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5258.- Il TPI, un altro strumento della BCE nelle mani dell’antidemocratica Ue, che condizionerà i governi. Draghi, missione compiuta?

Eccovi il TPI, lo strumento della BCE per mettere le catene all’Italia e renderne completamente inutile governo ed elezioni

Da Scenari economici

Photo by Paul Fiedler on Unsplash

Oggi, separatamente dagli annunci di politica monetaria, la BCE ha svelato il famoso “Strumento anti frazionamento” che è stato chiamato TPI”, da “Transition Protection Instrument” “Strumento di protezione della transizione”, proprio perché serve a proteggere i titoli di stato dei paesi più fragili proprio nei momenti di stretta monetaria. Uno strumento in realtà semplice: la BCE compra i titoli dei paesi deboli in quei momenti. Possiamo anche enunciare il lato positivo dello strumento:

  • non è stata definita una quantità massima di impiego dello strumento stesso. Quindi potenzialmente è efficace veramente per contenere la speculazione. Solo strumenti illimitati sono efficaci.

Questo il lato positivo. Poi ci sono i molti lati negativi. Con questo strumento la BCE rinuncia definitivamente a essere uno strumento indipendente e diventa il braccio monetario della Commissione. un braccio armato e brutale.

Vediamo le condizioni per poter utilizzare lo strumento, prese direttamente dal sito BCE:

Il Consiglio direttivo prenderà in considerazione un elenco cumulativo di criteri per valutare se le giurisdizioni in cui l’Eurosistema può effettuare acquisti nell’ambito dell’IPT perseguono politiche fiscali e macroeconomiche sane e sostenibili. Tali criteri costituiranno un input per il processo decisionale del Consiglio direttivo e saranno adattati dinamicamente all’evolversi dei rischi e delle condizioni da affrontare. (Ok per utilizzare gli strumenti si considereranno più fattori)

In particolare, i criteri includono: (1) conformità al quadro di bilancio dell’UE: non essere soggetti a una procedura per i disavanzi eccessivi (PDE) o non essere valutati come se non avessero adottato misure efficaci in risposta a una raccomandazione del Consiglio dell’UE ai sensi dell’articolo 126, paragrafo 7, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); (2) assenza di gravi squilibri macroeconomici: non essere soggetti a una procedura per gli squilibri eccessivi (PDE) o non essere valutati come se non avessero adottato le misure correttive raccomandate in relazione a una raccomandazione del Consiglio dell’UE ai sensi dell’articolo 121, paragrafo 4, del TFUE; (3) sostenibilità fiscale: nell’accertare che la traiettoria del debito pubblico sia sostenibile, il Consiglio direttivo terrà conto, ove disponibili, delle analisi di sostenibilità del debito della Commissione europea, del Meccanismo europeo di stabilità, del Fondo monetario internazionale e di altre istituzioni, unitamente all’analisi interna della BCE; (4) politiche macroeconomiche sane e sostenibili: rispetto degli impegni presentati nei piani di risanamento e di resilienza per lo strumento di risanamento e di resilienza e delle raccomandazioni specifiche per Paese della Commissione europea in materia di bilancio nell’ambito del semestre europeo.

Quindi per l’uso del TPI lo stato deve rimettersi al giudizio della Commissione, della BCE e perfino del MES, il tanto amato Meccanismo Europeo di Stabilità. Quindi o si obbedisce alle indicazioni di questi enti o non c’è aiuto. Potete capire che, a questo punto, potremmo anche non eleggere nessun governo perché senza gli strumenti di bilancio non si può fare nulla. Non solo, c’è proprio un livello di arbitrarietà del giudizio che rende completamente inutili le politiche nazionali. 

Sembra uno strumento scritto, pari pari, da chi non vuole che l’Italia, o anche altri paesi, abbia una autonomia decisionale politica. La solidità del TPI esiste sono se si è obbedienti e si seguono le stesse ricette politiche che in trenta anni hanno reso il nostro debito non sostenibile, se non con l’autonomia monetaria. Vorrei vedere se un paese rilevante  scegliesse lo stallo alla messicana come si comporterebbe la BCE, perché il rischio potrebbe trasmettersi anche a altri titoli. Queste condizionalità sono figlie di una politica cattiva e antidemocratica e di una visione miope, che trasforma uno strumento monetario in un manganello.

Il testo sembra scritto da JRR Tolkien:

Un Anello per trovarli, Un anello per domarli,
Un anello per radunarli e nel buio incatenarli
Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano

Sostituite Anello con TPI.

Missione compiuta.

3094.- L’IDEA EURO-TEDESCA PER SALVARE L’INDUSTRIA AUTO … che ci manderà in fallimento

Questi soldi devono venire da un aumento dei contributi dei singoli stati. quindi l’Italia deve contribuire per aiutare l’industria automobilistica, soprattutto franco tedesca.

L’Unione Europea finalmente si sta rendendo conto che qualcosa nell’economia europea non va e che bisogna intervenire. L’idea è molto semplice: nei tre primi mesi dell’anno  si è venduto  in UE il 60% in meno di auto, e nel trimestre successivo il 30% in meno. Quindi Thierry Breton ha iniziato ad identificare  i settori industriali, partendo proprio dal settore auto e dalle sue aziende , per identificare quali siano a aiutare con sovvenzioni a livello europeo.

Naturalmente per l’auto è stato molto più semplice: si sono identificate le società europee del settore, quasi tutte francesi e tedesche, e si sta preparando un piano di intervento. Gli altri settori comprendono il medico-farmaceutico, inteso in senso strategico, però, come necessità di riportare in Europa le produzioni che, in nome dell’iperliberismo, si è lasciato andare all’estero, ponendo il sistema sanitario in difficoltà. Poi anche altri settori, come trasporti, turismo etc.

Tutto bene quindi? Finalmente la UE si muove nella giusta direzione ? Beh, quasi. Prima di tutto il piano, come  ammette lo stesso Handelsbatt, non tiene conto delle profonde differenze con cui i paesi del Nord e del Sud prevedono vengano erogati gli aiuti: il Nord vuole che gli aiuti settoriali siano solo sotto forma di prestiti, il Sud sotto forma di sovvenzioni. In questo modo si rivede una contrapposizione che è presenta sin dall’inizio della crisi e che non verrà risolta dalla commissione, ma che per noi è una questione di vita o di morte. Però questo sarebbe il problema minore.

La Commissione vuole aiutare, MA QUESTI SOLDI DEVONO VENIRE DA UN AUMENTO DEI CONTRIBUTI DEI SINGOLI STATI. Quindi l’Italia deve contribuire per aiutare l’industria automobilistica, soprattutto franco tedesca. Si potrebbe dire che la Germania dovrebbe dare dei soldi per il turismo italo-spagnolo, ma le dimensioni degli interventi sono molto diversi e , soprattutto, le situazioni di partenza sono completamente diverse. Se per la Germania aumentare del 5% il debito/PIL è una passeggiata, la stessa misura per i paesi del sud può essere devastante , visto il livello più alto di debito. Per il sud l’unica via di fuga è la monetizzazione del debito o la conversione interna dello stesso verso strumenti monetari interni: la seconda via avrebbe il vantaggio di far ripartire i paesi attraverso la via della domanda interna ed in modo differenziale , omogeneo rispetto alle caratteristiche dei singoli paesi. Quindi, essendo le soluzioni più logiche, verranno ignorate a livello europeo.

2058.-Cinque anni fa, le interviste di Scenari economici a Alberto Bagnai. E siamo ancora lì.

La deludente proposta del professore e ministro Paolo Savona di ricorrere a una “patrimoniale” al 20% (il piano della bundesbank) con gli speciali titoli di Stato di solidarietà sottoscritti forzatamente dai risparmiatori, per dimezzare il debito italiano, è la resa di colui che affermava di conoscere i meccanismi segreti della Banca Centrale Europea, oppure che la crescita che andremo a finanziare, sottoscrivendo cambiali, era largamente sottostimata in via prudenziale. E così che il luminare Savona pensava di raddrizzare gli squilibri dell’Unione europea? Abbiamo raccontato ai nostri seguaci, per sei anni, che gli investimenti non si finanziano facendo debito con la BCE e con le tasse, abbiamo ascoltato in ginocchio le conferenze di Claudio Borghi e di Alberto Bagnai.. Meglio tacere! Ma voglio riascoltare un altro esimio economista della pattuglia raccolta da Matteo Salvini:

Correva l’anno 2013. Di seguito tre interviste al Professor Alberto Bagnai, Professore associato di Politica economica, Facoltà di Economia, Uni. G.D’Annunzio, Pescara.

La prima intervista:  – Ecco perche’ l’Euro e’ insostenibile (1/3) .

La seconda intervista: – Il Tramonto dell’Euro (2/3).

La terza intervista: – Il Rilancio economico e l’austerita’ suicida (3/3).

Le pubblicheremo una alla volta, per meditarle.

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Ecco perche’ l’Euro e’ insostenibile (1/3)

Di seguito l’intervista al Professor Alberto Bagnai, Professore associato di Politica economica, Facoltà di Economia, Uni. G.D’Annunzio, Pescara.

D – Professore, sono note le sue tesi sull’Euro; perche’ questa crisi in Europa?

R – Non per fare il “precisino”, ma vorrei chiarire subito che quelle che in Italia sono indicate come le “mie” tesi sull’euro in realtà di mio hanno ben poco. Ci tengo sia per onestà intellettuale (non sarebbe bello attribuirsi idee altrui), sia per far capire quanto sia indietro il dibattito in Italia (dove tesi comunemente accettate all’estero ancora sembrano rivoluzionarie).

L’insostenibilità di una moneta unica in Europa era un fatto ben noto alla scienza economica e agli stessi politici che hanno promosso il progetto di unione monetaria, come oggi vede e dichiara perfino Luigi Zingales, uno degli araldi dell’ortodossia economica italiana. Sono stati del resto i politici stessi a dire che l’euro sarebbe servito a governare i popoli europei a colpi di crisi. Lo documento nel libro e nel mio blog, riportando le tante dichiarazioni pubbliche di Prodi, Monti, Padoa Schioppa, Attali, Juncker, ecc. Non è una sorpresa, non c’è nulla di originale, né di complottistico.

Il problema principale è che adottando un cambio fisso, un paese si priva di un normale meccanismo di risposta a shock negativi provenienti dall’esterno: la possibilità di aggiustare il valore della propria valuta alle mutate condizioni di mercato. Non c’è nulla di scandaloso né di immorale nel fatto che il prezzo di una valuta segua la legge della domanda e dell’offerta. Se glielo si impedisce, si crea una tensione che fatalmente si scarica sul mercato del lavoro. Lo dice benissimo Vittorio Da Rold sul Sole24Ore: in caso di problemi “o si svaluta la moneta (ma nell’euro non si può più) o si svaluta il salario”. Il problema è che la svalutazione (cioè il taglio) del salario, quella che oggi chiamiamo “svalutazione interna”, è un processo doloroso, lento, e soprattutto inefficace. Infatti, il taglio dei salari ha lo scopo di intercettare domanda estera offrendo prodotti a prezzi più contenuti, ma al tempo stesso distrugge la domanda interna.

La svalutazione del cambio, invece, permette un recupero di competitività più rapido. Basta confrontare i risultati conseguiti dalla Lettonia (che ha seguito la strada della svalutazione interna, massacrando la propria economia, come ricorda Mario Seminerio, altro economista ortodosso e pro-euro), e dalla Polonia, che invece dopo il crack Lehman del settembre 2008 ha lasciato svalutare lo zloty di quasi il 30%, risultando l’unico paese dell’Unione Europea con un tasso di crescita positivo nel 2009 (+1.6%). E notate che, una volta di più, questo risultato è stato ottenuto senza particolari costi in termini d’inflazione, che anzi in Polonia è scesa dal 4.2% al 3.4% fra 2008 e 2009, come ricordano Kawalec e Pytlarczyk.

Anche qui non c’è nulla di nuovo: nel mio ultimo libro documento svariati casi del genere. Il terrore dell’inflazione in caso di sganciamento non ha alcuna base storica né scientifica. Rimane allora la domanda: ma se rinunciare alla flessibilità del cambio fa tanti danni, impedendo di reagire rapidamente a una recessione, perché si sceglie questa strada palesemente sbagliata?

La risposta più plausibile a questa domanda, a mio avviso, è stata data da Roberto Frenkel e dai suoi coautori, partendo dall’analisi delle crisi dei paesi emergenti, fra i quali l’Argentina.

D – Si riferisce al “ciclo di Frenkel”, descritto nel suo libro recentemente pubblicato Il Tramonto dell’Euro (http://www.amazon.it/Il-tramonto-delleuro-Alberto-Bagnai/dp/8897949282 )? Questo ciclo passa per le sette fasi che qui riassumo:

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Puo’ spiegarci brevemente questo “Romanzo di centro e periferia” e dirci a che punto siamo?

