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, che in questa intervista a Start Magazine offre un’anatomia di Hamas che passa anche attraverso l’analisi di chi e come lo finanzia e arma.

Che cos’è Hamas?

La definizione che ne fornisce la comunità internazionale è quella di una organizzazione politica fondamentalista sunnita, paramilitare e di stampo terroristico che ha come proprio obiettivo dichiarato quello di arrivare alla soluzione della cosiddetta questione palestinese tramite l’annientamento dello Stato di Israele e l’espulsione degli ebrei dalla terra che rivendica come terra esclusivamente palestinese. Il movimento ha uno slogan fondamentale che abbiamo purtroppo sentito risuonare nelle manifestazioni tenutesi in questi giorni in Occidente ed è “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Praticamente stiamo leggendo lo statuto di Hamas.

Esattamente. Se andiamo a vedere quel documento, carta canta, come si suol dire. Questo è Hamas, che non è sicuramente una organizzazione umanitaria o un movimento politico con il quale si può raggiungere qualche compromesso, come invece è stato possibile con la fazione di Arafat e oggi di Abu Mazen, Fatah.

Hamas si può definire anche un’organizzazione jihadista, che inneggia cioè alla guerra santa?

Hamas fa diretto riferimento al jihad. Le sue radici rimandano in particolare alla tradizione radicale della Fratellanza musulmana, il movimento fondato nel 1928 dall’egiziano Hassan al-Banna. C’è da dire che all’interno di Hamas convivono anime più o meno estreme, anche se l’organizzazione che abbiamo visto in azione il 7 ottobre, con il suo volto ferocissimo, è figlia di un’evoluzione che sembra aver cancellato quelle differenze.

Di quanti combattenti dispone Hamas?

Se parliamo delle Brigate Qassam, ossia dell’ala militare di Hamas, vi sono stime che le assegnano una forza compresa fra 30 e 40mila uomini. Ovviamente l’organizzazione nel suo complesso è molto più ampia.

Qual è il budget di Hamas?

Sebbene sia sempre difficile fare un calcolo preciso, il Dipartimento di Stato Usa nel 2020 aveva stimato che il budget di Hamas fosse nell’ordine di parecchie centinaia di milioni di dollari. Questi soldi però solo in parte vanno a finanziare operazioni militari. Ricordo infatti che Hamas fin dal 2006 amministra la striscia di Gaza e dunque eroga tutta una serie di servizi alla popolazione di quel territorio: denaro che va naturalmente al welfare, e serve anche a pagare le pensioni alle famiglie dei martiri. Uno studio non recentissimo ma certo attuale sull’economia di Hamas mise in luce come l’organizzazione fosse estremamente abile a barattare servizi in cambio di lealtà.

Chi è che sostiene finanziariamente Hamas?

C’è un lungo elenco di capitali che trasferiscono denaro nelle casse di Hamas: dai Paesi del Golfo Persico come il Qatar ad alcuni Stati del Nord Africa come l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia. Questi sono gli attori che finanziano direttamente Hamas anche ma non sempre alla luce del sole. Esistono poi altri rivoli di finanziamento che Hamas cattura, fondi che non sono direttamente indirizzati ad Hamas ma che entrano nelle sue casse con un gioco molto sofisticato. È il caso degli interventi umanitari che vengono poi dirottati nei forzieri del gruppo.

Anche i soldi dell’Ue vengono dirottati?

Non solo i soldi, anche i materiali che l‘Ue gli fornisce. Molti dei finanziamenti per progetti destinati ad alleviare la sofferenza del popolo palestinese vengono dirottati nelle casse di Hamas. Succede così che chi si illude di finanziare azioni umanitarie vede i suoi soldi passare ad altre entità e da queste ad Hamas in un gioco perverso di scatole cinesi. Vi fu il caso clamoroso di un acquedotto la cui costruzione fu finanziata dall’Ue: sbucarono poi dei filmati in cui uomini di Hamas si vantato di aver trasformato quei tubi in missili. Per paradosso, anche i soldi degli israeliani finiscono in questo meccanismo.

Chi invece arma Hamas?

