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5721.- “Sull’orlo di una guerra nucleare”. La mossa a sorpresa della Corea del Nord, il mondo trema

Da Il Paragone, di Tommaso Croco, 26/06/2023

Le minacce di Kim Jong-un potrebbero andare oltre i missili sparati verso il Giappone.

Accuse pesantissime, quelle mosse dalla Corea del Nord al governo americano, reo di aver “spinto le tensioni della regione sull’orlo di una guerra nucleare”. Parole che stanno spaventando il mondo intero in queste ore, con l’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap che ha riportato come Pyongyang avrebbe insistito sulla necessità di rafforzare le capacità di autodifesa del Paese e paragonato le tensioni delle ultime ore alla notte precedente lo scoppio della Guerra di Corea del 1950. Un parallelismo che ha reso ancora più incandescente il clima, accompagnato da parole di fuoco contro “il delirante confronto militare anticomunista” degli Stati Uniti e della Corea del Sud.

guerra nucleare corea del nord

In un rapporto in lingua inglese pubblicato dall’agenzia ufficiale Korean Central News Agency e riportato dal Messaggero si legge: “Tali mosse bellicose degli Stati Uniti hanno spinto le tensioni militari nella penisola coreana e nell’Asia nordorientale, già sprofondate in una situazione estremamente instabile, più vicine all’orlo di una guerra nucleare”.

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Secondo la Corea del Nord, gli Stati Uniti starebbero “ricorrendo a preoccupanti atti ostili, invadendo senza ritegno la sovranità e la sicurezza” del Paese, in una situazione sempre più intollerabile. Pyongyang ha poi avvertito che una guerra nella penisola “si espanderebbe rapidamente in una guerra mondiale e in una guerra termonucleare senza precedenti al mondo” e che le conseguenze sarebbero sicuramente “catastrofiche e irreversibili”.

Il rapporto si è concluso con l’impegno della Corea del Nord ad accelerare gli sforzi per “rafforzare le sue capacità di autodifesa per salvaguardare la propria sovranità”. Più di 120.000 persone hanno preso parte nelle ultime ore a varie manifestazioni di massa organizzate nel Paese per denunciare una “provocazione di aggressione di guerra”.

4971.- Putin avverte sempre!

Di Mario Donnini

Venti anni son già trascorsi, da quando, a proposito del peso di derivati e simili sul mercato finanziario, si diceva che se l’impero del dollaro non avesse interrotto la sua discesa e non si fosse riaffermato, gli restava un’unica maniera per tornare a crescere e sarebbe stata una guerra con la successiva ripartenza da zero. Era anche il tempo in cui la US. NAVY prevedeva che nel 2025 avrebbe avuto un numero di unità inferiore a quello della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese.

Sono i giorni della guerra in Europa e gli struzzi mettono riparo agli avvertimenti di Vladimir Putin nascondendoli. Verrebbe da fare una domanda: Quanti giorni abbiamo davanti? Una breve scansione di quelli trascorsi.

Cominciando dalle dichiarazioni di Zelensky. Più o meno così: L’Ucraina potrebbe dotarsi di armi nucleari. Gli ucraini si sentono europei e l’Ucraina vuole far parte dell’Unione europea e della NATO. È vero. Kiev è una città europea, ma anche San Pietroburgo e anche Mosca. Probabilmente, come sostengono i russi, l’Ucraina sta già lavorando alla costruzione di ordigni nucleari. Infatti, possiede la necessaria tecnologia e ha i giacimenti d’uranio più ricchi d’Europa, con i quali alimenta 15 centrali nucleari. Solo quella di Zaporizhzhia, cui i sabotatori (non russi) hanno tentato di appiccare l’incendio, ha 6 reattori e tre centrali elettriche. Al momento dello scioglimento dell’U.R.S.S., l’Ucraina aveva 6.000 testate nucleari, una ogni 7mila ucraini e ha dovuto smantellarle insieme ai loro vettori.

Putin ha reagito agli annunci di Zelensky dichiarando in più occasioni, anche a Joe Biden e a Macron, che non avrebbe tollerato missili dietro la porta di casa e, infine, che se la NATO avesse inglobato l’Ucraina, sarebbe ricorso alle armi. Più chiaro di così! Oppure, qualcuno può sostenere che un missile lanciato da pochi chilometri dal confine sarebbe intercettabile dalle forze di deterrenza nucleare russe?

È necessario porsi una domanda: Quanto vale l’Ucraina per la NATO e perché dovrebbe farne parte? Per il momento, tralasceremo la domanda di adesione all’Unione europea, presentata da Zelensky, con procedura di urgenza, anche perché non tutti i Paesi membri dell’Ue sarebbero favorevoli, date le condizioni dell’economia ucraina e perché le enormi ricchezze della terra ucraina possono essere, comunque, oggetto di investimenti. E, poi, in pieno conflitto, accettarla, significherebbe una dichiarazione di guerra alla Federazione Russa.

Dunque, la NATO è nata in funzione anti russa. Oserei dire che il Terzo Reich è stato armato in vista di un inevitabile assalto all’U.R.S.S. ed è utile ricordare che Churchill, visto il fallimento di Hitler, avrebbe accettato volentieri, se non desiderato, un rovesciamento di fronte per schierare gli alleati e l’Asse insieme contro l’Armata Rossa.

La vittoria sull’U.R.S.S. è venuta quarantasei anni dopo, ma non ha posto le basi per la pace e per una ragione semplice: La Russia è rimasta una potenza globale e gli Stati Uniti d’America, superata Hiroshima, non avevano e, più ancora oggi, non hanno la potenza necessaria a dominare sia la Federazione Russa sia la Cina, nuova potenza a livello globale. Forse, oggi, gli Stati Uniti potrebbero averla nei confronti della Russia, ma dal punto di vista finanziario e per un errore ingenuo di Putin. Un errore che rischia di far retrocedere la Federazione a potenza regionale.

La Banca Centrale Russa

L’errore ingenuo di Putin è stato di ritenere al sicuro le riserve valutarie che, prudentemente, aveva costituito nelle banche estere, ma alle quali gli è stato interdetto l’accesso. Non è bastato, infatti, che la Banca Centrale della Federazione Russa, dal 2014, abbia dimezzato la sua dipendenza dal dollaro e dall’euro, investendo nello yuan.  Le riserve della Banca centrale russa ammontano a circa 630 miliardi di dollari e, nei giorni scorsi, la Banca Centrale Russa ha immesso liquidità e venduto 679 miliardi di rubli (pari a 6,17 miliardi di dollari). Dal 24 febbraio, il rublo ha perduto tra il 20 e il 30% e questa guerra finanziaria rischia di far crollare la Russia, tanto da far dire a Marina Vorochilova che quando Gazprom avrà esaurito il gas, potrà bruciare rubli.

II russi hanno capito che, per l’Occidente, l’Ucraina è uno strumento e che gli Stati Uniti hanno attaccato, non solo Putin, ma la nazione russa tutta, in quanto potenza globale. Lo capisce meglio la Cina, che non fa da salvagente alla Banca Centrale Russa e tace aspettando la sua ora. Gli Stati Uniti possono vincere questa o la prossima battaglia, ma la guerra sarà vinta dalla Cina. Dubitiamo, infatti, che l’Ordine Internazionale, citato e obbedito da Draghi, possa dominare i popoli europei e il russo insieme. Potrà controllare i governi europei, ormai sue marionette e mettere fuori gioco Putin, ridurre la Federazione Russa a potenza regionale, ma non le potenze asiatiche.

Molti, sempre più, si chiedono se siamo all’ultimo atto di questa competizione, iniziata con il rifiuto di Sua Maestà britannica Giorgio V di dare rifugio alla famiglia del cugino Zar Nicola II, ponendo fine al più vasto impero del mondo durato per 304 anni (L’ultimo Zar è ricordato per il suo appello del 1898 al «disarmo e alla pace mondiale»).

L’intervento di Sergei Lavrov durante la conferenza per il disarmo a Ginevra – foto Ansa EPA/FABRICE COFFRINI

A chi vede la partecipazione alla guerra in Ucraina da parte americana, attraverso gli europei, è risuonata sinistra la frase di Putin: “É tempo che le armi atomiche tornino a casa”. L’avvertimento del ministro degli esteri Sergej Lavrov è stato più preciso e ed è stato rivolto agli Stati Uniti e, sopratutto, ai quattro stati della NATO che ospitano le bombe atomiche americane, sotto controllo americano: Secondo il Center for Arms Control and Non-Proliferation si stima che ci siano 100 armi nucleari di proprietà degli Stati Uniti immagazzinate in cinque stati membri della Nato in sei basi: Kleine Brogel in Belgio, la base aerea di Büchel in Germania, le basi aeree di Aviano e i siti intorno a Ghedi in Italia, la base aerea di Volkel in Olanda. Invero, in Italia, si sapeva di averne 135, dopo che Erdogan ha voluto che fossero portate via dalla base aerea di Incirlik in Turchia; e non si parla di Sigonella, territorio dell’US.NAVY.

Le bombe nucleariall’idrogeno B-61-12 sono sganciabili dagli F-35 e da altri aeroplani. Le bombe B61 sono state progettate e costruite dai Sandia National Laboratories e Los Alamos National Laboratory a Los Alamos, nel Nuovo Messico e secondo Lavrov e non solo, dovrebbero tornarci.

“La presenza di armi nucleari statunitensi in Europa è inaccettabile e devono essere portate via. Sono queste le parole del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, citate dalla agenzia Ria Novosti che ha riportato il suo intervento in video alla Conferenza dell’Onu sul disarmo svoltasi a Ginevra. Lavrov ha aggiunto: “È tempo che gli Stati Uniti le riportino a casa. Per noi è inaccettabile che, contrariamente alle disposizioni fondamentali del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, le armi nucleari statunitensi si trovino ancora sul territorio di un certo numero di Paesi europei” .

Sembra un ultimatum agli Stati Uniti d’America, ma a chi vede questa guerra come l’ennesima combattuta dagli americani sul territorio europeo, è suonato come un avvertimento ai governi europei e Putin avverte sempre.  

La Federazione Russa confina con Gli Stati Uniti d’America nel Mare di Bering. Perché si combattono sull’Europa e non sull’Alaska? Perché prendono due piccioni con una fava.

Sottovalutare gli avvertimenti di Putin è un errore. Come siamo usi a sostenere, sta dicendo che le bombe all’idrogeno americane saranno il primo obiettivo. Europa.today riporta: “La pratica viziosa delle missioni nucleari congiunte con la partecipazione dei Paesi non nucleari della Nato rimane. All’interno del suo quadro, sono in fase di elaborazione scenari per l’uso di armi nucleari contro la Russia. È giunto il momento di portare a casa le armi nucleari americane e smantellare completamente le infrastrutture associate in Europa”, ha affermato il ministro. Il governo russo ha per questo chiesto agli Stati Uniti e ai suoi alleati di “aderire a una moratoria sul dispiegamento di missili a corto e medio raggio in Europa”, dicendosi pronto a “collaborare su questioni di stabilità strategica” con Washington”.

Ci sono due scenari. Uno che guarda al futuro dell’Occidente, Russia inclusa, che si riassume nell’espressione “Dagli Urali, agli Urali” e vede l’emisfero boreale, Nord fronteggiare e competere con le potenze asiatiche a Sud e un altro che vede gli Stati Uniti d’America, unica potenza globale dell’emisfero boreale, insieme con una versione ‘indo-pacifica della Nato, competere con le altre potenze globali, dominando i popoli europei e quello russo, ridotti a vassalli. Ecco il punto interrogativo sul dollaro, che dovrebbe, ma difficilmente potrà mantenere la su a supremazia..

“Dagli Urali, agli Urali”

Sembra evidente che Washington stia seguendo il secondo scenario per una ragione che non ammette contestazioni: Chi dirige l’Ordine Internazionale di Draghi non è in grado di dominare i popoli europei insieme a quelli della Federazione Russa e, contemporaneamente, confrontarsi e competere con le potenze asiatiche nell’Indo-Pacifico. Parliamo di potenze asiatiche e non solo di Cina perché immaginiamo quale sarebbe la potenza coreana, una volta che, finita la dittatura di Kim Jong-un, le due Coree si pacificassero e si unissero.

Il presidente sudcoreano Moon Jae-in visita l’Australian National Korean War Memorial, a Canberra, in Australia, lunedì 13 dicembre 2021. Moon è in visita ufficiale di due giorni in Australia. (Lukas Coch/PISCINA tramite AP).

Lo scorso dicembre, il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in – che sta terminando il suo mandato – si è detto d’accordo, per ora in linea di principio, a porre la parola fine alla guerra di Corea (1950 – 1953), che si concluse, da parte della Cina e degli USA, con la divisione della penisola di Corea in Corea del Nord e Corea del Sud. Alcuni analisti avanzano l’ipotesi che Moon-Joe vorrebbe convincere Washington a dichiarare unilateralmente la fine della guerra di Corea. Riteniamo che non accadrà, almeno durante la dittatura di Kim Jong-un, per la contrarietà della Cina, che potrebbe essere sopravanzata dalla Corea. Quindi, sia per la Russia che per la Corea, si possono ipotizzare interessi convergenti degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Popolare Cinese. E saremmo già in un futuro che vedrebbe europei e russi ridotti a vassalli.

Abbiamo detto che la Cina non sta facendo da salvagente alla Banca Centrale Russa e tace e prendiamo anche atto che il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha parlato di “amicizia duratura” con la Russia, un’amicizia che è “solida come una roccia”. Che tipo di amicizia? Wang Yi, ha detto che “si basa sulla non alleanza, sul non confronto e sul non prendere di mira qualsiasi terza parte”; che i due Paesi “manterranno il focus strategico e continueranno ad approfondire il partenariato strategico globale di coordinamento per una nuova era”. Ecco, una nuova era.

Alla luce della convergenza che, dal punto di vista economico, sembrava in atto fra Unione europea e Federazione Russa, è difficile non riconoscere a Putin e Lavrov le loro ragioni. Quello che conta è che ci si sieda al tavolo della pace, non per timore di una sconfitta, ma per un progetto di pace e prosperità. Questo intento, in assenza di uno stato sovrano europeo, con una sua Costituzione e una sua politica estera, sembra raggiungibile da parte dei capi dei governi dell’Unione europea e dal presidente Putin. Sarebbe un inversione di rotta rispetto alla bellicosità di Joe Biden (da oltre Atlantico, in nome della NATO e col sedere degli europei!) e un vero aiuto al popolo ucraino.

