Archivio mensile:febbraio 2024

6141.- Nessuno è santo. Presidente per 9 anni furono troppi, 14 troppissimo. Meglio 4.

Quando Giorgia Meloni accusava Napolitano di tradimento: «Tramava con Parigi contro i nostri interessi nazionali»

23 SETTEMBRE 2023, di Redazione Il secolo d’Italia

La premier lo accusava di aver fatto cadere Berlusconi nel 2011 con il supporto di Bruxelles e della Francia

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è unita ieri alle condoglianze per la morte del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo ha fatto con una nota in cui ha espresso «cordoglio, a nome del governo italiano». E dedicano «un pensiero e le condoglianze alla famiglia». La Stampaspiega oggi che la freddezza della nota non è casuale. Perché Meloni negli anni ha spesso espresso disistima nei confronti di Napolitano. Nel 2019 lo definì «vile incompetente e traditore». Si parlava della guerra di Libia (2011): «O si è piegato alle pressioni della Francia o tramava con Parigi contro i nostri interessi nazionali». Anche nel 2016 Meloni non era stata tenera, anche se Napolitano aveva appena lasciato il Quirinale: «Il suo lavoro non ha fatto bene all’Italia. Penso che siano sua responsabilità la rimozione dell’ultimo governo eletto dai cittadini (quello di Berlusconi nel 2008, ndr).

Il popolo bue e i governi non scelti da nessuno

E ancora: «Così come la nascita di tre governi non scelti da nessuno. A Napolitano piace un’Italia in cui i cittadini contano poco. Fa parte di un mondo e di un’intellighenzia che in Europa ritiene che il popolo sia bue. E che è un bene che ci sia un’oligarchia a governare». In quegli anni la destra intera lo accusò di cospirazioni. Al centro c’era la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, dopo le inchieste sul Bunga Bunga e, soprattutto, la lettera della Banca Centrale Europea in cui Francoforte chiedeva all’Italia di varare riforme sui conti per fermare la crisi dello spread. Anche il leader di Forza Italia considerava Napolitano come l’autore di un golpe realizzato con la complicità di Bruxelles. Con quel commento, spiega Ilario Lombardo, Meloni può vantare «coerenza» fino all’ultimo. In Fratelli d’Italia invece il presidente del Senato Ignazio La Russa ha salutato Napolitano come uno straordinario testimone della sua epoca. Il capogruppo alla Camera Tommaso Foti ha parlato di un «protagonista assoluto della vita pubblica che ha servito le istituzioni».

6140.- La sicurezza condiziona il Piano Mattei

meloni migranti

Migranti, Meloni ai ministri: “Serve un modello Caivano per l’Africa: tutti dobbiamo andare”

Da Il Secolo d’Italia del 5 Feb 2024 19:05 – di Sveva Ferri

Un “modello Caivano” per dare seguito agli intenti del Piano Mattei e chiudere spazio ai trafficanti nelle nuove rotte che hanno identificato, dopo gli interventi positivi che hanno frenato gli arrivi di migranti dalla Tunisia: è quello che il premier Giorgia Meloni ha presentato al governo, nel corso della sua informativa in Consiglio dei ministri sul tema dell’immigrazione.

La centralità del Piano Mattei e “il diritto a non emigrare”

“Prima con la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni, poi con la conferenza Italia-Africa si è avviato il percorso del Piano Mattei. Il tratto che nessuno deve dimenticare è che non abbiamo in mente un modello di cooperazione predatorio con le Nazioni africane bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”, ha ribadito Meloni ai ministri.

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La cooperazione condivisa con i Paesi africani anche per colpire i trafficanti

“Dobbiamo insistere con le Nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso -ha aggiunto Meloni – che faccia contrastare insieme gli sbarchi di migranti sulle nostre coste, cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. “Crediamo in questo metodo e ci sentiamo confortati da piccoli segnali di speranza. Pensiamo – ha spiegato il presidente del Consiglio – al consistente calo degli sbarchi negli ultimi 4 mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al – 41%”.

Sugli sbarchi di migranti “segnali di speranza”, ma nessuna facile illusione

I risultati conseguiti, però, ha di fatto avvertito Meloni, non devono far dimenticare la difficoltà della sfida. “È tuttavia una rincorsa continua”, ha avvertito il premier, ricordando che “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice”. Così, “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni ha ricordato che “fra le nuove fonti di pressione vi sono anche gli arrivi dal Sudan, a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023: i profughi sudanesi non si fermano più in Egitto, ma giungono in Libia, e da lì vengono da noi; e la decisione della giunta golpista in Niger di decriminalizzare in traffico di migranti, con conseguente aumento dei movimenti migratori da quell’area”.

Il “modello Caivano” per l’Africa, a partire da Libia e Tunisia: tutti i ministri devono andare

Dunque, “dobbiamo tenere alta l’attenzione. E per questo – ha chiarito il premier – ho bisogno di tutto il governo, poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del Continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica”. “Dobbiamo sforzarci di far sentire ad entrambe le Nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Pensiamo innanzitutto a impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione”, è stata dunque l’indicazione. “Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando, come per Caivano, le presenze, in modo – ha concluso il premier – che siano cadenzate e diano il senso della continuità”.

6139.- Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Il Nuovo Piano Mattei è la base fondante dell’interconnessione regionale tra MedAtlantic e IndoMed e conferirà autorevolezza alla politica italiana impegnata a valorizzare il capitale umano dell’Africa. A partire dal Magreb, ma in particolare nel Sahel, i problemi di istruzione e la povertà sono importanti quanto quelli dell’economia e la situazione nel Senegal è considerata solo leggermente migliore. Le giunte militari golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso e i disordini che scuotono il Senegal non sono gestibili da Ecowas e rappresentano l’esca che agevola la penetrazione neocolonialista russa e cinese. Ecco un motivo per procedere alla rifondazione dell’Unione europea, a farne un soggetto politico sovrano, potente, capace di impegnare le sue risorse in politiche di solidarietà attiva. Lo stimolo dell’economia potrà sostenere la crescita sociale e culturale di questi Paesi e non quella economica di Russia e Cina. Per condurre queste politiche, serve radicarci nella società africana, ma prima di tutto coesione e comunanza di obiettivi nella nostra politica, vista come alfiere di civiltà e non come strumento di potere. Questa è senz’altro una missione degna del Capo dello Stato.