L’Iran. Sappiamo che quel Paese, negli anni, ha effettuato massicci trasferimenti non solo di denaro ma anche di tecnologia indirizzata in particolare alla costruzione di un vasto arsenale di razzi molto avanzati. Questo l’Iran non solo non lo nasconde ma se ne vanta apertamente. E così fa Hamas: ricordo che l’anno scorso uno dei suoi leader si vantò di aver ricevuto circa 70 milioni di dollari in assistenza militare dall’Iran. Giusto per capirci, gli oltre 4mila razzi che sono piovuti su Israele il 7 ottobre sono stati fabbricati a Gaza ma con progetti che possono essere fatti risalire all’Iran. Ma l’impronta dell’Iran nell’attacco a Israele si può vedere da altri fattori, ad esempio dall’addestramento che i combattenti di Hamas hanno necessariamente ricevuto per preparare questo blitz, oppure dall’uso dei gliders e da altre tattiche adottate nella fase cinetica dell’attacco.

Quindi anche l’addestramento era iraniano?

Non è stato un addestramento diretto: l’Iran, con l’aiuto di Hezbollah, ha organizzato nei campi libanesi gestiti da consulenti tecnici del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Irgc) dei seminari tattici di addestramento per ufficiali delle brigate Qassam di Hamas che poi sono tornati a Gaza e lì hanno a loro volta addestrato gli operatori. Il tutto nel corso di una finestra di tempo di almeno un anno e mezzo per preparare il piano d’attacco.

5992.- La vittoria di Hamas

undefined

Una nota di Mario Donnini.

Netanyahu, Biden e i suoi fan politici europei, obtorto collo servili, sono la nostra rovina. Senza troppo indugiare sulla dietrologia e esasperare le accuse rivolte a chi ha lasciato covare o ha alimentato la radicalizzazione dei palestinesi, per poterla usare, dovremmo misurare tutti quei politici che, proni al presidente americano, non hanno saputo distinguere fra il lutto di Israele, il suo diritto alla vendetta e la sicurezza dei propri cittadini. Coerenti con l’ipocrisia, diciamo: “Pace ai morti”, a tutti quei morti. Il trionfo della falsità caratterizza questa epoca, ma nessuno che ancora possegga senso critico ha creduto alla “sorpresa” realizzata da Hamas sui servizi israeliani: Shabàk, o Shin Bet (l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele), Aman (intelligence militare) e al Mossad ( gestione della raccolta di intelligence all’estero); nemmeno dopo la patriottica autodenuncia del loro coordinatore. Senza contare l’allerta lanciato dall’Egitto una settimana prima.

Uno sguardo alle posizioni assunte dai governi nel quadro internazionale dimostra che il passaggio di testimone fra la guerra perduta dalla NATO in Ucraina (ma non dalle lobbies delle armi) e questa guerra in Medio Oriente vede la contrarietà e l’invito al dialogo in un consesso internazionale da parte della Cina, interessata alla stabilità della regione. Pechino denuncia la punizione collettiva dei palestinesi, ma questi non neghino di aver saputo delle migliaia di razzi apprestati da Hamas. Ankara si barcamena. Sopratutto, vediamo la pressione degli Stati Uniti sull’Iran, finanziatore di Hamas, schierato con la Russia in Ucraina, che, però, si chiama fuori da questo progrom. Molti quesiti attendono una risposta e non siamo in grado di certificare alcunché. Il principale, cui abbiamo accennato, è la sorpresa di Israele mentre tanti sapevano: l’Egitto, l’Iran, la Russia, la Siria e, chi dice, gli Stati Uniti e lo stesso Israele. Sarebbe comprensibile la volontà di farla finita una volta per tutte e prima che sia troppo tardi, costi quel che costi.

Per quanto ci interessa più da vicino, notiamo lo schieramento compatto dei paesi arabi africani, del Magreb e del Sahel, a fianco dei palestinesi. E non può essere diversamente.  Meloni: contraddizione o sudditanza? Da parte italiana, passato lo sgomento, l’enfasi e la posizione netta a favore di Israele, per conseguenza non con gli arabi, sembrano contraddire la politica estera del governo Meloni incentrata sul Nuovo Piano Mattei. Fra la gente, la paura del riacuirsi del terrorismo accompagna la certezza che siamo di fronte ad un’altra stagione di paura, a un altro freno per l’economia italiana, dopo la pandemia e la guerra alla Federazione Russa. Che Natale ci attende? Per certo, la via per la risoluzione di questo lungo conflitto non passa attraverso le vendette, ma attraverso il dialogo. Ci auguriamo la soddisfazione del diritto ad esistere di entrambi i popoli israeliano e palestinese. Guardiamo avanti.