Dalle considerazioni qui esposte si tratta di spostare la barra di comando del cosiddetto Ordine Internazionale, da una visione soltanto finanziaria del progresso, a parer nostro riduttiva, a una che faccia della sinergia la sua forza. Pace e Prosperità per tutti.

Mario Donnini

2535.-Quando l’antitrumpismo diventa ”sottomissione”: “soumissionnisme”

Se ciò che Trump vuole fare è disimpegnare tensioni inutili o focolai stabilizzabili – in Europa e Medio Oriente – e concentrarsi sul Pacifico sia economicamente che strategicamente e vuole riprendere la ricerca spaziale, allora, dovremmo essere tutti americani e torno a rincorrere il sogno di un Occidente Unito, dall’Alaska, all’Alaska.

Va notato che la mia posizione personale non è favorevole alla NATO, la cui ragion d’essere è cessata alla fine dell’URSS. Ciò significa che la Francia e l’Europa dovranno compiere sforzi adeguati per garantire la loro difesa e il loro ruolo nella sicurezza internazionale. La conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa dovrebbe mirare a denuclearizzare il nostro continente e a promuovere una pace equilibrata, sia in Ucraina che in Europa. Oltre agli incessanti incendi dell’islamismo, i potenziali fattori di guerra sono: Iran, Corea del Nord, Cina. Tre paesi non democratici la cui politica è minacciosa. Tuttavia, nella loro frenesia anti-Trump, intellettuali e media non solo attaccano il presidente degli Stati Uniti, ma anche la debolezza, reale o presunta che sia, degli Stati Uniti e del loro esercito.

Yves Michaud è un filosofo. Ha insegnato in diverse università straniere (Berkeley, San Paolo, Edimburgo) e Francia presso l’Università di Rouen e la Sorbona. È anche fondatore e direttore dell’Università di tutte le conoscenze, tiene conferenze in tutto il mondo … quando non è a Ibiza, dove scrive i suoi libri.

Qui (su beta Atlantico) un filosofo (Yves Michaud) attacca la persona di Trump e si chiede: “È una semplice coincidenza che, allo stesso tempo in cui si sta verificando questa guerra commerciale, la Cina stia minacciando e faccia avanzare regolarmente le sue pedine militari verso Taiwan e versoi Hong Kong? “Se la Cina attaccasse, sarebbe quindi” colpa di Trump “?

Per quanto riguarda l’Huffpost, l’allarme è dato da un crescente squilibrio nel Pacifico a beneficio della Cina e avanza una richiesta di rafforzamento strategico di fronte alla minaccia cinese. Va ricordato che l’attuale indebolimento degli Stati Uniti nei confronti di Cina, Russia, Afghanistan e Iran è in gran parte attribuibile a Obama e Hillary Clinton. E che l’ottima situazione economica degli Stati Uniti, se fu resa possibile da Obama, ebbe successo con Trump.

Per l’Huffpost, “gli americani non sono più in una posizione di forza militare contro la Cina, nel Pacifico”, secondo uno “studio molto serio” di esperti australiani del Center for Studies on the United States of the University of Sydney :

  • Ashley TownshendDirector, Foreign Policy and Defence, United States Studies Centre
  • Brendan Thomas-NooneResearch Fellow, Foreign Policy and Defence Program, United States Studies Centre
  • Matilda StewardResearch Associate, Foreign Policy and Defence Program, United States Studies Centre

Questo studio “descrive le forze armate statunitensi come una” forza avvizzente “le cui capacità sono “pericolosamente superate“ e sono “mal preparate“ per uno scontro con la Cina.” Questa riflessione è probabilmente fondata, ma sembra, comunque, che offra una stima del potenziale dei paesi democratici di fronte all’oscura dittatura di Xi.

Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Filippine, Nuova Zelanda, Australia e la terza e la settima flotta statunitense rappresentano, ancora, un enorme potenziale che circonda la Cina, che oltre a Taiwan e al Giappone ha intrapreso per rafforzare le sue capacità.
Qual è il vero valore militare dell’esercito cinese? Possiamo solo averne un’idea attraverso il metro di alcuni conflitti di confine (Russia, India, Vietnam) che erano tutt’altro che convincenti. E la Cina affronta spasmi democratici e irredentisti (Hong Kong, Turkestan orientale, Manciuria, Mongolia, Tibet, Guandong).
Tuttavia, lo studio accademico (che non può essere reso pubblico senza consultazione con il governo australiano) è molto a sostegno dell’approccio di D.Trump per attuare la sua supremazia con l’esercito americano.

In conclusione, l’Huffpost afferma che “l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, con il suo credo di” L’America prima “, ha aggiunto alle paure di un disimpegno dagli Stati Uniti, che sarebbero meno propensi a difendere i loro alleati, nell’ipotesi di un’aggressione della Cina, ad esempio. “Invece, è esattamente l’opposto di ciò che Trump vuole fare: disimpegnare tensioni inutili o focolai stabilizzabili – Europa, Medio Oriente – e concentrarsi sul Pacifico sia economicamente che strategicamente. Se Trump vuole riprendere la ricerca spaziale, deve anche ripristinare un vantaggio strategico.

Henry Temple

L’editoriale è di Henry Temple, accademico, giurista-economista, esperto internazionale, dialettico.

2436.- Possono la Russia e la Cina, insieme, scavalcare gli Stati Uniti per costruire una superpotenza eurasiatica?

FRA SCENE E SCENARI

Storico incontro tra Trump e Kim Jong un. Grazie anche all’opera di un italiano il prof. Giancarlo Elia Valori @GEliaValori storico amico della Corea del Nord.

La competizione delle potenze asiatiche intorno al ruolo di superpotenza degli Stati Uniti in Medio Oriente vede la Russia fare da ago della bilancia, in contrapposizione all’attivismo di Washington e alla bellicosità di Israele. Il Niet di India, Cina e Russia al bombardamento della centrale nucleare iraniana, annunciato da Trump, dopo il discusso incidente al traffico petrolifero nello Stretto di Hormuz, ha fermato l’escalation della tensione con l’Iran, lasciando in mano a Trump solo l’arma delle sanzioni e a Israele gli attacchi missilistici contro Damasco; ma ha dato luogo anche a un apparente riavvicinamento della politica USA alla Corea del Nord, per tentare di rompere questo fronte. Sappiamo che Xi Jinping vuole imporre la sua politica all’Asia e che le due Coree unite metterebbero facilmente la Cina all’angolo, ma, sappiamo anche che questo non corrisponderebbe agli interessi sino-americani né muterebbe la sostanza del problema il fatto di avere di fronte i coreani anziché i cinesi; inoltre, in una prospettiva politica unificante, proprio Kim Jong-un dovrebbe rinunciare al suo ruolo di leader. Quello di Trump in Corea del Nord, quindi, senz’altro ha dato un seguito positivo al mancato accordo, nel vertice di Hanoi, a marzo, sulla parziale denuclearizzazione della Corea del Nord e sulla fine delle sanzioni USA, ma deve essere visto da Pechino come uno show, più che come una reale minaccia, da un altro lato, come una richiesta di armistizio a Pyongyang, per selezionare e inquadrare meglio gli obbiettivi della strategia statunitense. Siamo ancora lontani dalla stabilizzazione dei fronti intorno a un Occidente allargato, dagli Urali agli Urali e a una pace cinese in Asia. Prevarrà chi, per primo, saprà interpretare gli scenari futuri, indirizzandovi la propria politica. La lezione di Hormuz è stata un avvertimento.

Trump, a marzo, ha lasciato cadere la proposta di accordo di Kim Jong-un

L’India sotto la guida di Modi è divenuta un ingranaggio essenziale nella strategia statunitense, ma si sta rivolgendo verso Cina e Russia

L’articolo di Pepe Escobar, Jun 28, 2019 

I leader russo e cinese si sono incontrati almeno 30 volte dal 2013 a oggi.

Tutto è iniziato con il vertice di Vladimir Putin-Xi Jinping a Mosca il 5 giugno. Lungi da un semplice bilaterale, questo incontro ha migliorato il processo di integrazione euroasiatica a un altro livello. I presidenti russi e cinesi hanno discusso di tutto, dall’interconnessione progressiva delle Nuove strade di seta con l’Unione economica dell’Eurasia, specialmente in Asia centrale e nei dintorni, alla loro strategia concertata per la penisola coreana.
Un tema particolare si è distinto: hanno discusso di come il ruolo di collegamento della Persia nell’Antica Via della Seta stia per essere replicato dall’Iran nelle Nuove Strade della Seta, o Belt and Road Initiative (BRI). E questo non è negoziabile. Soprattutto dopo che il partenariato strategico Russia-Cina, meno di un mese prima del vertice di Mosca, ha offerto un sostegno esplicito a Teheran per segnalare che il cambio di regime semplicemente non sarà accettato, dicono fonti diplomatiche.

Putin e Xi hanno consolidato la tabella di marcia al Forum economico di San Pietroburgo. E l’interconnessione Greater Eurasia ha continuato a essere tessuta subito dopo al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) a Bishkek, con due interlocutori essenziali: l’India, un collega BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e membro SCO, e Osservatore SCO Iran.

Russian President Vladimir Putin and Indian Prime Minister Narendra Modi (left) hug during their meeting before a session of the Heads of State Council of the Shanghai Cooperation Organization (SCO), in Bishkek, Kyrgyzstan.

Al summit SCO abbiamo avuto Putin, Xi, Narendra Modi, Imran Khan e il presidente iraniano Hassan Rouhani seduti allo stesso tavolo. Sospese sul processo, come le concentriche spade di Damocle, c’erano la guerra commerciale USA-Cina, le sanzioni contro la Russia e la situazione esplosiva nel Golfo Persico.

Rouhani è stato energico e ha giocato con maestria le sue carte, descrivendo il meccanismo e gli effetti del blocco economico statunitense sull’Iran, che ha portato Modi ei leader degli “Stati” centro-asiatici a prestare maggiore attenzione alla roadmap dell’Eurasia tra Russia e Cina. Ciò è avvenuto quando Xi ha chiarito che gli investimenti cinesi in Asia centrale su una miriade di progetti BRI saranno notevolmente aumentati.

L’incontro Russia-Cina è servito a interpretare diplomaticamente ciò che è accaduto a Bishkek come “vitale per il rimodellamento dell’ordine mondiale”. Crucialmente, RIC – Russia-India-Cina – non solo ha tenuto un trilaterale ma ha anche programmato un replay al prossimo Vertice del Gruppo dei Venti a Osaka . I diplomatici giurano che il gradimento personale di Putin, Xi e Modi ha fatto miracoli.

Il formato RIC risale alla vecchia volpe orientista strategica Yevgeny Primakov, alla fine degli anni ’90. Dovrebbe essere interpretato come la prima pietra del multipolarismo del 21 ° secolo, e non c’è dubbio su come sarà interpretato a Washington.

L’India rappresenta un ingranaggio essenziale nella strategia dell’Indo-Pacifico; si sta mostrando accattivante con “minacce esistenziali” Russia-Cina: quel “concorrente alla pari (peer)” – temuto da quando il padre fondatore della geopolitica / geo-strategia Halford Mackinder pubblicò il suo “Perno geografico della storia” nel 1904 – finalmente emergente in Eurasia.

Il RIC era anche la base su cui era stato creato il gruppo BRICS. Mosca e Pechino si stanno astenendo diplomaticamente dal pronunciarlo. Ma con il brasiliano Jair Bolsonaro, visto come un semplice strumento amministrativo di Trump, non c’è da meravigliarsi che il Brasile sia stato escluso dal summit RIC di Osaka. Venerdì ci sarà un incontro BRICS superficiale subito prima dell’inizio del G20, ma il vero affare è RIC.

La triangolazione interna di RIC è estremamente complessa. Ad esempio, al vertice SCO Modi ha detto che l’India potrebbe sostenere solo progetti di connettività basati sul “rispetto della sovranità” e “integrità regionale”. Questo è stato il codice per snobbare l’iniziativa Belt and Roads – soprattutto a causa del corridoio economico Cina-Pakistan di punta , che New Delhi insiste illegalmente attraversa il Kashmir. Eppure l’India non ha bloccato la dichiarazione finale di Bishkek.

Ciò che conta è che il bilaterale Xi-Modi alla SCO fosse così di buon auspicio che il segretario degli Esteri indiano Vijay Gokhale fu portato a descriverlo come “l’inizio di un processo, dopo la formazione del governo in India, per occuparsi ora delle relazioni India-Cina da entrambe le parti in un contesto più ampio del XXI secolo e del nostro ruolo nella regione dell’Asia-Pacifico. “Ci sarà un vertice informale di Xi-Modi in India in ottobre. E si incontrano di nuovo al summit dei BRICS in Brasile a novembre.

Putin ha primeggiato come intermediario. Invitò Modi ad essere l’ospite d’onore al Eastern Economic Forum di Vladivostok all’inizio di settembre. La spinta della relazione è di mostrare a Modi i benefici per l’India di partecipare attivamente al più ampio processo di integrazione dell’Eurasia invece di svolgere un ruolo di supporto in una produzione Made in USA.

Il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro indiano Narendra Modi. I due leader hanno tenuto discorsi in settembre, a Bishkek, la capitale del Kirghizistan, che ospita il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) del 2019. Putin e Modi hanno discusso tutti gli aspetti delle relazioni bilaterali, compresa la cooperazione nei settori militare, spaziale e dell’energia nucleare. © Sputnik / Grigoriy Sisoev

Ciò potrebbe anche includere un partenariato trilaterale per lo sviluppo della Polar Silk Road nell’Artico, che rappresenta, in poche parole, l’incontro dell’Iniziativa Belt and Road con la rotta del Mare del Nord in Russia. China Ocean Shipping (Cosco) è già partner della società russa PAO Sovcomflot, che spedisce gas naturale sia est che ovest dalla Siberia.

Xi sta inoltre iniziando ad attirare l’attenzione di Modi sulle possibilità di ripresa per il corridoio Bangladesh-Cina-India-Myanmar (BCMI), un altro importante progetto Belt and Road, oltre a migliorare la connettività dal Tibet al Nepal e all’India.