R – È un dato di fatto: tutte le crisi finanziarie degli ultimi trent’anni sono state precedute da un tentativo di fissazione del cambio fra un paese più forte (il “centro”) e un paese più debole (la “periferia”). Il vantaggio per il centro è ovvio: può prestare soldi alla periferia, lucrando interessi generalmente più alti che a casa propria, senza incorrere nel rischio di cambio. Anche la periferia inizialmente trae vantaggi: diventando “credibile”, accede a credito estero relativamente a buon mercato, che potrebbe usare per promuovere il proprio sviluppo. Il gioco quindi potrebbe essere a somma positiva, ma il problema è che viene sempre spinto troppo oltre.

Da un lato i creditori del centro prestano troppo, in modo irresponsabile, sapendo che alla fine qualcuno pagherà (o i debitori, o i contribuenti). Dall’altro, i debitori della periferia si indebitano troppo, e non sempre utilizzano i capitali presi in prestito per investimenti produttivi (infrastrutture, ricerca, ecc.). Attenzione, però: in un sistema capitalistico l’onere di verificare che il progetto finanziato sia valido incombe al creditore. Quando chiedete un prestito, la banca valuta il vostro merito di credito, no? Le banche del centro, però, evitano di farlo, e un motivo c’è. A voi sembra logico che il centro finanzi la periferia per renderla più forte, cioè per avere un concorrente temibile in più? Non lo è molto, vero? La periferia viene finanziata perché i suoi cittadini acquistino prodotti del centro, non perché si dotino di infrastrutture efficienti, che li mettano in concorrenza col centro stesso.

Insomma, la periferia, indebitandosi, diventa la “locomotiva” del centro, del quale acquista i beni. Questo è un altro ovvio vantaggio per i capitalisti del centro, che affiancano profitti industriali a quelli finanziari. Ma anche i politici e i capitalisti della periferia qualche vantaggio lo traggono. Utilizzando il pretesto del vincolo esterno, del “ce lo chiede l’Europa”, riescono a far ingoiare ai propri cittadini delle politiche di smantellamento dei loro diritti e di compressione dei loro redditi che altrimenti non sarebbero politicamente sostenibili.

Il gioco si basa sul credito facile erogato dal Nord. Prima o poi si presenta un evento che, mettendo in difficoltà i debitori, rende palese a tutti che i debiti accumulati sono insostenibili, e inizia la crisi.

Nel caso dell’Eurozona, la crisi dei subprime e poi lo scandalo Lehmann hanno messo in grossa difficoltà le banche tedesche, imbottite di titoli tossici. Lo stato tedesco ne ha salvate alcune, come spiega Adriana Cerretelli sul Sole24Ore, poi, quando la situazione è diventata insostenibile, ha cominciato a fare la voce grossa coi paesi dell’Eurozona (non potendola fare con gli Stati Uniti).

Notate bene che fin qui si parla di debito privato: nella fase preparatoria della crisi, l’economia periferica gira a pieno regime, lo Stato incassa imposte, quindi il debito pubblico scende, come stava scendendo in Irlanda, Spagna e Italia (per fare tre esempi). Quando i mercati si innervosiscono, i governi adottano risposte recessive (austerità) e il debito pubblico esplode. Ora siamo lì, nella sesta fase del ciclo. La settima sarà, come sempre è stato, lo sganciamento della periferia dal centro, cioè, nel caso dell’Eurozona, la dissoluzione dell’euro.

D – Parlando di Europa, Euro e gestione del processo di integrazione e della Crisi, ci puo’ spiegare le “colpe” della Germania in questi 15 anni, e quelle dell’Italia?

R – Rifaccio il precisino: non mi piace parlare di “colpe” in economia, e non la metterei in termini di antagonismo fra “Germania” e “Italia”. Bisogna ricordare sempre che “Germania” e “Italia” non sono due personaggi (uno buono e uno cattivo, a scelta di chi legge), ma due insiemi composti da tanti attori economici e sociali, non tutti ugualmente informati, non tutti ugualmente razionali.

Andando nell’ordine che lei propone, sicuramente una certa leadership politica tedesca ha la responsabilità di aver badato agli interessi economici del proprio paese in modo egoistico e miope, violando l’obbligo di “stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri” stabilito dall’art. 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Chi rinfaccia il fatto che “la Germania è stata più brava perché ha fatto prima le riforme” dimostra una totale ignoranza dei principi della costruzione europea. “Stretto coordinamento” significa che le riforme si sarebbero dovute decidere e attuare insieme. Invece non solo non è stato così, ma per sorpassare a destra l’Europa, il governo tedesco ha sfacciatamente violato il Trattato di Maastricht, come spiego nel mio blog. Questo perché la riforma del mercato del lavoro, che moderava i salari introducendo flessibilità (cioè precarietà), prevedeva in contropartita una serie di ammortizzatori sociali che gravavano e gravano sul bilancio pubblico tedesco. Il contenimento dei salari tedeschi (riconosciuto dai responsabili politici tedeschi), è stato insomma finanziato con spesa pubblica, con aiuti massicci alle imprese (sotto la forma indiretta di spesa sociale per integrare i salari dei lavoratori).

Mi sembra che nessuno comprenda che dovremmo essere in un’Unione per cooperare, non per competere. Tutti danno per scontato il contrario. Il comportamento del governo tedesco, che ha esasperato la dinamica centro/periferia in Europa, è stato deprecato per questo motivo da organizzazioni internazionali come l’Ufficio Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite (per citarne uno).

Il problema del modello mercantilista tedesco è che è di corto respiro. Non c’è nessuna particolare virtù nel contenere i salari, deprimendo la domanda interna, per vendere di più all’estero. Questa strategia è ingiusta e ottusa per due motivi. Il primo, è che le imprese tedesche sono diventate più competitive sostanzialmente perché i lavoratori tedeschi non hanno beneficiato della loro maggiore produttività (e infatti in Germania la disuguaglianza fra i redditi è aumentata, come ci ricorda l’Economist, al punto che il governo ha cercato di manipolare un recente rapporto sulla povertà). Ricordiamoci sempre che chi ci parla di una Germania “vincitrice” omette di ricordarci che in Germania il numero dei “perdenti” sta crescendo, e questo male comune non è un mezzo gaudio, ma una fonte di preoccupazione: ricordiamoci che il popolo tedesco reagisce con una certa veemenza alle crisi economiche.

Il secondo motivo è che se vuoi crescere sulla domanda altrui, perdi anche quando vinci. Guardate cosa sta succedendo. Nel 2012 la Germania ha avuto una crescita infima, circa la metà di quella prevista a inizio anno. Perché? Perché se cresci solo sulla domanda estera, di fatto impoverisci i tuoi partner commerciali, che devono indebitarsi per comprare i tuoi prodotti. Quando saltano per aria, ti trovi senza mercato di sbocco e smetti di crescere anche tu, che è esattamente quello che sta succedendo adesso alla Germania.

Guardi che questo fatto, ignorato da molti italiani, è perfettamente chiaro ai tedeschi meno ottusi. Le faccio due esempi: si ricorda di quando l’ex cancelliere Helmut Schmidt ha dichiarato che la politica condotta dalla Merkel non era molto intelligente? E le segnalo che alcuni economisti europei si sono recentemente riuniti a Bruxelles per presentare un manifesto di solidarietà europea, basato sull’ipotesi che la Germania accetti di sganciarsi dall’eurozona. Da chi era rappresentata la Germania? Da Hans-Olaf Henkel, già a capo della “Confindustria” tedesca. Non stiamo parlando di personaggi di secondo piano.

D – Secondo lei l’Italia dovrebbe uscire dall’Euro: crede che ce lo consentiranno? Come andrà a finire?

R – L’euro è insostenibile. Chi parla di salvarlo con “più Europa” vaneggia. In tutti i paesi membri, dall’Italia, alla Germania, all’Olanda, si stanno mettendo in discussione i meccanismi di trasferimento di reddito fra regioni che hanno finora garantito la coesione territoriale. In Italia c’è la Lega Nord, in Germania ci sono i politici bavaresi. E voi pensate che un bavarese, che è stufo di pagare per un sassone, voglia invece farlo per un calabrese?! Voi pensate che chi vuole “meno Germania” voglia “più Europa”? Potete scordarvelo!

Jacques Sapir ha calcolato che per tenere insieme i paesi dell’Eurozona occorrerebbero, in aggiunta ai trasferimenti già previsti dal bilancio della Commissione, almeno altri 257 miliardi di euro all’anno, sostanzialmente a carico della Germania. Questo è il costo economico del “più Europa”. Nessun politico può seriamente pensare di proporlo agli elettori. Paolo Manasse, economista ortodosso, giunge alle medesime conclusioni, perché non ce ne sono altre.

Quindi, inutile girarci intorno: come decine di altre unioni monetarie nell’ultimo secolo, anche l’Eurozona dovrà sciogliersi. L’Italia, come paese sovrano (fino a prova contraria) non deve chiedere il permesso a nessuno, tanto più che, come ho ricordato, altri paesi hanno pesantemente violato i trattati europei, ponendo le basi di questa crisi.

Gli studi che circolano evidenziano tutti, unanimemente, che l’Italia trarrebbe il massimo vantaggio (o il minimo danno) da uno scioglimento dell’Eurozona: i vostri lettori sicuramente conoscono lo studio di Bank of America che a luglio scorso ha portato questo risultato all’attenzione del grande pubblico.

Il nostro problema è quello di essere in balìa di una classe politica che ha sistematicamente mentito sulla moneta unica, un vero Partito Unico Dell’Euro che dispone di tutti i mezzi di informazione e li usa in modo terroristico. In questo senso ripongo più fiducia nella Germania. Quando alla leadership tedesca sarà chiaro che sta segando il ramo dov’è seduta, le sarà facile tirarsi fuori dall’Eurozona: basterà continuare a mentire dicendo (come ha fatto per anni) che la crisi è colpa dei pigri del Sud (e non delle banche del Nord che hanno alimentato squilibri per sostenere le industrie del Nord). Gli elettori del Nord prima o poi reagiranno chiedendo la secessione. Il paradosso è che la secessione converrebbe di più agli elettori del Sud, ma a questi non viene nemmeno consentito di discuterne serenamente!

D – Professore, perche’ in Europa e nel mondo sono cosi’ importanti parametri come l’ammontare del Debito e Deficit Pubblico, mentre sono assai meno noti parametri come la Bilancia dei Pagamenti e la Posizione Netta sull’Estero?

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R – L’attenzione si focalizza sul debito pubblico per motivi puramente ideologici. Ormai è appurato che le crisi finanziarie degli ultimi trent’anni sono state causate da elevato indebitamento privato (con l’estero), in presenza di debito pubblico stabile o decrescente. Tutti lo sanno. È quello che gli economisti chiamano un “fatto stilizzato”. Perfino il Trattato di Maastricht, come molti ignorano, prevedeva che l’indebitamento estero dei paesi fosse tenuto sotto controllo, come quello pubblico. Ma per quello pubblico si è stabilito un parametro (il 3% del Pil), mentre per quello estero no. Perché? Per due motivi. Primo, perché limitare l’indebitamento pubblico significa ridurre il peso del “nemico” ideologico, cioè dello Stato, mentre limitare l’indebitamento estero, che è per lo più privato, significherebbe limitare l’azione dei “mercati”. Secondo, perché in un’Europa costruita e gestita dai “vasi di ferro”, il debito estero dei vasi di coccio tornava utile (visto che, come abbiamo detto e ripetuto, si convertiva in acquisti di beni dei paesi forti).

Che l’indebitamento estero vada limitato non è l’idea di uno strampalato professore di provincia. Dopo aver usato il credito/debito estero come una clava per sbriciolare i paesi del Sud, la Commissione Europea, candidamente, ammette che c’è un problema, e nella sua “procedura contro gli squilibri macroeconomici”, promulgata a fine 2011, stabilisce limiti proprio per le variabili delle quali gli economisti riconoscono da tempo l’importanza: il debito privato, il debito estero, il deficit estero.

Naturalmente la stalla si chiude quando i buoi sono scappati, semplicemente perché le chiavi della stalla sono state date ai ladri di bestiame: le grandi banche del Nord. Ricapitolando: che il debito estero sia più pericoloso di quello pubblico lo sanno e lo sapevano tutti: economisti, politici, e tecnici della commissione (che infatti pongono sul debito estero un vincolo quantitativo più stringente che su quello pubblico). Non se ne parla nei media per motivi ideologici e di convenienza: se la gente capisse che il problema sono gli squilibri esteri, capirebbe che il problema è l’euro, e per la finanza del Nord finirebbe la pacchia.

 

2245.- LA PRESUNTA SUPREMAZIA DEL DIRITTO EUROPEO SULLE COSTITUZIONI. TRA LISSABON URTEIL E JELLINEK: LA LEZIONE INASCOLTATA (SOLO IN ITALIA) DELLA GERMANI.

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Il post è lungo, tecnico ma accessibile a chi vuol capire in quale trappola siamo finiti. Riporto anche i commenti; ma prendetevi tutto il tempo per leggerlo. Vi servirà molto. Ad alcuni moltissimo…

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GUIDA INTRODUTTIVA AL POST.
Ripubblico il post “Breve guida al recupero della sovranità e del senso del voto democratico” per la sua particolare attualità in questi tempi ultimissimi, che segnalano un’accelerazione di eventi, vari, di politica “interna”, ma, soprattutto, di politica economica internazionale.
Vedi alla voce Trump e alla combinazione, in atto, tra svalutazione del dollaro sull’euro, e reintroduzione, strettamente connessa, di dazi alle importazioni; con conseguente “allarme” della Merkel che strilla alla violata “lezione” di una Storia, da lei, del tutto presunta, confondendo “pro domo sua”, ovviamente, tra protezionismo colonialista e protezionismo (cioè, “capitalismo”) intelligente, come diceva Caffè.
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Quando succederà questo, perché succederà, cosa farà?