Da di Emanuele Rossi | 18/02/2024 – 

Il caos in Senegal inguaia ancora Ecowas

Mentre il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato lo spostamento delle elezioni voluto dal presidente Sall, continua una fase opaca per il Paese, che mette in ulteriore difficoltà Ecowas, organizzazione cardine della regione dell’Africa settentrionale in profonda crisi di autorevolezza

I leader della Economic Community of West African States (nota con l’acronimo Ecowas) si dovevano riunire giovedì per parlare della decisione senza precedenti di lasciare l’organizzazione presa a fine gennaio dalle giunte golpiste di Mali, Niger e Burkina Faso. Invece si sono ritrovati a parlare di una situazione complessa (che però ha avuto diversi precedenti nella storia di Ecowas): il Senegal sta piombando nel caos, perché il suo presidente, Macky Sall, ha deciso di posporre al 15 dicembre le elezioni – che erano programmate per domenica 25 febbraio. Dakar è piombata nel caos, proteste di piazza sotto slogan tipo “Sall è un dittatore”, scontro con le forze di sicurezza che hanno usato le maniere forti e procurato alcune vittime — “scontri provocati dall’arresto ingiustificato del processo elettorale”, che fanno “sanguinare il cuore di ogni democratico”, per dirla come il sindaco della capitale senegalese.

Bola Tinubu, presidente nigeriano che guida Ecowas, doveva recarsi personalmente a palare con Sall, ma le condizioni di sicurezza l’hanno portato a evitare il viaggio, dato che qualsiasi cosa di negativo gli fosse successo avrebbe avuto una eco complessa. L’organizzazione soffre una fase di criticità profonda: per dire, ha invitato il Senegal a “ripristinare urgentemente il calendario elettorale”, ma il blocco è consapevole che la sua influenza è praticamente inesistente. A maggior ragione in un momento in cui tre nazioni guidate da governi militari stanno già sfidando le sue richieste. Ora l’opaca situazione in Senegal la mette ancora più in difficoltà, dato che Dakar è considerata un bastione democratico — senza un golpe o un tentativo di alterazione del processo istituzionale dalla nascita della democrazia, nel 1960.

Nelle ore in cui questa analisi viene scritta, il Consiglio costituzionale senegalese ha annullato il rinvio delle elezioni presidenziali di questo mese, “una decisione storica che apre un campo di incertezza per la nazione tradizionalmente stabile dell’Africa occidentale”, spiega Fabio Carminati su Avvenire. Resta che la posposizione è stata votata da un parlamento assediato dalle forze di sicurezza lealiste, che hanno anche arrestato parlamentari di opposizione. Attenzione: il Consiglio di fatto ha dichiarato “impossibile organizzare le elezioni presidenziali nella data inizialmente prevista”, ma ha invitato “le autorità competenti a tenerle il prima possibile” – ossia non accetta il 15 dicembre, ma è “impossibile” votare il domenica 25 febbraio.

Cosa farà il presidente? Sall cercava un terzo mandato, e senza la possibilità di guidare il Paese ha cercato di spianare la strada a una sua successione a suon di repressione (i suoi oppositori sono stati in più occasioni arrestati nei mesi scorsi con accuse di insurrezione o pretestuose). Secondo i critici, arrivato a ridosso del voto ha percepito che il suo candidato (il primo ministro in carica) non avrebbe avuto una vittoria sicura, e allora ha spostato le elezioni per prendere tempo e aver dieci mesi in più di governo e campagna elettorale — forse addirittura sostituire il candidato.

Le critiche scoppiate per lo slittamento del voto sono frutto di un risentimento già esistente: Salò ha prodotto politiche che molti giovani senegalesi non hanno visto come efficaci nel fornire loro posti di lavoro, e molti hanno cercato rotte di migrazione irregolare verso l’Europa. Il Senegal ha problemi di istruzione, povertà e capitale umano, ed è considerato solo leggermente meglio dei Paesi guidati da giunte militari nel Sahel (e lì le condizioni sono pessime e prive di sbocchi). Sall nega ogni accusa, rivendica una scelta costituzionalmente corretta. Ma la sua mossa non ha solo messo nel caos il Paese, piuttosto ha ulteriormente danneggiato l’immagine dell’organizzazione che si dovrebbe occupare della stabilità in quella articolata regione — i cui effetti si allargano facilmente verso l’Europa in termini di sicurezza (dal terrorismo alle migrazioni, fino ad arrivare agli equilibri con attori rivali e competitivi come la Russia). 

Per dire, quando la scorsa estate il Niger è stato oggetto di un colpo di Stato, Ecowas aveva minacciato un intervento militare che Nigeria e Senegal avrebbero dovuto guidare. Nel frattempo, dopo che Ecowas ha fallito nell’attività di deterrenza e Niamey è rimasta in mano ai golpisti, Niger e Burkina Faso hanno comunicato non solo di abbandonare la Comunità, ma anche la West African Economic and Monetary Union (basata sul franco francese) e stanno pensando a una confederazione alternativa con il Mali.

6138.- Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Il Nuovo Piano Mattei rappresenta la base delle interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico, interconnessioni che fin d’ora non sono limitate agli aspetti economici. É questa la via per costruire una politica europea capace di accogliere anche la Federazione Russa.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 24/02/2024 

Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Nell’intervento del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata al Raisina Dialogue, l’importante conferenza indiana sulla politica internazionale, si delineano gli interessi dell’Italia nel grande dossier delle interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico. Connettività, sicurezza e visioni comuni

Dall’impegno italiano lungo le rotte indo-mediterranee martellate dalle armi iraniane degli Houthi, all’impegno italiano nell’Indo Pacifico che passa anche dal passaggio di consegne Meloni-Kishida alla guida del G7, fino alle rinnovate relazioni con l’India: il senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche europee ed ex ministro degli Esteri, descrive il quadro ampio della politica estera italiana, invitato nella capitale indiana per il ruolo alla camera alta italiana nonché come presiedente del Gruppo di amicizia parlamentare Italia-India. La cornice è quella del Raisina Dialogue, la grande conferenza sulla politica internazionale organizzata a New Delhi, dove Terzi ha avuto anche un incontro riservato con l’ospite dell’evento, il ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, una serie di iniziative laterali e particolare attenzione da parte dei media locali — segno anche di un’attenzione riservata all’Italia.

“È chiaro che la comunità euro-atlantica si aspetta di interagire sempre di più con la dimensione indo-pacifica e di esserne percepita come parte integrante, soprattutto quando si tratta di coalizioni di sicurezza, crescita economica, scienza e tecnologia, Stato di diritto e diritti umani”, spiega Terzi intervenuto anche durante il panel “The Europe Files” del Raisina e toccando alcuni dei temi che hanno caratterizzato tutti l’evento indiano: le interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico.

Iniziative specifiche che già coinvolgono alcuni membri europei e la Nato sono chiari esempi di certi impegni. Tra questi, l’istituzione di un gruppo di lavoro intraparlamentare sul Quad negli Stati Uniti, che per Terzi dimostra come l’integrazione della dimensione della sicurezza tra la regione euro-atlantica e quella indo-pacifica è un dato di fatto. Una volontà concreta espressa anche nella ministeriale del G7 organizzata durante l’altra grande conferenza di questa settimana, quella sulla sicurezza di Monaco di Baviera.