Gli impedimenti, naturalmente, rimangono abbondanti, dai contesi confini dell’Himalaya a, ad esempio, al partenariato economico regionale globale (RCEP), che sta lentamente muovendo, il successore teorico di 16 nazioni del defunto partenariato transpacifico. Pechino è fermamente convinta che il RCEP debba andare in overdrive, ed è persino pronto a lasciare New Delhi alle spalle.

Una delle decisioni chiave di Modi per il futuro è se continuare a importare petrolio iraniano – considerando che non ci sono più deroghe alle sanzioni statunitensi. La Russia è pronta ad aiutare l’Iran e gli stanchi clienti asiatici come l’India se l’UE-3 continuerà a trascinare l’implementazione del proprio veicolo di pagamento speciale.

L’India è il primo cliente energetico dell’Iran. Il porto iraniano di Chabahar è assolutamente essenziale se la mini-via della seta dell’India raggiungerà l’Asia centrale attraverso l’Afghanistan. Con l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che sanziona Nuova Delhi sulla sua spinta all’acquisto del sistema di difesa aerea russo S-400 e alla perdita dello status commerciale privilegiato con gli Stati Uniti, avvicinarsi a Bridge and Road – il fornitore di energia Iran come vettore chiave – diventa un’opportunità economica da non perdere.


Il porto di Chabahar, situato a nord del Golfo di Oman e a sud della provincia del Sistan e del Baluchistan, vicino a Paesi come l’Afghanistan e il Pakistan, è collegato alla rete ferroviaria nazionale iraniana ed è considerato uno dei porti più importanti dell’Iran meridionale. Serve come unico porto oceanico dell’Iran e farà parte del Corridoio di trasporto internazionale Nord-Sud.

Con la roadmap in vista per la partnership strategica Russia-Cina, pienamente consolidata dopo i vertici di Mosca, San Pietroburgo e Bishkek, l’enfasi ora per RC è portare l’India a bordo di un RIC completo. La Russia-India sta già fiorendo come una partnership strategica. E Xi-Modi sembrava essere in sincronia. Osaka potrebbe essere la svolta geopolitica che consolida il RIC in modo positivo.

2382.- SE IN MEDIO ORIENTE I NODI VENISSERO AL PETTINE…

In Siria e in Turchia si giocano i destini del Medio Oriente. La vittoria di Putin non è stata accettata, sopratutto, dagli USA e ha messo sul piede di guerra Israele. mentre i nodi della politica vengono al pettine, le rispettive forze armate sono portate al confronto, che significa scoprire le loro effettive capacità. In questo senso, si può dire che la Siria stia rappresentando un laboratorio.


Usa, Turchia, Ucraina e Pakistan. Il Taccuino di Orioles

MARCO ORIOLES, Policy Makeer, 27 MAGGIO 2019

In primo piano nel “Taccuino Estero” di questa settimana l’ultimatum degli Usa alla Turchia sul sistema di difesa anti-aerea russo S-400. Nella sezione “Notizie dal mondo”, l’insediamento del nuovo presidente ucraino Zelenskiy, lo stop del Pakistan al gasdotto dall’Iran, le operazioni della marina Usa nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan, il radicamento di al Qaida e dell’Isis in Afghanistan. Le “Segnalazioni” sono dedicate alla guerra fredda tecnologica Usa-Cina. Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina

PRIMO PIANO. L’AUT AUT DEGLI USA ALLA TURCHIA: F-35 O S-400 (E SANZIONI)  

L’ultimo monito degli Usa alla Turchia e al suo presidente Recep Tayyip Erdogan arriva sotto la forma di un ultimatum lanciato attraverso alcune fonti di governo sentite anonimamente da CNBC. Ankara, è il messaggio tagliente che parte da Washington, è chiamata a cancellare senza indugi l’accordo con la Russia per la fornitura del sistema di difesa anti-aerea S-400, che secondo gli americani è incompatibile con i sistemi d’arma in uso alla Nato e, in particolare, con gli F-35.

La Turchia è esortata in particolare ad acquistare, al posto degli S-400, il sistema Patriot fabbricato negli Usa dalla Raytheon. E deve decidersi subito: la deadline per dire sì o no è fissata dalle fonti in questione alla prima settimana di giugno (che, tutt’altro che incidentalmente, è anche il mese in cui è prevista la consegna degli S-400).

Se Ankara non si conformasse, precisano le fonti, ci saranno almeno due conseguenze. La prima è l’esclusione dal programma Joint Strike Fighter, inclusa la cancellazione della consegna programmata di cento esemplari del caccia Lockheed Martin. A tale provvedimento si affiancherebbe, poi, l’imposizione di sanzioni sulla base dell’America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA).

Non lasciano molti margini all’interpretazione le parole con cui un funzionario del Dipartimento di Stato, citato sempre dalla CNBC, ha reiterato la posizione dell’amministrazione Trump: “I paesi Nato devono acquisire equipaggiamento militare che sia interoperabile con i sistemi Nato. Un sistema russo non rispetterebbe quello standard”. “Sottolineiamo”, ha aggiunto minacciosamente il funzionario, “che la Turchia affronterà conseguenze reali e negative qualora si completasse la consegna degli S-400”.

Ma il presidente turco  non sembra affatto intenzionato a obbedire al diktat. “È assolutamente fuori discussione”, ha affermato Erdogan sabato scorso, che la Turchia “faccia un passo indietro dall’acquisto degli S-400. Quello è un affare concluso”. Non solo: Ankara, ha annunciato il capo dell’AKP, produrrà con Mosca il nuovo sistema S-500.

La maggior parte delle caratteristiche tattiche e tecniche del sistema contraereo e anti-missile S-500, di cui il radar “Yenisei” è un componente, sono classificate. È noto che l’S-500 “Prometheus” sarà in grado di rilevare e colpire contemporaneamente fino a dieci bersagli balistici supersonici che volano ad una velocità di sette chilometri al secondo. Il sistema S-500 “Prometheus” sarà operativo dal 2020.

La Turchia, dunque, tira diritto e si prepara ad affrontare l’ira di Washington. Ne sono una riprova le affermazioni con cui il ministro della Difesa turco Hulusi Akar, lo scorso martedì, ha sottolineato che il suo governo è praticamente rassegnato alle sanzioni americane.

Per Akar, la reazione americana è comunque esagerata e incomprensibile, perché – dice, ribadendo la posizione più volte sostenuta dalla Turchia – l’acquisto degli S-400 è puramente a scopi difensivi e non pone alcuna minaccia agli Usa.

Attraverso una serie di accorgimenti (p.e., materiali radar assorbenti), appunto, “stealth”, l’F-35 si rende invisibile alle onde radar tradizionali in banda X, ma un velivolo “stealth” emetterà sempre una firma termica … Secondo i russi il radar Irbis-E a bassa frequenza in banda L è in grado di rilevare la Radar Cross Section di un F-35, anzi, recentemente, in Siria, la RCS degli F-22 Raptor è stata acquisita e inquadrata dal sistema di ricerca e tracciamento radar all’infrarosso sia degli Su-35S Flanker-E e sia dai 4 Sukhoi Su-57. In Siria, la Russia ha guadagnato un “tesoro” di informazioni sui caccia statunitensi F 22.
Non solo, per Erdogan, l’S-400 è un affare concluso” , ma la Turchia produrrà con Mosca il nuovo sistema S-500.

Akar intravede in verità – sulla base di cosa non è dato sapere – un miglioramento nelle relazioni con l’alleato d’oltreoceano. “Nei nostri colloqui con gli Stati Uniti”, ha affermato, “noi riscontriamo un’attenuazione (delle posizioni originarie) e una riconciliazione su temi che includono l’Est dell’Eufrate (in Siria), gli F-35 e i Patriot”.

Secondo il ministro, inoltre, non c’è “alcuna clausola nell’accordo sugli F-35 che dica che uno sarà escluso dalla partnership per aver acquistato gli S-400. La Turchia”, ha ricordato Akar, “ha pagato 1,2 miliardi di dollari. Abbiamo anche prodotto in tempo le parti ordinate a noi. Cosa possiamo fare in più come partner?”. Ecco perché il ministro si aspetta che la partecipazione della Turchia al programma JSF vada avanti.

Al di là dell’invisibilità stealth dell’aeroplano, violata dai nuovi radar russi “Irbis-E a scansione termica, per gli USA, l’F-35 è, sopratutto, un sistema di acquisizione dei dati sensibili delle Forze Armate che lo hanno e lo avranno in linea, che vengono condivisi automaticamente con il Pentagono. Non per nulla, la versione acquistata da Israele è l’ F-35I, dove la “I” indica che è stata depurata di quel sistema. Come sistema d’arma, il superamento delle difficoltà incontrate dal programma richiede tempi lunghi e ha costi insostenibili; infatti, l’USAF e l’US.NAVY sono state costrette a rammodernare i vecchi F-16, ora F-21 e gli F-18.

Peccato che, a Washington, non sembri esserci nessuno pronto a manifestare indulgenza. La portavoce del Dipartimento di Stato Morgan Ortagus ha chiarito, al contrario, che l’America non è affatto intenzionata a transigere.

“Abbiamo chiaramente il desiderio”, ha dichiarato Ortagus alla stampa, “di coinvolgerli (i turchi) e abbiamo continuato a informarli della nostra preoccupazione per questa acquisizione, ma ci saranno conseguenze reali e negative se ciò accadrà”.

Da Mosca, intanto, arrivano parole piccate per l’out out degli Usa alla Turchia. Parlando mercoledì coi reporter, che gli hanno chiesto cosa pensasse della notizia diffusa dalle CNBC, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia considera “inaccettabile un simile ultimatum”.

Peskov ha invitato invece a considerare “le molte dichiarazioni fatte dai rappresentanti della leadership della Turchia guidata dal presidente Erdogan che l’accordo sugli S-400 è già completo e sarà implementato”.

I nuovi caccia di quinta generazione russi dalle caratteristiche stealth Sukhoi Su-57 schierati in Siria hanno limitato le operazioni sulla Siria sia degli F-35I israeliani sia degli F-22 schierati sulla base di Al Dhafra negli Emirati Arabi. Il sensore IRST OLS-35 (Infrared Search and Track) installato sugli Su-57 e sui Flanker-E è in grado di individuare le firme di calore dei sistemi d’arma nemici senza essere a sua volta individuato, garantendo così un significativo vantaggio tattico nel combattimento aereo. L’IRST si limita a dare un’idea della posizione generale dei velivoli nemici. I caccia stealth di quinta generazione degli americani non possiedono tali capacità IRST e anche il migliore, l’F-22, superiore al Su-35, si trova in svantaggio. Anche i nuovi sensori a infrarossi prodotti dall’azienda italiana Selex Es (gruppo Finmeccanica) per i caccia svedesi Gripen e per gli Eurofighter sono in grado di individuare un velivolo stealth rilevando la sua traccia termica a una distanza tale da renderne possibile l’ingaggio con missili aria-aria. 

2331.- Un’agenda per la Libia

Roma, 30 apr 12:17 – (Agenzia Nova) – Di Fabrizio Luciolli (Leggiamo e volentieri ripubblichiamo aggiungendo le nostre immagini e le didascalie. Siamo consapevoli che, in massima parte, si tratta di auspici e che nella guerra in atto si confrontano tutte le anime del mondo arabo e gli interessi della finanza sionista e dell’Occidente, ma la frontiera libica è anche la nostra frontiera).

Un’agenda per la Libia

La guerra civile che, per la terza volta in meno di dieci anni, colpisce la Libia ha riportato drammaticamente all’attenzione della comunità internazionale e d’intelligence la pericolosità della minaccia da Sud. La crisi libica è giunta all’attuale livello di criticità per cause e responsabilità che vanno ricercate per lo più nella nostra sponda del Mediterraneo. L’interventismo della Francia, le costanti divisioni dell’Unione Europea, la riluttanza degli Stati Uniti a svolgere il proprio ruolo nella regione, la cronica debolezza dei governi italiani, non hanno permesso di inquadrare l’intervento del 2011 in Libia in una prospettiva strategica di medio-lungo termine e di far seguire alle operazioni della Nato a protezione dei civili un robusto piano di stabilizzazione e ricostruzione necessario per assicurare lo sviluppo democratico, economico e sociale del paese.

L’Italia e la comunità euro-atlantica sono, pertanto, oggi chiamate ad affrontare in Libia una drammatica prova d’appello ed una minaccia che destabilizza non solo la regione ma mina la sicurezza internazionale e gli stessi valori fondanti delle nostre società, libere, aperte e democratiche. A differenza del passato, affinché la risposta alla crisi libica sia efficace, occorrerà che l’Italia sappia coniugare una prospettiva nazionale, regionale e internazionale in unica visione strategica.

Prospettiva nazionale

In questi giorni di sangue e dolore per il popolo libico l’Italia ha fatto partire dal centro UNhrd di Brindisi 16 tonnellate di aiuti sanitari di emergenza, composto da kit anti- trauma e kit chirurgici. Ma bisogna fare di più e cercando di scegliere ciò che i libici vogliono. Le dimostrazioni dei Gilet Jaunes di Tripoli hanno dato una indicazione.

L’Italia è chiamata ad adottare nella crisi libica un approccio decisamente più pro-attivo e che abbia ben chiari gli interessi nazionali da perseguire. Oltre alla stabilità della Libia e della regione, l’Italia deve definire quali siano gli interessi vitali, strategici o contingenti che vadano salvaguardati o conseguiti. Ciò appare fondamentale al fine di evitare scelte di campo e di leadership in Libia non coerenti con gli interessi nazionali. Tuttavia, tale compito in Italia difficilmente avviene in maniera lineare a causa dell’atavica assenza di una Strategia di sicurezza nazionale e di un relativo processo che affini costantemente le strategie volte al perseguimento degli interessi nazionali. Il tentativo effettuato dall’allora ministro della Difesa Pinotti di redigere un Libro Bianco sulla sicurezza internazionale e la difesa, per quanto collocato sulla giusta direttrice, si è rivelato un velleitario esercizio dottrinale.