Il secondo genere di “protezionismo”, – quello a cui dagli USA ai reconditi recessi mediterranei dell’unione monetaria europea (da loro stessi tanto voluta), è quello che serve ad evitare il sottosviluppo permanente e la colonizzazione degli Stati che hanno esigenze di reindustrializzare e tutelare i livelli di occupazione, dopo che il liberoscambismo imposto, con la forza dei trattati o delle armi, da parte di Stati imperialisti & mercantilisti, ha determinato una condizione di impoverimento e di debolezza strutturali

Queste condizioni risultano incorreggibili rimanendo entro il vincolo dei trattati liberoscambisti (ripeto: imposti con la forza della geo-politica o delle armi da chi è già più forte e vuole mantenere e amplificare questa situazione).

Ora, se la forza della geopolitica impone il trattato – e, appunto, pone un Paese di fronte a deindustrializzazione, disoccupazione e sostanziale colonizzazione- occorrerà (democraticamente ma, perciò, necessariamente) preoccuparsi di come ci si possa sottrarre agli effetti di un tale trattato, allorché tali effettti siano divenuti intollerabilmente distruttivi e, perciò, inevitabilmente contrari alla Costituzione di quello stesso Paese.

Di fronte a effetti di tale portata, non occorre nemmeno distinguere tra le varie Costituzioni dei paesi coinvolti, per quanto quella italiana – secondo la rilevante maggioranza dei più importanti costituzionalisti italiani-, contenga previsioni più chiaramente contrastanti, rispetto ad  altre, coi principi informatori dei trattati: tutte le Costituzioni dell’attuale civiltà giuridica, comunque, esistono per tutelare il benessere e gli interessi democraticifondamentali dei rispettivi popoli, perché in ciò, sta la ragion d’essere della sovranità e, appunto, delle Costituzioni, alle quali la medesima civiltà giuridica moderna affida, appunto, il compito di prevedere la sovranità popolare democratica e i modi di suo effettivo, e non sacrificabile, esercizio.

Il post ripubblicato si occupa di questo. 

Ma nella importante selezione dei commenti che erano seguiti allo stesso, vengono affrontati “funditus” altri aspetti coessenziali e coordinati che “agitano” il dibattito politico attuale, con ricorrenti affermazioni ex parte mediatica che risultano essere altamente imprecise (e per sentito dire). 

In particolare viene gettata luce sulla (molto) presunta superiorità del diritto europeo su quello costituzionale (dei vari Stati coinvolti): qualcosa che, se avrete la pazienza di leggere, non solo non è prevista in alcuna norma dei trattati, non solo corrisponde solo ad unilaterali e ambigue affermazioni della Corte europea, – che decide in rem propriam, cioè a vantaggio della propria stessa affermazione unilaterale di supremazia – ma, ovviamente, non disponendo di alcuna base nei trattati, si pronuncia su interessi fondamentali degli Stati che danno vita ai trattati che non sono per essa “giuridicamente disponibili”. Cioè la soppressione o limitazione di tali interessi non corrisponde ad alcuna sua attribuzione di potere fondato su una norma preesistente e di fonte idonea, (cioè sulla Rule of Law, cioè sul principio dello Stato di diritto); come precisa limpidamente Jellinek, uno dei massimi teorici generali del diritto moderno (austriaco e perciò di lingua tedesca…).

Tanto è vero questo che sia la corte costituzionale tedesca, sia la dottrina più autorevole, sempre tedesca, nega recisamente tale supposta supremazia. Che rimane dunque solo un mito inerziale tutto italiano; e come dice Luciani (il costituzionalista italiano probabilmente più autorevole nella materia) un mito, che ha il suo opposto simmetrico nei c.d. “controlimiti”, che va affermandosi solo “per stanchezza”.

Ecco: non stancatevi mai di difendere la vostra Costituzione, cioè la vostra democrazia e il vostro benessere.

Prendetevi il tempo per leggere (o rileggere) il post: e specialmente per leggere i commenti di approfondimento le cui parti salienti ho sottopannato con l’evidenziatore in giallo. Vi servirà. Ad alcuni molto…

  1. La questione che mi accingo a proporvi è di quelle complicate (se non altro perché esige la conoscenza e la padronanza sistematica di un’ampia gamma di principi normativi ed economici).

Dare una risoluzione “tecnica”, esaustiva e soddisfacente, a tale questione richiederebbe un (pesante) volume, non solo interdisciplinare, ma anche volto a chiarire una molteplicità di punti in modo che non vi siano lacune dimostrative: proprio quelle “lacune” che, invece, come vedremo subito, caratterizzano tutta la costruzione €uropea nei trattati e, ancor peggio, la tentata giustificazione di essi che si fornisce sul piano costituzionale.

Un tentativo largamente fallito che, peraltro, ormai non si preoccupa nemmeno più di cercare una qualche rivisitazione delle barcollanti premesse da cui è partito: giungendo infatti a conclusioni palesatesi appunto come sempre più assurde.

Va detto, però, che la questione sarebbe meglio, molto meglio, se risultasse risolvibile come il riflesso di una coscienza diffusa da parte dei cittadini italiani: perché senza tale diffusione di consapevolezza, cioè senza una larga condivisione nell’opinione pubblica, non sarà possibile attivare quel processo politico-elettorale che, come in molti si rendono conto, è il propellente effettivo del recupero della sovranità democratico-costituzionale.

  1. Pongo allora ai lettori la questione: in presenza del quadro normativo attualmente risultante dai trattati europei, come fareste a riaffermare la sovranità democratica secondo un percorso praticabile a livello sia di consenso politico interno che di “relazioni” con gli altri paesi improntate ad un rigoroso rispetto del diritto internazionale?

E per “come”, intendo, non tanto la dettagliata indicazione dei contenuti di atti politici e normativi che portino al risultato voluto. Intendo, più semplicemente, il saper indicare (ma con non minore difficoltà, poiché precisare un indirizzo politico deve preferibilmente conseguire alla chiarezza di idee sulla risolvibilità di tutti i problemi di dettaglio) quali azioni di massimasono corrispondenti, appunto, alle linee di indirizzo politico effettivamente e legittimamente adottabili per l’obiettivo del recupero della sovranità democratica.

  1. Pongo quindi questo interrogativo e cerco di agevolarne la soluzione indicando alcuni riferimenti interpretativi e normativi che risultano logicamente rilevanti.

Partiamo da un “come” diametralmente opposto a quello che è oggetto della questione qui posta; e ciò nell’ovvia considerazione che, se un errore di scelta è stato fatto, il primo rimedio è compiere una scelta di segno opposto che si manifesti in un atto capace di rendere inoperativo quello erroneo o, peggio, viziato in cui si è concretizzata la scelta da correggere.

Partiamo dunque dal “come”, tecnicamente, siamo entrati in questo quadro istituzionale €uropeo.

La risposta pare facile, cioè: attraverso una legge di autorizzazione alla ratifica (art.80 Cost.), elemento che ci consente anche di dire che, quale scelta di segno opposto, non sia praticabile un referendum. E non solo, e non tanto, per via del divieto ex art.75, comma 2, Cost., ma per le ragioni giuridico-politiche e istituzionali spiegate qui.
Ma la risposta al “come ci siamo entrati?” non è (più) così semplice se la si intende nella sua legittimità sostanziale, cioè nei suoi risvolti relativi al rispetto del nucleo inviolabile della sovranità costituzionale ed all’effettivo contenuto dei trattati (che, nel loro significato e portata, diamo per scontati, in base a quanto detto in “Euro e/o democrazia costituzionale” e ne “La Costituzione nella palude“).

  1. Fortunatamente, e paradossalmente, buona parte del problema ce lo ha già risolto…Amato (qui, p.6.1.):

“Cito in argomento un autore insospettabile di antieuropeismo come Giuliano Amato(Costituzione europea e parlamenti, Nomos, 2002, 1, pag. 15):

Quando si ratificano i trattati internazionali, in genere si ratificano quelli che disciplinano le relazioni esterne. Quando si ratifica una modifica dei trattati comunitari non si ratifica una decisione che attiene alle relazioni esterne, ma una decisione che attiene al governo degli affari interni. 

Il processo di ratifica così com’è è congegnato è allora del tutto inadatto ad assicurare ai parlamenti il ruolo che ad essi spetta rispetto agli affari interni

Il procedimento di ratifica è tarato sull’essere ed il poter essere un potere intrinsecamente dei governi esercitato sotto il controllo dei parlamenti. Tant’è vero che la legge di ratifica è una legge di approvazione e non è una legge in senso formale.

Ma il vero clou del paradosso, dicevo, consiste nel fatto che “la politica dei piccoli passi nel processo di integrazione comunitaria ha fatto sì che mai nessuno abbia detto espressamente che, con i Trattati che si andavano stipulando, si stava costruendo una nuova costituzione.” (Luciani, op. cit., pagg. 85-6).

  1. Un secondo punto da conoscere è quello relativo alla pretesa supremazia dei trattati sul diritto nazionale (e citiamo sempre il post di Arturo che, comunque, ha preannunziato di approfondire ulteriormente la questione):

“Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea a seguito dei due referendum francese e olandese, il 22 giugno del 2007 la Presidenza del Consiglio Europeo se n’è uscito con questa solenne dichiarazione:

L’approccio costituzionale (ndr; in sede di trattato sull’unione europea), che consiste nell’abrogare tutti i Trattati e rimpiazzarli con un singolo testo definito “Costituzione” è abbandonato. […] Il TUE e il TFUE non avranno un carattere costituzionale

La terminologia usata nei Trattati rifletterà questo cambiamento: il termine “costituzione” non verrà usato […]. Con riguardo alla supremazia del diritto comunitario, la conferenza intergovernativa adotterà una dichiarazione ricordando l’attuale giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea”.

Tale dichiarazione è diventata la numero 17 allegata all’atto finale della conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, ossia:

La conferenza ricorda che, per giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata giurisprudenza.

Inoltre, la conferenza ha deciso di allegare al presente atto finale il parere del Servizio giuridico del Consiglio sul primato, riportato nel documento 11197/07 (JUR 260):

«Parere del Servizio giuridico del Consiglio

del 22 giugno 2007

Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si evince che la preminenza del diritto comunitario è un principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, tale principio è insito nella natura specifica della Comunità europea. All’epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964, causa 6/64 […] non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato. La situazione è a tutt’oggi immutata. Il fatto che il principio della preminenza non sarà incluso nel futuro trattato non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di giustizia.

  1. A questo punto, per agevolare ulteriormente una riflessione sulla soluzione da dare alla questione posta più sopra, vi cito le norme più importanti della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che rilevano nel caso di assunzione di un obbligo internazionale da trattato, mediante una legge di ratifica che, nel caso dei trattati europei, abbiamo visto essere inadatta a rispettare il ruolo rappresentativo costituzionale dello stesso parlamento, (che si deve presumere necessariamente conforme alla sovranità popolare insita nell’art.1 Cost.), e ciò a causa dei contenuti “peculiari” del trattato sottoposto ad approvazione.

Premettiamo pure che la “denunzia” di Amato, relativa alla non idoneità della legge di ratifica rispetto ai contenuti in quanto incidenti sugli “affari interni”, è una pregiudiziale di ordine “procedurale” (cioè attiene alla legittimità dello strumento costituzionale nel caso di quei contenuti e con quegli effetti), e prescinde dall’autonoma questione se QUALSIASI strumento (previsto dalla Costituzione, ovviamente), e qualsiasi tipo di dibattito parlamentare, possano introdurre nell’ordinamento quei contenuti: tale questione si risolverebbe, negativamente, alla stregua dell’art.11 Cost. e dei c.d. controlimiti…ove mai fossero applicati da…”qualcuno”: v.qui, p.7, infine.

Ne abbiamo parlato nei libri sopra citati e molto, negli ultimi tempi, su questo blog.

  1. Stabilito che sia lo strumento utilizzato per vincolarci ai trattati europei, sia i contenuti degli stessi sono altamente controvertibili sul piano del rispetto di norme costituzionali non revisionabili, perché fondamentali e quindi non modificabili da alcun trattato, queste sono le norme rilevanti della Convenzione (che notoriamente hanno carattere di codificazione del diritto internazionale generale, qui, p.3, quello contemplato dall’art.10 Cost., e, quindi, sono una fonte superiore e prevalente rispetto alla previsioni di qualunque trattato):

Articolo 27 

Diritto interno e rispetto dei trattati
Una parte non può invocare le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato. Questa regola non pregiudica quanto disposto dall’art. 46.

Questione chiusa, sul piano del diritto internazionale?