Congiunzioni che intersecano settori articolati, dal commercio all’energia, dagli scambi culturali alla connettività infrastrutturale (fisica e digitale): settori dove il controllo geopolitico, politico internazionale e securitario, sta crescendo. “Il mercato globale sta cambiando radicalmente. Oltre alle esigenze di salvaguardia della libertà di commercio, è sempre più vitale garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, attraverso le rotte e i corridoi marittimi”, spiega Terzi, aggiungendo che “è in questo contesto che l’Italia si è ritirata dall’iniziativa cinese della Via della Seta e dal MoU firmato da un precedente governo italiano. Questa decisione è stata presa per rispettare pienamente le politiche commerciali dell’Ue e gli impegni assunti con il mercato unico”.

Ricordando la recente Conferenza Italia-Africa, durante la quale è stato presentato l’approccio che il Paese intende prioritarie verso il continente usando come ponte il Piano Mattei, il senatore ricorda che “l’Italia sta compiendo notevoli sforzi per contribuire alla ridefinizione delle politiche europee in aree critiche. Non solo per quanto riguarda la crescita economica, ma anche la dimensione cibernetica, l’intelligenza artificiale e la migrazione attraverso approcci concreti e realistici”.

Il tema della difesa e della sicurezza, per anni forse trascurato, è tornato al centro del dibattito e delle agende politiche, fa notare l’ex ministro italiano delineando come parte dell’apprezzamento internazionale al governo Meloni (che Terzi sostiene) derivi anche dalla rassicurazione data dall’Italia sul sostegno all’Ucraina. Rassicurazione che nelle prossime ore potrebbe prendere maggiore concretezza con la prima riunione tra leader del G7 che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe presiedere da Kyiv. Una posizione solida quella italiana, che collima con impegni arrivati anche dal bacino indo-pacifico, come testimoniano i nuovi aiuti all’Ucraina varati da Tokyo nei giorni scorsi, per esempio.

Sollecitato con una domanda sulle questioni comuni che riguardano l’Ue, oltre al tema securitario e politico dell’immigrazione, Terzi ha citato il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (Imec) che fa da simbolo delle interconnessioni in corso nell’Indo Mediterraneo, le quali seguono anche la necessità di costruire nuove catene del valore e di approvvigionamento. L’Italia è parte del progetto, lanciato dal vertice G20 di New Delhi lo scorso settembre, che è a sua volta uno dei grandi punti di contatto Roma-India. “La partnership strategica tra Italia e India firmata dai primi ministri Narendra Modi e Meloni lo scorso marzo è da considerarsi un vero e proprio punto di svolta sia per le nostre relazioni bilaterali che per le relazioni strategiche con l’India”, sottolinea Terzi.

Non a caso, Imec e le sue opportunità saranno al centro del “The India Forum” che si terrà a Roma il prossimo giugno, dove la connettività internazionale sarà tra i grandi temi anche del G7 a guida italiana.

”Ma mi piace pensare che tra Italia e India non ci sarà solo una vicinanza in termini economici, ma anche in termini sociali e culturali”, dice Terzi elevando il livello del ragionamento e ricordando l’ispirazione indiana che ha mosso capolavori del design come la lampada ‘Ashoka’ di Ettore Sottsass, creazione “omaggio ad Ashoka il Grande che, come noto, è un esempio di non violenza, di diritti e doveri reciproci e di pace. Ashoka ha lasciato anche un dono importante, un regalo e un messaggio: l’Ashoka Chakra, oggi ben visibile al centro della bandiera dell’India. Ettore Sottsass sembra aver saputo cogliere alcune radici profonde della cultura indiana. Per questo motivo, credo che la sua esperienza rappresenti un armonico scambio culturale: un’ispirazione per tutti noi”.

6137.- In assenza di contenuti, l’opposizione sfida il Governo con manichini capovolti, bruciati e cortei non autorizzati.

Manifestare è un diritto se si seguono le pur semplici prescrizioni. Invece, prima si violano le regole e, poi, “Basta manganelli”. Andando alla radice, il messaggio del Presidente Mattarella può essere letto come una scusa per gli organizzatori, ma non richiesta. Discutere degli oltraggi continui all’autorità da parte di una parte politica elettoralmente sconfitta ci porta lontano. Bisogna farlo anche se vengono in campo le massime istituzioni. Anche la guerra in Medio Oriente, che suscita orrore, esprime una situazione complessa fuori della portata delle piazze, che ci riguarda e su cui informare e dibattere.
La manifestazione irregolarmente tenuta avrebbe potuto essere preannunciata e, eventualmente, autorizzata, anziché tradursi in una violazione dell’autorità. Questo dovrebbe essere oggetto di discussione in Parlamento e di un richiamo del Capo dello Stato. La condivisione del ministro rispetto al richiamo vale come segno di grande rispetto. Detesto i manganelli, ultima ratio, quindi, “ratio” e non fallimento. Il fallimento comincia quando l’autorità non viene rispettata e se ne contesta in piazza l’autorevolezza violando le regole. Non è questo il modo di tenere l’agone politico e, perciò, il messaggio del Presidente può presentarsi parziale. Sono modi di sentire diversi.
Il sentire di un popolo muta e si evolve. Oserei dire che un doppio mandato, per quattordici anni, non consente a nessun Presidente della Repubblica, nemmeno se fosse Gesù Cristo, di rappresentare sempre e al meglio sia il Popolo sia il Governo espresso dalle urne. Sarebbe molto democratico riprendere i lavori dei costituenti e dibattere civilmente su questo vulnus creato da Giorgio Napolitano e proseguito da Lei, sicuramente buona mente, ma con effetti che, nel tempo, possono risultare politicamente divisivi. Dall’Africa al Medio Oriente, all’Asia Transcaucasica la scena in cui operano i Governi è rovente. Con fiducia e con rispetto, ambirei chiederLe se pensa di poter mettere un freno a questo modo almeno irrituale di fare politica, oppure, se insulti, manichini capovolti, bruciati e cortei non autorizzati debbano accompagnare i governi espressi dai partiti diversi da quelli all’opposizione, che l’hanno anche eletta.

Mattarella sente Piantedosi: “I manganelli esprimono un fallimento”. Nel ministro trova “condivisione”

Da Il Secolo d’Italia, 24 Feb 2024, di Sveva Ferri

mattarella piantedosi

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto sugli scontri di piazza che si sono verificati ieri a Pisa e Firenze, con una telefonata al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, resa pubblica dal Quirinale. Il Capo dello Stato, si legge nella nota del Colle, “ha fatto presente al ministro dell’Interno, trovandone condivisione, che l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi – è la conclusione – i manganelli esprimono un fallimento”.

Mattarella “trova condivisione” in Piantedosi

È notizia di stamattina, inoltre, che Piantedosi ha avuto una serie di contatti telefonici con i leader sindacali per fissare un incontro, previsto lunedì alle 12, sui “recenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine”, come confermato dal Viminale. Ieri, lo stesso Dipartimento di Pubblica sicurezza aveva rilasciato una nota nella quale aveva contestualizzato gli scontri nelle difficoltà che si generano “dal mancato rispetto delle prescrizioni adottate dall’autorità ovvero dal mancato preavviso o condivisione dell’iniziativa da parte degli organizzatori”, ribadendo che il proprio impegno ”è da sempre proteso a garantire il massimo esercizio della libertà di manifestazione e nel contempo ad assicurare la necessaria tutela degli obiettivi sensibili presenti sul territorio nazionale”.