© ANSA/EPA

© ANSA/EPA

Dal blog di Sabino Paciolla del 17 Ottobre 2023, che scrive: Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Ron Paul e pubblicato su Ron Paul Institute. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione. 

Attacco di Hamas A Israele -Foto-ANSA
Attacco di Hamas A Israele -Foto-ANSA

Coloro che hanno definito l’attacco di Hamas a Israele “l’11 settembre di Israele” sono stati più precisi di quanto non abbiano capito. Proprio come gli Stati Uniti hanno reagito all’11 settembre, realizzando il desiderio di Osama bin Laden di impantanarsi in guerre senza vincitori, la reazione di Israele all’attacco di Hamas realizza il probabile obiettivo di Hamas di radicalizzare un maggior numero di palestinesi. Il risultato dell’attacco di Hamas sarà quello di rafforzare gli elementi più estremi di entrambe le parti in conflitto.

Dato il forte sostegno a Israele da parte di entrambi i principali partiti politici, non sorprende che, dopo gli attacchi, molti politici si siano precipitati ai microfoni per proclamare il loro sostegno all’assistenza statunitense a Israele. Il Presidente Biden ha annunciato che gli Stati Uniti invieranno aiuti militari a Israele, mentre il Congresso sta elaborando una legge che prevede circa due miliardi di dollari di assistenza militare “di emergenza” a Israele. Anche la maggior parte del crescente numero di rappresentanti che si oppone agli aiuti militari all’Ucraina è favorevole a spendere “qualsiasi cosa sia necessaria” per difendere Israele. Ecco perché l’amministrazione Biden e alcuni membri del Congresso vogliono combinare gli aiuti a Israele e all’Ucraina in un unico pacchetto legislativo.

Spendere altri miliardi per sostenere le azioni militari in Medio Oriente e in Ucraina andrà a vantaggio del complesso militare-industriale. Tuttavia, danneggerà la maggior parte degli americani accelerando la crescita del debito pubblico di oltre 33.000 miliardi di dollari. Con l’aumento del debito, la Federal Reserve abbasserà i tassi di interesse e monetizzerà il debito. Questo porterà a un aumento dell’inflazione dei prezzi, combinato con la stagnazione economica e l’alta disoccupazione – in altre parole, la stagflazione.

Le preoccupazioni per il debito pubblico e per la sua monetizzazione da parte della Federal Reserve con denaro facile e bassi tassi di interesse porteranno a nuove sfide per lo status di valuta di riserva mondiale del dollaro. Anche l’aumento del risentimento per la politica estera iperinterventista degli Stati Uniti porterà a cambiamenti nello status di valuta di riserva del dollaro. L’Arabia Saudita potrebbe addirittura smettere di usare i dollari per il suo commercio internazionale di petrolio. La fine del petrodollaro sarebbe l’ultimo chiodo nella bara dello status di valuta di riserva mondiale del dollaro.

La fine dello status di valuta di riserva mondiale del dollaro significherebbe che il governo statunitense non potrebbe più gestire un impero all’estero e uno stato sociale autoritario in patria. La questione non è se l’impero americano finirà, ma quando e come. Dovrebbe finire deliberatamente, con il Congresso che inizia il processo di ripristino di un governo costituzionale limitato, ponendo fine a tutti gli aiuti esteri e riportando a casa le nostre truppe.

Quando Israele è stato criticato per aver bombardato un impianto nucleare iracheno che temeva potesse essere usato per produrre armi, ho difeso il diritto di Israele, in quanto Stato sovrano, di agire in quello che considerava il suo interesse di sicurezza nazionale. Sono ancora di questo parere. Credo che Israele trarrebbe beneficio se gli Stati Uniti ponessero fine a tutti gli aiuti esteri, poiché gran parte di essi va ai nemici di Israele. Gli aiuti esteri danno anche agli Stati Uniti una scusa per impegnarsi in altre forme di ingerenza. La fine della politica estera interventista degli Stati Uniti permetterebbe a israeliani e palestinesi di trovare una via per una pace giusta e duratura.