Non proprio: occorre evidentemente andare a vedere cosa dica l’art.46 (e non fermarsi, come fanno gli spaghetti-liberisti ad affermare che il non sequitur della supremazia del diritto europeo, si estenda al diritto costituzionale nel suo intero perché…lo dice la Corte europea, senza che nessun principio del genere sia affermato esplicitamente nei trattati: e una ragione ci doveva pur essere se non sono stati in grado di farlo: chiedere alla Germania, per esempio, cfr; pp. 1f-1g…).

  1. Ecco allora l’art.46 (riporto anche l’intitolazione della relativa Sezione perché ci fa capire le conseguenze della illegittimità costituzionale che investa, come abbiamo visto, sia lo strumento che ha introdotto il vincolo sia i contenuti di quest’ultimo). Evidenzio le parti che fanno capire come l’apparente eccezionalità della previsione “finale”, non sia affatto tale se si versa in tema di violazione delle norme fondamentali di una Costituzione nazionale:

Sezione 2 NULLITA’ DEI TRATTATI Articolo 46
Disposizioni del diritto interno riguardanti la competenza a concludere trattati

1. Il fatto che il consenso di uno Stato a vincolarsi a un trattato sia stato espresso in violazione di una disposizione del suo diritto interno riguardante la competenza a concludere trattati non può essere invocato dallo Stato in questione come viziante il suo consenso, a meno che questa violazione non sia stata manifesta e non riguardi una norma del suo diritto interno di importanza fondamentale.
2. Una violazione è manifesta se essa è obiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la pratica abituale e in buona fede.

  1. Ed allora; date tutte queste premesse, quale sarebbe secondo voi una soluzione al “come” che abbiamo posto all’inizio?

Consideriamo, infatti, che, le norme fondamentali della nostra Costituzione sono ben definite e notorie nella comunità internazionale e, sicuramente, alla cerchia dei politici e dei giuristi europei: al punto che la nostra Costituzione è servita da modello “positivo” per altri Stati europei, come pure da modello “negativo” per le forze del capitalismo finanziario sovranazionale, (da ultimo, chiedere a De Grauwe).  Dunque è nei fatti, storici e politici, attinenti allo sviluppo dei trattati che non si possa opporre una mancata “evidenza”, se ci si comporta in “buona fede”.

Insomma, sarebbe segno di sicura “cattiva fede” contestare una primaria evidenza: la nostra Costituzione non attribuisce a nessun organo costituzionalmente previsto la “competenza” a sopprimere, o a cedere, la titolarità dell’obbligo della Repubblica di tutelare il lavoro in tutte le sue forme.

Tanto più che questo obbligo statale è affermato anche nello ius cogens del diritto internazionale generale, anch’esso pacificamente prevalente sul diritto contenuto in qualsiasi trattato, e ciò in termini che dovrebbero valere per tutti gli Stati di diritto democratici!

  1. La risposta alla domanda posta sopra al punto 2., sulla scorta delle premesse “agevolative” finora svolte, è dunque una risposta importantissima che ognuno di noi può tentare di dare.

Ed è importantissima perché ogni cittadino dovrebbe poter valutare la ordinaria diligenza e competenza che dovrebbe impiegare chiunque sia coinvolto, su mandato del popolo sovrano nelle forme costituzionalmente previste, nel processo di adesione e applicazione dei trattati. Questa valutazione spettante a ciascun cittadino, adeguatamente informato, è appunto l’esercizio della democrazia (sostanziale).

Utilizzando questo metro di diligenza e competenza, infatti, ciascun cittadino ridiviene giudice consapevole delle responsabilità della sua classe dirigente e, quindi, si riappropria del proprio ruolo di detentore anche a titolo individuale della sovranità, esercitato anzitutto (ma non solo) tramite il processo elettorale.

In pratica, dare questa risposta costituisce l’UNICA via che consente di ridare senso al proprio voto.

Prima che diventi del tutto inutile: non solo nella sostanza, come già si verifica adesso, ma addirittura nella forma, cioè nell’assetto istituzionale prossimo futuro…derivante dai trattati e dalle loro ipotizzate “riforme”, (v.qui p.10), naturalmente.

giovanni b.26 maggio 2017 17:02

Io procederei alla sospensione delle parti del TFUE contrastanti coi nostri principi costituzionali invocando la violazione, da parte della Germania e della Commissione, dei limiti di surplus commerciale.

Credo che in questo caso si possa invocare l’art.60 comma 2 c) e comma 3 b) C. di Vienna.

Questo per restare nel sentiero che avete indicato. Ma come insegnava Theodore Roosevelt, è bene negoziare con un sorriso e un nodoso randello sul tavolo.

Quindi la CdV è il sorriso, d’accordo, ma il blocco unilaterale dei nostri trasferimenti all’UE (che comporterebbe il collasso del bilancio comunitario) dev’essere il randello ben esibito. Anche perché i tedeschi (rectius, le élite tedesche) capiscono soprattutto il linguaggio della forza, visto che è quello che praticano più spesso.
Art. 60 Estinzione di un trattato o sospensione della sua applicazione come conseguenza della sua violazione
(…)
2. Una sostanziale violazione di un trattato multilaterale da parte di una delle parti autorizza:
b) una parte particolarmente danneggiata dalla violazione, ad invocare detta violazione come motivo di sospensione dell’applicazione completa o parziale del trattato nelle relazioni fra di essa e lo Stato autore della violazione;
c) qualsiasi parte diversa dallo Stato autore della violazione, ad invocare la violazione come motivo per sospendere l’applicazione dei trattato completamente o parzialmente per quanto la riguarda, se detto trattato è di natura tale che una violazione sostanziale delle disposizioni compiuta da una parte modifichi radicalmente la situazione di ciascuna delle parti relativamente al successivo adempimento dei propri obblighi in base al trattato.
3. Ai fini dei presente articolo, per violazione sostanziale di un trattato si intende:
(…)
b) la violazione di una disposizione essenziale per la realizzazione dell’oggetto o dello scopo del trattato.

Quarantotto26 maggio 2017 19:15

Beh, non che questa via non sia praticabile…tanto che i tedeschi hanno in via “preventiva” dedicato un apposito studio di espertologi. Ovviamente: non di giuristi di diritto internazionale, sebbene, guarda caso, di giuristi specializzati in “mercati finanziari”.

Rinvio a questi post, dove, in precedenza abbiamo esaminato la c.d. eccezione “inadimplenti non est adimplendum“:
1) http://orizzonte48.blogspot.it/2012/12/per-chinon-guardasse-solo-google-e.html; Cfr.p.4;
2) da cui l’evoluzione in questo: http://orizzonte48.blogspot.it/2013/11/lunione-europea-in-base-ai-trattati-non.html
Il punto però è un altro: se invoco l’art.46 compio un’azione molto più radicale, affrontando in via pregiudiziale il problema sotto il mio punto di vista costituzional-nazionale ed evitando di sottoporre ad un’eventuale Corte europea il mio onere della prova sull’altrui inadempimento (con l’art.46, invece, posso invertire l’onere della prova e comunque subito invocare la violazione del principio di parità ex art.11 Cost., norma di per sè fondamentale, adducendo una simmetria con l’atteggiamento tedesco sulla invalicabilità dei propri limiti costituzionali, che costringerebbe qualsiasi interlocutore sulla difensiva).
In definitiva, poi, questi sono problemi tecnici, che peraltro, con riguardo al secondo post (esteso ne “La Costituzione nella palude”) sono stati da me esposti proprio a un convegno a Parma, la scorsa estate.
Il problema è dunque quello di formulare una risposta di “linee generali”, che indichino obiettivi e strumenti: il primo, assumendo in modo generale il tema da te sollevato, lo hai esposto. Si tratta di svincolarsi.
Ma direi che c’è un passaggio preliminare che, sempre in termini generali, “arriva prima” per poter consentire di rendere realmente praticabile questo obiettivo: prendiamo atto realisticamente che finora, infatti, l’ordinamento costituzionale italiano non è stato in grado, praticamente mai, di abbozzare una qualche reazione alla manifesta illegittimità costituzionale dei trattati (rinvio ai numerosi post in cui si è mostrato come politici che votarono Maastricht e costituzionalisti, fino a un certo punto, diciamo intorno alla metà degli anni ’90, ne sembrassero consapevoli).
Ed è qui, in questo “strano” fenomeno, (che sarebbe incomprensibile in termini tedeschi o francesi) che si annida il primo ostacolo da rimuovere e la prima “mossa” da adottare…

 

 

Arturo28 maggio 2017 16:32

Tra l’altro, almeno in generale, per quanto ne so la Corte di Giustizia non ritiene applicabile il principio “inadimplenti non est adimplendum” nell’ambito del diritto comunitario…
“Quarantotto28 maggio 2017 17:49

E questo perché la Corte €uropea – unilateralmente e autoattribuendosi autonomamente tale potere “dichiarativo”- considera il trattato non soggetto, in linea di principio, alle norme di diritto internazionale generale sui trattati: il trattato sarebbe un tertium genus, di diritto interstatale “comune”.

Questa teoria, ormai irreversibilmente considerata integrativa dei trattati stessi, configura il diritto europeo come fonte di obblighi “primari”, in un sistema giuridico in sè conchiuso e ormai autonomo sia dal diritto interno, su cui prevale, sia dal diritto internazionale, da cui prescinde.
Il punto debole di questo approccio della CGUE è che si assume una sostanziale sovranità dell’organizzazione (interstatale) senza saperne indicare la fonte giuridica e il Potere Costituente che la legittimerebbero: ad es; la Corte cost. tedesca nega che sia valida questa autoattribuzione di sovranità fondata su una fonte pur sempre derivata (il trattato) dai poteri costituzionali di negoziazione degli Stati-parte.

Mi pare che Francesco abbia anche citato lo specifico passaggio in proposito del Lissabon Urteil)”.

E dunque eccoli i fatidici e non equivocabili passaggi della sentenza “Lisbona”, scolpiti dalla Corte costituzionale tedesca

Francesco Maimone14 marzo 2017 14:42

A questa “follia collettiva” nel quale il nostro Paese si ostina ad avere un ruolo da protagonista, i tedeschi, come sappiamo, si sono sottratti. Loro possono.
Il BVerfGE (la Corte costituzionale tedesca, in particolare con la notoria Lissabon Urteil) afferma che gli Stati membri sono e restano i “signori” dei trattati e, di conseguenza, quando parla del diritto e degli istituti giuridici europei, ne parla sempre come dirittoderivato”, laddove una “costituzione” ha carattere necessariamente originario.
Non esiste alcuna fantomatica “costituzione europea”:
33. A differenza del Trattato costituzionale e in conformità con il mandato della conferenza intergovernativa, il Trattato di Lisbona rinuncia esplicitamente al progetto costituzionale che consisteva nell’abrogazione di tutti i trattati esistenti e nella loro sostituzione con un test unico denominato “Costituzione”” (documento del Consiglio n. 11218/07, allegato, par. 1). I trattati sono semplicemente modificati e la concettualità di fondo dei trattati modificati rispecchia la rinuncia al concetto di costituzione. Si abbandona la terminologia in uso a livello statale. Il termine “Costituzione” non viene utilizzato (diversamente invece Pernice, Der Vertrag von Lissabon – Das Ende des Verfassungsprozesses der EU?…)…

231 …La fonte del potere comunitario e della sua costituzione europea in senso funzionale sono i popoli europei democraticamente costituiti nei propri stati. 

La “costituzione dell’Europa”, cioè il diritto dei trattati internazionali ossia le fonti primarie, restano un ordinamento di base derivato

Essa fonda un’autonomia sovrastatuale di portata certamente ampia nella prassi politica quotidiana, ma pur sempre oggettivamente limitata. Per autonomia può essere inteso qui – come abitualmente nel diritto delle autonomie territoriali – solo un potere di imperio a sé stante, ma derivato, cioè concesso da altri soggetti giuridici. 

Viceversa la sovranità del diritto internazionale e del diritto statale pretende come base costituzionale propria l’indipendenza da ogni volontà estranea (cfr. Karl Schmitt, Generalbericht in der Zweiten Sitzung des Plenums des Parlamentarischen Rates am 8.
September 1948)…

298…Dopo il fallimento del progetto di costituzione europea…gli Stati membri restano i signori dei trattati… La Repubblica federale di Germania resta anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona uno Stato sovrano e quindi un soggetto giuridico del diritto internazionale. Il potere statale tedesco, incluso il potere costituente, è tutelato nella propria sostanza (aa), il territorio statale resta assegnato esclusivamente al soggetto giuridico della Repubblica federale di Germania (bb) ed è fuor di dubbio la continuità del popolo dello Stato tedesco (cc)…”. (segue)

Francesco Maimone14 marzo 2017 14:43

E non c’è, secondo la Corte tedesca (conscia della sua rigorosa ricostruzione in diritto, alla quale nulla può, sempre in diritto, opporre la Corte europea) alcun primato del diritto comunitario:

“331. Nella Dichiarazione sul primato, allegato n. 17 del Trattato di Lisbona, la Repubblica federale di Germania non riconosce un primato incondizionato in termini di validità (Geltungsvorrang) del diritto dell’Unione, che sarebbe di dubbia costituzionalità, ma conferma esclusivamente la situazione del diritto vigente nell’interpretazione finora praticata dal Bundesverfassungsgericht. Non è esatta l’affermazione del ricorrente sub III. secondo cui l’approvazione del Trattato di Lisbona si introdurrebbe nei trattati in sostanza, così come era stato progettato per il fallito Trattato costituzionale, il primato “illimitato” del diritto prodotto dagli organi dell’Unione nei confonti del diritto degli Stati membri e concederebbe in definitiva un inammissibile primato in termini di validità, come in uno Stato federale, fino a consentire la deroga a eventuali fonti costituzionali contrarie degli Stati membri

339.Il primato di applicazione del diritto europeo resta quindi, anche in caso di entrata in vigore del Trattato di Lisbona, un istituto derivato, fondato su un trattato internazionale che solo in virtù dell’ordine di esecuzione della legge di approvazione produce effetti giuridici in Germania. 