La “riflessione” del Dipartimento di pubblica sicurezza su Firenze e Pisa

Nella nota, però, era stato aggiunto anche un altro passaggio: “Quanto verificatosi nelle città di Firenze e di Pisa costituirà, come sempre, momento di riflessione e di verifica sugli aspetti organizzativi ed operativi connessi alle numerose e diversificate tipologie di iniziative, che determinano l’impiego quotidiano di migliaia di operatori delle forze dell’ordine”. Dunque, prima ancora del netto richiamo di Mattarella, lo stesso Viminale nelle sue articolazioni amministrative si era posto il problema della dinamica di piazza. Quanto alla sua guida politica, appare chiaro che la riunione fissata con i sindacati è un segnale che Piantedosi vuole dare.

L’appello di FdI ad abbassare i toni

Sulla necessità di abbassare i toni e fare il possibile per contemperare il diritto alla libertà di manifestare con le esigenze di sicurezza si è espresso anche il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli. Il ministro, Francesco Lollobrigida, poi, ha invitato le forze politiche ad avere un atteggiamento di fiducia nelle forze dell’ordine e non a considerarle in partenza “soggetti da accusare che si devono giustificare”. Messaggi, dunque, improntati alla responsabilità, rispetto ai quali resta da capire cosa vorrà fare quella sinistra che soffia sul fuoco delle piazze. E che mentre oggi si spertica nel condividere le parole di Mattarella, ieri ne ha accolto con una certa freddezza l’avvertimento sull’esigenza di assumere un atteggiamento degno nell’agone politico, rigettando le “intollerabili manifestazioni di violenza” di cui è stata fatta oggetto il premier.

6136.- Due illusioni e un inganno di una guerra di propaganda

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Gianandrea Gaiani, 24 febbraio 2024

La guerra in Ucraina si è sviluppata su due grandi illusioni e un inganno: quella dei russi, convinti di portare alla resa Kiev in pochi mesi e quella delle cancellerie europee convinte nonostante la realtà di portare l’Ucraina alla vittoria. In mezzo c’è l’inganno di cui è vittima l’Ucraina, che paga il prezzo più alto. 

La guerra è anche una questione di simboli e alla vigilia del secondo anniversario dall’attacco russo il ministero degli Esteri tedesco ha diffuso una notizia fondamentale per l’esito del conflitto: nella corrispondenza ad uso ufficiale, sarà utilizzata la parola ucraina “Kyiv” e non più il termine russo “Kiev” per indicare la capitale dell’Ucraina.

«In qualità di Ufficio Federale degli Affari Esteri, stiamo gradualmente cambiando l’ortografia. Questo riguarda i siti web, la targa dell’ambasciata tedesca in Ucraina e i sigilli ufficiali», ha comunicato il ministero degli Esteri tedesco.

Ad Avdiivka, ex roccaforte ucraina nel Donbass espugnata dai russi pochi giorni or sono dopo dieci anni di scontri violentissimi (considerata la ricorrenza è il caso di ricordare che questa guerra non è cominciata due anni or sono ma nel 2014), le autorità di Mosca hanno cominciato a rilasciare passaporti russi agli abitanti mostrando foto dei primi 30 ex cittadini ucraini divenuti russi. Un evento simbolico che, tenuto conto della violenza dei combattimenti in questa città, ricorda che le poche centinaia di civili che hanno deciso di restarvi, nonostante gli appelli delle autorità ucraine affinché lasciassero le loro case, attendevano l’arrivo dei russi.

Sul campo di battaglia questo secondo anniversario dall’avvio della “Operazione Militare Speciale” russa è caratterizzato dall’avanzata delle truppe di Mosca un po’ su tutti i fronti: a ovest di Avdiivka e di Bakhmut, ma anche nei settori di Ugledar e Zaporizhia mentre a Kherson, secondo fonti russe, sono state eliminate le ultime sacche di resistenza dei marines ucraini che per mesi avevano tenuto una piccola testa di ponte sulla sponda sinistra del fiume Dniepr.

Difficile stilare il bilancio di questi due anni di guerra al netto della propaganda dei due belligeranti: gli ucraini potrebbero aver registrato mezzo milione di caduti o più facilmente di morti e feriti e il presidente Zelensky ha reso noto che i russi rimasti uccisi sono oltre 400mila. Numeri che nessuna fonte neutrale potrà forse mai confermare. Un bilancio può emergere solo valutando fatti concreti: innanzitutto i russi stanno vincendo sul campo di battaglia grazie a più truppe, meglio addestrate, con maggiore potenza di fuoco e con un continuo incremento di mezzi, munizioni e combattenti grazie a oltre mezzo milione di volontari che si aggiungono alle truppe regolari e ai riservisti richiamati. 

Gli ucraini hanno bruciato migliori reparti di veterani nella difesa vana di Bakhmut, Marynka e Avdiivka e soprattutto nella fallita controffensiva dello scorso anno. Non ci sono più file lunghissime ai centri di arruolamento, anzi, le enormi perdite subite per perseguire obiettivi più politici che militari inducono oggi gli ucraini giovani e meno giovani a tentare in ogni modo di sottrarsi all’arruolamento. La credibilità della classe dirigente politica e militare è in caduta libera e lo si evince non tanto dai sondaggi in una nazione dove le legge marziale serve anche a eliminare ogni voce di dissenso ma soprattutto parlando con gli ucraini rifugiatisi in Europa.       

In termini militari i rapporti di forza di oggi emettono una sentenza senza appello: il potenziale bellico russo cresce grazie a un’industria pesante supportata da enormi quantità di energia e materie prime mentre l’Ucraina dipende interamente dagli aiuti occidentali militari ed economici: aiuti necessari anche per pagare pensioni e stipendi ma in rapido calo da diversi mesi.

Se negli Stati Uniti i fondi per l’Ucraina restano bloccati al Congresso e la guerra in Ucraina non sembra essere il tema dominante della campagna elettorale (confermando che l’America si stanca delle guerre che combatte ma ancor più di quelle che fa combattere agli altri), in Europa una classe dirigente sempre più imbarazzante affronta il tema con slogan e proclami ben lontani dalla concretezza che nei tempi difficili si dovrebbe pretendere dagli statisti. Il messaggio chiave, ribadito recentemente alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, è infatti continuare ad armare l’Ucraina per permetterle di riconquistare i territori perduti, che peraltro diventano ogni giorno più vasti.

