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6200.- L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mentre le mani si tendono a sugellare i patti per il futuro fra Italia e Africa le politiche di Washington e di Londra sembra che alimentino le divisioni e, infatti, come non notare le assenze a Roma del Mali, del Niger, del Burkina Faso, del Sudan e della Mauritania e, addirittura, della semibritannica Nigeria, che, solo ieri, faceva proseliti contro la rivolta filo russa nel Niger e non avrà certo cambiato idea. Sappiamo quanto credito abbia concesso Giorgia Meloni a Rishi Sunak e alla sua associazione e dovremo capire quanto la Gran Bretagna sarà a fianco dell’Italia in questo progetto mondiale. Dovremo capire se gli Stati Uniti useranno l’Italia e l’Europa verso l’Africa e contro Russia e Cina per rinsaldare la loro leadership occidentale, ma c’è ancora un Occidente e, in Occidente, c’é ancora un leader mondiale per tutti ? E, poi, di quali Stati Uniti stiamo parlando? É mai possibile avere per leader uno Stato a rischio di secessione? E, infine, saremmo insieme a un leader o sotto un padrone. Il South Stream 2 risponderebbe per noi. Ma se dovessimo dare una collocazione alla Federazione Russa, fra Europa e Asia diremmo: Europa! L’Italia e l’Europa troveranno sempre la Russia sul loro cammino: un fratello tradito o un competitor?

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 30/01/2024 – 

L’addio all’Ecowas di tre giunte filorusse in Africa interessa anche l’Italia. Ecco perché

Mali, Niger e Burkina Faso annunciano l’uscita dall’Ecowas accusando l’organizzazione di essere al servizio dell’Occidente. È anche contro le narrazioni di queste giunte golpiste e populiste aiutate dalla Russia che si muovono progetti di cooperazione come quello Italia-Africa. L‘auto esclusione potrebbe peggiorare le condizioni economiche di quei Paesi: “Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”, spiega Willeme (Clingendael Institute)

L’annuncio di ieri da parte dei tre Paesi dell’appena costituita Alliance des Etats du Sahel — Mali, Niger, Burkina Faso, tre giunte golpiste in parte legittimate dalla popolazione anche come effetto delle attività ibride russe — “non è sorprendente, data la tensione in corso con il blocco regionale Ecowas/Cedeao”, spiega una fonte diplomatica europea che segue la regione del Sahel. “Tuttavia solleva diverse incertezze per l’intera regione e non solo, e forse non è un caso che arrivi contemporaneamente allo svolgimento della Conferenza Italia-Africa” — che con la presentazione del cosiddetto “Piano Mattei” intende lanciare una nuova visione strategica per la cooperazione con l’Africa.

Non si sa ancora come e quando quel “ritiro immediato”, ma ancora non formalizzato stando all’Ecowas (acronimo inglese di Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale), si tradurrà concretamente in uscita formale — che richiederebbe comunque un anno per entrare in vigore. Fatto sta che Bamako, Ouagadougou e Niamey spingono una narrazione perfettamente in linea con quella diffusa sin da subito dalle rispettive giunte golpiste, che negli ultimi tre anni hanno conquistato il potere nei vari Paesi sull’onda di una stagione particolarmente travagliata, sfruttata anche per attività di influenza strategica da attori nemici dell’Occidente.

Come la Russia, che cerca dossier e ambiti in cui capitalizzare successi nella competizione globale. Mosca ha da sempre sfruttato la situazione, soffiando le insoddisfazioni popolari a proprio vantaggio, penetrando — prima con la Wagner adesso con il neonato Africa Corps — le forze di sicurezza dei golpisti attraverso forme di assistenza che si sono trasformate in campagne ibride. Le unità russe fanno addestramento per militari e polizia locale, ma nel frattempo diffondono narrazione anti-occidentale e si incuneano nel tessuto economico (e sociale).

L’annuncio dei tre Paesi segue una staffetta diplomatica con rappresentanti di Russia, Cina e poi Stati Uniti che hanno viaggiato in Africa e mentre le massime autorità europee erano ospiti a Roma per parlare di nuove relazioni col continente in un “vertice” tra capi di Stato e di governo (espressione che ha valore non solo simbolico-diplomatico per la conferenza). Sullo sfondo si delineano — come già successo con i vari golpe regionali — i contorni della competizione tra potenze. Mentre la ricerca di un’autarchia politica, sicuritaria ed eventualmente economica caratterizza sia l’ambito golpista maliano che nigerino e burkinabé (i golpe ci sono stati nel 2020 in Mali, nel 2022 in Burkina Faso e nel 2023 in Niger).

Anche su questo si basa parte del successo narrativo dei golpisti, che incolpano l’Occidente, gli sfruttamenti coloniali passati e l’inefficacia nel fornire assistenza nel presente, della pessima situazione economica e del divampare dell’insorgenza jihadista sui propri territori. Una retorica emersa anche, in modo più moderato e controllato, in alcuni interventi degli invitati alla conferenza organizzata ieri al Senato — per esempio nelle parole del presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki.

Emergono interrogativi sempre più complessi per l’Ecowas, che, nonostante ultimatum, minacce di interventi militari e sanzioni, non ha ottenuto risultati concreti nelle negoziazioni con le giunte militari. Le quali invece accusano l’organizzazione di agire sotto l’influenza di potenze straniere (occidentali, chiaramente, e il contestassimo uso delle sanzioni ne sarebbe un marker). Sfruttando quel terreno narrativo fertile, pensano però in primo luogo ai propri interessi di mantenimento del potere.

Ecowas, dall’altra parte, si impegna a trovare una “soluzione negoziata all’impasse politica”, sottolinea le complessità burocratiche dell’uscita (che sono sintomo anche della complesse connessioni che l’organizzazione ha creato sin dalla fondazione nel 1975), ma si trova davanti a una sfida senza precedenti — e che potrebbe crearne uno pericoloso.

Diversi cittadini sono scesi in strada in quei tre Paesi per festeggiare l’Ecowas, visto anche altrove come un club esclusivo che preserva gli interessi delle leadership a discapito delle collettività. L’Alleanza degli Stati del Sahel, che le giunte hanno creato a novembre, sta cercando spazi nel contesto regionale per legittimare i governi militari che la compongono e per iniziare deve essere indipendente dall’Ecowas: è una scelta populista che potrebbe portare frutti.

Tuttavia ritirarsi dal blocco in questo modo “è senza precedenti”, spiega un osservatore regionale e visto come “un importante cambiamento”, perché “tutto il lavoro che è stato messo nella costruzione di un meccanismo di sicurezza collettiva si basa sui protocolli che postulano che la democrazia, il buon governo e lo stato di diritto saranno la base per quella sicurezza e per la pace”.

È un problema in più per l’Europa — che nel Sahel ha i suoi confini virtuali — e per l’Italia, che dell’Europa è avamposto esposto a quella regione? “L’Ue è uno dei principali partner e finanziatori dell’Ecowas e l’uscita di Mali, Burkina Faso e Niger ridurrà probabilmente lo spazio di manovra dell’Europa in questi tre Paesi”, risponde Laurens Willeme, esperto di Sahel del Clingendael Institute.

“Tutti e tre i Paesi hanno già abbandonato alcuni accordi bilaterali con l’Ue e con i singoli Stati membri, ma sono rimasti legati agli accordi stipulati dall’Ecowas. Con l’uscita dei tre, questi accordi non saranno più applicabili. Questo potrebbe lasciare spazio ad altri attori internazionali, come Russia, Cina e Turchia, che hanno già aumentato la loro presenza negli ultimi anni”.

Per stare su un tema complesso caro al governo italiano, c’è la possibilità di un aumento della migrazione verso l’Europa? “Certamente, soprattutto se la situazione economica dei tre Paesi si deteriora ulteriormente, cosa non improbabile, considerando che l’Ecowas facilita la libera circolazione di merci e persone. La mancanza di accesso ai porti marittimi diventerà inoltre una sfida economica considerevole per i tre Stati senza sbocco sul mare. Ciò comprometterebbe uno dei principali pilastri del Piano Mattei, ovvero la riduzione della migrazione”.

6074.- I dilemmi europei nel Sahel

Dilemmi anche italiani perché la solidarietà attiva che ispira il Nuovo Piano Mattei deve caratterizzare iniziative di entrambi gli imprenditori europei e africani e trovare nell’Unione europea un garante; come dire che l’Italia, da sola, può ben poco. Era scontato che gli interessi che gravitano nel Sahel avrebbero reso il cammino irto di ostacoli. Africa ed Europa sono legate a un destino comune e le missioni francesi e quelle ONU non sembrano gradite alle giunte militari che hanno preso il potere. Ci auguriamo che la diplomazia e la politica italiane sappiano trarre profitto da queste difficoltà e che intensifichino i loro sforzi con progetti concreti.

Degage France terroriste vampire

Degage l’Armèe francaise du sol malien

Da Affari Internazionali, di Bernardo Venturi, 13 Novembre 2023

Modibo Keita International è l’aeroporto di Bamako, capitale del Mali. É adiacente all’Air Base 101, usata dalla Mali Air Force, con alcuni Mig-21F.

Gli aeroporti di Bamako e di Niamey sono affollati di soldati nelle ultime settimane. La Missione di Stabilizzazione Integrata Multidimensionale delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) sta lasciando il paese, con migliaia di effettivi e centinaia di mezzi in movimento, non senza rischi e una logistica complessa. Si sono infatti verificati già sei incidenti da quando le forze di pace hanno lasciato la loro base nel nord di Kidali il 31 ottobre per compiere il viaggio stimato di 350 km verso Gao, per un totale di 39 feriti.