Il fatto che l’istituto del primato di applicazione non sia esplicitamente previsto nei trattati, ma si sia formato, in via interpretativa, per opera della giurisprudenza della Corte di giustizia nella prima fase dell’integrazione europea, non cambia tale nesso di derivazione

340. La Legge fondamentale mira all’inserimento della Germania in una comunità giuridica tra Stati pacifici e liberi. Tuttavia non rinuncia alla sovranità, che è racchiusa nell’ultima parola della costituzione tedesca, come il diritto di un popolo di decidere in modo costitutivo sulle questioni fondamentali della propria identità…”.

E il primato del diritto comunitario è una “finzione giuridica” impostasi di fatto: “…poiché non possono dirsi stricto sensu sovraordinate delle fonti che poggiano la propria legittimazione proprio su una delle fonti che dovrebbero esser loro gerarchicamente sottordinate.
Noi nel frattempo aspettiamo Godot…”

Quarantotto28 maggio 2017 18:02

A noi, peraltro, basta rammentare che l’azione dei controlimiti, rispetto ad un trattato, – a fortiori se in consonanza dell’applicazione di norme cogenti del diritto internazionale-, è legittimamente dichiarabile dalla nostra Corte costituzionale, com’è in effetti già accaduto:
http://orizzonte48.blogspot.it/2014/10/corte-costituzionale-sentn238-del.html

Arturo28 maggio 2017 18:19

La cosa surreale è che la Corte europea dice e non dice.

Come spiega De Witte nel saggio che ho linkato (uno di quelli che intendo usare): “It is striking that, in the many intervening years since Costa, the European Court of Justice never felt inclined to develop a sustained doctrine upholding the specific and non-international nature of the European Community. The Court has often emphasized the autonomous nature of the Community legal order, but never stated with so many words that this autonomous legal order had ceased to be part of international law.
Anche la conclusione circa l’inapplicabilità del principio i.n.e.a. è raggiunta sulla base delle specifiche disposizioni dei Trattati, senza “adopt the premise that the Community was ‘something other’ than an international organization“.
La morale è che dobbiamo obbedire, anche se non si bene perché. Anzi, perché si sa: l’ha detto la Corte di Giustizia Europea. Sia fatta la Sua volontà.

Quarantotto28 maggio 2017 19:02

Il fenomeno rilevato da De Witte è in realtà frutto di una tipica tecnica giurisdizionale a dissimulate implicazioni politiche: quando un giudice sa che il principio che vuole applicare non è sostenuto dalla Rule of Law cui è formalmente soggetto (cioè non c’è una norma chiara e prestabilita su cui fondare le sue asserzioni), presceglie di affermare il principio come…una sorta di “eccezione” – nel caso un’eccezione alla Convenzione di Vienna, ricavata euristicamente e de facto dalla prassi giurisprudenziale (!) applicativa dei trattati: cioè come applicazione concreta di una norma diversa (da quella che…non esiste), rinvenuta caso per caso, in modo da comporre un quadro in cui la regola (che non c’è) sia ricavabile ex post in via di…sistematica giurisprudenziale.

Ovviamente, la forzatura di ciascuna norma specifica, la cui interpretazione compone il “mosaico” che afferma de facto la norma “implicita”, è, in genere, agevolmente evidenziabile.

Ad es; ritenere, come fa la CGUE, che le violazioni del trattato siano sanzionabili dalla Commissione per escludere l’applicabilità dell’art.60 (e che ciò costituirebbe tutela sufficiente per ciascuno Stato contro le altrui violazioni):
a) da un lato esclude, senza alcun fondamento giuridico, l’autonoma legittimazione a far valere l’altrui inadempimento di ciascuno Stato, LADDOVE INVECE L’ART.259 PAR.1 TFUE AMMETTE ESPLICITAMENTE TALE LEGITTIMAZIONE (onde la CGUE fa una inammissibile lettura restrittiva dell’art.60 contraria al diritto dei trattati…ed allo stesso trattato!):
b) dall’altro, esclude che l’inadempimento, da omesso o grossolanamente erroneo “controllo” sul comportamento violativo di uno Stato (ad es; la Germania sulla regola del surplus delle partite correnti entro l’eurozona), sia imputabile alla stessa Commissione (altra lettura inammissibile: in realtà, quella con la Commissione, sulla base di questi presupposti, sarebbe una controversia in cui la Commissione stessa sarebbe portatrice di un interesse a resistere collimante con quello dello Stato inadempiente e, come tale, non “terza” per definizione: E CIO’ PARE CONFERMATO DAGLI STESSI ARTT. 259 par. 2 e 260, che altrimenti perdono di senso applicativo).

Ma si conta sul fatto che l’accumularsi di tali forzature, spesso emanate in forma di parafrasi estenuanti di scarsissimo valore dimostrativo, porti alla rassegnazione degli Stati per “sfinimento”, con l’affermarsi di una prassi applicativa che diviene diritto vivente…(o “morente” per le democrazie dei singoli Stati coinvolti).

Arturo28 maggio 2017 21:23

M’hai fatto venire in mente un passo di un paper di Luciani di cui abbiamo già parlato:

Ricondotta nell’alveo che le è proprio, la questione dei controlimiti si presenta nella sua luce corretta: non una (per taluno odiosa e retriva) resistenza degli Stati-persona ai processi di integrazione sovranazionale e internazionale, ma la rigorosa affermazione della sovranità popolare, perché nei sistemi democratici i cittadini hanno questo, di caratteristico: che vorrebbero contare qualcosa nelle decisioni che toccano l’intera comunità politica. 

In questa prospettiva assume nuovo vigore anche la classica questione del deficit democratico delle istituzioni eurounitarie, che pel solo fatto d’essere risalente alcuni vorrebbero cancellata – diciamo così – per stanchezza”.
Pare quindi che in Europa s’affacci una nuova forma di esercizio del potere costituente: prendere per stanchezza.

Francesco Maimone28 maggio 2017 21:24

“La Corte cost. tedesca nega che sia valida questa autoattribuzione di sovranità fondata su una fonte pur sempre derivata (il trattato) dai poteri costituzionali di negoziazione degli Stati-parte”.
E per farlo, la Corte tedesca richiama G. Jellinek che a me sembra dica cose interessanti già in materia di federazioni di Stati:

… La tesi sostenuta da alcuni ancora di recente che in una federazione di stati viene esercitato un dominio sui poteri degli stati federati fa venire meno il concetto stesso di federazione di stati e, con esso, ogni possibilità di operare una distinzione con lo stato federale per il tramite di una caratteristica essenziale.  

Un potere che eserciti un dominio priva coloro i quali sono oggetto di quel dominio di qualsiasi sovranità. UN DOMINIO ESERCITATO SU STATI SOVRANI COSTITUISCE UNA CONTRADDIZIONE IN TERMINI ed è impossibile sia teoricamente che praticamente

Quando a dominare è il potere della federazione, allora gli stati non sono sovrani, ragion per cui si possono differenziare la federazione di stati e lo stato federale soprattutto sulla base dei relativi scopi, ma non attraverso la loro formazione giuridica.

L’idea di una posizione prevalente del potere federale si può giustificare solamente facendo propria l’idea per cui il trattato, che come è stato riconosciuto costituisce il fondamento giuridico della federazione, si staglia al di sopra di essa e la rende, in questo modo, qualcosa di diverso da quello che è.  

Come sia poi possibile che un trattato possa essere stipulato in modo che non contempli alcuna delle caratteristiche essenziali di un trattato, come il fatto che le decisioni prese da un potere federale istituito dallo stesso riescono a intaccare il dato di fatto di un accordo che poggia sulla comune volontà dei contraenti al punto che esse si trasformano in comandi d’autorità rivolti ai poteri statali, è UN ENIGMA GIURIDICO che i sostenitori di questa posizione non hanno né risolto, né hanno provato a risolvere.

La federazione di stati è una formazione del diritto internazionale. Il diritto internazionale tuttavia non conosce altri soggetti giuridici che non siano gli stati

La federazione di stati, che in quanto tale non è uno stato, non può di conseguenza essere un soggetto giuridico.

Essa è al contrario, come l’hanno correttamente descritta v o n Mo h l e L a b a n d , un r a p p o r t o g i u r i d i c o . 

Essa non è una persona giuridica e non può esserlo. 

Infatti, come che la si pensi sul discusso concetto di persona giuridica, si deve ritenere che essa possa sorgere solamente all’interno dell’ordinamento giuridico statale e che essa, come dice il suo stesso nome, costituisce pur sempre la creazione di un ordinamento giuridico, che deve situarsi al di sopra di coloro i quali con la loro volontà quella persona giuridica l’hanno creata. Tuttavia, l’ordinamento giuridico del diritto internazionale, che ha la sua sanzione giuridica nella volontà degli stati, non può creare una persona giuridica che emana dalle personalità degli stati e si situa al di sopra di esse”.

E L€uropa che conosciamo noi non è nemmeno una federazione di stati. Insomma, dobbiamo obbedire in base ad un enigma giuridico rafforzato, o “finzione” (come la chiama Luciani). In nome della pace.

Pubblicato da Quarantotto

1840.- Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa). La zona Franco CFA.

Unknown

Torniamo a parlare del CAF dopo lo sproloquio volgare di Macron: una conferma dell’ “amicizia”, rectius, volgarità con la quale i francesi si rivolgono all’Italia. La Francia neocolonialista sfrutta i 14 paesi africani dell’area CFA attraverso un cambio fisso del CFA con l’euro; pretende il deposito a garanzia del 65% delle loro riserve estere. Impedisce,così,le loro possibilità di sviluppo e favorisce le multinazionali. Dobbiamo andare alle radici del fenomeno migrazione,in gran parte finanziarie: dai Soros, appunto, al Franco CFA, alle multinazionali, che condannano il continente più ricco della Terra allo sfruttamento.

AABBCC

Valuta di partenza Valuta di destinazione Risultato
1 EUR XOF 655,79 XOF
100 EUR XOF 65.578,95 XOF
10.000 EUR XOF 6.557.895,00 XOF
1.000.000 EUR XOF 655.789.500,00 XOF

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Giuseppe Masala
L’arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona.

Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa.

Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilitá del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria.

Dietro queste due tecnicalità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi).

Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro.

Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilitá della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera.

Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro.

Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari.

Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge.

Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.

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Le Professeur Nicolas AGBOHOU, docteur en économie politique, démontre dans cet ouvrage de 296 pages comment les institutions et les principes de fonctionnement de la zone franc CFA bloquent le décollage socio-économique et politique de l’Afrique.
Sortant des sentiers habituels, et battant en brèche les idées reçues, ce livre va au-delà d’un simple diagnostic. Il éclaire, de façon lumineuse, les voies et les moyens qui permettront aux Africains de s’affranchir de cet ordre monétaire hérité de la colonisation, et de prendre leur propre destin en main.

La zona Franco CFA.