Ron Paul

Ron Paul è un politico statunitense di lunga data. Per quasi due decenni, Ron Paul è stato il rappresentante degli Stati Uniti per il 14° distretto congressuale del Texas. Ha attraversato le enormi tempeste dell’11 settembre e della guerra in Afghanistan, il PATRIOT Act, la guerra in Iraq, la “primavera araba”, le rivelazioni di Snowden e molto altro ancora. Ha lottato con tutto il suo potere per bloccare le violazioni delle nostre libertà civili da parte del governo americano e per impedire che il governo statunitense violasse la vita di altri all’estero.

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5965.- Israele: Algeria, Tunisia, Qatar… sostengono Hamas. La Francia in trappola

Dopo l’Ucraina, il Mediterraneo è in guerra. Non soltanto Israele. Europa e Stati Uniti hanno sopravvalutato Israele e la guerra in corso sarà senza limiti e senza frontiere.

Da Boulevard Voltaire, Marc Baudriller, direttore aggiunto, 9 ottobre 2023

©shutterstock-2097847231.

Sembrano amici della Francia, grandi amici, cari amici. Algeria, Tunisia, Libano, Qatar, Kuwait, Oman, accompagnati da Siria, Iran e Yemen, hanno immediatamente sostenuto l’attacco di Hamas contro Israele. Un assalto che ha provocato più di 800 vittime alla data del 9 ottobre (alle 16) e 2.500 feriti. Tutti questi paesi hanno espresso molto rapidamente “la loro totale e incondizionata solidarietà al popolo palestinese”. Alcuni, come il Qatar, sembrano cambiare posizione.

Questa non è una sorpresa quando si tratta dell’Algeria. “L’Algeria ha sempre sostenuto la causa palestinese e il movimento palestinese”, ricorda Xavier Driencourt, ex ambasciatore francese in Algeria della BV. Non ha mai riconosciuto Israele, preferendo parlare regolarmente dell’entità sionista”.

La causa unificante palestinese

Questa posizione non ha impedito al presidente francese di compiere una sciropposa visita diplomatica in Algeria nell’agosto 2022, seguita in ottobre da una visita del suo primo ministro Élisabeth Borne, accompagnato per l’occasione da un’imponente delegazione di ministri e imprenditori. La posizione di lunga data dell’Algeria nei confronti di Israele non ha impedito allora i voli lirici e i proclami di amicizia dei macronie tornati dall’Algeria a mani vuote su tutte le questioni, a cominciare da quella dell’OQTF. In Nord Africa, anche la Tunisia non nasconde il suo sostegno ad Hamas durante gli eventi di questo fine settimana. Il Marocco, che ha firmato separatamente gli accordi di Abraham nel dicembre 2020 sotto l’egida degli Stati Uniti di Trump, non segue l’Algeria in questo conflitto. Ma gli accordi statali sono una cosa, l’opinione pubblica è un’altra. E “la causa palestinese è un elemento unificante in tutti questi paesi”, ricorda Xavier Driencourt. Come potrebbero alcuni dei loro connazionali in Francia non essere sensibili a questo?

Tanto più che la Francia dà il primo posto ad alcuni stati più che ambigui riguardo all’islamismo. Sostenendo Hamas, il Qatar ha da decenni un tavolo aperto in Francia. I suoi investimenti scorrono come latte e miele in Francia, con la sincera benedizione di tutti i governi. Stessa posizione, quindi, del Kuwait, dell’Oman o del Libano.

Quanti cittadini francesi partiranno per sostenere Hamas?