Un ultimo tributo di sangue della missione: con 310 morti in 10 anni è la seconda più letale della storia, seconda sola a Unifil in Libano (332 caduti). Il ritiro della missione era stato chiesto dalla giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goïta, al potere dall’agosto 2020 dopo aver deposto con un golpe il presidente Ibrahim Boubacar Keïta.

La giunta miliare in Mali, dopo aver messo alla porta diversi diplomatici e contingenti militari europei, in primis francesi, ha quindi rinunciato anche a Minusma, benché non sembra in grado di sostituirle adeguatamente. La missione dell’Onu sta lasciando 12 basi nel centro e nel nord del paese, oltre a quella principale di Bamako. La poca collaborazione della giunta militare e il peggioramento delle condizioni di sicurezza hanno accelerato il ritiro e non stanno però permettendo un regolare passaggio di consegne alla autorità maliane.

In questo spazio vacante, i gruppi dell’Accordo Permanente Strategico nel nord del Mali – in predominanza Tuareg– ha dichiarato di avere occupato una base nella regione di Kidali subito dopo l’evacuazione del 31 ottobre scorso. Nel rapporto con i gruppi dell’Azawad rimane infatti un altro nodo critico. Il rapporto con la giunta militare si è progressivamente incrinatoarrivando a scontri armati diretti e mettendo ulteriormente in crisi l’accordo di pace di Algeri del 2015 che aveva messo fine alla guerra con il nord separatista.

La gestione dello spazio e delle basi nel nord del Mali ha però radici più profonde. Dopo l’intervento a fianco del governo di Bamako dalla fine del 2012 con l’Operazione Serval, la Francia non ha mai di fatto passato il testimone alle Fama, l’esercito maliano, tenendo per sé spazi cruciali. Questo approccio, così come altri post-coloniali in ambito politico, sociale e culturale, hanno favorito un sentimento antifrancese e antioccidentale sui quali negli ultimi anni la propaganda russa ha avuto gioco facile a giocare un ruolo incendiario.

Cercasi partner affidabile

Dopo anni passati a rimarcare la priorità del Sahel e a cercare partner credibili, l’Ue e gli stati europei non sanno letteralmente cosa fare. Fino al colpo di stato in Mali del 2020, Bruxelles aveva individuato nel Bamako il partner centrale per la regione. Ma i due colpi di stato nel paese, e soprattutto l’arrivo dei mercenari del Gruppo Wagner, hanno creato un notevole imbarazzo diplomatico, in particolare per la missione di training militare EUTM: restare con il rischio di incrociare i russi o lasciare il paese? Dopo vari tentennamenti e con il Burkina Faso segnato dai due coup d’état nel 2022 e da una crisi istituzionale e di sicurezza fuori controllo, l’Ue ha volto lo sguardo verso il Niger, indicando il presidente nigerino Mohammed Bazoum come il nuovo partner affidabile. Ancora una volta, un colpo di stato sta stravolgendo i piani e Bazoum si trova in stato di fermo dal 26 luglio scorso. Mentre i canali umanitari e di cooperazione allo sviluppo rimangono attivi con il Sahel, la postura politica e diplomatica sembra inseguire più vie d’uscita che strategie.

Riflessione strategica

Intanto Joseph Borrell nelle settimane scorse ha ammesso che i 600 milioni di euro investiti nell’ultimo decennio nelle missioni civili e militari nel Sahel non hanno portato i risultati sperati. Mentre l’Alto Rappresentante non nasconde che anche la missione militare in Niger ha le ore contate, prima di volgere lo sguardo al prossimo “partner fidato” (Mauritania?), servirà una riflessione più approfondita sul rapporto tra Europa e Sahel, a partire anche dagli errori commenti, come quello di dare priorità a un approccio securitario che ha messo in secondo piano quello integrato. Intanto, però, nonostante non venga detto ufficialmente, difficile togliersi l’idea che il Sahel stia diventando una regione sempre meno prioritaria.

Foto di copertina EPA/STR

Cosa intendiamo? In Mali, un valido esempio di quella che chiamiamo soplidarietà attiva sono le operazioni di magazzinaggio su larga scala della logistica Bolloré che possono fornire un servizio di movimentazione e magazzinaggio per conto di fornitori leader a livello mondiale di informazioni. Ma la Francia non è stata soltanto un vampiro. Bolloré è un impresa francese, una holding fondata nel 1822 con sede a Puteaux nella periferia ovest di Parigi, in Francia. Nata come industria cartaria, ha espanso le sue operazioni a molti altri settori, come il trasporto e la logistica, le distribuzione energetica, i film plastici, la costruzione di automobili e i mass media. Gli imprenditori sono la nostra Wagner.

Rémi Ayikoué Amavi è l’amministratore delegato di Bolloré Transport & Logistics Mali dall’agosto 2021.

Di nazionalità beninese, Rémi Ayikoué Amavi è entrato in Bolloré Transport & Logistics nel 2006 presso la filiale della società nella Guinea Equatoriale, dove era responsabile dello sviluppo commerciale delle attività logistiche. Diventa poi Amministratore Delegato nel 2017.

Rémi Ayikoué Amavi è laureato in Management e Strategia aziendale presso l’ENACO-Lille. Utilizzerà la sua esperienza per sviluppare attività logistiche in Mali. In particolare, si avvarrà della rete di Bolloré Transport & Logistics in 109 paesi e dell’esperienza dei suoi dipendenti per migliorare i servizi al Paese.

Circa la Bolloré Transport & Logistics Mali

Bolloré Transport & Logistics Mali è l’operatore leader nei trasporti, logistica e movimentazione. L’azienda, presente anche in Italia, impiega ora più di 200 persone in Mali, in particolare attraverso le sue agenzie a Bamako, Kayes, Sikasso e Kati, e gestisce anche i porti asciutti di Soterko, Faladié e Kali. Bolloré Transport & Logistics Mali attua una politica sociale a beneficio della popolazione maliana, che si riflette ogni anno nel sostegno di numerose azioni di solidarietà nei settori dell’istruzione e della sanità.

www.bollore-transport-logistics.com

5969.- Chi finanzia Hamas? La rete che porta denaro all’organizzazione

Da Redazione Adnkronos, 10 ottobre 2023

Le risorse che arrivano dagli Stati complici, Iran e Qatar su tutti. Le somme sottratte agli aiuti umanitari 

Le bandiere di Hamas

La celebre indicazione che riceve Bob Woodward dalla sua fonte ‘Gola profonda’ nell’inchiesta sullo scandalo Watergate, ‘follow the money’, vale anche per Hamas e il finanziamento del terrorismo palestinese. Con un problema fondamentale in più: seguire il flusso di denaro che finisce nelle casse dell’organizzazione militare che ha attaccato Israele è piuttosto complicato per una serie di ragioni.

L’intreccio degli interessi in Medio Oriente, gli Stati complici

La prima è che la rete che finanzia Hamas è fatta da maglie diverse. Ci sono dietro gli Stati che hanno interesse a impedire qualsiasi percorso di pace in Medio Oriente, Iran e Qatar su tutti, e altri Stati che nel corso del tempo hanno contribuito a vario titolo, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Algeria, Tunisia, tutti in chiave anti israeliana. Ci sono potenze che negano il proprio coinvolgimento, come Russia e Cina, che hanno però aperto i loro rubinetti, anche in via indiretta, in chiave anti americana. Su questi fronti si intrecciano le accuse israeliane, le ricostruzioni di parte filo palestinese e i pochi dati ufficiali a disposizione, in un contesto in cui il flusso del denaro, milioni di dollari ogni anno, è direttamente proporzionale al groviglio di interessi che si muovono intorno alla polveriera mediorientale.

Gli aiuti umanitari sottratti alla popolazione palestinese

C’è poi un tema ancora più complesso da trattare, che riguarda il flusso di denaro sotto forma di aiuti umanitari. Si tratta di risorse fondamentali per la sopravvivenza del popolo palestinese, a Gaza e nei territori occupati. In assenza di uno Stato autonomo, con un’economia disastrata e con la costante pressione coloniale israeliana, assicurano la spesa sociale e sanitaria, i salari e le pensioni del personale amministrativo, gli assegni sociali alla popolazione.

Arrivano soprattutto dall’Onu, dall’Unione Europea, dalla Norvegia, dal Giappone, dall’Australia. Ci sono però anche i finanziamenti che passano per diverse Ong internazionali e che, secondo le accuse israeliane, vengono sottratti da Hamas alla loro destinazione formale, i progetti umanitari. Che una parte del flusso di denaro che arriva in Palestina per scopi umanitari possa contribuire a finanziare Hamas è una probabilità concreta ma è stato da sempre considerato un rischio calcolato, considerando costi e benefici.

I soldi della Ue che arrivano in Palestina, la trasparenza e le polemiche 

I fondi europei sono diretti per la quasi totalità all’Autorità nazionale palestinese (Anp), che controlla la Cisgiordania e che a Gaza ha perso la competizione con Hamas. Andando a consultare la pagina sulla trasparenza finanziaria del sito della Commissione Ue, e cercando la destinazione Palestina, si ottiene una mappa dettagliata.

Dal 2014 al 2021 si contano 14 programmi e 223 beneficiari, con l’Anp che incassa 1292,83 milioni di euro su un totale di 1587,47 milioni. Le polemiche di queste ore riguardano l’opportunità di questi finanziamenti e l’accusa esplicita di chi la contesta è che Hamas possa essere indirettamente finanziato anche dall’Unione europea. 