Nessuna ipotesi di negoziare un accordo che ponga fine al conflitto e stabilizzi i confini orientali di un’Europa che non ha più armi né munizioni da dare agli ucraini, se non disarmando i suoi piccoli eserciti, né sembra vi siano nazioni aderenti alla NATO pronte a inviare i propri soldati all’assalto contro i russi per riconquistare Avdiivka. Non a caso, gli ultimi aiuti militari annunciati dagli europei riguardano armi che devono ancora essere costruite e che saranno disponibili nel 2026 o nel 2027. Un po’ tardi per le esigenze dell’Ucraina il cui esercito potrebbe collassare al fronte nei prossimi mesi.

L’industria della Difesa europea, a cui la Ue si affida per i suoi annunciati programmi di riarmo, ha bisogno di anni e molti miliardi di investimenti per ampliarsi e accelerare la produzione e tutto questo dovrebbe accadere mentre l’economia va a rotoli tra inflazione, de-industrializzazione, recessione e incertezza energetica e mentre l’opinione pubblica chiede più “burro” e meno “cannoni”.

Qualche esempio illuminante ci giunge dalla “locomotiva d’Europa”: quest’anno in Germania l’unico ministero che ha un budget più elevato rispetto allo scorso anno è quello della Difesa ma non sembra che questa decisione stia portando molti consensi alla coalizione di centro-sinistra al governo dove il ministero degli esteri guidato dalla verde Annalena Baerbock (la stessa che l’anno scorso dichiarò che il problema più grave della Germania è “il clima”) è impegnato a ridefinire la dicitura delle città ucraine.

La scorsa settimana, all’inaugurazione di un nuovo stabilimento per la produzione di munizioni d’artiglieria, è emerso che i depositi dell’esercito tedesco sono vuoti dopo le cessioni a Kiev (anzi a Kyiv) e che ripianarli agli standard pre-guerra costerà 40 miliardi di euro. Moltiplicare questa cifra per tutti i campi di armamento e per tutti gli stati membri consente di immaginare cifre enormi solo per riportare i livelli di armi e munizioni in Europa agli standard non certo esaltanti di due anni or sono. 

L’aspetto più imbarazzante è che gli stessi leader politici che annunciano impegnativi programmi di riarmo e il bellicoso sostegno alla riconquista dei territori ucraini perduti sono esattamente gli stessi che ci hanno raccontato (senza avere il supporto di analisi, studi e rapporti) che le nostre sanzioni (oggi ulteriormente potenziate dopo la morte di Aleksej Navalny) avrebbero distrutto l’economia russa in poche settimane o che ci assicuravano che Putin sarebbe stato rovesciato, o ucciso da una delle sue innumerevoli malattie, che l’esercito russo aveva finito munizioni e missili, combatteva con i badili e rubava le schede elettroniche dalle lavatrici nell’Ucraina occupata per metterle dentro missili e altri sistemi d’arma.  

Ricordare tutto questo è ancor più necessario oggi che la Ue lancia continui allarmi e vara misure di censura per contrastare la “disinformazione russa”.

La guerra in Ucraina si è sviluppata su due grandi illusioni e un inganno. I russi hanno attaccato due anni or sono su un fronte di 1.500 chilometri con poche truppe (per un terzo composte dalla Guardia Nazionale) convinti che gli ucraini si sarebbero arresi senza combattere. Illusione durata solo qualche mese specie dopo che a fine marzo 2022 gli anglo-americani hanno indotto il governo ucraino a rinunciare all’accordo di pace negoziato con la mediazione turca in base al principio che la guerra doveva continuare perché avrebbe logorato la Russia.

Un inganno di cui oggi ucraini ed europei pagano il prezzo e che ha spalancato la porta alla seconda illusione, quella che ancor oggi sembra alimentare nei governi occidentali la fiducia cieca nel successo ucraino e nella sconfitta russa nonostante tutti gli indicatori inducano a ritenere più probabile il contrario.

6135.- Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

In Africa, le democrazie partono svantaggiate rispetto alle tempistiche delle autocrazie, salvo che non facciano un uso appropriato, preventivo, offensivo dell’intelligence.

Da Formiche.net, di Francesco De Palo | 23/02/2024 – 

Dal Piano Mattei alla Bielorussia, cosa succede in Africa

Etiopia e Ghana sono solo due dei Paesi che il governo italiano ha messo al centro della propria azione con il Piano Mattei. Ma nelle stesse settimane in cui si celebrava a Roma il vertice Italia-Africa, si è rafforzata la presenza bielorussa in loco

Piano Mattei e Africa: sono due i fatti che si possono unire idealmente sotto le insegne della geopolitica (e della marcatura che Mosca vuole fare all’Italia?). Il primo tocca l’Etiopia e in generale i progetti che si stanno moltiplicando tra Italia e Africa e il secondo verte l’attivismo del Presidente bielorusso.

Qui Etiopia

L’Italia ha restituito all’Etiopia il primo aeroplano costruito nel Paese africano, un gesto che rafforza i legami tra le due nazioni e chiude un capitolo doloroso iniziato quasi un secolo fa. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha espresso grande orgoglio per il ritorno di “Tsehay”. Alla cerimonia di consegna, ad Addis Abeba, hanno preso parte il Presidente Sahle-Work Zewde, il primo ministro e il sindaco Adanech Abiebie, nell’ambito della cerimonia di inaugurazione del Memoriale della Vittoria di Adwa. La cessione segue la cerimonia, avvenuta lo scorso 30 gennaio, presso il Musam, quando era stato ufficialmente consegnato il velivolo meticolosamente restaurato, alla presenza del primo ministro Abiy Ahmed Ali e del ministro della Difesa Guido Crosetto.

Su richiesta del primo ministro etiope al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il velivolo è stato completamente ristrutturato prima della riconsegna e si inserisce all’interno di una relazione italo-etiope già solida dopo i vari incontri bilaterali tra i due leader. In Etiopia, tra l’altro, è presente l’istituto Galilei che quest’anno festeggia i 70 anni, al centro di accordo bilaterale siglato nel dicembre scorso nella capitale etiope dal ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara e personalmente visitato da Giorgia Meloni lo scorso aprile in occasione della sua visita ufficiale. 

Progetto Ghana

Colmare il deficit di manodopera nell’industria friulana: per questa ragione il presidente di Confindustria Alto Adriatico, Michelangelo Agrusti, ha incontrato il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, al quale ha illustrato il “Progetto Ghana”, con l’obiettivo di formare giovani ghanesi, già inseriti nelle scuole tecniche e professionali in quel Paese, con uesti profili richiesti: saldatori, mulettisti, carpentieri, elettricisti ed altro. Il ministero ha già dato la propria disponibilità a sostenere questa iniziativa nell’ambito di quel progetto arioso che prende il nome di Piano Mattei.