Cos’è la zona franco CFA? da Scenari economici.
È un’area valutaria dove 14 economie (12 delle quali ex colonie francesi) utilizzano una valuta comune chiamata Franc Communauté Financière d’Afrique. Nata nel 1945 per decreto di Charles De Gaulle (1), esistono due tipi di questa valuta graficamente molto diversi : il primo, gestito dalla BEAC (Banque des États de l’Afrique Centrale) (2) utilizzato da Cameroon, Repubblica Centrafricana, Ciad, Guinea Equatoriale, Gabon e Repubblica del Congo col nome ISO XAF; il secondo è utilizzato invece da Benin, Burkina Faso, Guinea – Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal e Togo ed è gestito dalla BCEAO (Banque Centrale des États de l’Afrique de l’Ouest) (3) ed il codice ISO è XOF; quest’ultima area fa parte dell’ECOWAS (4), una sorta di Comunità Economica Europea africana con tanto di obiettivo, fortunatamente posticipato (5), di istituire in questo decennio un’altra valuta comune, l’ECO, per questi stati assieme alla Nigeria, Capo Verde, Ghana, Gambia, Guinea, Liberia e Sierra Leone. Sebbene siano entrambe in parità con l’euro di 655,57 CFA per euro, entrambe non sono intercambiabili ed hanno valore legale esclusivo solo dove circolano. La zona consta di quasi 150 milioni di abitanti per circa 170 miliardi di USD di PIL (ma conta per quasi il 5% nel PIL annuo continentale).
Come funziona la zona franco CFA?
Quest’area valutaria funziona grossomodo come la zona Euro: c’è una banca centrale (prima la Banque de France, oggi la BCE) che coordina le attività delle altre due, la BEAC e la BCEAO, per quanto riguarda le politiche macroeconomiche e monetarie (ci sarebbe anche la BANCECOM, ovvero la Banca Centrale delle Comore, ma non facente parte della zona CFA non verrà qui trattata). Prima dell’euro la parità era fissata col franco francese di 1 FRF per 100 CFA, ma dal 1999 è ferma a 655,57 (per via del cambio 6,5557 FRF per 1 EUR). I due istituti centrali, BCEAO per lo XOF e BEAC per lo XAF, sono legati alla Banca di Francia (da qui BdF) attraverso i seguenti parametri:

Libera circolazione dei capitali dai paesi CFA alla Francia e viceversa;
Un tipo di cambio fissato alla divisa francese (1 euro = 655,957 CFA);
Piena convertibilità delle monete garantita dal Tesoro francese;
Fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il tesoro francese) come contropartita per la garanzia della convertibilità da CFA a Euro (prima FRF)6;
Partecipazione delle autorità francesi (ved. Bdf) alle politiche monetarie della BCEAO e BEAC;
La libera circolazione dei capitali (così come avviene in Europa “grazie” a Schengen) ha permesso la fuga di 850 miliardi di USD dal 1970 al 2008 (di cui solo 20 nel periodo 2000 – 2008) secondo il Global Financial Institute, con ovvio danno alle economie dell’area (7). La piena convertibilità tra FRF/EUR e CFA oggi è unica al mondo e ricorda una sorta di Bretton Woods, solo che a posto di usare solo il dollaro USA per ottenere oro ora si usa l’Euro (ieri Franco FRF) per ottenere franchi CFA e viceversa (dunque nel mercato delle valute i CFA possono essere cambiati solo in Euro). Per gli investitori è un’ottima notizia in quanto la gestione della politica monetaria affidata alla BCE permette un controllo dell’inflazione e dà sicurezza e stabilità alla moneta in un’area non tanto sicura in termini geopolitici (ma un’unione monetaria non dovrebbe portare prima di tutto pace e stabilità?); l’altra faccia della medaglia è che questa “forza” (o ipervalutazione) rende le esportazioni, già deboli, della zona CFA molto costose (specie ora che l’EUR è molto vicino alla parità col dollaro USA), oltre che alla famosa quanto dannosa fobia teutonica dell’inflazione. Le economie sono quasi tutte povere e per lo più di stampo agricolo e questo ha posto un cappio ai loro commerci rendendole dipendenti soprattutto (e solo) dal mercato francese ed europeo. Si può notare una relazione di stampo coloniale, come afferma il professore Nicholas Agbohou (8). Per chi fa l’importatore è un’ottima cosa in quanto permette l’import di beni a basso costo, ma ciò non va a vantaggio dei 150 milioni di abitanti della zona. Gli ultimi due punti, il n.4 ed il n.5, sono quelli che destano un po’ di “sospetto” per chi già intuisce una sorta di “costrizione neocoloniale” dei paesi africani: per quanto concerne il numero 4, ovvero il deposito per la piena convertibilità in misura del 65%, altro non è che il pilastro per la stabilità della valuta unica. Questo significa che per ogni capitale che entra nel paese dev’essere versato in Francia il 65%, un furto in pratica (ad esempio, se il Niger dovesse esportare prodotti per 1 mld USD automaticamente dovrebbe versarne 650 mln USD in questo fondo comune pubblico gestito dalla BdF) in quanto si tolgono risorse che in stati non propriamente floridi e stabili farebbero molto comodo (si pensi alle infrastrutture, soprattutto agli ospedali ed alla viabilità. In pratica 0,65 USD ogni 1 USD). Se vogliono prendersi quei soldi lo devono fare sotto forma di prestito, con ovvio pagamento degli interessi. Per il quinto punto, si consente alla BdF, per mano del suo Governatore, di potersi insediare nel direttivo sia della BCEAO che della BEAC (oltre che della BANCECOM, la banca centrale delle Comore) e di poterne gestire la politica economica (tassi di inflazione, tassi di sconto, altri tipi di tassi tipo l’overnight ecc ecc) in quanto è dotata del potere di veto su ogni seduta (ad esempio, nella BANCECOM il consiglio è composto da 4 francesi e 4 comoriani, ma la decisione spetta sempre ai primi) (9). Di per sé questa cosa appare profondamente ingiusta in quanto si decidono in capo ad una persona tutte le sorti economiche e finanziarie di due blocchi economici contrapposti, cambiando e/o modificando le condizioni a piacimento. Senza tralasciare che ora, con l’istituzione della BCE e del SEBC, non è più solo la BdF a poter “giocare” con le due banche centrali del CFA, ma tutte le 19 dell’eurozona (come ha confermato Serge Michailof (10), ex funzionario della Banca mondiale, “il franco CFA è gestito a Francoforte in funzione di criteri che non hanno alcun rapporto con le preoccupazioni delle economie africane”). Nessuna delle politiche della BCEAO, della BEAC e della BANCECOM può essere prese in totale autonomia in quanto la BdF ha sempre il potere di veto e sempre più autorevoli voci ed esponenti del mondo economico – politico africano occidentale vogliono ripudiare questa moneta.

Conclusioni
Per Demba Moussa Dembelé, direttore del Forum Africano per le Alternative, queste banche centrali non devono essere delle semplici succursali di quella francese (leggasi: europea), ma devono poter gestire in completa autonomia le politiche proprie continentali in quanto l’accanimento (perverso, nda) contro l’inflazione sta condannando alla stagnazione 15 paesi con un totale di 100 milioni di abitanti, senza contare che paesi all’infuori di una unione valutaria quali Nigeria e Ghana attirano molti più capitali esteri rispetto ai paesi CFA. Nel marzo 2010 il presidente senegalese Abdoulaye Wade dichiarò: “Ritengo che adesso, dopo cinquant’anni di indipendenza, occorra rivedere la gestione monetaria. Se recupereremo il nostro potere monetario, potremo gestirlo meglio. Il Ghana ha una sua moneta e la gestisce bene, così come la Mauritania e il Gambia, che finanziano le loro economie”. In più si riscontrano i “soliti noti” problemi noti delle aree valutarie comuni (leggasi ancora una volta: europea), ovvero debiti pubblici non comuni, tassi inflattivi differenti e livelli di sviluppo differenti non compensati che causano squilibri nelle bilance dei pagamenti a causa dell’alto valore per alcuni (o basso per altri) della valuta unica (su questo vi è un’ampia letteratura scientifica a riguardo…), lotta maniacale all’inflazione (anche a scapito degli investimenti e della crescita, come ricorda l’ex governatore della BCEAO Philippe-Henri Dacoury-Tabley (11), in quanto fa parte del mandato costitutivo) e mancata diversificazione delle economie (nonostante sia passato mezzo secolo, continuano ancora a commerciare col Vecchio Continente, in particolare con la Francia, nonostante tutta l’Africa sub equatoriale stia volgendo lo sguardo ai paesi BRIICS), senza contare che il commercio fra l’UEMOA e la CEMAC è quasi nullo. L’unica cosa che ha tenuto a galla questa unione monetaria per quasi 70 anni è il fatto che il Tesoro francese abbia garantito per il franco CFA, quindi i paesi utilizzatori acquisiscono una credibilità che difficilmente avrebbero se fossero lasciati indipendenti (alle condizioni attuali, dopo decenni di impoverimento e di depredazione). E se la Francia è così grandeur è anche perché ha dei vincoli commerciali privilegiati con quest’area rispetto ad altri possibili partner commerciali per l’approvvigionamento delle materie prime (cosiddetto francafrique (12) ). In conclusione, non avendo garantito la pace, la ricchezza e la stabilità promesse da De Gaulle e colleghi a metà del secolo scorso si può notare come in realtà si è avverato il contrario: guerre, impoverimento e disagi sociali. Guarda caso quello che oggi continuano a ripetere per la zona euro.

1489.- DALLE BANCHE PER LO STATO DEMOCRATICO ALLO STATO DELLE BANCHE. E NOI PAGHIAMO!

FQ: “Nel nuovo libro “Sacco bancario” Vincenzo Imperatore racconta l’inefficienza degli organi di vigilanza, gli escamotage con cui i vertici proteggono imprenditori senza scrupoli e i trucchi che consentono a società con poche credenziali creditizie e garanzie quasi nulle di ricevere prestiti a sei zeri mentre per i piccoli imprenditori l’accesso al credito è praticamente impossibile”.

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l’ex dirigente: “Ecco come funziona il grande imbroglio pagato da cittadini e risparmiatori”. Leggetelo.

L’inefficienza degli organi di vigilanza, attentissimi solo agli aspetti formali. Gli escamotage con cui i vertici di alcune bancheitaliane proteggono imprenditori senza scrupoli, mentre le severe (sulla carta) norme antiriciclaggio raccomandano segnalazioni urgenti anche per piccoli movimenti all’apparenza poco chiari. I trucchi che consentono a società con poche credenziali creditizie e garanzie quasi nulle di ricevere prestiti a sei zeri – come raccontato nell’estratto che anticipiamo – mentre per i piccoli imprenditori l’accesso al credito è praticamente impossibile. In poche parole: l’intreccio tra finanza, politica e interessi personali che sta dietro a un sistema per le cui falle stanno pagando un conto salato cittadini e risparmiatori.
A raccontarlo è l’ex manager bancario Vincenzo Imperatore nel suo nuovo libro Sacco Bancario (Chiarelettere) scritto in collaborazione con Ugo Biggeri, presidente di Banca Popolare Etica, e con la prefazione di Marco Travaglio. Nel libro che conclude il percorso iniziato con “Io so e ho le prove” (Chiarelettere, 2014) continuato con“Io vi accuso” (Chiarelettere, 2015), Imperatore mette a disposizione le testimonianze di dirigenti apicali, gole profonde e insider. Oltre a documenti interni e riservati che fanno luce su meccanismi “mille volte denunciati eppure tuttora perfettamente funzionanti”.
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia. Storie di piccole banche (come la Banca Popolare delle Province Molisane o di Banca Popolare Etica) che funzionano sulla base di tre parametri solo all’apparenza incompatibili: ottima governance, rigore moralenei consigli di amministrazione e profitto.

 

Pubblichiamo di seguito un estratto del libro 

IL CASO BANCA PROMOS

BANCA PROMOS. Il nostro indice di solidità:

ISTITUTO CET1 AL 31/12/2016 TARGET BCE 2016 ECCEDENZA
Banca Promos 30,40% 7,00% 23,25%
Unicredit 11,15% 10,00% 1,15%
Intesa San Paolo 12,90% 9,50% 3,40%
UBI Banca 11,22% 9,25% 1,97%
Popolare Milano 11,42% 9,55% 1,87%
Popolare Emilia 13,30% 7,25% 6,05%
Pubblicità di BANCA PROMOS:  SCEGLI LA NOSTRA ESPERIENZA, SIAMO DA OLTRE 30 ANNI SUI MERCATI MOBILIARI INTERNAZIONALI. Il nostro gruppo di lavoro si impegna quotidianamente nella ricerca dei migliori investimenti per clienti istituzionali. Il nostro Trading Team e la Sales Force cercano opportunità trasparenti, attraverso una rete di rapporti con oltre 1200 banche nel mondo.

Eccezioni e distrazioni

Quella che segue è la storia di una piccola impresa «benedetta» dal caso, dalla fortuna o, più probabilmente, da una raccomandazione giunta dall’alto. Un «pesce piccolo» che, mancando di solide basi patrimoniali e dunque di sufficienti garanzie, non avrebbe mai potuto ricevere soldi in prestito da una banca. Invece li ha ricevuti, e pure tanti.

La banca di cui stiamo parlando si chiama Promos Spa, e nasce a Napoli, nel 1980, su iniziativa di Ugo Malasomma e Tiziana Carano. All’inizio è una Srl che ha per oggetto sociale lo svolgimento di attività di intermediazione sui mercati azionari e obbligazionari italiani, poi seguiranno vari passaggi, come l’iscrizione all’albo della Consob nel 1991, l’ingresso in Abi (l’Associazione bancaria italiana) nel 1998, e infine l’iter di trasformazione in banca nel 2002.

Ancora oggi  ha un capitale sociale di soli 7.740.000 euro e nel suo consiglio di amministrazione siedono, tra gli altri,Luigi Gorga, che da presidente della Banca Popolare di Sviluppo subì nel 2013 una sanzione da parte della Banca d’Italia, e Umberto de Gregorio, nel 2015 nominato dal governatore della Campania Vincenzo De Luca – per il quale aveva svolto il ruolo di coordinatore della campagna elettorale – al vertice dell’Eav (Ente Autonomo Volturno), la holding che gestisce una larga fetta dei trasporti della regione (1).  Nell’aprile del 2015 (attenzione alle date…), la Promos finanzia l’acquisto del 22 per cento della società 4KA Spa Knowledge for aviation – una giovane azienda che fabbrica aeromobili e veicoli spaziali, con sede a Ponticelli, in provincia di Napoli – da parte della Hold and Fly Srl. Prezzo di acquisto/vendita: 1.720.000 euro.