In tale contesto, gli interessi energetici dell’Italia, per lo più orientati verso un’area del paese, non devono, come in passato, andare a scapito di una visione politico-strategica più ampia. L’Italia rimane il primo importatore di greggio libico. Fra gli interessi strategici figura certamente l’approvvigionamento energetico che, a causa dei frequenti blocchi dei terminali petroliferi, ha subito in alcuni anni un calo sino al 64 per cento per ciò che riguarda il greggio. Peraltro, a seguito dei ripetuti danneggiamenti dell’impianto di liquefazione di Marsa al Brega, il gasdotto “Greenstream” che collega Mellitah a Gela è spesso rimasto l’unico canale di fornitura in funzione, sebbene a intermittenza, rendendo l’Italia il solo destinatario del gas libico.

Infine, la stabilizzazione della Libia permetterà all’Italia di arginare più efficacemente il fenomeno della immigrazione clandestina incontrollata, attraverso lo svolgimento di attività di monitoraggio ai limiti meridionali del deserto libico e la gestione di eventuali procedure d’asilo in loco.

Prospettiva regionale

La rilevanza strategica della Libia va ben oltre i permeabili confini geografici del paese e deve essere valutata in una prospettiva regionale. Attualmente, la Libia costituisce la chiave per la sicurezza del Mediterraneo e la sua instabilità e la presenza di transfughi del Califfato, minacciano la stabilità dei paesi vicini, quali la Tunisia, l’Algeria, il Mali, ed è fonte di preoccupazione per lo stesso Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, che avversano i movimenti legati ai Fratelli musulmani. I miliziani dell’Isis, in fuga da Iraq e Siria, troverebbero in una Libia destabilizzata un terreno d’azione che alimenterebbe quell’arco di crisi che dal Mediterraneo si salderebbe pericolosamente con le instabilità del Caucaso, dell’Afghanistan e dell’Ucraina.

Una strategia per la Libia non può prescindere da un rinnovato e solido rapporto di partenariato con le Organizzazioni regionali e alcuni paesi della regione, quali l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, la Tunisia e altri. Al riguardo, la guerra contro le milizie dell’Isis ha compattato gli interessi di diversi paesi della regione rendendone per alcuni aspetti, più agevole una loro cooperazione.

Inoltre, Turchia e Federazione Russa hanno assunto un ruolo determinante nel composito mosaico geopolitico libico. In tale contesto, l’’Italia si rivela l’unico paese in grado di favorire la ricerca di un punto di sintesi fra gli interessi degli Stati Uniti e quelli della Federazione Russa nella regione.

Prospettiva internazionale

L’Italia figura fra i primi dieci paesi per contributi finanziari alle missioni di “peacekeeping” delle Nazioni Unite. Oltre a sostenere il processo politico intentato in Libia dall’inviato speciale dell’Onu, Ghassan Salamè, l’Italia potrebbe adoperarsi per rafforzare l’impegno delle Nazioni Unite e promuovere la predisposizione di una missione da inviarsi i Libia a tempo debito, sulla base di un mandato particolarmente robusto e con regole d’ingaggio chiare. A tal fine, possono essere richiamate le risoluzioni del Consiglio di sicurezza n. 2098 (2013), 2147 (2014) e 2409 (2018) relative alla missione Monusco delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo, che per la prima volta hanno autorizzato la costituzione di una brigata d’intervento con compiti “offensivi” per la protezione dei civili e “impedire l’espansione di tutti i gruppi armati, neutralizzando e disarmando questi gruppi, al fine di contribuire a ridurre la minaccia rappresentata dai gruppi armati nei confronti dell’autorità statale e alla sicurezza dei civili (…) e fare spazio alle attività di stabilizzazione”.

Un casco blu cileno in operazione. La questione dell’applicabilità del diritto internazionale umanitario alle forze delle Nazioni Unite, in particolare alle forze impegnate in operazioni di mantenimento della pace, rimane uno dei punti più controversi, e per questo ampiamente dibattuti, nell’ambito del diritto internazionale.

Un’eventuale missione civile e militare di assistenza internazionale alla Libia dovrà essere dotata di uno strumento credibile e robusto, ancorché flessibile. Per quanto l’orografia del paese consenta un agevole controllo del territorio, va ricordato che in Bosnia ed Erzegovina, la cui superficie è quasi 35 volte inferiore a quella della Libia, la Nato entrò nel 1995 con oltre 60 mila uomini. Trascorsi venticinque anni, la presenza dell’Unione Europea e della Nato continua a rimanere essenziale ai fini della stabilità di quella tormentata repubblica balcanica.

In ambito Nato, l’Italia deve continuare a mantenere alta l’attenzione del Consiglio atlantico, promuovendo consultazioni che pongano al centro anche lo scenario di sicurezza del fianco sud. A tal fine, si rivela un valore aggiunto la recente costituzione presso lo “Allied Joint Force Command” di Napoli del “Nato Strategic Direction-South Hub”, a guida italiana.

Le consultazioni del Consiglio atlantico potrebbero anche considerare l’eventuale necessità di adottare misure a difesa delle coste e isole italiane da potenziali lanci di missili Scud, quali quelli avvenuti sull’isola di Lampedusa nel 1986. Tale procedura trova fondamento nell’art. 4 del Trattato atlantico ed ha ricevuto applicazione per due volte in Turchia. Essa, inoltre, assumerebbe un’alta valenza politica, testimoniando la solidarietà alleata verso il “fianco sud”. Nel caso di un attacco missilistico diretto contro l’Italia, peraltro, scatterebbe il meccanismo di solidarietà collettiva previsto dall’art. 5 del Trattato atlantico.

Jens Stoltenberg, politico norvegese. Il Segretario generale della NATO è un diplomatico che rappresenta l’ Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord a livello internazionale. La NATO, nata nel 1949 come organizzazione difensiva, include 29 stati.

I compiti dell’operazione “Sea Guardian” di pattugliamento del Mediterraneo andrebbero ulteriormente rafforzati. Tale operazione – che ha sostituito l’operazione “Active Endeavour” varata dalla Nato all’indomani degli attacchi alle Torri gemelle – su proposta italiana non è più inquadrata nell’ambito dell’art.5 (difesa collettiva). Il declassamento di “Sea Guardian” a Operazione di sicurezza marittima sebbene, in linea di principio, consenta di allargarne gli scopi, ha comportato, tuttavia, una riduzione temporale, pari a sei missioni all’anno della durata di tre settimane ciascuna. A seguito del recente depotenziamento dell’operazione “Sophia” dell’Unione Europea, comandata da un ammiraglio italiano a cui sono state sottratte le unità navali, le missioni Nato ed Ue nel Mediterraneo appaiono, pertanto, con ruoli e ambiti d’azione affievoliti.

Fra i compiti prioritari di una futura missione di assistenza in Libia dovrà figurare quello di “Disarmament, Demobilization, Reintegration” (Ddr) di tutti i gruppi armati. Ad esso dovrà affiancarsi un programma di formazione e addestramento delle nuove forze di sicurezza, sul modello di quelli diretti dai Carabinieri in Iraq e Afghanistan sotto l’egida della Nato e volti a ricostituire, su base unitaria e democratica, le istituzioni e le Forze armate e di sicurezza del paese.

Il colonnello Capodivento (primo da destra) durante il cambio di comando al Reggimento Msu in Kosovo. L’Msu, Unità Specializzata Multinazionale dei Carabinieri. Costituita nel 1998, con compiti militari di polizia, venne impiegata per la prima volta in Bosnia-Erzegovina, nell’ambito dell’operazione Nato Sfor (Stabilisation Force) per fornire una professionalità militare specializzata nel campo della sicurezza pubblica. Impiegata anche in vari teatri operativi mondiali, dall’Iraq all’Afghanistan, la Msu assicura la sicurezza in Kosovo dal 1999, su richiesta della Nato che vi opera con la missione Kfor (Kosovo Force) con compiti di stabilizzazione del paese, che nel 2008 si è dichiarato indipendente dalla Serbia. Ad oggi, la Kfor è l’unica forza militare ammessa in Kosovo dalla risoluzione 1244 dell’Onu.

L’Italia dovrebbe assicurarsi la guida di tali programmi, così da stabilire e salvaguardare nel futuro relazioni amichevoli con i quadri dirigenti delle istituzioni di sicurezza libiche. Le missioni di formazione e addestramento delle forze di sicurezza e dei dirigenti delle future istituzioni della Libia potranno aver luogo anche in paesi limitrofi o della regione.

La Cina è già pronta per ricostruire le infrastrutture della Libia.

Affinché il processo di stabilizzazione della Libia si riveli auto-sostenibile nel tempo occorre che questo venga accompagnato da un robusto piano di ricostruzione e sviluppo, reso più agevole dalle generose risorse energetiche e finanziarie presenti in Libia. E’ opportuno che tale processo abbia luogo prima che le riserve in valuta straniera e il fondo sovrano libico vengano irreparabilmente depauperate per finanziare la guerra civile in corso.

In tale prospettiva, l’Italia dovrebbe considerare l’opportunità di richiedere l’assistenza della Peacebuilding Commission, organo consultivo intergovernativo delle Nazioni Unite che sostiene gli sforzi di pace in paesi che escono da un conflitto e che recentemente a posto il Sahel fra le proprie priorità.

La crisi libica, infine, rappresenta una straordinaria opportunità per rafforzare la cooperazione tra la Nato e l’Unione Europea, che pur condividendo ventidue paesi membri, non hanno ancora trovato un terreno operativo dove, dimenticando antiche diffidenze, sviluppare appieno lo straordinario potenziale derivante da un impegno sinergico delle rispettive capacità civili e militari.

Nell’attuale contesto strategico, con sfide senza precedenti provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, la collaborazione tra l’Unione europea e l’Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) riveste un’importanza fondamentale.

Le diverse linee d’azione indicate andranno, difatti, perseguite secondo la decantata dottrina Nato e Ue per un approccio globale che sia in grado di combinare gli strumenti civili e militari delle istituzioni euro atlantiche al fine di dare risposte efficaci alle diverse dimensioni delle moderne sfide alla sicurezza.

La crisi libica offre, pertanto, l’opportunità di rafforzare ulteriormente la cooperazione Nato-UE e di ripensare il sistema dei partenariati delle istituzioni euro-atlantiche su basi nuove. Lo scenario di crisi che circonda l’Europa a est e a sud, ha certificato, in particolare, il fallimento delle politiche di “vicinato” varate dall’Unione Europea all’indomani degli ambiziosi processi d’allargamento avviati dalla Commissione Prodi. Oltre quindici miliardi di euro sono stati spesi inefficacemente negli anni precedenti le primavere arabe in programmi di cooperazione dell’Unione Europea verso il Mediterraneo. Programmi che in futuro dovranno essere fondati su principi di sicurezza cooperativa in grado di assicurare un reale impulso allo sviluppo economico e sociale.
L’Italia, che esprime l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza e il Presidente del Comitato militare dell’Unione Europea, può ancora svolgere un ruolo determinante in tal senso.

Un Gruppo di Combattimento della NATO è presente in Estonia, a Tapa. Vi partecipano, a rotazione, reparti dei paesi membri.

In conclusione, la crisi libica costituisce una minaccia diretta alla sicurezza nazionale e internazionale che richiede un rinnovato ruolo delle Nazioni Unite, un rilancio dei partenariati euro-atlantici fra le due sponde del Mediterraneo e il rafforzamento della cooperazione sud-sud. Essa, peraltro, offre all’Italia un ventaglio di prospettive che, se adeguatamente inserite in un chiaro disegno strategico, costituiscono un’opportunità storica per promuovere in Libia un futuro di stabilità e sviluppo, perseguendo con efficacia gli interessi nazionali in una cornice di sicurezza cooperativa. 

* Fabrizio Luciolli è Presidente del Comitato Atlantico Italiano e della Atlantic Treaty Association © Agenzia Nova – Riproduzione riservata Agenzia Nova

1991.- CI SONO ANCORA MOLTE OMBRE SULLA BATTAGLIA CHE SI È SVOLTA NEI CIELI DEL MEDITERRANEO ORIENTALE.

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Nuova ipotesi sull’abbattimento dell’aereo russo Ilyushin in Siria

L’ Ilyushin-20 M , identificativo Nato “Coot-A” non è un qualsiasi quadrimotore turboelica ad ala bassa, ma è un velivolo delle Forza aerospaziale russa per ricognizione, sorveglianza, spionaggio e guerra elettronica.  Adibito essenzialmente a missioni Elint ed Ea,Electronic support measures eElectronic attack.  Insomma, un centro di controllo e di spionaggio elettronico volante.

Proprio per via della sua sofisticata strumentazione “elettronica”, come quella montata dagli omologhi aerei della Nato – gli Awacs (Airborne Warning and Control System), ad esempio l’E-3 “Sentry” – l’Il-20M prevede un equipaggio molto numeroso, composto da oltre 14 uomini tra equipaggio di volo e operatori/analisti, crittografi e addetti ai sistemi d’arma.

Secondo quanto riportato dai media russi come Tass e Rt, il velivolo da ricognizione era in volo al largo della costa siriana e stava rientrando alla base di Khmeimim, nel momento in cui una formazione di F-16 israeliani lanciava un raid nella provincia di Latakia. Almeno uno degli F-16 si è mascherato dietro il velivolo russo, la cui superficie riflettente era molto più grande di quella del caccia. L’ Ilyushin-20 M (a meno che non sia stato abbattuto proditoriamente, ndr) sarebbe, quindi, diventato un bersaglio per il sistema antiaereo S-200 (Sa-5 “Gammon” in codice Nato), che lo avrebbe centrato con uno dei suoi missili. Non è chiaro se uno dei piloti israeliani si sia “volontariamente fatto scudo” dell’aereo russo per scampare al missile – come ha dichiarato il portavoce del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov – o se si sia trattato soltanto di una tragica fatalità. Tuttavia e probabilmente, come vedremo, potrebbe essere intervenuto un altro sistema missilistico perché c’erano anche una nave israeliana e una nave francese, precisamente la fregata Auvergne citata.

L’attacco, il primo effettuato da Israele ad installazioni civili e militari nella zona di Latakia, porta con sè dei risvolti non del tutto chiari: oltre al presunto coinvolgimento della fregata tipo Fremm francese “Auvergne”, la modalità dell’abbattimento del velivolo spia russo ha sollevato non poche ombre sulla dinamica e sugli attori protagonisti del raid.

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Il quadro strategico

La regione di Latakia, oggi, risulta essere strategica per la Siria, insieme a quella di Damasco e a quella della base T4 (Tiyas) e pertanto è una delle zone meglio difese da quello che resta dell’imponente complesso di difesa aerea siriano, smantellato da anni di guerra civile.