Qui Bielorussia

A fare da contraltare all’attivismo italiano, ecco il movimentismo bielorusso: il presidente Aleksandr Lukashenko ha dichiarato che, nonostante molti Paesi africani abbiano ottenuto l’indipendenza politica, devono ancora liberarsi dalla dipendenza economica. Ovvero ha annunciato l’inizio, anzi, la prosecuzione di una più ampia strategia per fer entrare in contatto Minsk con quei Paesi a cui si rivolge anche l’Italia con il Piano Mattei. Èun po’ come se, incrociandola con altre partite geopolitiche primarie, Mosca (per il tramite della Bielorussia) volesse marcare stretta l’Italia sull’Africa. 

Tra l’altro tre settimane fa è stato in Kenya per una visita ufficiale, dopo il precedente incontro avuto con il suo omologo kenyano, William Ruto, che si è tenuto a Dubai il 1° dicembre scorso, in occasione del Summit sul Clima Mondiale. Il viaggio in Kenya è stato per Lukashenko l’occasione di annunciare una più intensa partnership tra i due Paesi, sulla scia di quello che la Bielorussia già fa con Zimbabwe e Guinea Equatoriale. “Il potenziale della nostra cooperazione è enorme” disse nel gennaio 2023 incontrando ad Harare il leader dello Zimbawe Emmerson Mnangawa, dopo aver consegnato delle macchine agricole bielorusse.

Un mese prima aveva firmato una serie di accordi di cooperazione con il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo nella capitale Malabo come parte di un tour africano per rafforzare i legami nel continente. I progetti nei settori dell’industria, dell’istruzione, della sanità e dell’agricoltura dovrebbero essere completati entro i prossimi due anni.

Strategia binaria

L’obiettivo di Minsk è quello di rafforzare i legami diplomatici ed economici tra i Paesi africani e la Bielorussia, sotto la spinta di Mosca, soprattutto riguardo alcuni settori mirati come l’agricoltura e la produzione alimentare, ambiti in cui il Kenya è più sensibile.

A dimostrazione dell’ulteriore presenza russa in loco ecco i numeri che provengono alla voce grano: l’Algeria è il secondo consumatore di grano in Africa dopo l’Egitto e lo acquista per la maggior parte dalla Russia, che si pone come il principale fornitore di grano davanti ai Paesi dell’Unione Europea. Numeri che hanno permesso al settore russo di esportare circa 400.000 tonnellate di grano in più rispetto all’Ue, che fino a prima della guerra era la prima fonte di approvvigionamento del Paese nordafricano.

6134.- Guardiamo al difficile cammino di ItaliAfrica, il nuovo Piano Mattei. La sicurezza.

Se di una cosa siamo certi è che il Nuovo Piano Mattei dovrà essere costruito, insieme, dagli imprenditori e dagli istituti finanziari dell’Europa e dell’Africa. Come viaggiare oggi nel Sahel diventa, perciò, importante. Ci affidiamo alla Helpline DFAE, Dipartimento federale degli affari esteri, uno dei sette Dipartimenti federali del governo svizzero. Partiamo con i piedi per terra dal Mali perché è il paese più grande dell’Africa occidentale ma è anche uno dei cinque paesi più poveri al mondo. Poi, vedremo Niger e Chad. Il Mali è sia il maggior produttore di cotone al mondo sia quello con il tasso di alfabetizzazione più basso: 32%.

Anche se il Mali non rientra nella classifica della Farnesina per i paesi con un rischio “estremo” per la sicurezza, i consigli di viaggio sono importanti e poggiano su un’analisi della situazione attuale effettuata dal DFAE. La Helpline DFAE funge da interlocutore per rispondere alle domande riguardanti i servizi consolari. Sono permanentemente controllati e se necessario aggiornati sia i Consigli sia anche le Raccomandazioni generali. Importanti inoltre i ragguagli sulle prescrizioni doganali per l’importazione o l’esportazione di animali o di merci: apparecchi elettronici, souvenir, medicamenti, ecc.

Valutazione sommaria

Si sconsigliano i viaggi a destinazione del Mali come pure i soggiorni di qualsiasi tipo. I rischi per la sicurezza portati non solo dal terrorismo sono elevati e il rischio di sequestro è molto alto in tutto il territorio.

Ci sono persone di cittadinanza svizzera che rimangono o si recano nel Mali nonostante la raccomandazione del DFAE, devono essere consapevoli che la Svizzera ha soltanto possibilità molto limitate di fornire assistenza o non ne dispone affatto in caso di emergenza.

In agosto 2020, unità dell’esercito hanno destituito il governo maliano e sciolto il parlamento. Alla fine di maggio 2021, un altro colpo di Stato ha avuto luogo e un governo di transizione è stato installato.

In tutto il Paese esistono elevati rischi per la sicurezza. Gli attacchi terroristici si verificano regolarmente e il rischio di sequestro è molto elevato. La Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite (MINUSMA) ha terminato il suo mandato il 31 dicembre e ha ritirato precipitosamente il suo personale dal Mali, abbandonando molto materiale.
Un ulteriore inasprimento della situazione di sicurezza è probabile.

La situazione politica rimane instabile e si verificano regolarmente scioperi e manifestazioni contro gli interessi stranieri. I principali collegamenti stradali possono essere bloccati e veicoli possono essere colpiti da pietre. In questi scontri si registrano regolarmente morti e feriti. 

Conflitti tra diversi gruppi della popolazione provocano regolarmente vittime.

Gruppi islamisti e altri gruppi armati controllano ampie zone del nord, del nord-est e del centro del Paese e si espandono verso sud. In tutto il Paese si verificano scontri armati tra le forze di sicurezza e questi gruppi, e si sferrano attacchi alle strutture militari e di polizia. Il numero di dispositivi esplosivi improvvisati lungo i principali assi stradali è aumentato.

Atti di violenza da parte di gruppi terroristici e criminali causano molti morti e feriti tra i civili. Tra i possibili obiettivi di un attacco terroristico vi sono impianti governativi, turistici o istituzioni straniere, assembramenti, come ad esempio mercati affollati, centri commerciali, mezzi di trasporto pubblici, scuole, manifestazioni culturali, alberghi internazionali e ristoranti rinomati. Vengono attaccati anche interi villaggi.

Il rischio di sequestro è molto alto in tutto il Paese. In molte regioni del Sahara e del Sahel sono operative bande armate e terroristi islamici che vivono di contrabbando e di sequestri. Sono perfettamente organizzati, operano anche al di là dei confini nazionali e hanno contatti con gruppi criminali locali. Dal novembre 2009, diverse persone straniere sono state sequestrate nelle zone del Sahel, in parte nelle città. Si trattava di persone in viaggio per turismo, personale di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie, aziende straniere, nonché di persone appartenenti a istituzioni religiose. Le situazioni di pericolo sono spesso imprevedibili e confuse e possono mutare rapidamente. L’ultimo attacco jihadista in Mali risale alla metà di giugno 2022, ma furono 132 le vittime uccise a Mopti, nel Centro del Paese.