Un finanziamento come tanti, direte voi. Nient’affatto, perché la Hold and Fly Srl, in realtà, è una scatola vuota e l’operazione, per una piccola banca come la Promos, è da considerare a dir poco rischiosa. Come mai si è andati avanti lo stesso? La verità è che la Hold and Fly Srl è stata costituita il 10 aprile 2015 dagli stessi soci di riferimento della K4A Spa, allo scopo di rafforzarne il gruppo di controllo e supportarne i piani di sviluppo.

La Banca Promos accorda ogni richiesta ma, in cambio, quali garanzie offre la Hold and Fly Srl? Nessuna, visto che ha un capitale sociale di appena 10.000 euro. Anzi, non potrebbe nemmeno essere finanziata, perché priva di alcuni requisiti necessari non ancora verificati: i risultati imprenditoriali, la competenza e l’esperienza maturata nel settore e il comportamento negli affari. Addirittura, al momento della richiesta del finanziamento e ancora oggi (8 settembre 2017), la Hold and Fly srl risulta ancora “inattiva” presso la Camera di Commercio di Napoli. Una società inattiva significa che non opera e pertanto non produce reddito, ma legalmente costituita pertanto esistente come natura giuridica. “La banca in questione, come tutto il sistema bancario d’altronde – ci rivela la nostra “gola profonda”- in base a una consuetudine che alcuni giudicano ormai superata ma che ancora oggi tende a essere osservata – finanzia soltanto aziende «già consolidate da almeno un paio di anni di attività, che operino e producano reddito, risultante dal bilancio ufficiale, da almeno 24 mesi.».

“Se poi ci aggiungiamo il fatto – continua il nostro interlocutore – che la normativa interna della banca stabilisce che “di regola” non e’ possibile concedere finanziamenti ad aziende che non abbiamo almeno 6 mesi di vita “salvo deroga”, capiamo che tutto e’ possibile se deciso nelle segrete stanze del cda.”

Come è stato possibile dunque che la Promos abbia erogato ugualmente il prestito? Qui entra in gioco la fantasia. Il «trucco» escogitato è stato quello di finanziare uno a uno i singoli soci della Hold and Fly, con un affidamento, sotto forma di scoperto di conto corrente, per complessivi 1.755.000 euro.

Il problema è che neppure loro – lo attestano i documenti interni della stessa Promos, che il whistleblower mi ha procurato – non sarebbero stati «teoricamente» in grado di restituire il prestito alla scadenza pattuita. Per la maggior parte dei soci, il rischio creditizio valutato da CRIF (2) e’ alto o addirittura negativo

Vero è che la banca ha chiesto in garanzia un pegno sulle azioni della K4A Spa possedute dai soci. Ma nessuno si è curato di stabilire se il loro valore nominale fosse realistico e coerente rispetto a quello riportato in bilancio. Nella fase istruttoria, questo controllo è stato, chissà perché, «dimenticato». Inoltre, come confermano i documenti a nostra disposizione, l’alto rischio connesso all’operazione è stato segnalato, in fase di istruttoria, dai funzionari proponenti e sottoposto agli organi deliberanti.

Come mai nessuno ha raccolto l’allarme? Sono dunque da ritenere casuali tante «attenzioni», eccezioni e «distrazioni», da parte di Promos, a vantaggio dei soci della Hold and Fly Srl? Difficile dare una risposta.

Certo, è forte il sospetto che il top management della banca, avesse in testa solo il profitto immediato, e che non si curasse di far correre un rischio agli altri risparmiatori.

L’istituto, dal novembre del 2016, sempre secondo il racconto della fonte, era sotto ispezione di Bankitalia, un lavoro conclusosi nel giugno del 2017 senza riscontrare irregolarita’. Ma le proporzioni dell’affidamento, per una iniziativa imprenditoriale che ad oggi risulta inattiva, parrebbero disattendere i piu’ normali criteri di erogazione creditizia. Ma facciamo un passo indietro, per conoscere piu’ da vicino il “gioiello” che sta al centro di tutta questa vicenda: la K4A Spa.

(1) Per tale nomina, cosi come riporta Dagospia, e’ stato inviato alla Procura di Napoli e all’Anac di Raffaele Cantone un esposto contro il presidente dell’EaV per una presunta incompatibilità per l’incarico ricoperto in quanto dipendente pubblico. De Gregorio, iscritto all’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli, è infatti docente di economia aziendale nell’istituto tecnico commerciale «A. Diaz».Secondo la denuncia, l’assunzione della guida della società pubblica sarebbe in contrasto con il contratto nazionale scuola oltre che vietato da specifiche disposizioni di legge. In più, sempre alla base dell’esposto, ci sarebbe la circostanza che De Gregorio avrebbe chiesto l’aspettativa un anno dopo circa la nomina alla guida della holding regionale. Un «doppio lavoro» che potrebbe aver provocato anche un danno all’Erario su cui potrebbe essere chiamata a indagare la Procura presso la Corte dei Conti

(2) Crif è il gestore del principale Sistema di informazioni creditizie (Sic) presente in Italia, chiamato Eurisc. Si tratta di un archivio informatico che contiene i dati sui finanziamenti richiesti ed erogati a privati e imprese

1362.- NEL SILENZIO PIU’ TOTALE DEI MEDIA ITALIANI LA CORTE COSTITUZIONALE TEDESCA METTE IL PRIMO CHIODO SULLA BARA DELL’EURO

 

In Italia è ferragosto e quindi tutti sono al mare, al sole, in vacanza, anche se magari se ne stanno a casa perchè non si possono permettere le ferie .

Purtroppo non è lo stesso in Germania, dove una pensante pronuncia della Corte Costituzionale del 14 agosto rischia di mettere la prima pietra per la Tomba della BCE e dell’Euro.

La Corte Costituzionale Tedesca ha rinviato alla Corte di Giustizia Europea la decisione circa la legittimità della politica  monetaria espansiva tramite acquisto di titoli sul mercato secondario : infatti per Karlsruhe vi sono gravi indizi che il QE esercitato dalla Banca Centrale Europea come parte della propria politica monetaria non sia altro che un aiuto finanziario diretto agli stati, fatto specificamente vietato dallo statuto della BCE.

Praticamente gli acquisti fatti da Draghi, secondo la Corte tedesca, avrebbero arbitrariamente ridotto gli interessi, stimolato i prestiti e quindi sarebbero intervenuti sui budget dei singoli stati facilitandone il finanziamento.

Ecco il volume degli acquisti di titoli tedeschi, francesi ed italiani fatti con il programma del QE,

 

La Corte di Giustizia Europea di Strasburgo non potrà dismettere il ricorso tedesco con facilità. Inoltre la Corte Costituzionale, secondo Die Welt, potrebbe perfino imporre alla Bundesbank di ritirarsi dal programma di politica monetaria della BCE, provocando una frattura profonda nella Banca Centrale Europea ed oggettivamente mettendo fine alla politica monetaria comune, primo passo verso la fine dell’euro.

Nello stesso tempo appare impossibile poter governare una moneta senza fare politica monetaria con acquisti e vendite di titoli sul mercato secondario, strumento tradizionalmente usato dalla Banche Centrali. Proprio la politica monetaria rilassata del “Whatever it takes” voluta da Draghi ha salvato l’unione monetaria all’indomani della crisi greca e dell’esplosione dello spread italiano. Rinunciare a questa politica significherebbe sottoporre l’area a stress fortissimi e, in ultima analisi, accellerarne la rottura. Perciò, la Commissione europea difende la Bce, ritenendo che stia agendo sulle basi e nei limiti dei Trattati, con l’acquisto di bond di stato sul mercato secondario, nell’ambito delle proprie operazioni di politica monetaria» e «interverrà in questo senso nel procedimento». Così ha fatto subito sapere la portavoce della Commissione europea per gli Affari economici e finanziari Annika Breidthardt, dichiarando che il Qe sia ancora necessario.

Come dicevano gli antichi: gli Dei accecano chi vogliono distruggere.

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Per i giudici di Karlsruhe l’acquisto di titoli di Stato viola la proibizione, sancita dai Trattati Ue, di finanziare direttamente gli Stati, superando i limiti del mandato della Bce. Draghi è nel mirino.

I ricorsi
Alla Corte costituzionale di Karlsruhe erano stati presentati tre distinti ricorsi a maggio, settembre e ottobre 2015. Il secondo, in particolare, era stato promosso da Bernd Lucke, il professore universitario di economia che ha fondato Alternative für Deutschland, il partito euroscettico rimasto fuori dal Bundestag per un soffio (4,7%) alle elezioni del 2013. Il partito si era però spaccato e Lucke ne è uscito fondando Alfa, acronimo di Allianz für Fortschritt und Aufbruch (Alleanza per il progresso e la rinascita).

«Le cause sono dirette, appunto, contro il programma di acquisto di titoli della Bce e mettono nel mirino Parlamento e governo tedeschi per non essere riusciti a fermarlo» aveva dichiarato il portavoce di Karlsruhe, Michael Allmendinger.

Un altro ricorrente è l’ex parlamentare Peter Gauweiler, bavarese della Csu ed euroscettico, già tra i promotori del ricorso contro il programma di acquisti Omt (Outright Monetary Transactions) del 2012. All’epoca la Corte tedesca si rivolse a quella europea, che respinse il ricorso, ritenendo legittimo il programma. «Con la sua eufemistica politica di Quantitative easing, la Bce sta cercando di provocare fiammate inflazionistiche, stampando una quantità enorme di moneta» aveva detto Gauweiler. «Questo è un programma di politica economica che serve alle banche dalle quali la Bce compra prestiti problematici. Si sta trasformando nella bad bank d’Europa».

 

1336.- Le elites ex-naziste tedesche dietro al finanziamento della ONG Jugend Rettet (non è uno scherzo)

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Le notizie scottanti finalmente filtrano. La nave ONG Jugend Rettet, scoperta a trattare con gli scafisti grazie agli infiltrati dell’AISE sulla nave tedesca – grazie alla cooperazione italiana con potenze internazionali (…) – hanno dimostrato come ci sia un coordinamento nell’invasione italiana dei migranti [gli italiani quando decidono di far le cose per bene sono molto bravi, ndr]. Meglio detta, esiste ed esisteva un vero e proprio piano per far arrivare sulle coste della Penisola più migranti possibili e le ONG straniere ne sono parte integrante.

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Ben inteso, spero che a tutti sia chiaro come dette ONG, soprattutto se attive in scenari di guerra, siano in realtà il paravento umanitario dietro a cui si celano le teste di ponte dei vari servizi segreti occidentali con il fine sia di carpire informazioni sul posto che di infiltrare propri uomini nelle fila nemiche, se non addirittura promuovere operazioni coi locali (…). Caso scuola è quello di Medicines Sans Frontieres (MSF), ONG francese attiva anch’essa nella tratta dei migranti verso l’Italia, il cui fondatore B. Kouchner è stato addirittura ministro degli Esteri dell’era Sarkozy e prima segretario di Stato nel governo Rocard del 1988 se ricordo bene. La tedesca Jugend Rettet svolge compiti simili: nata da poco per lo scopo di portare migranti dentro l’Italia, l’organizzazione scoperta con le mani della marmellata del piano di invasione dell’Italia evidentemente è coordinata da quel BND tedesco tanto bravo a rubare i dati fiscali dalla vicina Svizzera usati per ricattare i politici europei scomodi (vedasi il caso greco sotto molti versi ricopiato in Italia) quanto enormemente grossolano nel gestire operazioni che distino più di 500 km dai propri confini soprattutto se a sud/sud-est.

Quello che deve preoccupare è che tutte le ONG dei grandi paesi ex coloniali siano oggi attive non solo in Ucraina, Syria, Libya, Somalia, Iraq, Afghanistan ma anche in Italia!!

Ma la notizia interessante non è questa. Per il motivo spiegato sopra gli Stati ex coloniali non possono fondare loro stessi ONG altrimenti sarebbero semplicemente un’altra colonna delle loro stesse forze armate. Hanno infatti bisogno di sodali privati che facciano il lavoro sporco per conto dei governi. Nel caso di Jugend Rettet la “finanziatrice” è la bellezza teutonica Maria Furtwaengler (come indicato dalla FAZ nel 2016), nipote di Wilhelm Furtwaengler, il famoso direttore d’orchestra che dirigeva per Goebbels ed Hitler, il quale non solo fece parte del partito nazionalsocialista ma addirittura – secondo una sua biografia, di Eberhard Straub – trasse vantaggi personali dal nazismo, arricchendosi. Solo per cercare successivamente di nascondere il suo indicibile passato. (Pensate che il motto della Jugend Rettet è qualcosa di simile a “Fancul.. centro di coordinamento italiano per i migranti“, come riportato da agenzie di stampa oggi, …, ndr).