Sette anni di guerra intestina hanno, infatti, fortemente compromesso la capacità della rete difensiva siriana che prima del conflitto poteva contare su 60mila uomini e su un sistema di radar da ricerca e scoperta vasto e complesso che ne faceva uno dei più imponenti di tutto il Medio Oriente.

A disposizione di Damasco c’erano sistemi come S-200, S-125 (Sa-3 “Goa”) ed i vetusti S-75 (Sa-2 “Guideline”) disposti in postazioni fisse in tre aree di interesse strategico: le alture del Golan, Damasco, e la fascia costiera. A queste postazioni fisse erano associate altre mobili costituite da batterie di missili 2K12 Kub (Sa-6 “Gainful”) e da 9K33 Osa (Sa-8 “Gecko”), integrati nella catena di radar di fabbricazione russa che annoverava i P-40, P-18, P-14 e P-15.

Di questo complesso sistema oggigiorno resta ben poco, raccolto intorno a tre aree strategiche diverse, e per questo la Russia, anche e soprattutto in considerazione del suo intervento diretto nel conflitto, ha avviato un importante processo di aggiornamento e modernizzazione delle difese aree siriane contestualmente al dispiegamento del proprio contingente nella zona di Latakia, presso la base aerea di Khmeimim, e a sud, nel porto di Tartus.

Ovvero in quella fascia costiera che è considerata vitale – essendo sede di centri logistici come porti e aeroporti – per il Governo di Damasco e per le milizie sciite filo iraniane che sono intervenute nel conflitto a sostegno dell’Esercito Siriano e a fianco delle Forze Armate russe.

L’aiuto russo alla difesa aerea siriana

La Russia si è quindi fatta carico di rimodernare parte del sistema missilistico della difesa aerea siriana fornendo, a partire dal 2013, almeno 12 sistemi S-125 2M Pechora  (ovvero Sa-3 “Goa” aggiornati). Questi sistemi sono mobili rispetto agli S-125 originali e dispongono di missili con guida terminale elettro-ottica in grado di ingaggiare armi stand-off come missili da crociera.

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Le batterie di Pechora sono state disposte intorno a Latakia e Damasco proprio per intercettare i missili da crociera israeliani Popeye (60/80 chilometri di portata) e Delilah (250 chilometri di portata) spesso utilizzati durante i raid di Tel Aviv.

Contestualmente agli S-125 2M sono stati forniti anche i sistemi Buk M2E (Sa-17 “Grizzly) e PantsirS1 per cercare di organizzare una difesa aerea “a strati” integrando i sistemi di difesa di punto con quelli a medio e lungo raggio. Il Buk è altamente mobile e resistente alle contromisure elettroniche e per la sua capacità di ingaggiare fino a 24 bersagli contemporaneamente tutti gli esemplari (si pensa ne siano stati consegnati tra i 12 ed i 18) sono stati dislocati intorno all’aeroporto militare di Mezzeh e a quello internazionale di Damasco.

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La Russia ha fornito upgrade anche per le poche batterie sopravvissute di S-200, ormai diventate obsolete, che originariamente erano dislocate in cinque siti fissi (as-Suwayda, al-Dumayr, Homs, Hayluneh e Kuwereis) per un totale di 50 lanciatori. Il conflitto intestino, ed i raid israeliani, ne hanno fortemente ridimensionato il numero e si ritiene che le batterie superstiti – che hanno una portata di 250 chilometri – siano raggruppate principalmente intorno a Damasco.

La batteria di al-Dumayr, località a 30 chilometri dalla capitale, dopo l’intervento russo di modernizzazione effettuato a partire dal 2017, ha dimostrato di essere molto attiva pur senza riuscire ad intercettare i velivoli israeliani impegnati in azioni di ricognizione e bombardamento di obiettivi siriani.

Cosa potrebbe essere successo?

Ora che abbiamo a grandi linee un quadro generale della situazione dei sistemi da difesa aerea presenti in Siria, e considerando che quelli facenti capo direttamente a Mosca, ovvero della bolla A2/AD (Anti Access / Area Denial), non sono intervenuti e nemmeno hanno fornito dati alla difesa di Damasco, proviamo a fare qualche ipotesi in merito all’abbattimento dell’Ilyushin anche considerando alcuni aspetti diplomatici che si sono susseguiti nelle ore immediatamente successive all’incidente.

Contrariamente alla versione fornita dai russi, è probabile che il velivolo da spionaggio elettronico Il-20M era in volo proprio perché Mosca era a conoscenza dell’attacco israeliano, in cui potrebbero esser stati usati gli F-35 Adir, come già avvenuto e ammesso, in qualità di aerei da contromisura elettronica e come una sorta di piccolo Awacs volante: sono note infatti le capacità di raccolta e condivisione dati del velivolo.

F-35-Jet-Adir

Durante un raid aereo, soprattutto se effettuato con nuovi sistemi d’arma, è logico pensare che una terza parte come la Russia cerchi di carpire quanti più dati possibile su tutti gli asset utilizzati.

Oltre al sostegno russo la Siria può contare anche su quello iraniano che ha fornito – e fornisce – personale specializzato per migliorare le capacità di comando e controllo della rete difensiva siriana.

Mosca, dopo il recente attacco dell’aprile di quest’anno, ha implementato ulteriormente le capacità della difesa aerea siriana fornendo ulteriori aggiornamenti ai sistemi radar e missilistici.

Questo comporta che, per un certo periodo di tempo che può anche superare i sei mesi in caso di sistemi particolarmente complessi e nuovi, personale russo si trovi ad affiancare personale siriano ed iraniano dietro alle consolle dei sistemi d’arma aggiornati, ed è ragionevole pensare che fossero presenti anche durante l’attacco della sera del 17.

La risposta massiccia della difesa aerea in occasione dell’attacco israeliano alla base T4, con il lancio di complessivamente 27 missili di batterie diverse (S-125, S-200, Buk e Kub) fornisce un precedente per capire come potrebbe essere stata la reazione in occasione dell’attacco che ha portato all’abbattimento dell’Il-20M: un intenso fuoco di sbarramento fatto di missili di vario tipo.

È ragionevole quindi pensare che l’Ilyushin Il-20M sia stato abbattuto per errore da un missile tipo S-125 Pechora di una delle tante batterie presenti nella fascia costiera tra Tartus e Latakia con alla consolle personale siriano ma affiancato da russi e/o iraniani.

la registrazione elettronica dell’evento.

La potente azione di disturbo elettronico israeliano (jamming) (e/o delle navi francese o israeliana, ndr) e il tiro missilistico a “sbarramento” hanno così determinato il fatale errore della difesa aerea, (se di questo si è trattato e non di altro, ndr).

A riprova della possibilità che vi fosse personale russo e/o iraniano in servizio nella difesa aerea siriana quella sera, ci sono le parole del presidente Putin, che a 24 ore dalla tragedia ha smorzato i toni dicendo che si è trattato di “una catena di tragiche circostanze accidentali”.

Parole che vanno controtendenza rispetto ai toni alquanto bellicosi tenuti dal Cremlino nelle ore immediatamente successive, quando puntava il dito contro Tel Aviv accusandola apertamente di essere responsabile dell’abbattimento.

Mosca infatti, per voce del Ministero della Difesa, in prima istanza ha sostenuto che la responsabilità dell’abbattimento dell’Il-20M fosse da attribuire ai caccia F-16 israeliani che hanno usato il velivolo spia russo “come scudo” e addirittura si riservava il diritto di prendere tutte le misure di ritorsione necessarie.

Un’analisi postuma che avesse indicato la presenza di personale russo e/o iraniano nella “stanza dei bottoni” potrebbe quindi aver provocato l’immediata smorzatura dei toni da parte del Cremlino, più di altre considerazioni geostrategiche che riguardano le relazioni che intercorrono tra Mosca e Tel Aviv.

La riprova è la differenza di comportamento di Mosca rispetto all’incidente che ha portato alla morte dei piloti del Su-24 “Fencer” abbattuto dai caccia turchi a novembre del 2015. In quella circostanza la linea tenuta dal Cremlino verso il suo partner commerciale (e nuovo partner militare) fu molto più dura.

International Army Games 2017 a Astrakhan in Russia

Qualcosa di strano è accaduto nei cieli siriani

Ma che qualcosa fosse nell’aria, nella notte di lunedì, è stato reso evidente anche da altri elementi. Come scrive Haaretz, i cieli di quell’area della Siria, in quelle ore erano particolarmente densi di aerei. Sicuramente c’erano anche aerei israeliani e probabilmente anche francesi. L’Il-20 è un aereo che vola costantemente in quella zona così come gli aerei-spai americani.

Inoltre, ore prima dell’attacco, “i radar civili hanno anche monitorato i velivoli della Royal Air Force britannica, che, insolitamente, avevano acceso i loro transponder”. Probabilmente, gli aerei della Raf volevano indicare la loro presenza anche per evitare qualsiasi coinvolgimento nello scambio di missili su Latakia. E questo confermerebbe che Israele aveva comunicato l’attacco.

Possiamo quindi essere certi degli elementi base dell’attacco: raid israeliano, reazione dell’antiaerea di Damasco, abbattimento dell’aereo russo. Ma per il resto, esistono questioni ancora oscure che non sono sembrano destinate a essere chiarite nell’immediato. La sicurezza delle accuse russe così come le smentite rapide e molto secche di Francia e Stati Uniti lasciano perplessi. Insomma, lunedì notte qualcosa sembra essere andato storto. E continua a persistere qualcosa di non detto che sembra essere particolarmente importante.

Così, Lorenzo Vita. Ma ci sono dei se: E se l’Il-20M fosse stato uno spione scomodo per i segreti militari messi in campo dagli israeliani? Se fosse stato proditoriamente e volutamente abbattuto, oppure, se il suo abbattimento abbia scoperto un nervo della difesa russa che si vuole mascherare?

La Russia e i sistemi di difesa

Quanto avvenuto lunedì notte è un problema che riguarda la Russia anche per un secondo motivo, oltre alla morte dei suoi 15 uomini. E il problema vero è che il sistema di difesa dato alla Siria non ha funzionato. O meglio, ha funzionato male.

All’inizio, i vertici militari russi, in primis il ministro Sergei Shoigu, hanno accusato gli F-16 di Israele di aver utilizzato l’Ilyushin russo come “copertura”. Una tattica subdola, ma efficacissima, che avrebbe confuso i sistemi di difesa anti-aerea forniti dagli stessi russi a Damasco proteggendo i caccia dello Stato ebraico.

Ma anche in questo caso, i dubbi ci sono. Le forze aeree siriane e russe lavorano ovviamente a strettissimo contatti con le batterie per la difesa aerea vendute dagli stessi russi. I centri di comando e controllo sono congiunti e i missili sono di fabbricazione russa.

L’Ilyushin che è stato colpito dal missile della contraerea era sicuramente dotato di transponder con sistema IFF (“Identification, Friend or Foe”, in italiano “Identificazione, amico o nemico”). E in anni di coinvolgimento dell’aviazione di Mosca sui cieli siriani, è naturale che i due alleati abbiano creato un sistema di procedure per evitare incidenti causati da fuoco amico.

Inoltre, almeno da quanto dichiarato da Israele e non smentito da nessuno, la contraerea siriana si sarebbe attivata quando i caccia erano già rientrati nello spazio aereo israeliano. Ed è plausibile, visto che aerei scarichi di bombe rientrano alla base molto rapidamente.

L’attacco come test

Si tratta di un un errore fatale? L’ipotesi sarebbe stata confermata anche dallo stesso Vladimir Putin, il quale, a differenza dei suoi militari, ha utilizzato toni concilianti quasi ad assolvere Israele da una tragedia che, in ogni caso, senza attacco da parte dell’aviazione dello Stato ebraico, non sarebbe mai accaduta.

Ma a questo punto la questione potrebbe essere un’altra: se qualcosa è andato storto, è possibile che qualcuno abbia cercato che ciò avvenisse. Ossia che qualcuno abbia voluto che il sistema S-200 siriano di fabbricazione russa intervenisse e che, una volta testato, cadesse nel tranello.

Non è un mistero che gli attacchi in Siria servano come test. L’attacco di aprile servì ad esempio alla Francia per testare, con un flop che ancora imbarazza Parigi, i suoi missili da crociera MdCN (e forse questo nuovo raid poteva avere lo stesso scopo). La guerra, purtroppo, ha anche questa utilità. Le esercitazioni non bastano: è l’utilizzo sul campo che fa comprendere quanto il nemico o un altro esercito sia forte. E mostrare che i sistemi nemici non sono ottimali, serve anche a manifestare la propria supremazia tecnologica rispetto al nemico.

Naturalmente, questo ha vari scopi. Nella guerra fra Israele e Iran, altro utilizzatore del sistema di difesa di fabbricazione russa, l’aviazione israeliana ha lanciato un segnale chiaro nei confronti di Teheran. Quel sistema può essere eluso dall’aeronautica dello Stato ebraico. E lo scontro fra i due Paesi, realizzato soprattutto in Siria, adesso ha anche questo “aggiornamento”. E questo potrebbe essere il primo scopo raggiunto direttamente da Israele.

Un secondo scopo, è quello di dimostrare, nel mercato delle armi, che il sistema di difesa russo non funziona in maniera perfetta. E questo può essere utile non tanto agli israeliani, quanto al suo più fedele alleato, gli Stati Uniti e rappresentare un monito per India e Turchia che hanno acquistato gli S-400 russi. La Turchia ha acquistato quattro unità di fuoco S400 per un valore di 2,5 miliardi di dollari.

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Infatti, la disputa sul mercato dei sistemi d’arma fra Mosca e Washington è all’ordine del giorno in ogni parte del globo. La Russia vuole strappare agli americani quote di mercato che, fino ad ora, erano state tenute sotto stretto controllo dall’industria bellica statunitense. Manifestare le debolezze del nemico aiuta anche a far decidere in maniera diversa chi è pronto a siglare un contratto per la fornitura del sistema, per esempio i turchi con gli S-400.

C’è poi un terzo scopo: costringere la Russia ad usare gli S-400. Fino a questo momento, Putin non ha voluto utilizzare gli S-400 per evitare di creare una pericolosa escalation militare in Siria nei confronti delle potenze occidentali coinvolte. È stata una scelta di natura politica: il Cremlino non vuole alzare il livello dello scontro con l’Occidente né con Israele, che non vuole avere il nuovo sistema russo in Siria.