SEGUE: L’Intelligence e l’immigrazione

6133.- Navalny come Politkovskaya

La caduta dell’URSS ha travolto il sistema socialista, ma non il comunismo con la sua gerarchia e nemmeno la Guerra Fredda. Ci sono coscienze che portano avanti ideali di democrazia con devozione e che, insieme alla devozione, lasciano la scena. Aleksei Navalny era fra queste. Forse, è stato avvelenato, ma non era comunque compatibile con il regime della Federazione Russa e con la prosecuzione della Guerra Fredda. Potete scegliere la causa fra il regime di Vladimir Putin e la guerra poco fredda di Joe Biden.

Korazym.org

19 Febbraio 2024 di Simone Baroncia

“Dopo essere stato avvelenato, ingiustamente imprigionato e torturato, Aleksei Navalny è deceduto, dopo 37 mesi di sofferenza dietro le sbarre, a seguito di un trasferimento in una delle carceri più remote e dure della Russia. Aleksei era un prigioniero di coscienza, detenuto solo per aver denunciato un governo repressivo”: è quanto dichiarato da Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, all’indomani della morte dell’oppositore di Putin, che ha poi aggiunto:

“Navalny chiedeva libertà politica per sé e i suoi sostenitori; denunciava la corruzione e sfidava Putin. La sua morte è una testimonianza devastante e grave delle condizioni di vita sotto il regime oppressivo e repressivo del Cremlino. Ha pagato il prezzo più alto per aver espresso la propria opinione critica e per aver difeso la libertà d’espressione. Amnesty International è al fianco di tutti coloro che lottano per i diritti umani dentro e fuori i confini della Russia”.

Ed ha spiegato le condizioni del prigioniero russo: “Navalny è stato privato delle cure mediche, è stato tenuto per lunghi periodi in isolamento ed è stato vittima di sparizione forzata, quando è stato trasferito in una delle colonie penali più lontane che ci siano, vicino al Circolo polare artico. Le autorità russe hanno rifiutato di indagare adeguatamente e di essere trasparenti sulle precedenti accuse di violazioni dei suoi diritti umani”.

E’ un richiamo alla comunità internazionale a richiedere verità sulla sua morte: “Mentre è in corso la ricerca di giustizia, è chiaro che abbiamo poche vie a nostra disposizione. E’ quindi fondamentale che la comunità internazionale intraprenda azioni concrete affinché tutti coloro che sono responsabili della morte di Navalny rendano conto delle proprie azioni. Dobbiamo urgentemente chiedere alle Nazioni Unite di utilizzare le loro procedure e i loro meccanismi speciali per occuparsi della morte di Navalny”.

Per questo è stata chiara e precisa la dichiarazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “La morte di Aleksej Navalnyj nel carcere russo di Kharp rappresenta la peggiore e più ingiusta conclusione di una vicenda umana e politica che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica mondiale. 

Per le sue idee e per il suo desiderio di libertà Navalnyj è stato condannato a una lunga detenzione in condizioni durissime. Un prezzo iniquo e inaccettabile, che riporta alla memoria i tempi più bui della storia. Tempi che speravamo di non dover più rivivere. Il suo coraggio resterà di richiamo per tutti”.

L’ong ha sottolineato la responsabilità di Putin: “Aleksej Naval’nyj è stato ucciso in prigione. L’amministrazione penitenziaria ha trasmesso la notizia e intende svolgere verifiche per stabilire la causa di morte; gli inquirenti hanno debitamente annunciato qualcosa di simile. 

Non ce n’è bisogno, quella causa è già nota. Naval’nyj è stato assassinato; di questo assassinio pianificato e attuato metodicamente è responsabile lo stato russo, inclusi quegli stessi enti che ora cianciano di verifiche”.

Dopo aver ricostruito gli ultimi quattro anni del dissidente russo l’ong per la difesa dei diritti umani ha ribadito che tale uccisione è un assassinio politico: “Questo non è un semplice assassinio politico: è un attentato alla speranza. Ma è in nostro potere impedire questo ultimo crimine contro Naval’nyj, e anche di fermare altri assassini politici in corso proprio ora. Aleksej era straordinario per il coraggio, la tenacia e l’ottimismo. Per noi sarà sempre un esempio da seguire, una fonte di ispirazione che infonde speranza e non permette di lasciarsi cadere le braccia”.

Per il prof. Adriano Dell’Asta, vicepresidente della Fondazione ‘Russia Cristiana’, il dissidente è un esempio di libertà: “Esempio di democrazia, aveva mostrato in atto la disponibilità a battersi per una causa non strettamente personale: era infatti tornato in patria dopo che era stato oggetto di un tentato avvelenamento, ben sapendo di essere destinato alla galera, ma convinto di dover dare un esempio di coraggio civile che potesse scuotere un’opinione pubblica troppo accomodante con il potere, in patria ma, non dimentichiamolo, ancor più gravemente accomodante nel resto del mondo.

Ora a morire è Naval’nyj, ma non dimentichiamo, appunto, gli avversari politici, gli oppositori e i giornalisti eliminati in questo primo ventennio del XXI secolo. Esempio di libertà, non aveva smesso di essere libero, continuando a difendere la causa di tutta l’opposizione persino in carcere e persino quando vedeva che ogni sua azione scatenava le reazioni più odiose e assurde da parte dei suoi aguzzini. Esempio di dignità, col suo ritorno e con la sua resistenza, aveva mostrato cosa significhi essere uomini in questa nuova versione del ‘secolo lupo’, come la moglie del grande poeta Mandel’štam aveva chiamato i tempi di Stalin”.

Sul sito di Asia News don Stefano Caprio, docente di storia e cultura russa al Pontificio Istituto Orientale, ha ricostruito i minuti precedenti il decesso dell’oppositore russo: “Naval’nyj è morto ufficialmente alle 14.17, e la notizia è stata diffusa con un comunicato stampa dell’amministrazione penitenziaria alle 14.19, per girare sui canali della Tass alle 14.20, annunciando alle 14.23, sei minuti dopo la morte, la ‘verosimile formazione di un trombo’, senza alcuna autopsia o conferma di medici competenti.

Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha commentato la ‘spiacevole notizia’ alle ore 14.30, meno di un quarto d’ora dopo la morte. Il cronometraggio ufficiale, e non le supposizioni dei malvagi occidentali, dimostrano che si è trattato veramente di un’operazione pianificata e concordata ai massimi livelli, fino ai minuti secondi, con comunicati già pronti e stampati.

Putin non si farà ovviamente alcuno scrupolo nel negare ogni tipo di evidenza, ciò che rappresenta la sua migliore capacità professionale fin dai tempi del Kgb, ma non c’è modo di occultare un crimine di portata così clamorosa, tanto che in tutta la Russia sono in corso manifestazioni spontanee di grande partecipazione emotiva, segno che nel fondo dell’anima dei russi si conserva ancora la fiammella di Naval’nyj”.