“Non tutti i palestinesi sono terroristi”, le parole di Borrell

Anche quando si parla dei flussi di denaro e del finanziamento di Hamas, non si può non tenere conto di un fattore fondamentale. L’organizzazione terroristica non coincide né con la popolazione palestinese né con la popolazione di Gaza, che di fatto è ostaggio dei fondamentalisti. In questo senso si inquadrano le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza, Josep Borrell: “Dobbiamo distinguere Hamas e l’Autortità Nazionale Palestinese. La prima è un’organizzazione terroristica, la seconda un partner. Non tutti i palestinesi sono terroristi. C’è stata una netta maggioranza, con due o tre eccezioni, secondo la quale il sostegno all’Anp deve continuare e i pagamenti non vanno interrotti”. (Di Fabio Insenga)

5653.- La Wagner e l’oro del Sudan

Sudan, violata di nuovo la tregua: raid aerei e scontri nella notte a Karthum

AFP. Il fumo si leva in lontananza a Khartoum

In Sudan, l’ennesima tregua, forse la dodicesima in un mese, è stata violata e si spara ancora. I raid aerei e gli scontri, anche nella notte, impediscono l’ingresso di civili e aiuti umanitari a Karthum. Il ruolo della brigata Wagner” nella guerra e nel contrabbando. Torniamo in Sudan e sulla brigata Wagner perché parliamo di una guerra ai confini del Mediterraneo, della stabilità dell’Africa Orientale e del saccheggio senza fine dell’Africa. Mentre, Mosca affronta le sanzioni contrabbandando l’oro dei sudanesi, in questo momento “circa 15 milioni di persone vivono con meno di 2,15 dollari”, in pratica 1,96 euro al giorno.

L’oro sudanese motore dell’economia e del saccheggio

20 Aprile 2023

oro

di Tommaso Meo

 Il Sudan è il decimo maggiore produttore al mondo di oro e il terzo nel continente africano, dopo Ghana e Sudafrica, con cifre in aumento. All’inizio di quest’anno la Sudanese Mineral Resources Company, l’organismo statale che supervisiona il settore minerario del Paese, ha annunciato l’estrazione di 18 tonnellate e 637 chilogrammi di oro nel 2022. La società l’ha descritta come la più grande produzione di oro nella storia del settore minerario in Sudan. La produttività è aumentata esattamente di una tonnellata e 611 chilogrammi, rispetto alla produzione più alta dell’ultimo periodo, raggiunta nel 2019.

Un rapporto della Banca centrale del Sudan sul commercio estero afferma che l’oro è la principale merce di esportazione dal Sudan. Tuttavia la produzione è spesso guidata da attività minerarie non regolamentate e artigianali e il contrabbando di oro è routine. Si stima che tra il 50 e l’80% dell’oro del Sudan venga contrabbandato fuori dal paese. Dubai è la destinazione privilegiata di molto dell’oro sudanese, ufficiale o di contrabbando, ma anche la Russia gioca la sua parte in quello che è stato definito un vero e proprio “saccheggio”.

Un’inchiesta della Cnn del 2022 ha infatti collegato la compagnia russa Meroe Gold, attiva in Sudan, al gruppo paramilitare legato al Cremlino Wagner, scoprendo che contrabbandava l’oro, con l’aiuto dei militari, via terra nella Repubblica Centrafricana e tramite voli. Almeno 16 noti tra l’inizio del 2021 e la metà del 2022.

Prima dell’ultimo colpo di Stato militare, nell’ottobre 2021, il ministro delle Finanze Gibril Ibrahim ha stimato che solo il 20% della produzione di oro del Sudan è passato attraverso i canali ufficiali, mentre le informazioni della Banca centrale indicavano che quell’anno mancavano 32,7 tonnellate di oro all’appello. Secondo alcuni esperti la produzione di oro del Sudan, se considerata quella non ufficiale, sarebbe addirittura fino a dieci volte maggiore.

Per limitare l’esportazione illegale la Banca centrale del Sudan a marzo 2022 ha emesso una circolare alle banche e alle autorità collegate, vietando la vendita all’estero di oro da parte di agenzie governative e stranieri, individui e società, escluse le società di concessione che operano nel settore minerario.

La corsa all’oro in Sudan ha avuto grande impulso intorno al 2010 con la scoperta di diversi giacimenti nel Darfur settentrionale proprio nel momento in cui al Paese veniva a mancare il petrolio del sud, dopo l’indipendenza del Sud Sudan. In 8 anni, tra il 2009 e il 2017, la produzione d’oro del paese è passata da 15 a 107 tonnellate, secondo i dati della Banca del Sudan. Nel settembre 2012 l’ex presidente sudanese Omar al-Bashir apriva la prima raffineria d’oro del Paese.

Negli anni successivi sull’oro hanno messo gli occhi e poi le mani in tanti, soprattutto tra militari e paramilitari. In particolare Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, il leadere delle Forze di supporto rapido (Rsf), controlla dal 2017 con i suoi sodali alcune delle più redditizie miniere del Sudan. “Attraverso l’oro”, scrive la Bbc, “è arrivato a controllare il più grande ‘budget politico’ del Sudan: denaro che può essere speso per la sicurezza privata o qualsiasi attività, senza bisogno di rendere conto”.

4592.- Le ultime cose turche della Turchia in Africa

Altro che Trattato del Quirinale! Altro che esercito europeo! Di Erdogan, ce n’è Uno!

Turchia Africa

di Giuseppe Gagliano. Start Magazine. Aggiornato il 4 dicembre 2021.

Il 17 e il 18 dicembre si svolgerà il terzo vertice Turchia-Africa. Ecco di cosa si parlerà

Tra il 17 e il 18 dicembre si svolgerà il terzo vertice Turchia-Africa, nel quale non solo si discuterà della lotta comune contro il terrorismo, della crisi libica e di quella somala ma anche della situazione di diffusa instabilità politica in Mali, nella Guinea e in Sudan.

È evidente che questo vertice non farà altro che rafforzare la penetrazione turca in Africa.

Infatti nel giro di pochi anni infatti la Turchia ha siglato accordi bilaterali con il Burkina Faso e con il Niger. Ora tocca al Togo.

E mentre i giornali italiani e di oltre Alpe commentano con favore il trattato italo-francese, la Turchia non solo addestra in Somalia – ex zona di influenza italiana – uomini dell’esercito nazionale ma ha stabilito anche una infrastruttura militare a Mogadiscio nel 2017.

È talmente profonda la penetrazione della Turchia in Africa che nel 2018 la Turchia ha dato 5 milioni di dollari alla forze antiterrorismo del G5 del Sahel con profondo e comprensibile disappunto da parte della Francia.

E che dire del fatto che proprio ad ottobre il presidente turco ha ricevuto con tutti gli onori sia il presidente nigeriano Muhammadu Buhari che quello ciadiano Mahamat Idriss Déby Itno?

In poco meno di vent’anni vent’anni, gli scambi tra la Turchia e l’Africa sono arrivati a 25,3 miliardi di dollari. Ecco come e dove.

Il punto di Giuseppe Gagliano

È indiscutibile la proiezione di potenza economica e militare della Turchia in Africa, per quanto non sia certo paragonabile a quella cinese.

In Algeria vi sono 1300 aziende turche attive, tra le altre, nell’industria siderurgica (gruppo Tosyali), tessile (Tayal), nei prodotti per l’igiene (Hayat Kimya), nell’energia (accordo tra Botas e Sonatrach).

Insomma, in poco meno di vent’anni vent’anni, la Turchia ha un volume di scambi con l’Africa che arrivava a 5,4 miliardi di dollari nel 2003, ora ammonta a 25,3 miliardi di dollari. Questo è poco rispetto ai 180 miliardi di scambi cinesi con l’Africa, ma i progressi sono costanti. Nello stesso periodo, le esportazioni di Ankara verso il continente sono aumentate da 2 a 15 miliardi di dollari e le sue importazioni da 3 a 10 miliardi di dollari. Questi dati riguardano principalmente i prodotti grezzi (idrocarburi, prodotti alimentari e minerari).

Insomma, la Turchia, la diciassettesima più grande potenza economica del mondo, intende costruirsi una sfera di influenza sul mercato africano. È indubbio tuttavia tre difficoltà economiche della Turchia sono accentuate ma certamente contribuiranno a rallentare, seppure in modo temporaneo, la politica di proiezione di potenza economica.

Vi sono certo diverse ragioni che hanno consentito alla Turchia un successo rilevante in Africa e cioè le capacità in ambito commerciale, l’alta qualità dei prodotti venduti, il rapporto tra il prezzo e il prodotto che viene venduto e infine la rapidità con la quale i prodotti raggiungono i mercati africani. Proprio grazie a queste capacità la Turchia inizialmente presente in Etiopia, Somalia il Sudan si sta espandendo all’Africa occidentale e all’Africa meridionale. La Turchia si sta accorgendo il ruolo sempre più rilevante che la Nigeria e l’Angola possono svolgere per la sua economia.

Se poi guardiamo i dati con altri paesi dell’Africa vediamo che vi sono degli incrementi notevolissimi. Costa d’Avorio: 630 milioni di dollari nel 2020 (+67% in due anni). Ruanda: 81 milioni di dollari (rispetto ai 35 milioni di dollari nel 2019). Burkina Faso: 72 milioni di dollari per i primi nove mesi del 2021 (+65% rispetto al 2020).

Tuttavia il Sudafrica rimane un caso a sé: è un mercato infatti di difficile accesso per la Turchia, e non a caso la Turchia ha infatti un deficit commerciale di bene 300 milioni di dollari. Questo dipende anche dal fatto che le esportazioni cemento sono limitate e quindi ostacolano la crescita delle imprese edilizie, nonostante il fatto che in questo settore la Turchia abbia una vera e propria leadership. A questo proposito le imprese più note e che si sono consolidate in Africa sono Limak, Rönesans, Mapa, Summa o Yenigün. Pensiamo anche all’edilizia religiosa come le mosche come quelle costruite in Sudan, Gibuti e Bamako o a quella di Accra, dove è stata costruita una replica della Moschea Blu di Istanbul.