La Francia macroniana finora non ha utilizzato l’argomentazione morale contro i sostenitori di Hamas. Forse a causa della nostra politica di immigrazione cosiddetta “generosa”, cioè cieca, sorda e assente? Milioni di musulmani vivono in Francia con, per alcuni di loro, un odio verso gli ebrei vicino a quello che motiva i combattenti di Hamas. Parliamo di volontari francesi partiti per combattere al fianco di Israele, ma quanti lasceranno la Francia per sostenere i palestinesi? I Fratelli Musulmani, vicini ad Hamas, sono potenti nella terra delle cattedrali. Che ci piaccia o no, il conflitto israelo-palestinese tocca anche la nostra patria: Gérald Darmanin, in una conferenza stampa questo lunedì pomeriggio, 9 ottobre, ha denunciato una ventina di atti antisemiti dall’inizio delle ostilità. Per questo motivo “dieci persone sono state arrestate” in diversi dipartimenti, secondo il ministro dell’Interno. E non solo i nativi dell’Aveyron: due persone di nazionalità straniera nel sud della Francia saranno soggette a espulsione immediata. La Francia, che secondo il presidente del concistoro francese Elie Korchia ospita la terza comunità ebraica più grande del mondo, è costretta a mettere in atto misure di protezione immediate. “L’atmosfera è infiammabile”, osserva Elie Korchia. Darmanin promette: “La polizia sarà molto presente nei 400 luoghi di culto, scuole, aziende, asili nido”. La sorveglianza aumenta. Lo Stato ha ricevuto 700 segnalazioni sulla piattaforma Pharos, 44 saranno oggetto di azioni legali.

Divieto dei Fratelli Musulmani

Ancora una volta, come durante le rivolte, come con la tragedia di Lola e molte altre, la Francia si trova ad affrontare le conseguenze della sua follia migratoria. In questo caso importa i conflitti del Medio Oriente, qui alimentati da un’estrema sinistra cieca e clientelare. Éric Zemmour ha fatto il punto della sfida, chiedendo in un messaggio su X “che i paesi che sostengono il jihad smettano di beneficiare dei vantaggi sul suolo francese”. Chiede “la messa al bando dei Fratelli Musulmani da cui Hamas è emerso e lo scioglimento di tutte le associazioni ad essi collegate”, chiedendo infine “l’espulsione dei sostenitori stranieri di Hamas perché sostenitori del terrorismo, così come di tutti i gruppi S stranieri o con doppia nazionalità .

La Francia ha accolto sul suo territorio milioni di cittadini provenienti da paesi ufficialmente e radicalmente ostili a Israele mentre il paese era inebriato dalla lotta anti-Le Pen. Siamo intrappolati.

5620.- Cosa porta Il ritorno della Siria alla Lega Araba, spiegato bene

Parliamo di Lega Araba, Siria, quindi, vengono in campo l’Islam ortodosso, l’Iran, il Libano – da sempre considerato dall’Iran come il prolungamento naturale della Siria di Assad, con gli Hezbollah in Siria, in Libano e con l’Iran dietro gli Hezbollah. L’Islam ortodosso ha grande memoria e, perciò, è lecito pensare che il ritorno della Siria alla Lega Araba sia legato al riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran, mediato dalla Cina. Circa dieci anni fa, dopo l’assassinio del presidente libanese Hariri, forse ad opera di Hezbollah, la leadership sunnita del Golfo, il principe saudita Abdullah, decretò la Fatwa per Assad padre. Oggi, Arabia Saudita e Qatar dialogano con il leader sciita Iran e, attraverso la Lega Araba, nuovamente con la Siria. Alle spalle di questo mondo arabo c’è la Cina, con la sua Via della Seta, il Libano, i Palestinesi, c’è il Mediterraneo e, perché no? il nostro Piano Mattei. C’è, poi sempre, la grande eminenza grigia degli USA e c’è la Russia. Restiamo in grande attesa.

 Da Maurizio Blondet  11 Maggio 2023. Dell’ambasciatore MK Bhadrakumar

Il Cairo, 7 maggio 2023, riunione di Emergenza dei ministri degli Esteri della Lega Araba per la riammissione della Siria

Quando da un giorno all’altro una semplice sottotrama assume un’abitazione e un nome, diventa più affascinante della stessa trama principale. Il ritorno della Siria alla Lega Araba dopo la sua decennale esclusione può essere considerato un sottotrama del riavvicinamento mediato dalla Cina tra Arabia Saudita e Iran. D’altra parte, la Cina e l’Iran non sono di per sé parte del processo.