Ma questo attacco cambia i parametri del conflitto. E forse, nella scelta di Putin di aumentare la protezione delle forze russe in Siria, è inserito anche il dispiegamento del sistema. Questo sì nato con lo scopo di colpire la tecnologia stealth delle forze occidentali.

Ci sono ancora molte ombre sulla battaglia che si è svolta nei cieli del Mediterraneo orientale. Ed esistono perplessità sul ruolo di alcune nazioni, in particolare la Francia, ma anche su quella “tragica concatenazione di eventi”, come definita da Vladimir Putin, che ha portato all’abbattimento dell’aereo russo.

 

1424.-RUSSIA: La crisi nordcoreana secondo Mosca

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La situazione mondiale ha i suoi equilibri, necessari alla finanza e malgrado la crisi degli Stati sovrani e delle loro alleanze. Un equilibrio d’importanza fondamentale per l’Asia è dato dalla divisione fra le due Coree, utile e necessaria alla Cina e al suo piano di espansione a Ovest, non meno che all’India; non solo, ma attraverso le interessenze della Cina negli USA e la loro decadenza, anche a questi ultimi. Appare evidente che la potenzialità delle due Coree unite creerebbe un gigante economico contro il quale la stessa Cina potrebbe difficilmente competere. Non stupirà, neppure, che il ras di Pyongyang, Kim Jong trovi anch’egli utile questa strategia della tensione. E’ indubbio, infatti, che difficilmente potrebbe conservare la sua supremazia ed esercitare la sua follia in una grande Corea unita. ecco, dunque, che un missile al mese, un botta e risposta di minacce alla settimana aiutano a mantenere gli equilibri utili sopratutto al mercato globale. Sia Kim Jong sia Trump non si fanno pregare e i missili, un po’ ucraini, un po’ coreani sorvolano il Mar del Giappone, che, per i medesimi motivi, si unisce soddisfatto al coro. Putin, diventato nemico della NATO, ma innocente, ha tutto da guadagnare da un assetto tutto sommato equilibrato e copre politicamente, a sua volta, i missili di Teheran, sua confinante e si giostra con Pyongyang. Un esempio sono state le sanzioni alla Corea del Nord volute da Washington, come piatto forte ormai usuale del paniere diplomatico USA. Benché, per Mosca, le sanzioni non siano da considerarsi una valida alternativa – le sopporta anch’essa facilmente – , tuttavia, due settimane fa, al Consiglio di Sicurezza, la Federazione russa ha votato a favore del nuovo pacchetto punitivo elaborato su iniziativa di Washington. A dimostrazione di questa nostra tesi, le sanzioni sono de facto aggirabili e la contraddittorietà del Cremlino è, in pratica, priva di effetto, almeno quanto le minacce di Washington. L’atteggiamento russo è dunque altalenante in apparenza, ma dettato dalle opportunità e sia la crisi scatenata dai lanci di Pyongyang, sia le minacce di Trump nel suo primo discorso all’ONU e sia i moniti della Cina sono considerati dal Cremlino come le mosse di una partita – e qui condivido l’autore di questo articolo – con opportunità, appunto, tanto maggiori quanto maggiore è la tensione. 
Ora che la vittoria russo-siriana sta ponendo fine a quella guerra, la strategia della tensione sta puntando sulla Corea del Nord e sull’Iran: i nuovi stati canaglia e, qui, si aggiunge, veramente foriero di pericoli il timore di Israele di vedere, non solo annullati i suoi piani di dominio sul Medio Oriente, ma anche le sue frontiere messe in pericolo, sopratutto, dagli Hezbollah. L’assassinio di Valeri Asapov non può bastare. Insomma, prestiamo orecchio a tutti, ma teniamo gli occhi puntati sugli Sciiti e su Tel Aviv. Mario Donnini
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 Pyongyang North Korea Vintage Architecture Photo Essay by Raphael Olivier
Leggiamo cosa scrive 

La frenesia missilistica di Kim Jong-un spadroneggia nei media italiani. Il contesto è ben noto, ma la sua portata si è recentemente aggravata. In un crescendo di ostilità, la Corea del Nord si è spinta fino a sorvolare con i propri missili la giapponese isola di Hokkaido. Per ben due volte Tokyo e il mondo hanno temuto che le minacce sinora paventate da Kim potessero infine tradursi in realtà.

Tutti i principali attori internazionali sono intervenuti in merito alla questione. Nonostante l’iniziale reticenza al rilascio di dichiarazioni, anche la Russia di Putin si è resa sempre più presente sulla scena. Le scelte di Mosca, tuttavia, sembrano comporre un quadro d’azione contraddittorio – o almeno così pare in superficie.

Le fasi alterne del comportamento russo

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha condannato i lanci missilistici nordcoreani, definendoli una violazione sia del diritto internazionale, sia di diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alla stesso tempo, però, Mosca prende le distanze anche dalla linea statunitense. Secondo Putin, la “retorica insultante” e le pressioni militari di Washington non porteranno ad altro che al fallimento dei tentativi di riconciliazione, precipitando le ostilità in guerra.

Se qualsiasi intervento militare è da escludersi, le sanzioni non sono però da considerarsi una valida alternativa per Mosca. Nonostante siano state in vigore per lungo tempo, pare che esse non abbiano ridimensionato in alcun modo le velleità di Pyongyang. Come ha dichiarato Putin a latere dell’ultima conferenza dei paesi BRICS, i nordcoreani “mangeranno erba ma non fermeranno il proprio programma [nucleare] finché non si sentiranno al sicuro”. Certamente, il parere russo non è disinteressato: oltre ad essere essa stessa vittima di sanzioni, Mosca intrattiene consistenti relazioni commerciali con Pyongyang. Ma il volume di queste ultime non è tale da costituire il centro degli interessi russi nella crisi nordcoreana.

Se le sanzioni sono ritenute inutili, ci si potrebbe allora aspettare che la Russia osteggi qualsiasi nuova risoluzione che ne imponga di nuove. Sbagliato. L’11 settembre scorso, infatti, il rappresentante della Federazione russa al Consiglio di Sicurezza ha votato a favore del nuovo pacchetto punitivo elaborato su iniziativa di Washington. Sanzioni da molti considerate cosmetiche e de facto aggirabili, ma pur sempre in contrasto con la retorica dispiegata in precedenza da Mosca.

L’altalenante atteggiamento russo è infine guarnito da proposte poco credibili elaborate con Pechino circa la soluzione della crisi, da dubbie rivendicazioni riguardo allo stato dei diritti umani in Corea del Nord e frecciatine agli Stati Uniti mascherate da ponderate interpretazioni delle azioni di Kim come applicazione della “lezione imparata” dall’Iraq di Saddam – schiacciato da Washington perché privo di garanzie nucleari.

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Un solo obiettivo: prestigio

Tuttavia, l’incostante tattica politica moscovita non è da confondersi con la mancanza di un disegno strategico. Anzi, tutt’al contrario, essa è riconducibile ad una visione di lungo periodo che ruota intorno a un obiettivo ben preciso. In questo caso come in altri (in Siria, ad esempio), l’obiettivo per Mosca è quello di “esserci” e contare al tavolo negoziale.

In tal senso, non è la risoluzione della crisi nordcoreana a muovere l’agenda del Cremlino, quanto piuttosto la partecipazione alla sua risoluzione. Tramite una tattica d’azione coerente nella sua flessibilità – capace di mutare in base alle sfumature assunte di volta in volta dalla situazione e alle possibili contromosse altrui – la Russia si propone come interlocutore indispensabile. In questo modo, Mosca appare non tanto come colei con la quale si possa risolvere una crisi, ma come attore senza il quale non è affatto possibile raggiungere una soluzione.

La “strategia della presenza” della Federazione russa è insomma tesa a convertire la presenza al tavolo negoziale (nordcoreano) in benefici sul piano del prestigio internazionale, a loro volta reindirizzabili a vantaggio di Mosca in contesti anche molto diversi – in base al principio del do ut des.

Invece che un bacino di rischi sempre maggiori, la crisi scatenata da Pyongyang è considerata dal Cremlino come una sede di grandi opportunità – tanto maggiori quanto maggiore la tensione. E’ per tale ragione che potremo aspettarci anche in futuro un atteggiamento apparentemente contraddittorio da parte di Mosca. Utilizzando una locuzione recentemente impiegata dal professor Carlo Pelanda, le scelte russe sono da ricondursi ad un “realismo pragmatico” che mira a rimandare i rischi della crisi nel tempo – non risolverli. Tanto più essi permarranno, infatti, tanto più la Russia riuscirà a sfruttarli come fonti di accrescimento della propria statura politica internazionale.

Questo studioso di East Journal è un esempio di cosa potrebbero e possano fare i giovani italiani. Nato nel 1993, è Dottore Magistrale in Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe (MIREES). Già Segretario Generale della sezione di Milano della UN Youth Association, è stato intern presso l’Ambasciata d’Italia a Tallinn e ricercatore presso l’Institute of International Relations di Praga. Si interessa principalmente di sicurezza e cultura strategica, nonché di Russia e spazio post-sovietico. Parla inglese, tedesco, francese, russo. Ricordo che in Albania gli uffici pubblici e privati erano mandati avanti dalle ragazze e che parlavano tutte più lingue, imparandole dai programmi televisivi europei. Almeno per le lingue: Chi vale vuole, chi non vuole non vale!

1372.- US Navy e la sensazione di affondare

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USS John S McCain

Finian Cunningham,

Non ispirerà fiducia la Marina statunitense che fa speronare un’altra delle sue potenti navi da guerra nello stesso giorno in cui avvia le esercitazioni militari in Corea; che potrebbero scatenare una guerra nucleare accidentale. Se la Marina Militare statunitense non può controllare le proprie navi in normali operazioni marittime, che dire della competenza o meno in caso di guerra?
Nell’ultimo incidente, il cacciatorpediniere USS John S McCain speronava una petroliera vicino Singapore. Il quarto grave incidente della Marina statunitense quest’anno, tutti nell’Asia-Pacifico. Sono scomparsi dieci marinai e, a causa dei gravi danni, sono ritenuti morti. Un esperto statunitense dichiarava alla CNN: “Come fa un cacciatorpediniere di ultima generazione equipaggiato con diversi sistemi radar e dispositivi di comunicazione che occupano tutto il ponte, non individuare un’enorme nave di 30000 tonnellate in lento movimento (10 nodi)?” Il cacciatorpediniere in questione è dotato del sistema antimissile Aegis, che sarebbe l’apice della tecnologia bellica statunitense. Vi sono, secondo quanto riferito, 14 navi di questo tipo operative nella 7.ma Flotta nell’Asia-Pacifico, considerate parte fondamentale del sistema di difesa di Stati Uniti ed alleati contro le armi balistiche nordcoreane. Se queste navi da guerra avanzate non possono evitare di scontrasi con le petroliere, non va a favore della loro capacità di rilevare ed eliminare i missili balistici nemici che attraversano la stratosfera. L’incompetenza delle forze statunitensi aumenta l’instabilità che occupa la regione con il confronto nucleare tra Washington e Corea democratica.

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La Corea democratica ha ripetuto l’avviso che le manovre degli Stati Uniti e del loro alleato sudcoreano nelle prossime due settimane sono una mossa sconsiderata che potrebbe scatenare “la fase incontrollabile della guerra nucleare”. Ancora Washington persegue le manovre annuali in Corea, coinvolgendo grandi esercitazioni di terra, mare e aria, nonostante le richieste di Cina e Russia di cancellarle per ridurre le tensioni con la Corea democratica. L’ultima collisione tra il cacciatorpediniere statunitense dotato dell’Aegis e una petroliera è il promemoria emblematico degli incidenti che possono avvenire anche con sistemi d’arma presumibilmente sofisticati. Considerata la tensione del confronto tra Stati Uniti e Corea democratica, la pretesa di Washington di tenere le esercitazioni è doppiamente rischiosa. Ogni anno le forze statunitensi conducono tali manovre presso la Corea, e i nordcoreani protestano indicandole come provocazione per preparare l’invasione statunitense. Le esercitazioni di quest’anno avvengono dopo che il presidente degli Stati Uniti Trump avvertiva, all’inizio del mese, che l’esercito statunitense avrebbe scatenato “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto prima” sulla Corea democratica per il suo programma di armi nucleari. Le parole di Trump implicavano l’attacco preventivo dagli Stati Uniti con armi nucleari. La Corea democratica rispose con la minaccia di lanciare missili balistici nei pressi del territorio statunitense dell’isola di Guam, dove gli Stati Uniti schierano bombardieri B-1. La settimana scorsa, il leader della Corea democratica Kim Jong-un rinunciava al piano dicendo che avrebbe giudicato le prossime azioni “degli sciocchi yankee”.
Nelle prossime due settimane, le gigantesche manovre delle forze statunitensi in combinazione con i militari sudcoreani e giapponesi, potrebbero scatenare la guerra totale con la Corea democratica. Se dovesse scoppiare, vi sarebbe probabilmente l’uso di armi nucleari, con conseguenze catastrofiche umane ed ecologiche. La Marina statunitense intaccata dagli incidenti aggiunge solo ansia per una guerra accidentale. È proprio perciò che Cina e Russia invitavano le parti a ridurre le forze militari e dare priorità a diplomazia e dialogo. Tuttavia, con tipica arroganza, gli statunitensi inasprivano la situazione con l’assurda affermazione che le esercitazioni in Corea sono “solo difensive”. Il Washington Times riferiva illogicamente: “Le truppe statunitensi e sudcoreane iniziano le esercitazioni militari tra le minacce della Corea democratica”. I doppi standard sono visibili. Quando la Russia svolge manovre sul proprio territorio, Washington ed alleati della NATO le definiscono “offensive” per la sicurezza europea. Tuttavia, quando Washington conduce operazioni di terra, mare e aria con 70000 soldati ed “attacchi per decapitare” contro la Corea democratica, beh, le manovre si dicono “difensive”. L’ironia degli incidenti navali statunitensi è che Washington afferma che le sue navi sono presenti in Asia-Pacifico per garantire la “libertà di navigazione”, affermando che la Cina mostra i muscoli nella regione minacciando la libera circolazione internazionale delle navi mercantili. Prima dell’ultima collisione con una petroliera presso Singapore, all’inizio di giugno un altro cacciatorpediniere statunitense dotato di Aegis veniva speronato da una nave da carico al largo del Giappone. Quell’incidente causò la morte di sette membri dell’equipaggio statunitense. Proprio la scorsa settimana i comandanti dell’USS Fitzgerald (DDG 62) furono dimessi per incompetenza a seguito di un’inchiesta.