Dopo la morte la polizia russa ha bloccato l’accesso al memoriale delle vittime della repressione politica ed ha arrestato coloro che erano venuti a commemorare l’oppositore, che secondo l’ong OVD per i diritti umani sono oltre 400 i detenuti in 30 città russe per aver voluto ricordare il dissidente. Inoltre 24 ore dopo è morto anche il fotografo Dmitry Markov, che aveva documentato le proteste del 2021 per l’arresto dell’oppositore al suo ritorno in Russia dalla Germania.

(Foto: Amnesty International)

6132.- La profezia di Ratzinger del 1969 sul futuro di una «Chiesa della Fede» e «quel piccolo gregge di credenti»

2 Dicembre 2023  Blog dell’Editore di Vik van Brantegem

Ripropongo alla riflessione un articolo pubblicato l’8 ottobre 2021, sulla profezia sul futuro di una «Chiesa della Fede» e «quel piccolo gregge di credenti», che concluse un ciclo di cinque lezioni radiofoniche, svolte nel 1969 dall’allora professore di teologia Joseph Ratzinger. Dopo aver rotto con gli amici teologi Hans Küng, Edward Schillebeeckx e Karl Rahner sull’interpretazione del Concilio Vaticano II, iniziano nuove amicizie con i teologi Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, con i quali darà vita alla rivista Communio. Nelle cinque lezioni il teologo e futuro Papa in quel complesso 1969 tracciava la propria visione sul futuro dell’uomo e della Chiesa.

È soprattutto l’ultima lezione, nel giorno di Natale del 1969 ai microfoni della Hessischer Rundfunk, ad assumere i toni della profezia.

Il Professore Joseph Ratzinger si diceva convinto che la Chiesa stesse vivendo un’epoca analoga a quella successiva all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese: «Siamo a un enorme punto di svolta nell’evoluzione del genere umano. Un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante». Il Professor Ratzinger paragonava l’era attuale con quella di Papa Pio VI, rapito dalle truppe della Repubblica francese e morto in prigionia nel 1799. La Chiesa si era trovata allora alle prese con una forza che intendeva estinguerla per sempre, aveva visto i propri beni confiscati e gli ordini religiosi dissolti. Una condizione non molto diversa, spiegava, potrebbe attendere la Chiesa odierna, minata dalla tentazione di ridurre i preti ad “assistenti sociali” e la propria opera a mera presenza politica.

Ratzinger affermava che «alla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali» e ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. «Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti».

Quello che il Professor Ratzinger delineava, era «un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata». A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di «indescrivibile solitudine» e avendo perso di vista Dio, «avvertiranno l’orrore della loro povertà». Allora, e solo allora, concludeva, vedranno «quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per sé stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto».

La traduzione italiana delle parole di Professore Joseph Ratzinger, rispondendo alla domanda di coloro che si chiedevano cosa sarebbe diventata la Chiesa in futuro durante la trasmissione radiofonica del 25 dicembre 1969

(…) Dobbiamo essere cauti nei nostri pronostici. Quello che ha detto Sant’Agostino è ancora vero: l’uomo è un abisso; nessuno può prevedere quello che uscirà da queste profondità. E chiunque creda che la Chiesa sia non solo determinata dall’abisso che è l’uomo, ma raggiunga l’abisso più grande, infinito, che è Dio, sarà il primo a esitare con le sue predizioni, perché questo ingenuo desiderio di sapere con certezza potrebbe essere solo l’annuncio della sua inettitudine storica. (…)

Il futuro della Chiesa può risiedere e risiederà in coloro le cui radici sono profonde e che vivono nella pienezza pura della loro fede. Non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente o in quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili, né in coloro che prendono la strada più semplice, che eludono la passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica, tutto ciò che esige qualcosa dagli uomini, li ferisce e li obbliga a sacrificarsi. Per dirla in modo più positivo: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia. La generosità, che rende gli uomini liberi, si raggiunge solo attraverso la pazienza di piccoli atti quotidiani di negazione di sé. Con questa passione quotidiana, che rivela all’uomo in quanti modi è schiavizzata dal suo ego, da questa passione quotidiana e solo da questa, gli occhi umani vengono aperti lentamente. L’uomo vede solo nella misura di quello che ha vissuto e sofferto. Se oggi non siamo più molto capaci di diventare consapevoli di Dio, è perché troviamo molto semplice evadere, sfuggire alle profondità del nostro essere attraverso il senso narcotico di questo o quel piacere. In questo modo, le nostre profondità interiori ci rimangono precluse. Se è vero che un uomo può vedere solo col cuore, allora quanto siamo ciechi!

In che modo tutto questo influisce sul problema che stiamo esaminando? Significa che tutto il parlare di coloro che profetizzano una Chiesa senza Dio e senza fede sono solo chiacchiere vane.

Non abbiamo bisogno di una Chiesa che celebra il culto dell’azione nelle preghiere politiche. È del tutto superfluo. E quindi si distruggerà. Ciò che rimarrà sarà la Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa che crede nel Dio che è diventato uomo e ci promette la vita dopo la morte. Il tipo di sacerdote che non è altro che un operatore sociale può essere sostituito dallo psicoterapeuta e da altri specialisti, ma il sacerdote che non è uno specialista, che non sta sugli spalti a guardare il gioco, a dare consigli ufficiali, ma si mette in nome di Dio a disposizione dell’uomo, che lo accompagna nei suoi dolori, nelle sue gioie, nelle sue speranze e nelle sue paure, un sacerdote di questo tipo sarà sicuramente necessario in futuro.

Facciamo un altro passo. Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. In contrasto con un periodo precedente, verrà vista molto di più come una società volontaria, in cui si entra solo per libera decisione. In quanto piccola società, avanzerà richieste molto superiori su iniziativa dei suoi membri individuali.

Scoprirà senza dubbio nuove forme di ministero e ordinerà al sacerdozio cristiani che svolgono qualche professione. In molte congregazioni più piccole o in gruppi sociali autosufficienti, l’assistenza pastorale verrà normalmente fornita in questo modo. Accanto a questo, il ministero sacerdotale a tempo pieno sarà indispensabile come in precedenza. Ma nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica.

Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Essa farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli, il processo sarà lungo e faticoso, perché dovranno essere eliminate la ristrettezza di vedute settaria e la caparbietà pomposa. Si potrebbe predire che tutto questo richiederà tempo.

Il processo sarà lungo e faticoso, come lo è stata la strada dal falso progressismo alla vigilia della Rivoluzione Francese – quando un vescovo poteva essere ritenuto furbo se si prendeva gioco dei dogmi e insinuava addirittura che l’esistenza di Dio non fosse affatto certa – al rinnovamento del XIX secolo. Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una Chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto.

A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.

La Chiesa cattolica sopravvivrà nonostante uomini e donne, non necessariamente a causa loro, e comunque abbiamo ancora la nostra parte da fare. Dobbiamo pregare e coltivare la generosità, la negazione di sé, la fedeltà, la devozione sacramentale e una vita centrata in Cristo.

Joseph Ratzinger