Accanto al settore edilizio non possiamo dimenticare quello delle infrastrutture aeroportuali, come la TAV in Tunisia (Monastir e Hammamet), l’ aeroporto di Blaise-Diagne Albayrak o quelle portuali come quella del porto di Mogadiscio e parte di quello di Conakry.

Ma anche le centrali elettriche sono un investimento importante: pensiamo a quelli del Senegal, in Ruanda o in Gabon. Alla Guinea-Bissau fornisce il 100 % di energia elettrica, l’80% alla Sierra Leone e il 15% al Senegal.

Ma non c’è dubbio che uno dei settori emergenti delle esportazioni turche sia quello della difesa: Tunisia, Marocco, Etiopia e presto Niger, sono tra gli acquirenti di droni; il Burkina Faso, che ha già acquisito veicoli Cobra da Otokar, ha ordinato attrezzature di sminamento dalla società pubblica Afsat; il Kenya riceverà carri armati Hizir dalla società privata Katmerciler, nel 2022.

Ma come dimenticare infine la compagnia aerea turca, e cioè la Turkish Airlines, che organizza trentacinque voli settimanali con l’Algeria, sette con la Costa d’Avorio, il Gabon o il Burkina Faso, cinque con il Sudafrica.

4103.- Per l’Europa, l’Africa è un complemento necessario, ma Washington è rimasta alla Guerra Fredda.

Lo stabilimento di una base navale cinese a Gibuti, di basi russe in Siria, a Khmeimim (aerea) appunto, a Tartus (navale) e in Africa, a Porto Sudan vanno contro gli interessi dell’Europa, né più né meno come quello della base navale turca a Misurata, che rappresenta più di un problema per l’Italia, per l’Europa e per la NATO. Vero che le basi d’oltremare devono essere mantenute e rifornite, ma sia la Cina in Africa e sia Russia e Cina alleate, anche nell’Artico, significano che la politica estera USA dovrà combattere su più fronti senza disporre delle necessarie risorse. Se, poi, si somma la competizione in atto nel Mare Cinese Meridionale, c’è di che dubitare dell’attuale guida dell’Occidente.

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La Cina ha accolto il piccolo Gibuti nella Nuova Via della Seta, ha stabilito lì una base navale con 10.000 uomini e coopera sui progetti infrastrutturali tra cui ferrovie, porti, approvvigionamento idrico, gasdotti, costruzione di un’area di libero scambio e cooperazione in agricoltura.

Il timore di non poter fare fronte alle potenze asiatiche e alla Russia sui mari condiziona la politica degli Stati Uniti d’America, ma sembra spingerla ad avvicinare sempre più la Russia alla Grande area di prosperità dell’Asia orientale, sintetizzata dal Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) sottoscritto da 15 Paesi, lo scorso novembre, nel summit regionale di Hanoi. Come dire che può essere più conveniente avere un Putin fra gli alleati del nemico, che averlo per amico.

Che l’US.Navy si sarebbe trovata a fare i conti con l’espansione della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese si sapeva dall’inizio del secolo e nacque la richiesta agli alleati di sviluppare le loro flotte. Così, mentre è nato un fritto misto di portaerei occidentali o pseudo tali, vediamo il numero delle “carriers” coprire con difficoltà gli scenari tra Asia e Pacifico. Per esempio, notiamo che la VI Flotta non domina più il Mediterraneo, che deve fare affidamento sulla V Flotta dislocata fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano; ma c’è di mezzo il Canale di Suez e abbiamo visto con quali livelli di rischio. Le incursioni dei cacciatorpediniere americani e inglesi in Mar Nero poco possono contro l’insufficienza della politica di Washington. È di pochi giorni fa, l’invasione delle acque territoriali russe da parte dell’HMS Defender (D36), invitato a uscirne a colpi di cannone di avvertimento, ma di cannone. Da ricordare anche la recente dimostrazione di forza dell’aeronautica dell’Esercito Popolare Cinese di Liberazione verso la portaerei nucleare USS Ronald Reagan (CVN76) nel Mare Meridionale Cinese.

L’HMS Defender. La Russia avverte che non è mai successo di dover sganciate bombe e sparare per allontanare una nave da guerra britannica.
Lancio di Flare dall’elicottero Wildcat dell’HMS Defender. Il cacciatorpediniere lanciamissili fa parte del 21° Carrier Strike Group della Royal Navy che ha lasciato Portsmouth con 7 navi, diretto nell’Oceano Indiano attraverso Suez. L’HMS Defender è stato distaccato in Mar Nero per una missione di aperta provocazione.
Nella foto, il 7 giugno, durante l’attraversamento dello Stretto di Messina, il cacciatorpediniere lanciamissili italiano Andrea Doria (D553) ha scortato l’HMS Queen Elizabeth (R-08). L’addestramento congiunto tra la Marina Italiana e la Royal Navy, era iniziato già nelle acque dell’Atlantico, con la presenza di unità delle marine statunitensi ed olandesi ed è proseguito in Mediterraneo con la partecipazione del Gruppo Charles De Gaulle (R-91) in rientro dall’Oceano Indiano.

La Royal Navy ha aggiunto le sue nuove portaerei classe Queen Elizabeth (65.000 tsl), ci sono i giapponesi Izumo e un’altra portaerei vera scenderà in mare dai cantieri francesi, a sostituire il Charles De Gaulle, R-91 (42.500 tal, nucleare), mentre, guardando all’Italia, che ci interessa, l’ammiraglia Conte di Cavour (C550) , di dislocamento troppo inferiore (29.900 tsl) e con una singola squadriglia di F-35B, non può generare supporto a operazioni sostenute: può mostrare bandiera. La nuova Trieste è il doppio, ma sarà un pò di tutto e niente: portaelicotteri, nave ospedale (ipocrisia della doppia destinazione della nave, un pò per difesa e il resto per la protezione civile), nave d’assalto anfibio e il ponte dove atterra un elicottero non è detto che possa bastare a sostenere un F-35. Chissà il ristorante, ma, a proposito, la migliore paella ai frutti di mare fu quella del Principe de Asturias, R-11 (la cui bandiera onora il mio studio) e il miglior fegato alla veneziana lo trovai sulla USS Indipendence CVA 62 (“Indy“, per chi gli ha voluto bene) e non sul Garibaldi.

Il vero problema è che le “carriers” dell’US.Navy hanno rappresentato e impersonato per decenni il potere marittimo USA in chiave di deterrente anti russi e, oggi, giocare tutto su una super portaerei nucleare da 100.000 tonnellate sembra un rischio eccessivo. Un conto sono le operazioni mordi e fuggi, come in Siria, un altro è tenere banco contro la Cina nel Mare Cinese Meridionale. Ecco che l’articolo di Gagliano ci pone alcuni problemi: Sono ancora le super portaerei il sistema d’arma giusto per affrontare, non un conflitto limitato, ma una grande potenza? e, poi: Sarà questo Occidente, amputato della Russia da una visione datata della politica USA, in grado di far fronte a Cina e Russia insieme sui mari del mondo, dal Pacifico al Mare Cinese, all’Artico, all’Oceano Indiano e al Mar Rosso. E, infine, come reagiremo a questa base navale russa a Porto Sudan, che fa il paio con quella cinese a Gibuti?

USS Donald Cook DDG 75 classe Arleigh Burke, è un cacciatorpediniere multi-missione di 8500 tono sl, progettato per difendersi e, se necessario, distruggere i suoi nemici sulla superficie dell’oceano, sulla terraferma, nel cielo, sotto le onde e persino nello spazio. Gli Arleigh Burke, i Defender (8.300 tonn.sl) e gli Andrea Doria (7.770 tonn.sl) possono essere considerati incrociatori.

Come e perché la Russia amoreggia con il Sudan

di Giuseppe Gagliano

Russia Sudan Sputnik

Mosca rafforza la presenza russa in Africa, contribuendo, insieme alla Cina, a contrastare fortemente sia la presenza francese sia quella americana

Il primo ministro della Federazione Russa, Mikhail Mishustin, ha firmato venerdì 25 giugno il decreto che consente la realizzazione dell’importantissima infrastruttura navale russa in Sudan.

Questo accordo naturalmente è stato possibile anche grazie all’intensificazione della sinergia in ambito militare tra Mosca e Khartoum.

Sotto il profilo strategico questo accordo consentirà alla Russia di realizzare un centro logistico nelle prossimità di Port Sudan di fronte al Mar Rosso e ciò darà la possibilità alla Russia di dispiegare unità militari.

Dal punto di vista finanziario le esportazioni russe in Sudan non potranno che rafforzarsi. Infatti la Russia avrà la possibilità di servirsi delle infrastrutture aeroportuali sudanesi per agevolare le proprie esportazioni e importazioni prive di dazi doganali, ma soprattutto consentirà alla marina militare russa di avere la prima base navale in Africa.

Complessivamente questo accordo rafforza la presenza russa in Africa ed, insieme a quella cinese, contribuisce a contrastare fortemente sia quella francese sia quella americana.

È evidente che la politica assertiva russa a livello globale sia profondamente osteggiata dagli Stati Uniti che applicano una strategia spesso indiretta per contrastare la Russia  per esempio attraverso l’Ucraina e attraverso l’Inghilterra.

Per quanto riguarda l’Ucraina questa ha imposto il 24 giugno una nuova serie di sanzioni che avranno durata triennale contro la Russia nei confronti di quelle banche che sono presenti nei territori delle cosiddette repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk, nell’Ucraina Orientale. In particolare le sanzioni hanno colpito 55 banche russe, sanzioni queste che vanno ad aggiungersi a quelle nei confronti dei periodici russi quali Lenta, Gazeta e le agenzie di stampa come la TASS.