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Il 17 giugno scorso sette marinai erano morti nella collisione tra lo Uss Fitzgerald con il peschereccio filippino ACX Crystal, la cui prua si era schiantata direttamente nella cabina del comandante. Dopo una revisione delle capacità e del carico di lavoro dei nuovi cantieri di costruzione e riparazione, la Navy ha stipulato un contratto per l’inizio del restauro dell’USS Fitzgerald (DDG 62) presso Huntington Ingalls Industries (HII) a Pascagoula, Mississippi, prima della fine dell’anno fiscale. Data la complessità del lavoro e le incognite significative del restauro, la Marina ha stabilito che solo un costruttore di navi di classe Arleigh Burke potrebbe eseguire lo sforzo. Solo HII ha la capacità disponibile di ripristinare lo stato operativo completo nel più breve tempo possibile con una minima interruzione della riparazione in corso e di nuovi lavori di costruzione. Inoltre, la Navy ha dovuto stipulare un contratto per il trasporto pesante dell’USS Fitzgerald da SRF-JRMC Yokosuka agli Stati Uniti. Lo stesso sistema adottato a dicembre per il trasporto dell’USS Cole (DDG 67) con la nave pontone norvegese  M/V Blue Marlin per poter riparare lo squarcio lasciato da un attacco suicida in Yemen avvenuto all’alba del 12 ottobre 2000, mentre era ormeggiata nel porto di Aden, in rifornimento. I due kamikaze avevano ucciso 17 marinai, ferito 39, aperto una falla di ben 12 metri di altezza e 18 di lunghezza e sbandato la nave di 4 gradi.

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L’USS Cole (DDG 67) sulla nave trasporto norvegese  M/V Blue Marlin
L’USS Fitzgerald ha subito danni sul suo lato di dritta sopra e sotto la linea di galleggiamento. I comparti interessati comprendono due spazi d’asilo, una sala radio, uno spazio macchine e diversi armadietti, passaggi e tronchi d’accesso. Oltre alle opere di riparazione, la Marina intende incorporare gli ammodernamenti previsti in precedenza dal programma della messa in disponibilità, che dovevano aver luogo nel 2019 a SRF-JRMC Yokosuka.

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The Arleigh Burke-class guided-missile destroyer USS Fitzgerald (DDG 62) returns to Fleet Activities (FLEACT) Yokosuka following a collision with a merchant vessel while operating southwest of Yokosuka, Japan on July 11, 2017.

A maggio, un’altra nave da guerra degli Stati Uniti entrò in collisione con un peschereccio sudcoreano. Un quarto incidente si ebbe quando una nave da guerra statunitense s’incagliò in Giappone.
Tale incompetenza della Marina statunitense è dovuta in parte alla presenza senza precedenti di navi da guerra di Washington in una delle rotte più congestionate del mondo. Quasi il 25% delle merci globali attraversa lo Stretto di Malacca e il Mar Cinese Meridionale. Più di 200 navi cargo attraversano lo stretto di Malacca, largo 2,8 km, ogni giorno, vicino dove la nave statunitense veniva speronata da una petroliera, questa settimana. Data la frequenza delle incursioni oceaniche delle navi statunitensi, si pone la domanda: quale libertà di navigazione presumibilmente protegge Washington? Ma, in primo luogo, il pericolo peggiore dalle forze statunitensi è l’incompetenza nella gestione di sistemi d’armi presuntamente avanzati in una regione che è già sul bordo della guerra nucleare. L’insensatezza statunitense è criminale. Ecco perché, con la Marina statunitense che circola in giro, non c’è da meravigliarsi che si abbia la sensazione di affondare.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio,di aurora

Pacifico orientale: incidenti provocati e provocazioni Usa non incidentali

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E ora anche un «responsabile» che paga per tutti: il vice ammiraglio Joseph Aucoin, comandante della famosa Settima flotta degli Us Navy – la marina militare americana – è stato licenziato dopo quest’ultimo scontro. Le cause non sono chiare, ma fonti anonime interne alla Marina americana raccontano che la leadership «ha perso fiducia nelle abilità di comando» di Aucoin. Anche perché non si tratta del primo episodio.

C’è solo da sperare che gli ufficiali yankee addetti alle armi di bordo della US Navy siano più accorti dei loro colleghi responsabili di rotta e tengano gli occhi più aperti delle vedette alle ali di bordo. In caso contrario, il rischio che “semplici” esercitazioni si trasformino in qualcosa di molto grave si fa davvero reale, soprattutto in certe zone calde dei mari orientali.

La collisione di ieri mattina, nello stretto di Malacca (che poi, si tratta comunque di alcune decine di miglia, anche nel punto più stretto) del cacciatorpediniere lanciamissili “John McCain” con la petroliera “Alnic MC” è il secondo episodio nel giro di poco più di un mese e il quarto dall’inizio dell’anno, che vede coinvolte unità militari USA nella regione. A metà giugno, il caccia “Fitzgerald” si era scontrato nel mar del Giappone con un portacontainer filippino e sette marinai statunitensi erano morti: la commissione d’inchiesta aveva giudicato “inadeguata la squadra di comando” del caccia ed esautorato gli ufficiali superiori.

A maggio, l’incrociatore lanciamissili “Lake Champlain (CG 57)” aveva fatto collisione con un peschereccio sudcoreano al largo della penisola coreana e, in gennaio, l’incrociatore lanciamissili “Antietam (CG 54)” si era arenato e aveva sversato oltre mille galloni di olio nella baia di Tokyo.
C3iZctfVMAAj3kmThe USS Antietam, a Ticonderoga-class ship, was anchoring in its home port of Yokosuka, in Tokyo Bay, when ran aground and damaged its propellers. 

Sia il “McCain” che il “Fitzgerald”, unità della 7° flotta del Pacifico, sono di stanza nella base di Yokosuka, una cinquantina di km a sudovest di Tokyo. Il “McCain” – classe “Arleigh Burke”, 6.600 tonnellate di stazza, due sistemi lanciamissili “Aegis”, artiglierie e armamento antinave – seriamente danneggiato (cinque marinai sono rimasti feriti nell’impatto e dieci risultano dispersi) è arrivato ieri pomeriggio alla base di Changi a Singapore. Una decina di giorni fa, il Ministero degli esteri cinese aveva inviato una nota di protesta a Washington contro la violazione del diritto internazionale e della sovranità del paese, dopo che proprio il “McCain” aveva incrociato in prossimità delle isole Nansha (Spratly), nel mar Cinese Meridionale, considerate da Pechino territorio cinese, al pari delle isole Xīshā (Paracel), nel cui specchio di mare era transitato qualche giorno prima il caccia “Stethem”.Il capo delle operazioni navali USA, ammiraglio John Richardson, che aveva parlato di una “tendenza” (il primo passo verso una deviazione, avrebbe detto Lenin…) alle collisioni e aveva sospeso tutte le operazioni delle unità americane in tutto il mondo, ha oggi aggiustato il tiro (delle parole) e ha parlato di un possibile attacco cibernetico russo (e chi altri?) ai sistemi di bordo del “McCain”, che avrebbe provocato l’incidente. Sentito dal canale del Ministero della difesa russo tvzvezda.ru, l’osservatore Dmitrij Litovkin ha parlato senza mezzi termini di “manifesta incompetenza degli ufficiali di marina USA”. Gli incidenti degli ultimi due mesi, ha detto Litovkin “si sono verificati a causa di collisioni con navi mercantili. Ciò testimonia del fatto che i militari americani o ignorano coscientemente le norme di sicurezza internazionali in mare, oppure pensano di avere ogni diritto e tutti debbano fargli strada: la qual cosa, in mare, di norma non funziona”.

La sospensione delle operazioni navali annunciata da Richardson sembra tuttavia riguardare solo le operazioni in alto mare: non risulta che siano state interrotte le esercitazioni “Ulchi-Freedom Guardian” (UFG), iniziate ieri in Corea del Sud (dal 1976, si ripetono ogni anno, in agosto e settembre) con la partecipazione di 17.500 marines USA, reparti sudcoreani, britannici, australiani, canadesi, colombiani, danesi, olandesi e neozelandesi, per un totale di oltre 50.000 soldati.

“L’arroganza della potenza”, titolava ieri Die Junge Welt, il quotidiano di orientamento marxista della ex DDR, a proposito delle manovre UFG, che simulano apertamente una invasione della Corea del Nord. Da anni si ripetono le esercitazioni USA-sudcoreane in Corea del Sud, scrive Rainer Werning: le maggiori, insieme alle UFG, sono le “Foal Eagle” e le “Key Resolve” tra febbraio e aprile. Oltre 200.000 soldati partecipano alla simulazione di un “incidente” con la Corea del Nord, mentre le “Key Resolve” servono come esercitazione del US Pacific Command alle Hawaii. Mentre Washington e Seoul “giustificano” le manovre con una presunta minaccia del nord, Pyongyang parla di aperte provocazioni e in Corea del Sud sono sempre più numerosi coloro che le considerano anacronistiche, perché interferiscono con il dialogo inter-coreano. In sostanza, si tratta di una gigantesca dimostrazione di “arroganza della potenza”: un’espressione usata dal senatore William Fulbright durante la guerra del Vietnam, nota Werning, che ricorda anche come la guerra di Corea avesse causato oltre quattro milioni di morti, con il capo del comando aereo strategico USA, Curtis LeMay, che dichiarava trattarsi del 20% della popolazione nord-coreana. Con 635.000 tonnellate di bombe esplosive e incendiarie – tra cui oltre 32.000 tonnellate di napalm, usato per la prima volta – le città della Corea del Nord furono devastate più di quelle tedesche e giapponesi durante la seconda guerra mondiale.

Le esercitazioni congiunte UFG, scriveva ieri la nordcoreana KCNA, “con un coinvolgimento militare statunitense molto superiore a quello dello scorso anno”, hanno gettato la penisola coreana in una fase critica. “Ancora più grave, è che gli alti comandi USA, i comandanti delle forze USA nel Pacifico e delle Forze Strategiche, abbiano visitato la Corea del Sud alla vigilia delle manovre”, scriveva la KCNA, ricordando che, per esse, Pyongyang ha promesso una “punizione spietata” su USA e Corea del Sud.

Si è sentito in dovere di spendere qualche parola di circostanza il presidente sudcoreano Mun Zhe Ying, forse spaventato dalla reazione nordcoreana: “si tratta di manovre annuali a carattere difensivo” ha farfugliato, a fronte di 50.000 soldati che simulano l’invasione della Corea del Nord, “e noi non tendiamo affatto ad alimentare la tensione”. Seoul, ha detto Mun, “in stretta alleanza con gli Stati Uniti, collaborerà con la comunità internazionale per garantire che la situazione attuale non evolva in una guerra”, aggiungendo che “le porte del dialogo sono sempre aperte” e che – da copione – è la RDPC a dover “cessare le provocazioni”.

Guarda caso, proprio in questi giorni, Seoul ha acconsentito all’installazione di ulteriori quattro piattaforme di lancio del sistema THAAD, col pretesto, ovviamente, della minaccia dei missili nordcoreani.

L’organo del Partito del Lavoro, Rodong Simnun, scrive che la decisione sudcoreana costituisce “un atto imperdonabile contro la nazione, volto ad accettare incondizionatamente la richiesta del suo padrone USA, anche col sacrificio del destino e degli interessi del popolo sudcoreano”. Il Ministero della difesa di Seoul, scrive la cinese Xinhua, la scorsa settimana ha addirittura deciso di accelerare il dispiegamento del sistema THAAD e ha condotto una prova di impatto ambientale, su scala ridotta, per tentare di rigettare le proteste dei gruppi anti-THAAD sudcoreani circa la nocività del sistema sull’ambiente.

“A Delfi gli oracoli tacciono e la caligine che avvolge il futuro preme sul genere umano”, sospirava Giovenale.

1150.- Dopo 100 giorni, Trump rimedia un’umiliazione coreana

Non è la Korea democratica che può scatenare la guerra, ma il braccio di ferro in atto in Siria.

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Nikki Haley

Il segretario di Stato degli USA, Rex Tillerson, dopo aver allontanato l’ambasciatrice neocon Nikki Haley dalla sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, segnalava la disponibilità di Washington a colloqui diretti con la leadership della Corea democratica. Tillerson dichiarava “Il nostro obiettivo non è il cambio del regime. Né vogliamo minacciare il popolo nord-coreano o destabilizzare la regione dell’Asia Pacifico. Negli anni abbiamo ritirato le nostre armi nucleari dalla Corea del Sud e offerto aiuti alla Corea democratica come prova della nostra intenzione di normalizzare le relazioni… gli Stati Uniti credono in un futuro per la Corea democratica. Questi primi passi verso un futuro più speranzoso saranno più spediti se altri soggetti interessati, nella regione e nella sicurezza globale, ci raggiungeranno”.

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Il segretario di Stato degli USA, Rex Tillerson. Stati Uniti e Cina intendono entrambi mantenere la divisione delle due Coree. La strategia della politica USA dovrebbe tenere in maggior conto l’espansione delle nuove potenze asiatiche: India e Corea, che si aggiungono alla Cina e rendersi parte attiva della fondazione di un Nuovo Occidente, dall’Alaska, all’Alaska, con l’Europa e la Russia, assumendovi la funzione di “primus inter pares” (ndr).

Tillerson, però continuava minacciando “Dobbiamo imporre la massima pressione economica tagliando i rapporti commerciali che finanziano direttamente il programma nucleare e missilistico della RPDC. Invito la comunità internazionale a sospendere il flusso dei lavoratori ospiti nordcoreani e ad imporre divieti alle importazioni nordcoreane, in particolare al carbone”.

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>>>ANSA/COREA NORD LANCIA DUE MISSILI, UNO ARRIVA IN ACQUE GIAPPONE

Questi sistemi missilistici nordcoreani sono allo stato più potenziale che sperimentale e i ripetuti lanci falliti potrebbero anche dipendere da attività di contromisure elettroniche ostili. Allo stato dei fatti, rappresentano l’arma diplomatica migliore della Corea democratica, da sacrificare in cambio di una riduzione delle pressioni e delle sanzioni.