Il ritorno della Siria alla Lega Araba è visto come un’iniziativa araba, ma è essenzialmente un progetto guidato da Riyadh in stretta consultazione e coordinamento con Damasco, ignorando qualche mormorio da parte di un gruppo di Stati arabi e palesemente sfidando la tagliente opposizione di Washington.

Sullo sfondo della lotta epocale per un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal multipolarismo e dalla resistenza all’egemonia occidentale, la Russia e la Cina hanno silenziosamente incoraggiato Riyad a muoversi in tale direzione.

Una cosa avvincente della decisione presa dai ministri degli Esteri delle sette nazioni della Lega Araba all’incontro di domenica al Cairo è il suo buon tempismo. Perché questo è l’80° anniversario della costituzione del partito Ba’ath a Damasco nel 1943, che sposava un’ideologia di interessi nazionalisti arabi e antimperialisti che sono recentemente riapparsi nella geopolitica dell’Asia occidentale.

La Siria ha una tradizione di autonomia strategica. Negli ultimi dieci anni, si è preoccupato di combattere il progetto di cambio di regime sponsorizzato dagli Stati Uniti, con l’aiuto di Russia e Iran. Mentre gira l’angolo e si sta stabilizzando, l’autonomia strategica della Siria sarà sempre più evidente. Questa è una cosa.

Tuttavia, le relazioni strategiche con la Russia e l’Iran continueranno a rimanere speciali e su questo punto non dovrebbero esserci malintesi. Ma la Siria è capace di ingegnosità e acume diplomatico per crearsi uno spazio di manovra, poiché la geopolitica passa in secondo piano e Assad dà la priorità alla stabilizzazione e alla ricostruzione dell’economia, che richiede la cooperazione regionale.

La recente visita del presidente iraniano Ebrahim Raisi in Siria testimonia la “diplomazia morbida” di Teheran, trasudando pragmatismo che da un lato ha fatto capire che nonostante il recente riavvicinamento tra Damasco e i paesi arabi, i legami siriano-iraniani sono ancora forti e hanno anche evidenziato la ruolo nella resistenza a Israele – con Raisi che ha tenuto un incontro a Damasco con alti funzionari palestinesi, compresi i leader di Hamas e della Jihad islamica – mentre, d’altra parte, i negoziati con la leadership siriana riguardavano in gran parte la cooperazione economica.

Raisi ha affermato che l’Iran è pronto a prendere parte attiva alla ricostruzione postbellica della Siria. L’Iran deve affrontare la concorrenza dei paesi del Golfo che hanno tasche profonde. Nel frattempo, all’ordine del giorno c’è anche il riscaldamento delle relazioni tra Siria e Turchia, che sicuramente porterà a un aumento degli scambi e stimolerà il flusso di investimenti.

Per mettere le cose in prospettiva, le esportazioni iraniane verso la Siria attualmente ammontano a una misera somma di 243 milioni di dollari. Tuttavia, dall’inizio del conflitto in Siria, l’Iran è stato uno sponsor chiave delle autorità siriane. Nel gennaio 2013 Teheran ha aperto la prima linea di credito di 1 miliardo di dollari per Damasco, soggetta a sanzioni internazionali, grazie alla quale il governo ha potuto pagare il cibo importato. Questo è stato seguito da un prestito di $ 3,6 miliardi per l’acquisto di prodotti petroliferi. Il terzo prestito di 1 miliardo di dollari è stato prorogato nel 2015. Teheran ha anche stanziato fondi a Damasco per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, il che ha contribuito a preservare le istituzioni statali. Nel 2012 è entrato in vigore un accordo di libero scambio tra i paesi. L’Iran sta anche spendendo miliardi per finanziare le milizie sciite in Siria e fornire loro armi. Naturalmente,

La Siria sta valutando, giustamente, che la normalizzazione con i vicini arabi e la Turchia sarà un punto di svolta. Ma, mentre tutti parlano della “riammissione nella famiglia araba” della Siria come di una concessione, Damasco ha reagito alla decisione della Lega Araba in modo misurato.

La dichiarazione del ministero degli Esteri siriano ha affermato domenica: “La Siria ha seguito le tendenze e le interazioni positive che si stanno attualmente verificando nella regione araba e ritiene che queste avvantaggino tutti i paesi arabi e favoriscano la stabilità, la sicurezza e il benessere dei loro popoli .