Per quanto riguarda la postura posta in essere dall’Inghilterra non si può non fare riferimento al recentissimo episodio avvenuto nelle acque di Capo Fiolent, in Crimea, da parte della nave da guerra inglese Defender, che sarebbe entrata nel territorio della Federazione Russa per ben 3 km.

Di fronte a questa provocazione la flotta del Mar Nero della federazione russa aperto il fuoco lungo la rotta della nave inglese come misura preventiva. Di estremo interesse e significato politico il fatto che proprio il ministro della difesa ucraino Dmytro Kuleba, abbia stigmatizzato l’episodio affermando come la reazione russa dimostri la politica provocatoria da aggressiva della federazione nel Mar Nero e nel Mare di Azov. Una reazione questa che costituisce lo specchio fedele della posizione americana.

Ebbene le continue e costanti esercitazioni della Nato, che per Mosca sono naturalmente delle provocazioni, sono finalizzate a contenere sia la Russia che la Cina. Per quanto riguarda l’Inghilterra non c’è dubbio che la sua rinnovata postura offensiva anche nell’indo Pacifico sia finalizzata a fare recuperare autorevolezza e credibilità alla politica estera inglese che per lungo tempo è rimasta congelata e schiacciata da quella dell’alleato americano.

4002.- Biden vende armi a Netanyahu. Fa il gioco di Hamas e cancella la pace di Trump.

Biden, e l’ “accordo del secolo”?

Israele-Gaza o Israele-Hamas? O, peggio! Hamas-Linkud? Linkud è il partito di Netanyahu. L’orrore fa salire Netanyahu, nei consensi, ma ad Hamas manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. All’insaputa di larga parte del Congresso, Biden vende armi a guida di precisione a Israele per 735 milioni di dollari e rafforza gli estremisti ebrei,  poco prima degli attacchi di Hamas sulla striscia di Gaza, in risposta alla feroce repressione di Israele a Gerusalemme contro la proteste per gli sfratti nel distretto di Sheikh Jarrah. Bandiere rosse levate per alcuni membri della Camera più aperti a mettere in discussione il sostegno della DC a Netanyahu, suggerendo che la vendita venga condizionata e utilizzata come leva. La vendita riguarda le munizioni ad attacco diretto congiunto (JDAMS) che trasformano le cosiddette bombe “stupide” in missili a guida di precisione. Israele ha già acquistato JDAMS in precedenza, spiegando la sua scelta: gli attacchi aerei a Gaza guidati con precisione negli appartamenti e sulle famiglie dei capi di Hamas aiutano a evitare la morte tra i civili.

Dove sono finiti gli accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi racchiusi nella “Peace to Prosperity”, nome ufficiale della proposta di pace di Trump per il Medio Oriente, benedetta come “accordo del secolo”. La road map del piano andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani; ma non a quelli elettorali di Netanyahu. Ma, allora, c’è un legame fra l’elezione di Biden e la rielezione di Netanyahu?

Dal punto di vista operativo, le 181 pagine della “Peace to Prosperity”presentavano chiaramente un doppio framework (politico ed economico), nel quale emergevano almeno quattro punti critici:

1.- Israele mantiene la stragrande maggioranza di Gerusalemme come sua capitale sovrana e indivisa, lasciando ai palestinesi la periferia della città (in pratica l’area di Abu Dis) come loro capitale;

2.- I palestinesi non vedono riconosciuto alcun diritto al ritorno;

3.- Vengono ridisegnati i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania, con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio stesso, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”;

4.- È sancita la creazione di uno stato smilitarizzato per i palestinesi.

A questi elementi meramente politici si affiancavano le disposizioni economiche, che prevedevano, tra le altre cose, investimenti per 50 miliardi di dollari nei Territori occupati, senza spiegare bene come e dove sarebbero stati investiti questi fondi e senza affrontare i problemi esistenti sul terreno, come la situazione umanitaria al collasso nella Striscia di Gaza o la scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania. Nell’arco temporale di un quadriennio, gli israeliani si sarebbero impegnati, seppur senza alcun tipo di vincolo concreto, a congelare qualsiasi nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. 

Conclusioni:

Benjamin Netanyahu mette sempre più in un angolo la cosiddetta “soluzione dei due stati”, che dal 1967 la comunità internazionale considera la base di compromesso per risolvere la disputa territoriale fra israeliani e palestinesi e il piano Trump andava sostanzialmente incontro agli interessi israeliani, ma è stato vanificato dall’elezione di Biden. È una conclusione e anche una domanda.

Ocasio e Sanders incalzano Biden: «Non possiamo avere la linea di Trump». Perché?

Bene fa l’Antidiplomatico a ricordare all’esercito di occupazione israeliano le parole dello scrittore uruguaiano Edoardo Galeano, scritte nel 2012:

L’esercito israeliano, il più moderno e sofisticato al mondo, sa chi uccide. Non uccide per errore. Uccide per orrore. Le vittime civili sono chiamate danni collaterali, secondo il dizionario di altre guerre imperiali. A Gaza, su dieci danni collaterali, tre sono bambini. E ci sono migliaia di mutilati, vittime della tecnologia dello smembramento umano, che l’industria militare sta testando con successo in questa operazione di pulizia etnica.”

Intervista a Tom Segev:

La parola a Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore del quotidiano Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze: “Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti … La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

CORRIERE DELLA SERA

Parlano le immagini:

Razzi, scontri e già 224 morti: cosa c’è dietro le nuove tensioni tra Israele e i palestinesi?
 Aerei israeliani e bombe americane hanno colpito l’abitazione di Yehiyeh Sinwar, il principale leader di Hamas. 

Israele-Gaza, Segev: «La guerra rafforza Hamas e Netanyahu: gli scontri etnici sono la novità, ma non è un’intifada»

Intervista a Tom Segev, autore di opere fondamentali sulla storia di Israele e commentatore di Ha’aretz, che insiste sull’unicità della nuova ondata di violenze. «Uniti dal Covid, ora spazio agli estremisti»

di Lorenzo Cremonesi, il Corriere.

Nelle immagini dell’abitazione distrutta, abbiamo visto le macerie nelle stanze, i giocattoli dei più piccoli. Si tratta del bilancio più drammatico provocato da un singolo attacco nella Striscia dall’inizio dell’offensiva dell’esercito israeliano

shadow 

«Questa non è una terza intifada. O almeno non lo è ancora diventata e non credo lo sarà. Manca la dimensione della vasta partecipazione popolare come quelle del 1987 o del 2000. Hamas da Gaza detta il ritmo del conflitto militare. Mi ha però molto colpito lo scontro interno ai confini di Israele del 1948 tra cittadini arabi ed ebrei. Non ce lo aspettavamo tanto violento». Tom Segev ci parla da Gerusalemme. Autore di alcune opere fondamentali sulla storia di Israele, per decenni commentatore per il quotidiano Ha’aretz, Segev insiste sull’unicità di questa nuova ondata di violenze.

Che cosa vede di nuovo?
«L’intensità dei disordini in località che sono al cuore dello Stato. Lod, la vecchia Lydda araba dove oggi si trova l’aeroporto internazionale: qui bande di ragazzini hanno bruciato tre sinagoghe. Come anche le aggressioni di Ramla, Acri e Giaffa, alle porte di Tel Aviv. Nel 1948 l’esercito israeliano aveva espulso praticamente tutta la vecchia comunità palestinese. Poi però una parte degli abitanti originari era tornata. Con i decenni erano diventati luoghi modello di coesistenza, pur se con grossi problemi di povertà e droga. Mi ha sinceramente sorpreso il saccheggio all’hotel di Acri, non lo ritenevo possibile. Sino a pochi mesi fa i nostri media raccontavano con entusiasmo del ruolo fondamentale giocato dai medici e dagli infermieri arabi negli ospedali mobilitati per l’emergenza Covid. Arabi nati e cresciuti tra noi, israeliani a tutti gli effetti. Avevamo scoperto che gran parte delle nostre farmacie era tenuta da farmacisti arabi. Però, attenzione, non credo si tratti di pogrom, o di “Notte dei Cristalli”, sono gravi violenze organizzate come abbiamo visto di recente in Francia o negli Stati Uniti».

Come lo spiega?
«Sono una minoranza. Ma aggressiva, ostile. La polizia non ha saputo contrastarla. A Lod, per esempio, il sindaco ha imposto il coprifuoco. Ma nessuno lo ha rispettato. Come pochi mesi fa, del resto, le forze dell’ordine non riuscivano a obbligare gli ebrei ortodossi ad indossare la mascherina e restare in casa. Abbiamo scoperto di essere un Paese poco governabile, quasi anarchico. Ne hanno approfittato anche gli estremisti ebrei».

In che modo?
«Gruppi legati alla destra nazionalista e religiosa hanno agito in modo coordinato per attaccare le zone arabe. Penso per esempio alla “Familia”, che è l’organizzazione violenta della tifoseria più fanatica e razzista della squadra di calcio del Betar Gerusalemme. Sono arrivati con gli autobus, centinaia di giovani decisi a vandalizzare, linciare, impaurire».

La chiamano terza intifada.
«No. Non credo sia corretto. Per ora domina lo scontro militare tra il nostro esercito e gli estremisti di Hamas. Quasi una guerra convenzionale, con missili, artiglierie e droni».

Chi vince?
«Per ora Hamas. Un fatto molto grave, sono fondamentalisti pericolosissimi, terroristi che sparano sulle città in nome della guerra santa. Usano gli aiuti che giungono dall’estero per costruire armi. Sono riusciti a imporsi come i difensori di Gerusalemme di fronte al mondo islamico e della causa palestinese. Ci hanno obbligati a chiudere il nostro aeroporto più importante e di fatto stanno paralizzando la vita civile. Però, rimane un evento limitato a poche minoranze di fanatici combattenti. Non è una rivolta generalizzata».