Tillerson chiariva che ormai obiettivo degli USA è impedire alla Corea democratica di sviluppare armamenti strategici che possano minacciare direttamente la terraferma nordamericana. Timore confermato da Vasilij Kashin, analista militare russo, “Attualmente, i test riusciti con i missili KN-11 Pukkuksong-1 navali e KN-15 Pukkuksong-2 terrestri, sono in corso. In realtà, i nordcoreani hanno raggiunto lo stesso livello della Cina agli inizi degli anni ’80, quando Pechino effettuò i test di volo del JL-1, il primo missile lanciato da sottomarini della Cina, da cui evolse il DF-21, missile balistico mobile a medio raggio”. Kashin indicava che la Cina impiegò 5-6 anni per completare i test di volo del JL-1, mentre “I nordcoreani hanno iniziato i test di volo del Pukkuksong-1 nel 2014, ed è possibile che saranno pronti a schierarli alla fine del decennio. Questi missili avrebbero una gittata di 2000 km, paragonabile a quella di JL-1 e DF-21A. Pyongyang avrà la capacità sicura di colpire obiettivi in Corea del Sud e Giappone, ma ancora non potrebbe raggiungere gli Stati Uniti”. Si pensa che i nordcoreani abbiano fatto una dozzina di prove con i Pukkuksong-1 e 2, e nell’agosto 2016 fu compiuto un lancio da un sottomarino del Pukkuksong-1. Secondo Kashin, questi successi saranno la base di ulteriori progressi. Tuttavia, “il passo per realizzare un missile balistico intercontinentale, e in particolare un ICBM propulso da combustibili solidi, richiederà un salto qualitativo nello sviluppo della base produttiva e delle infrastrutture dei test della Corea democratica”.

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La Corea democratica ha sviluppato anche il KN-08, noto anche come Rodong-C o Hwasong-13, ICBM autocarrato mobile allo studio dal 2010. Kashin osservava che i nordcoreani, “dovranno saper produrre motori a razzo a propellente solido dal grande diametro. Dovranno sperimentare nuovi combustibili e nuovi contenitori per missili. Una limitazione seria è la capacità o meno di acquistare o creare le attrezzature necessarie”. Inoltre, “per essere testati, gli ICBM dovranno essere lanciati sopra il territorio giapponese in direzione dell’Oceano Pacifico meridionale. Dato che l’esperienza dei cinesi nel testare i loro ICBM DF-5 nei primi anni ’80 dimostra che i test richiederanno la creazione di una flotta di navi specializzate dotate di complessi strumenti di misura e, probabilmente, nuove navi da guerra per scortarle. I tentativi di condurre tali test saranno minacciati da Stati Uniti ed alleati, anche con tentativi di abbattere i missili durante il decollo, o di bloccare le apparecchiature di controllo a bordo delle navi nordcoreane”. Quindi, secondo Kashin, i test sugli ICBM richiederanno circa 5-6 anni. La Cina “schierò i suoi ICBM DF-31 15-20 anni dopo lo schieramento dei Jl-2 e DF-21”. Quindi, secondo l’analista, passerebbero decenni prima che Pyongyang possa disporre di un vero ICBM. “Perché i nordcoreani sentano la necessità di richiamare l’attenzione sui sistemi di armi che, anche secondo lo scenario più ottimista, non possono essere schierati prima della metà degli anni 2030? È possibile che, dal punto di vista di Pyongyang, sia una dimostrazione della determinazione e, allo stesso tempo, un invito ai colloqui, che la Corea democratica, nonostante l’isolamento, intende condurre da una posizione di forza. È possibile che questi potenziali sistemi missilistici siano ciò che la Corea democratica è pronta a sacrificare in cambio di una riduzione delle pressioni e delle sanzioni. La sicurezza del Paese è garantita dalla capacità d’infliggere danni inaccettabili agli alleati degli USA Corea del Sud e Giappone in caso di guerra. Pyongyang non abbandonerà armi nucleari e missili a medio raggio, ma potrebbe accettare di non condurre nuovi test o sviluppare missili intercontinentali in cambio di concessioni economiche e politiche. Questo è possibile, può benissimo essere lo scenario ideale per Pyongyang”. I nordcoreani potrebbero essere pronti a rinunciare alla futura capacità di attaccare il continente nordamericano in cambio della normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti. Ciò potrebbe spiegare il discorso di Tillerson al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

wang_yi_ Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi

Ma se il segretario di Stato Rex Tillerson sembrava indicare un ammorbidimento della posizione degli Stati Uniti verso la Corea democratica, il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, affermava, “La chiave per risolvere la questione nucleare sulla penisola non è nelle mani cinesi. È necessario mettere da parte il dibattito su chi debba compiere il primo passo e smettere di discutere chi abbia ragione e chi torto. Ora è il momento di considerare seriamente la ripresa dei colloqui”. Sempre Wang Yi, in una conferenza stampa con il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel, affermava “Certamente crediamo che i continui test nucleari violino le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma effettuare esercitazioni militari nella penisola coreana chiaramente non è n linea con lo spirito delle risoluzioni del Consiglio… riguardo la probabilità di una guerra, anche una minima probabilità non è accettabile. La penisola coreana non è il Medio Oriente. Se la guerra esplodesse, le conseguenze sarebbero inimmaginabili”, tracciando così la linea rossa che gli Stati Uniti non devono attraversare. Inoltre, il Quotidiano del Popolo avvertiva, “La forza non porterà da alcuna parte; dialogo e negoziati restano l’unica soluzione. È indispensabile che tutte le parti interessate considerino la proposta della Cina: sospensione dei test nucleari da parte della RPDC e cessazione delle esercitazioni militari congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud. Altre parole aspre e confronti militari non beneficeranno né Stati Uniti né RPDC. Se le parti possono inviassero segnali positivi, il problema potrebbe avere una probabile soluzione”. Lungi dall’essere disposta a considerare ulteriori sanzioni contro la Corea democratica, la Cina chiede agli Stati Uniti d’impegnarsi immediatamente in colloqui diretti con la Corea democratica e che sospendano le esercitazioni militari con la Corea del Sud, in cambio della sospensione della Corea democratica di ulteriori test nucleari. Tillerson restava scioccato dalla risposta cinese, “Non negozieremo il nostro ritorno ai negoziati con la Corea democratica, non ricompenseremo le violazioni delle risoluzioni passate, né il cattivo comportamento nei colloqui”. Ma il Viceministro degli Esteri russo Gennadij Gatilov sosteneva la Cina, dichiarando, “Una retorica bellicosa accoppiata a dimostrazioni di forza accanita hanno portato a una situazione in cui il mondo intero seriamente si domanda se ci sarà una guerra. Un pensiero sbagliato o un errore male interpretato porterebbero a conseguenze spaventose e deprecabili”. Gatilov osservava come la Corea democratica sia minacciata dalle esercitazioni militari congiunte statunitensi-sudcoreane e dall’arrivo delle portaerei statunitensi nelle acque della penisola coreana.

Cina e Russia si oppongono allo schieramento del sistema antimissile statunitense in Corea del Sud, definito “sforzo destabilizzante” che danneggia la fiducia tra le parti sulla questione della Corea democratica. In sostanza, invece d’isolare la Corea democratica, gli USA si ritrovano la Cina ad accusarli di suscitare una crisi, e non solo Beijing si oppone alle pretese degli Stati Uniti di ulteriori sanzioni, ma rafforza il sostegno alla Corea democratica. Il Quotidiano del Popolo riportava, “Nonostante le tensioni sulla penisola, una guerra non è affatto imminente. Anche se il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo governo rimproverano alla RPDC il programma nucleare e missilistico, e sebbene la RPDC abbia risposto con parole e azioni nette, ci sono ancora segnali incoraggianti. Negli ultimi giorni, la RPDC non ha condotto alcun nuovo test nucleare. E il 26 aprile, segretario di Stato, segretario della difesa e direttore dell’intelligence nazionale degli USA dichiaravano congiuntamente che i negoziati sono ancora sul tavolo”.
Tornando al discorso di Tillerson alla sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le sue parole dimostrano chiaramente che gli Stati Uniti non hanno altra scelta se non dialogare con Piyongiyang, e la necessità per l’amministrazione Trump, dopo la foia bellicosa delle ultime settimane, di avere la foglia di fico delle sanzioni cinesi per salvarsi la faccia prima di negoziare con la Corea democratica. Ma i cinesi, memori dell’oltraggio dell’attacco missilistico alla Siria, avvenuto mentre Trump incontrava il Presidente Xi Jinping, negano a Trump tale favore. Infatti, l’ambasciatore nordcoreano, d’accordo con i cinesi, neanche si degnava di partecipare alla sessione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per rispondere a Tillerson. Per loro hanno parlato Cina e Russia.

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Un’aula computer nella Grand People’s Study House, a Pyongyang. I computer danno accesso a Kwangmyong, non ad internet. Da marzo del 2014, i computer sono attrezzati con Windows XP ed Internet Explorer 6. Kwangmyong è accessibile solo dall’interno della Corea del Nord.

Il successo della Corea democratica nel programma missilistico e nucleare dimostra che possiede una seria base industriale e tecnologica comprendente chimica avanzata e fisica nucleare. Il successo della Corea democratica nel produrre cellulari e tablet intelligenti e la rete intranet nazionale “Kwangmyong”, indicano anche l’esistenza di un’industria informatica avanzata. Rodong Sinmun, quotidiano del Partito dei Lavoratori della Corea democratica, spiega la necessità del programma strategico per la Corea democratica, “Recentemente, il rappresentante statunitense alle Nazioni Unite, attaccando le giuste misure della RPDC per rafforzare la deterrenza nucleare, dichiarava che costituirebbero una minaccia per gli Stati Uniti e diversi altri Paesi, e che “Paesi compiono atti malvagi”, come la RPDC, non firmando la convenzione del bando delle armi nucleari o non attuandola. Ciò è una distorsione grossolana della realtà. Gli Stati Uniti distorcono e sfruttano deliberatamente la realtà per mutare il quadro in loro favore. Lo scopo è indicare la RPDC come nemica della pace e nascondere la verità sul terribile criminale nucleare e giustificarne le mosse per soffocare la RPDC. Non hanno merito e diritto di accusare le misure della RPDC per rafforzare la deterrenza nucleare, e neanche diritto di agitarsi sulla convenzione per il divieto delle armi nucleari. Gli USA cercano di convincere il pubblico che la denuclearizzazione del mondo non avviene a causa della RPDC. È un’accusa senza senso che ignora i motivi storici per cui la RPDC è stata costretta ad optare per le armi nucleari e rafforzarle qualitativamente e quantitativamente, e del perché è diventato necessario nel mondo disporre della convenzione sul divieto delle armi nucleari. Non sono altri che gli Stati Uniti che hanno costretto la RPDC ad accedere alle armi nucleari e sono sempre gli Stati Uniti che spingono costantemente la RPDC a rafforzarle qualitativamente e quantitativamente. La deterrenza nucleare della RPDC non minaccia gli altri, ma è un mezzo per difendere la sovranità del Paese dalla provocazione nucleare statunitense in ogni aspetto. La RPDC continuerà ad esercitare questo diritto con dignità, indipendentemente da ciò che altri possano dire”.
Infine, Trump si vantava di aver diviso la Cina dalla Russia nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nel tentativo di suscitare zizzania tra Beijing e Mosca; cosa confermata dal consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, H. R. McMaster, che in un’intervista dichiarava in preda al delirio, “Ciò che sappiamo è che rispondendo alla strage del regime siriano, il presidente Trump e prima signora hanno ospitato una conferenza straordinariamente vincente con il Presidente Xi e la sua squadra. E non solo hanno stabilito un rapporto molto caldo, ma… hanno lavorato sulla risposta alla strage da parte del regime di Assad nel voto alle Nazioni Unite. Penso che il Presidente Xi sia stato coraggioso nel distanziarsi dai russi, isolando russi e boliviani… E credo che il mondo l’abbia visto bene, in quale club volete essere? Il club russo-boliviano? Oppure nel club degli Stati Uniti, lavorando insieme sui nostri interessi per la pace e la sicurezza”. Un commento che illustra la miseria della diplomazia statunitense sotto Trump. “I cinesi chiarirono a Mosca la decisione di astenersi nel voto alle Nazioni Unite, prima della votazione. Dal loro punto di vista e da quello dei russi, la decisione della Cina di astenersi non significava molto. Non c’era possibilità che il progetto di risoluzione passasse perché la Russia aveva già fatto sapere che avrebbe posto il veto, mentre gli Stati Uniti avevano già rimosso i termini più offensivi nel progetto di risoluzione prima che venisse votato, cancellando la formulazione che accusava dell’incidente di Qan Shayqun il governo siriano, prima che avesse luogo una qualsiasi inchiesta… ciò che i cinesi intesero come semplice cortesia diplomatica verso Trump su un tema che per la Cina era secondario, tuttavia fu erroneamente interpretato dall’amministrazione Trump come passo della Cina contro la Russia. Chiaramente, sarebbe stato completamente diverso se la Cina avesse votato la risoluzione dopo che la Russia aveva fatto sapere che avrebbe votato contro. In quel caso sarebbe stato legittimo parlare di grave frattura sul tema siriano tra Pechino e Mosca. Tuttavia l’astensione non va interpretata così”. Comunque, come visto, l’atteggiamento dell’amministrazione Trump verso la dirigenza cinese e il tentativo puerile di dividere Cina e Russia, oltre alle minacce alla Corea democratica, non solo hanno spinto la leadership cinese a riaffermare la persistenza dei rapporti tra Cina e Russia, ma irritava la Cina, con il risultato visto al Consiglio di Sicurezza, dove la Cina sostiene espressamente le richieste nordcoreane sulla fine delle manovre militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, collegandole al programma strategico nordcoreano, passo contro cui gli Stati Uniti si sono sempre opposti. Inoltre, la realtà della cooperazione cinese e russa nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva dimostrata appunto sulla questione della Corea democratica, con i russi che sostengono con nettezza la Cina, dimostrando un chiaro coordinamento tra dirigenze di Cina e Russia.

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Xi Jinping e Putin

di Alessandro Lattanzio