“La Siria ha accolto con interesse la decisione emessa dalla riunione del Consiglio della Lega degli Stati arabi”. La dichiarazione ha proseguito sottolineando l’importanza del dialogo e dell’azione congiunta per affrontare le sfide che devono affrontare i paesi arabi. Ha ricordato che la Siria è un membro fondatore della Lega araba e ha sempre avuto una posizione forte a favore del rafforzamento dell’azione araba congiunta.

Cosa più importante, la dichiarazione concludeva riaffermando che la fase successiva richiede “un approccio arabo efficace e costruttivo a livello bilaterale e collettivo sulla base del dialogo, del rispetto reciproco e degli interessi comuni della nazione araba”.

A quanto pare, la stessa dichiarazione della Lega Araba era una “dichiarazione di consenso” redatta con grande sensibilità dall’Arabia Saudita.

In un’intervista con Al-Mayadeen, Raisi ha detto prima della sua partenza per Damasco che “la Siria è sempre stata sull’asse della resistenza… Sosteniamo inequivocabilmente tutti i fronti dell’asse della resistenza, e la mia visita in Siria rientra nel quadro di questa sostegno, e stiamo lavorando per rafforzare il fronte della resistenza, e non esiteremo in questo”. In effetti, l’arrivo di Raisi in Siria ha coinciso con l’aumento degli attacchi israeliani da parte di Israele contro le strutture militari iraniane, compreso l’aeroporto di Aleppo.

Senza dubbio, l’Iran rimane il principale alleato della Siria e l’influenza iraniana a Damasco è ancora forte. L’Iran vede la Siria come il suo territorio strategico attraverso il quale Teheran può stabilire legami con il Libano e affrontare Israele.

Ciò che funziona a vantaggio della Siria qui è che la distensione saudita-iraniana si basa su una visione comune a Riyadh e Teheran secondo cui devono coesistere in una forma o nell’altra, dal momento che la loro inimicizia e rivalità regionale si è rivelata un “perdere-perdere”. proposta che non ha migliorato la loro posizione regionale. Basti dire che il loro interesse nazionale derivante dal loro riavvicinamento prevale sulle passate rivalità. La Siria sarà un banco di prova in cui le vere intenzioni e la condotta degli altri saranno oggetto di un attento esame.

La parte buona è che i sauditi hanno concluso che il presidente Assad è saldamente in sella, avendo resistito alla guerra più devastante dalla seconda guerra mondiale, e ricucire le relazioni con Damasco può essere una “vittoria” per Riyadh.

Detto questo, la Siria è un cardine strategico in cui Riyadh dovrà bilanciare i suoi legami strategici con gli Stati Uniti e i suoi taciti legami con Israele. Ma poi, il nuovo calcolo strategico dell’Arabia Saudita include anche Cina e Russia. Quando si tratta della Siria, la Russia è un punto fermo per Assad, mentre la Cina è sempre stata dalla parte giusta della storia.

L’amministrazione Biden è spinta alla frenesia dai venti di cambiamento che spazzano la regione: la morte definitiva dell’agenda neocon della primavera araba in Siria; l’ondata di nazionalismo arabo e la crescente resistenza all’egemonia occidentale che creano nuove esigenze di panarabismo; il fascino nascosto del multipolarismo; l’ascesa della Cina; la crisi esistenziale in Israele; la dialettica della tradizione e della modernità negli stati regionali tra le aspirazioni delle società giovanili e così via. Paradossalmente, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e Assad oggi avrebbero interessi comuni su molti di questi fronti.

Biden, che è come una balena spiaggiata nel panorama politico dell’Asia occidentale, ha incaricato il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan di precipitarsi in Arabia Saudita , tenendo le mani delle sue controparti indiane ed emiratine per compagnia per salvare la faccia e salvare il naufragio della regione degli Stati Uniti strategie!

La saggezza sta nel fatto che Washington usi i sauditi (e gli emiratini e gli indiani) per aprire una linea con Damasco. Tuttavia, Assad porrà a Washington la stessa condizione non negoziabile per la normalizzazione che ha insistito con la Turchia: cessazione dell’occupazione statunitense. Al di là di ciò c’è, ovviamente, l’annessione israeliana delle alture del Golan…