Le conseguenze politiche?
«Benjamin Netanyahu resta al potere, o comunque pare più forte di prima. Ci aveva fatto credere che si potevano annettere i territori occupati nel 1967 senza troppi problemi e ora ne paghiamo le conseguenze. Però, la sua politica di dividere i palestinesi a scapito dei moderati dell’Olp di Abu Mazen e beneficio invece dei fanatici di Hamas, alla fine per lui paga. Nonostante sia sotto processo per corruzione e politicamente molto debole, Netanyahu adesso fa leva sulla necessità dell’unità nazionale nell’emergenza. La grande novità sarebbe stata la partecipazione dei quattro deputati del Partito Arabo Unito guidato dal super-pragmatico Mansour Abbas nella coalizione di centro-destra assieme ai partiti di Yair Lapid e Naftali Bennett. Sarebbe stata l’unica coalizione alternativa al Likud di Netanyahu. Ma adesso non è più possibile».

4001.- Guerra a Gaza, test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da Trump a Biden: Israele e Iran lanciano il sasso e Gaza risponde. Test dei rapporti fra Israele e gli arabi

Da La nuova Bussola Quotidiana, 16 maggio 2021

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. L’Iran, armando Hamas, sta facendo saltare l’equilibrio. 

Scontri a Lod

Questo quarto conflitto di Gaza (dopo quelli del 2008, 2012, 2014) sta mettendo alla prova i delicati rapporti fra Israele e gli arabi, sia all’estero che all’interno dei suoi stessi confini. Il periodo che ha preceduto questo ultimo conflitto era caratterizzato da un’insolita distensione. In politica interna, le liste dei partiti arabi avevano guadagnato consenso e dimostrato di voler partecipare, eventualmente, a coalizioni di governo. La Lista Araba Unita, di Mansour Abbas, con un programma islamista, era considerato addirittura uno degli aghi della bilancia per la formazione della prossima coalizione di governo, dopo il risultato non decisivo delle ultime elezioni parlamentari del 2021. All’estero, lo scenario di contrapposizione fra mondo arabo e Israele era radicalmente mutato dal 2020, dopo la firma degli Accordi di Abramo, la normalizzazione delle relazioni fra lo Stato ebraico e quattro Stati arabi islamici: Emirati Arabi Uniti, Oman, Sudan e Marocco. Con i morti palestinesi a Gaza che hanno raggiunto quota 145, come stanno reagendo gli arabi?

Gli ultimi sviluppi non fanno presagire una fine imminente del conflitto, anche se è meno probabile di quanto si pensasse un attacco di terra israeliano contro Gaza. Nonostante la presenza di tre brigate dell’esercito al confine con il territorio controllato da Hamas (la 7^ brigata corazzata, la brigata paracadutisti e la brigata Golani di fanteria), finora l’azione si è limitata a bombardamenti aerei e di artiglieria. Venerdì, Israele ha fatto circolare, forse deliberatamente, notizie di un imminente attacco di terra, inducendo le milizie di Hamas a prendere posizione nei tunnel usati per il combattimento urbano, ma qui sono stati bersagliati dall’aviazione che li aveva individuati. Ieri, sabato 15, la giornata è stata funestata dal bombardamento del palazzo al Jala, sede degli uffici di corrispondenza di Al Jazeera e di Associated Press. L’episodio non ha mancato di suscitare un’ondata di sdegno di tutti i media internazionali, anche se l’attacco è avvenuto dopo un ampio preavviso che ha risparmiato vittime civili. Secondo Israele, lo stesso palazzo al Jala era usato da Hamas come base. I bombardamenti israeliani non sono comunque riusciti, almeno finora, a fermare l’incessante pioggia di razzi lanciata da Hamas contro obiettivi israeliani: 2400 dall’inizio della settimana, sparati in raffiche fitte al punto di saturare Iron Dome, il sistema anti-missile israeliano. Obiettivi anche lontani da Gaza, come Tel Aviv, sono stati colpiti anche nella giornata di ieri. Oltre a gravi distruzioni di proprietà, gli israeliani hanno finora subito 11 morti e 140 feriti.

Più lungo e sanguinoso è il conflitto, più fragile diventa la tenuta dei rapporti con gli arabi. In particolar modo sta saltando l’equilibrio con gli arabi cittadini di Israele, con pogrom anti-ebraici (termine impiegato per la prima volta nella dichiarazione del presidente Reuven Rivlin) a Lod, Acri e Haifa. A Lod (nota per l’aeroporto Ben Gurion), dove si sono verificati i primi episodi gravi, un ebreo aggredito a colpi di pietre e mazze da arabi si è difeso con la pistola e ha ucciso uno dei suoi aggressori. I funerali dell’uomo sono diventato l’inizio dell’insurrezione: negozi e locali pubblici, auto e case private degli ebrei sono stati attaccati e +dati alle fiamme. Anche tre sinagoghe sono state incendiate.

Anche ad Acri, già capitale crociata e meta turistica nota in tutto il mondo, sono stati attaccati e distrutti negozi e ristoranti di proprietà ebraica. Distrutto anche il popolare ristorante Uri Buri, che impiega personale sia ebreo che arabo. Un cittadino ebreo, nel corso degli scontri di martedì, è stato trascinato fuori dalla sua auto e picchiato, tuttora è ricoverato in condizioni critiche. Altri incidenti simili si sono verificati anche a Tiberiade, in Galilea e Haifa, solitamente indicata come esempio di convivenza pacifica fra le varie comunità che compongono la popolazione israeliana (ebrei, arabi, drusi, circassi, oltre alla minoranza religiosa Bahai che a Haifa ha la sua sede centrale). Venerdì le strade della città portuale sono state invece percorse da bande di arabi che urlavano Allahu Akhbar e “morte agli ebrei”, oltre a ronde di estremisti ebrei che cantavano “morte agli arabi”. Gli estremisti di destra ebrei sono entrati in azione anche a Gerusalemme, dove un arabo è stato pugnalato e soprattutto a Bat Yam dove un ristorante e una gelateria arabi sono stati distrutti e un insegnante 37enne arabo, estratto dalla sua auto, è stato aggredito.

Se l’equilibrio interno fra ebrei e arabi è messo in pericolo, quello esterno, fra Israele e i suoi nuovi partner della regione si sta dimostrando invece più solido del previsto. Gli Emirati Arabi Uniti non hanno condannato né l’azione di polizia di Israele sulla spianata delle moschee, né gli scontri che ne sono seguiti a Gerusalemme, limitandosi a delle dichiarazioni vaghe in cui invitano le autorità dello Stato ebraico a rispettare la sacralità dei luoghi musulmani. Sul conflitto a Gaza, poi, i media di Stato emiratini sono stranamente silenti. Ieri gli Emirati hanno anche chiesto a Hamas di interrompere il lancio di razzi, pena il ritiro degli investimenti a Gaza. La prudenza, nelle reazioni e nelle dichiarazioni, caratterizza anche il comportamento tenuto dagli altri partner degli Accordi di Abramo.

Al di fuori del mondo arabo, l’Iran è la principale potenza regionale che sta sostenendo materialmente Hamas: la maggior parte dei razzi lanciati dal partito armato palestinese vengono dall’Iran, oltre a quelli fabbricati in loco. E poco importa, nella strategia di Teheran, che il movimento armato palestinese, contrariamente a Hezbollah e agli Houthi, sia radicale sunnita e parte della galassia dei Fratelli Musulmani. Tre razzi sono stati lanciati dal Libano contro il Nord di Israele, anche se Hezbollah nega ogni responsabilità. Erdogan, dalla Turchia, sta cavalcando il conflitto. E’ di ieri il suo appello agli arabi per “difendere Gerusalemme”, anche se formalmente la posizione della Turchia è quella di una richiesta di de-escalation e dialogo. Gli Usa, che per bocca del presidente Biden hanno riaffermato il diritto di Israele a difendersi, hanno inviato il loro mediatore in Medio Oriente (Hady Amr) approdato ieri a Tel Aviv. Resta però il forte sospetto, soprattutto in Israele e nei Paesi arabi sunniti, che lo sdoganamento dell’Iran da parte della nuova amministrazione Biden (oltre che la sua ostentata ostilità nei confronti dell’Arabia Saudita e del governo Netanyahu) sia una delle cause principali del conflitto. Teheran sta mettendo alla prova la pazienza dell’interlocutore statunitense su molti fronti: dopo l’offensiva nello Yemen e gli annunci della ripresa del programma nucleare, la guerra a Gaza è l’ultimo test in ordine di tempo.

L’Egitto ha riaperto il valico di Rafah per lo sgombero dei feriti

L’Egitto, venerdì 15 maggio, ha aperto, con un giorno di anticipo e “a tempo indeterminato” il valico di Rafah, sul proprio confine terrestre con Gaza, e ha inviato dieci ambulanze all’enclave palestinese per evacuare e curare nei propri ospedali palestinesi feriti nei bombardamenti israeliani. La riapertura era prevista sabato, dopo la fine della festa musulmana di Eid.

3353.- Parliamo di ciò che gli alleati arabi di Israele hanno da perdere dai suoi accordi con gli Stati del Golfo

L’Egitto e la Giordania godono della propria quota di benefici dagli Emirati Arabi Uniti e trovarsi a giocare tutti insieme potrebbe diminuire il loro potere.

Un accordo e un affare storico

King Abdullah of Jordan at a conference with Egypt and Iraq in Amman, August 2020.
Re Abdullah di Giordania a una conferenza con l’Egitto e l’Iraq ad Amman, agosto 2020 Credito: AFPZvi Bar’el

Osama Saraya, un eminente giornalista egiziano, ha pubblicato mercoledì uno straordinario articolo su Al-Ahram in difesa degli accordi di pace firmati tra Israele e Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Scrive: “Il nuovo accordo è la schiena forte che proteggerà ciò che resta dei territori palestinesi e della Gerusalemme araba”.

L’articolo che traduciamo, si sviluppa in un discorso dal tono energico, che, forse, anzi ben riflette lo spirito del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi: “Siamo rimasti sbalorditi dalla condotta imprudente dei palestinesi che hanno lanciato la loro ostilità e si sono rivolti alla Lega araba, chiedendo una denuncia … I palestinesi si stanno posizionando contro gli interessi arabi e a favore dell’asse iraniano-turco, e stanno cercando di far rivivere ciò che è morto e scaduto. L’Autorità Palestinese è diventata un insieme di uffici a Beirut e Damasco. Ha dimenticato i crimini di Hamas e l’assassinio di palestinesi commesso dall’organizzazione … È stato piuttosto strano quando il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha visitato i campi profughi palestinesi in Libano e ha esaminato le loro armi, ben sapendo che si trattava di armi iraniane mentre ha minacciato [guerra] e quindi violato la sovranità del paese che soffre per la tragedia del porto di Beirut. “

Saraya, che era il caporedattore di Al-Ahram, quando nel 2011 scoppiarono le proteste della Primavera araba, spesso criticava i manifestanti e li chiamava teppisti e rivoltosi, ma subito dopo che Mubarak fu estromesso, fu tra i primi a sostenere la rivoluzione con il titolo “Il popolo ha rovesciato il regime”. Mantenere la linea del regime non è, perciò, qualcosa di nuovo per lui. L’ultimo pezzo di Saraya riflette un duplice dilemma: come dovrebbero relazionarsi gli intellettuali egiziani, e gli arabi in generale, agli accordi di pace, dato il loro “tradimento” dell’unità araba? E come dovrebbero rapportarsi d’ora in poi alla questione palestinese?

Da parte di associazioneeuropalibera, notiamo che la parola tradimento, da parte di Saraya, palesa il permanere di una visione conflittuale del futuro del Medio Oriente, addirittura superiore a quella evidentemente superata al momento da Netanyahu. Certamente, bisogna avere conto delle situazioni delle politiche interne e estere, di ciascun paese. Infatti:

In Egitto, Giordania e altri paesi arabi, questi due dilemmi sono intrecciati con il rapporto del regime in primo luogo con i media e in secondo luogo con gli stati del Golfo. L’Egitto è un potente alleato degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita. Ha beneficiato di miliardi di dollari di investimenti e depositi bancari da quando Sisi ha preso il potere nel 2013, dopo aver estromesso Mohammed Morsi dai Fratelli Musulmani. Gli Emirati Arabi Uniti hanno finanziato gran parte del Nuovo Cairo, la città che è diventata un simbolo di rinnovamento e sviluppo ma che assomiglia sempre più a un elefante bianco. Gli Emirati Arabi Uniti hanno anche contribuito a sviluppare progetti nel nord del Sinai come parte della campagna dell’Egitto contro i gruppi militanti lì. È anche coinvolto nella guerra egiziana contro il governo libico, e l’Egitto fa parte della coalizione saudita che combatte una guerra contro gli Houthi nello Yemen.

A sua volta, il regime egiziano deve sostenere la reputazione degli Emirati Arabi Uniti e sopprimere qualsiasi critica nei loro confronti. Tale interesse economico e militare ha la precedenza sul valore panarabo che richiede di salvare la Palestina dall’occupazione israeliana.

)Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, US President Donald Trump, Bahrain Foreign Minister Abdullatif al-Zayani, and UAE Foreign Minister Abdullah bin Zayed Al-Nahyan wave from the Truman Balcony at the White House after they participated in the signing of the Abraham Accords where the countries of Bahrain and the United Arab Emirates recognize Israel, in Washington, DC, September 15, 2020.

La situazione della Giordania è simile. L’anno scorso ha ricevuto una sovvenzione di 300 milioni di dollari dagli Emirati Arabi Uniti per l’istruzione e la salute. Ha ricevuto circa 1,5 miliardi di dollari di sostegno negli ultimi anni, oltre al miliardo di dollari rimandato ogni anno dai giordani che lavorano negli Emirati Arabi Uniti. In Giordania, come in Egitto, agli accordi è stata data una copertura diretta senza alcun commento o analisi critica, secondo le istruzioni del ministro giordano dell’informazione e delle comunicazioni.

Un coraggioso nuovo Medio Oriente? I migliori esperti sembrano pessimisti riguardo agli importanti accordi Israele-Emirati Arabi Uniti-Bahrain. Gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno fatto esplodere il mito secondo cui i palestinesi sono il problema centrale del Medio Oriente. Gli stati del Golfo non accetteranno più un veto da Ramallah o Gaza per le loro relazioni con Israele e la difesa contro l’Iran.
Benjamin Netanyahu, UAE FM Abdullah bin Zayed Al-Nahyan e Bahrain FM Abdullatif al-Zayani prima della firma degli accordi di Abraham, la Casa Bianca a Washington, DC, 15 settembre 2020. Gli Stati arabi hanno bisogno dei palestinesi se vogliono una vera pace con Israele. Credito: Alex Brandon, AP.
I palestinesi vogliono Gerusalemme est come capitale di un futuro stato, ma Israele dice che la città non sarà mai più divisa.

Allo stesso tempo, i leader di entrambi questi paesi sono preoccupati per i nuovi accordi di pace. Fino ad ora, l’Egitto e la Giordania erano i “preferiti” di Washington e hanno ricevuto il sostegno diplomatico e un generoso sostegno finanziario. Egitto a causa di Camp David e Giordania a causa della sua stretta cooperazione in materia di sicurezza con Israele. Fatto ancora più importante, i loro rapporti speciali con Israele hanno dato consentito loro di influenzare la condotta di Gerusalemme in Cisgiordania e Gaza e sui luoghi santi che sono sotto il patrocinio ufficiale della Giordania.

Dunque, acque agitate

Gli analisti egiziani stanno ora speculando cautamente che man mano che più paesi si uniranno alla cerchia di amici di Israele, l’influenza dell’Egitto nei confronti di Israele e del Medio Oriente nel suo insieme diminuirà.

Questa paura è stata amplificata dalle notizie secondo cui gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto pressione sul Sudan per accelerare la sua normalizzazione con Israele. Secondo i resoconti dei media arabi, gli Emirati Arabi Uniti si sono impegnati a inviare al paese impoverito centinaia di milioni di dollari, mentre Israele ha promesso di aiutare il Sudan con lo sviluppo delle infrastrutture agricole. Fino ad ora, l’Egitto ha supervisionato l’asse arabo-sudanese come parte della sua disputa con l’Etiopia sulla costruzione della diga rinascimentale Grand Ethiopian e sulla divisione dell’acqua nei tre paesi. L’Egitto teme che il coinvolgimento degli Emirati Arabi Uniti in Sudan possa conferirgli lo status di mediatore e imporgli una politica che potrebbe danneggiare i suoi interessi.

Egyptian President Abdel-Fattah al-Sissi at Hosni Mubarak's funeral in Cairo, February 2020.
Il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi al funerale di Hosni Mubarak al Cairo, febbraio 2020 Credito: Amr Abdallah Dalsh / Reuters

Poiché gli accordi di pace non possono essere criticati, i media si sono, invece, rivolti alla sfera delle “minacce e dei pericoli”. Lì, ad esempio, citano il memorandum d’intesa firmato tra la compagnia israeliana proprietaria del porto di Eilat (di proprietà di Shlomo Fogel) e la società di logistica degli Emirati DP World di Dubai. Il promemoria riguarda la cooperazione e la possibilità di convogliare merci dagli Emirati via Eilat, quindi i porti di Haifa e Ashdod. Menziona anche il piano della società degli Emirati di fare un’offerta per Israel Shipyards, che è in attesa di privatizzazione.

In Egitto, questi rapporti stanno già sollevando ondate di allarme per la possibile minaccia agli affari nel Canale di Suez. Alcuni anni fa l’Egitto ha lanciato un’allargamento del canale che è costato miliardi di dollari. Il presidente egiziano aveva promesso che l’espansione avrebbe aumentato il volume degli scambi e che grandi centri commerciali e progetti industriali sarebbero stati costruiti sulle rive del canale. Da allora, il trasporto marittimo nel canale è diminuito, le entrate sono crollate e i grandi progetti sono rimasti per lo più sulla carta. Che ne sarà di quel reddito se gli Emirati decidessero di bypassare il Canale di Suez? Non ci sono ancora stime concrete, ma c’è sicuramente paura.

Da parte sua, la Giordania teme che l’accordo con gli Emirati e successivamente con l’Arabia Saudita escluderebbe la Giordania dal suo status speciale di sponsor dei luoghi santi di Gerusalemme e trasformerebbe l’Arabia Saudita nel proprietario di tutti i luoghi santi dell’Islam.

Ma anche prima, sarà interessante vedere come i fedeli palestinesi trattano gli ospiti del Golfo, e se questi ultimi sono soggetti alle stesse restrizioni che Israele impone ai fedeli della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Un manifestante sventola una bandiera palestinese davanti alle forze israeliane durante una protesta contro il seminario del Bahrain per il piano di pace degli Stati Uniti in Cisgiordania, il 25 giugno 2019. Credito: Mohamad Torokman / Reuters

Segnali misti

“Il mondo arabo si trova in un buco nero, che inghiottirà gli stati arabi che si affrettano a normalizzare le relazioni con Israele”, afferma un articolo sul sito di Al-Khaleej Al-Jadeed pubblicato in Qatar. Tra gli stati elencati nell’articolo c’è la Siria, “che ha oppresso i suoi cittadini per decenni sotto la bandiera della resistenza e dell’ostilità al sionismo, ma ultimamente il regime ha inviato segnali che indicano che spera che salire a bordo del treno israeliano lo assolverebbe dai crimini orribili che ha commesso contro l’umanità, e che in cambio della normalizzazione con Israele avrebbe ottenuto la normalizzazione con il mondo “.

È difficile trovare segnali siriani di normalizzazione con Israele. L’unica portavoce ufficiale che ha fatto riferimento alla questione è stata Bouthaina Shaaban, consigliera del presidente Assad, che il mese scorso ha detto che “non ha capito cosa vedono gli Emirati Arabi Uniti nella normalizzazione con Israele”, poiché Israele ha violato tutti gli accordi che sono stati firmati. con esso.

Syrian President BasharAssad gestures while speaking to Russian Foreign Minister Sergey Lavrov during their talks in Damascus, September 7, 2020.
Il presidente siriano BasharAssad fa un gesto mentre parla al ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov durante i colloqui a Damasco, 7 settembre 2020.

Le sue parole sono state interpretate come una debole risposta, soprattutto rispetto alla denuncia dei palestinesi, di Hezbollah, dell’Iran e di altri stati. Lo stesso Assad avrebbe dovuto emettere condanne molto più dure, ma il presidente siriano ha tenuto la bocca chiusa. Il motivo è che gli Emirati Arabi Uniti hanno riaperto la loro ambasciata a Damasco nel 2018 e hanno aperto la strada alla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Siria e Stati arabi e al ritorno della Siria nella Lega araba.

È molto improbabile che Assad si imbarchi improvvisamente in un percorso di normalizzazione con Israele. È ancora più dubbio se troverà un partner in Israele, perché a differenza degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, la pace con la Siria ha un prezzo che Israele non pagherebbe mai.

Pensiamo alle alture siriane del Golan, occupate, alla loro acqua e al loro petrolio. Solo un accordo mediato da entrambi Trump e Putin potrebbe guadagnare un risultato. ndt

Gli accordi sollevano una questione importante riguardo al conflitto israelo-palestinese. Le clausole generali stabiliscono che le parti agiranno insieme per raggiungere una soluzione concordata al conflitto, che risponda ai “bisogni e alle aspirazioni legittime di entrambe le nazioni”, una soluzione che sia “giusta, globale, realistica e fattibile”. Non è noto se gli accordi dettagliati includano un’interpretazione concordata di questi termini e cosa significhi una “soluzione realistica”.

Emirati e Bahrein accettano l’attuale realtà degli insediamenti israeliani? Hanno in programma di creare un nuovo forum che includerà i palestinesi per attuare il piano di Trump? Gli Emirati sostituiranno il Qatar e la Turchia come “protettori” e finanziatori di Hamas, per completare la mossa per bloccare l’Iran?

La gioia israeliana per la “sconfitta” dei palestinesi potrebbe rivelarsi ancora una volta prematura. Gli stati del Golfo stanno dando a Israele ciò che Israele aveva accettato di dare ai palestinesi: la pace economica. Alla fine, Israele potrebbe essere costretto a pagare anche in valuta diplomatico-strategica.

2542.- Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

 

Da quasi quattro anni nello Yemen infuria una guerra civile che vede militarmente coinvolta anche l’Arabia Saudita: perché nessuno parla di questo conflitto così simile alla Siria?

Guerra tra Arabia Saudita e Yemen: perché nessuno parla di questa tragedia?

Nello Yemen è in corso una tragica guerra civile dove l’Arabia Sauditain modo diretto, oltre all’Iran in modo indiretto, gioca un ruolo determinante per questo conflitto che dura ormai dal 2015.

Se ci mettiamo poi che nel più che mai diviso territorio dello Yemen esistono anche zone del paese controllate dall’Isis e da Al-Qa’ida, ecco che allora lo scacchiere assomiglia sempre di più a quello della Siria.

L’assedio da parte di nove paesi arabi sunniti, guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti, nei confronti dei ribelli sciiti, vicini all’Iran, che dal 2015 controllano la capitale San’a sta provocando infinite sofferenze ai civili.

Il blocco all’arrivo di qualsiasi rifornimento e medicinale sta portando circa 7 milioni di yemeniti alla fame, con un’epidemia di colera che soltanto negli ultimi tre mesi del 2017 ha provocato 2.000 morti. Ma perché l’Occidente e le Nazioni Unite tacciono di fronte a questa tragedia?

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L’Arabia Saudita e la guerra civile nello Yemen

Dopo una lunga divisione, nel 1990 lo Yemen del Nord e lo Yemen del Sud decidono di riunirsi in un unico stato, con San’a che diventa la nuova capitale. Presidente è Ali Abdullah Saleh, che all’epoca era alla guida del Nord fin dal lontano 1978.

A seguito nel 2012 delle rivolte nella parte meridionale del paese in quella Primavera araba che sconvolse molti paesi islamici, Saleh rassegna le sue dimissioni e al suo posto arriva il sunnita Abd Rabbuh Mansur Hadi, con il compito di guidare per due anni lo Yemen fino a nuove elezioni.

Visto il timore però che le elezioni sarebbero potute essere soltanto un miraggio e che il regno di Hadi potesse continuare invece per altri anni, nel febbraio 2015 il gruppo armato sciita degli Huthi, proveniente dal Nord del paese, conquista la capitale San’a e costringe alle dimissioni il presidente Hadi che si rifugia a Sud ad Aden, che così diventa una seconda capitale dello Yemen.

Da quel caos si arriva a un paese diviso in due: a Nord ci sono gli sciiti con il governo di Saleh nella capitale San’a, mentre a Sud nella città di Aden si è insediato il Presidente spodestato Hadi, l’unico riconosciuto dall’Occidente e dalle Nazioni Unite.

In tutto ciò Al-Qa’ida è riuscito a entrare in possesso di vaste zone nella parte orientale del paese, con anche l’Isis che si è stabilizzato in diversi villaggi facendo sentire la sua tragica voce con attentati fatti soprattutto contro gli sciiti di San’a.

Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita sunnita si mette a capo di una coalizione di paesi sunniti comprendente anche Marocco, Egitto, Sudan, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain e Qatar.

Questa lega araba formata da nove paesi e capeggiata da Riyad inizia così un massiccio bombardamento in Yemen nei territori controllati al Nord dai ribelli Huthi, che da allora in pratica resistono a questo assedio con il supporto, paventato, soltanto dell’Iran ovvero il più grande stato sciita.

Il dramma dei civili

Lo stato di perenne assedio ha però fiaccato l’alleanza tra gli Huthi e il ras del Nord l’ex presidente Saleh. Quest’ultimo infatti, dopo aver cercato invano rifugio oltre confine, è stato catturato e ucciso dai ribelli fino a poco tempo fa suoi alleati.

Lo Yemen del Nord quindi ora è nel caos più totale ed è controllato dagli Huthi. Vista la debolezza creata dalla faida interna, sono aumentati i bombardamenti da parte della coalizione sunnita che sta aggravando ancora di più la situazione umanitaria.

Un conflitto che sta diventando sempre più cruento, visto che anche di recente ci sono stati violentissimi scontri tra lealisti e ribelli: 142 morti tra i militari dei due schieramenti, mentre 7 sono state le vittime civili.

Oltre ai militari uccisi, altissimo infatti è anche il bilancio delle vittime civili. Non sono soltanto le bombe saudite a fare strage di civili ma anche la fame(lo Yemen è lo stato più povero del Medio Oriente) e il colera.

Anche se da noi viene vista come una malattia ormai debellata, nello Yemensi parla di almeno 500.000 persone contagiate, con il colera che ha provocato soltanto negli ultimi tre mesi la morte di 2.000 persone.

Il blocco dei paesi arabi vicini imposto a San’a sta stritolando la popolazione del Nord, tra quella che sembrerebbe essere l’indifferenza generale anche delle Nazioni Unite che nulla hanno fatto finora per salvare la popolazione civile da questa atroce fine.

L’indifferenza dell’Occidente

Nel 2016 parlando della problematica situazione in Siria Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, dichiarò che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”.

Peccato però che per la guerra civile nello Yemen non sia stato rivolto lo stesso pensiero. L’Arabia Saudita non è stata mai sanzionata per i bombardamenti e, come se non bastasse, si è sempre opposta alla creazione di corridoi umanitari per permettere di inviare cibo e medicinali alla popolazione civile.

In pratica si starebbe utilizzando la fame e le epidemie come un’arma d’assedio, per convincere i ribelli Huthi a cedere visto che le bombe sganciate su San’a finora non hanno prodotto gli effetti sperati.

Immagine simbolo di questa tragedia è quella di Amal, bambina yemenita fotografata in un campo profughi dal premieo Pulitzer Tyler Hicks pochi giorni prima di morire per fame a soli sette anni.

Nicholas Ferrante, Money

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Amal Hussain, la bambina yemenita di 7 anni denutrita, è morta. Diritto alla vita negato.

Per ultimo c’è stata la tristemente famosa strage di bambini, con 43 morti e 60 feriti per un autobus che è stato colpito mentre si stava recando a un mercato situato nel Nord del paese, oltre al più recente bombardamento da parte dell’aviazione saudita di un ospedale di Save the Children che ha provocato 7 morti tra cui 4 bambini.

Il sentore è che la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.

Si può dire invece che tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, sia al contrario sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi.

Alessandro Cipolla