Tale Maria, discendente di cotanta stirpe, sapete chi ha sposato? Hubert Burda, il magnate dell’impresa editoriale tra le più conosciute in Germania e molto vicino ad Angela Merkel, discendente diretto di quel Franz Burda che non solo fu nazista ma addirittura profondamente antisemita fino ad impossessarsi di beni durante l’arianizzazione degli ebrei. Ecco dunque i finanziatori di Jugend Rettet!
(Si noti che non è un caso che i nipoti dei nazisti si imparentino tra loro, visto che normalmente Norimberga processò solo la punta dell’iceberg dei sodali nazisti, lasciando quasi intonse le gerarchie imprenditoriali, ad es. i proprietari attuali di BMW, i Quandt, sono i nipoti di Goebbels; ma i casi si sprecano, andate a vedere Adidas, Thyssen, Krupp, le famiglie dietro al colosso Aldi, Voslkwagen, Porsche etc.). Non è un caso che dette elites esportatrici industriali tedesche siano tutte indistintamente interessate a mantenere l’euro a tutti i costi – possibilmente debole – e quindi ovviare ad ogni tentativo di uscita dalla moneta unica soprattutto dei paesi che contribuiscono all’indebolimento dell’euro.

Ovvero, quanto sosteniamo su queste pagine da anni – che esiste un piano per i migranti fatti arrivare che in Italia e Grecia (la geopolitica tedesca aveva previsto fin dal 2012 l’invasione dei migranti: come abbiano potuto avere cotante capacità divinatorie è stato poi spiegato dagli eventi che si sono succeduti) – sta purtroppo dimostrandosi nella sua interezza. Ugualmente il piano economico nazista post invasione dell’Europa nazista (Piano Funk) sta oggi reincarnandosi nel progetto della moneta unica, da tenere in piedi a tutti i costi. Anche con metodi nazisti. Da qui il finanziamento di Jugend Rettet da parte di una delle elites tra le più ex naziste di Germania.

Vale la pena ricordare perché l’Italia sia vittima di tale indebita ingerenza: in un contesto di crisi globale di fatto irrisolta dal 2008 (siamo tornati globalmente a circa lo stesso livello di debito del 2008, quando si fermerà il QE ci sarà di nuovo l’implosione globale), l’Italia da una parte è una minaccia mortale per l’EU e dall’altra fa gola per i suoi assets. Minaccia perché è l’unico paese profondamente euroscettico in grado di deragliare il vero progetto dei globalisti, l’euro, oltre ad essere troppo storicamente vicina agli USA che oggi l’asse franco-tedesco vorrebbe sostituire al comando dell’EUropa. Dall’altra ha ancora tanti assets che fanno gola, dal residuo delle fu possenti aziende di stato, ai risparmi degli italiani, passando per primarie aziende private (Generali, le banche nazionali, aziende manifatturiere ecc.). Dunque va neutralizzata e per fare questo non si esita a farla invadere di migranti, per destabilizzare a fondo la struttura sociale del paese ossia per abbassare i salari degli italiani, inseminare violenza straniera, creare disagio ovvero dare la colpa del crollo della ricchezza italica non al vero responsabile (l’EU tedesca con l’euro) ma ai migranti. Sempre il solito trucco.
Caso mai Roma volesse azzardarsi ad uscire dall’euro, proprio ora che gli USA di Trump sono a favore della fine dell’euro….

3DlYgszy_bigger  Antonio M. Rinaldi‏, scenari economici.it

876 .- ERDOGAN ACCUSA: HO LE PROVE, GLI STATI UNITI AIUTANO L’ISIS

Probabilmente, né USA né Russia sono in condizioni di sostenere da sole l’espansione cinese e l’Europa dell’€uro non ha un suo ruolo da svolgere. Così, mentre Trump e Putin tentano il riavvicinamento in chiave anti-cinese e Netanyahu lavora con Putin, i piani di Erdogan e il Nuovo Impero Ottomano seguono il destino di quelli di Obama. Gli equilibri intorno a noi cambiano velocemente, mentre siamo legati al palo tedesco.

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“Ho le prove che la coalizione guidata dagli Stati Uniti in Siria aiuta gruppi terroristici come l’Isis”. Lo ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa il presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel corso di una conferenza stampa ad Ankara. “Ci accusano di aiutare lo Stato Islamico”, ha affermato, “Ma invece sono loro a dare sostegno a gruppi terroristici compresi i Daesh” (così viene chiamato lo Stato Islamico nel mondo arabo e in Turchia). E’ molto chiaro. Abbiamo le prove, con immagini, foto e video”.

L’uscita di Erdogan è clamorosa e gravida di conseguenze. La situazione in Turchia è a dir poco confusa. La scorsa settimana il mondo è rimasto senza fiato nel vedere le immagini del poliziotto turco che uccideva l’ambasciatore russo Andrei Karlov per vendicarsi della riconquista di Aleppo da parte dell’esercito siriano fedele al presidente Bashar Assad aiutato dalle forze armate di Mosca. Negli ultimi tempi c’è stato un clamoroso avvicinamento fra la Turchia e la Russia. Uno sviluppo non sorprendente, visto che Erdogan è convinto che il fallito tentativo di colpo di Stato ai suoi danni dello scorso 15 luglio sia stato opera del predicatore musulmano Fethullah Gulen, suo ex alleato che da anni è riparato negli Stati Uniti.

Erdogan è stato più volte accusato di finanziare l’Isis tramite il contrabbando di petrolio estratto dalle aree occupate dallo Stato Islamico, un traffico che vedrebbe coinvolto in prima persona il figlio dello stesso presidente turco, Bilal. In quanto agli Stati Uniti, il presidente eletto Donald Trump durante la campagna elettorale ha più volte accusato la sua concorrente democratica, Hillary Clinton, di avere aiutato l’Isis quando era segretario di Stato. L’uscita di Erdogan potrebbe essere interpretata anche come un tentativo di ingraziarsi Trump. Quando si parla di cose turche ogni interpretazione è possibile. Di certo le parole di Erdogan avranno delle conseguenze.

Marcello Bussi, Milano Finanza 27.12.16

751.-TEMPESTA PERFETTA. MERCOLEDÌ 4 DICEMBRE 2013, RIVALUTAZIONE DELLE QUOTE DI BANCA D’ITALIA: LA PIU’ GRANDE TRUFFA DEL SECOLO

 

Ad un certo punto bisogna chiamare le cose con il loro nome: sarò pure un “populista” (e confermo di esserlo con grande orgoglio ed immenso disprezzo per chi cerca di denigrare coloro che fanno attività politica a favore dei “popoli” e non ad esclusivo beneficio di ristrette “èlite oligarchiche”), “arruffapopoli”, “masaniello dei poveri”, ma quello che sta avvenendo oggi in Italia non può essere definito diversamente da “crimine contro la nazione”, “alto tradimento”, “saccheggio”, “vandalismo istituzionale ed istituzionalizzato”. Ho sempre guardato con sospetto quei movimenti detti “signoraggisti” che vedono esclusivamente nella proprietà del denaro l’unico strumento per ridare dignità ai popoli, perché credo fortemente che non sia tanto la proprietà del denaro la vera discriminante fra una democrazia compiuta e una dittatura di fatto, quanto l’utilizzo che viene fatto del denaro e della politica monetaria in genere. Una banca centrale può essere pure privata, ma se poi le sue scelte di politica monetaria vengono subordinate alle direttive che arrivano dal governo democraticamente eletto e indirizzate al benessere dell’intero paese, a me può stare pure bene che qualche “grasso banchiere privato” si ingozzi con le “briciole del signoraggio”. Ma qui in Italia abbiamo abbondantemente sorpassato ogni limite di decenza, dando persino adito alle inutili rivendicazioni dei “signoraggisti”.

Innanzitutto chiariamo per l’ennesima volta che se quando parliamo di “signoraggio” sulle banconote (3% di tutta la massa monetaria circolante, costituita per il resto principalmente da depositi bancari) ci riferiamo alla sola differenza fra il costo di stampa delle banconote e il loro valore nominale, e considerando che come si evince dall’ultimo bilancio della BCE, le banconote in circolazione nell’eurozona sono circa €839,5 miliardi (l’8% spetta alla BCE, mentre il restante 92% viene distribuito tra le varie banche centrali nazionali BCN), capiamo bene che con una “ridicola potenza finanziaria” pari a circa il 6,5% del PIL dell’area euro, i “grassi banchieri” non potrebbero mai comandare l’intero continente, come stanno effettivamente facendo oggi. Se invece utilizziamo una definizione più raffinata di signoraggio (“distribuzione del reddito della BCE derivante dalle banconote in euro in circolazione e del reddito netto della BCE sul portafoglio acquistato nel quadro del programma per il mercato dei titoli finanziari”, come riportato nelle note integrative allo stesso bilancio), allora stiamo parlando del profitto derivante dallo scarto di interesse fra attività finanziarie (acquistate durante le operazioni di mercato aperto mediante le riserve bancarie create dal nulla) e depositi di riserve presso la stessa banca centrale (perché ormai abbiamo imparato che le riserve non escono mai dai confini della banca centrale e al massimo possono essere depositate, investite o prestate ad altre banche), allora possiamo stare tranquilli, perché siamo lontani anni luce dal nostro obiettivo di capire cosa sta succedendo. Per due motivi: primo il risultato lordo della BCE per il 2012 è “soltanto” di 2 miliardi e 164 milioni di euro, e secondo, €998 milioni dell’utile netto viene conferito alle banche centrali dell’area euro, mentre il resto viene accantonato a riserva. Briciole appunto.
Tolta di mezzo la superficiale questione “signoraggista”, andiamo ad esaminare invece quale sia la ragione principale della truffa comminata ai danni dei cittadini e della nazione italiana tutta dal governo di Enrico Letta, su istigazione del ministro dell’economia e delle finanze Fabrizio Saccomani (guarda caso ex direttore generale di Banca d’Italia e membro del CDA della Banca dei Regolamenti Internazionali con sede a Basilea), in combutta con l’attuale governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Partiamo da una premessa: Banca d’Italia è una delle 17 banche centrali nazionali che aderiscono al sistema SEBC della BCE, quindi è l’autorità monetaria più indipendente e autonoma che possa esistere sul pianeta, non potendo per statuto finanziare direttamente il proprio governo o avere alcun collegamento politico-istituzionale con lo stesso. Tranne l’elezione del governatore, che avviene su esplicita proposta e indicazione del Consiglio superiore della banca centrale (articolo 17 dello Statuto), i politici non hanno alcuna influenza nelle attività strettamente tecniche o istituzionali di Bankitalia.
La proprietà della banca centrale è al 95% privata, anche se l’istituto viene ipocritamente definito di diritto pubblico, perché si è appropriato giuridicamente di un’attività regolamentata per legge: l’emissione della moneta (sotto forma di banconote e riserve bancarie). Siccome noi siamo obbligati per legge dal corso forzoso ad accettare l’euro come moneta di stato, la Banca d’Italia che ha l’esclusivo privilegio di emettere le banconote e le riserve elettroniche in euro, malgrado la sua proprietà e funzione privatistica, ha acquisito nel tempo una chiara posizione dominante nell’assolvimento di un diritto pubblico. I banchieri privati si sono gradualmente, con il tacito consenso o l’approvazione unanime di tutti i politici, impossessati di un istituto giuridico pubblico, la moneta, cercando di ricavarne nel corso del tempo un maggiore profitto privato. Come dire che una società idrica o una clinica privata dichiara di essere un’istituzione di diritto pubblico perché grazie a particolari intrecci e favori politici è riuscita ad occuparsi della gestione di un bene pubblico (l’acqua o la salute). Un controsenso insomma, perché un’istituzione o è pubblica (nel senso che non è orientata ai profitti ma a garantire un diritto della cittadinanza) o è privata (nel senso che antepone il raggiungimento del profitto al benessere dei cittadini). E Bankitalia da questo punto di vista è assolutamente privata, perché antepone il profitto dei suoi azionisti banchieri (inflazione bassa, dividendi, prestiti agevolati agli amici della cricca) a quello dei cittadini (occupazione, bassa tassazione, regolarità del credito a famiglie e imprese).
Tuttavia, questo esproprio di fatto della funzione monetaria un tempo subordinata al governo democratico, fino ad oggi veniva quantomeno ricompensato versando gran parte degli utili di gestione alle casse dello Stato (e per come viene gestita oggi una banca centrale, gli utili sono sempre assicurati, mentre è praticamente impossibile avere delle perdite). Da oggi invece, tramite la scandalosa proposta di trasformare Banca d’Italia in una public company, anche gran parte di questi utili verranno veicolati verso gli azionisti bancari privati. Ma vediamo nel dettaglio cosa si nasconde dietro questa incredibile truffa legalizzata, spulciando il documento riservato redatto da tre consulenti di Banca d’Italia (tra cui uno è il famigerato ex-presidente del consiglio fantoccio della Grecia Lucas Papademos, governatore della banca centrale ellenica ai tempi dei trucchi di bilancio organizzati insieme a Goldman Sachs per fare rientrare il paese nei parametri di Maastricht: con un consulente così siamo in una botte di ferro!!!). Innanzitutto partiamo dall’assetto proprietario attuale, che viene diviso in quote fittizie per un valore complessivo del capitale sociale simbolico di €156.000, di cui Banca Intesa, Unicredit e Assicurazioni Generali insieme detengono quasi il 60% del totale (guarda tabella sotto). Il fatto che si sia creata una tale concentrazione di capitale sociale in pochi grandi gruppi dipende dal processo di trasformazione e fusioni successive avvenute nel sistema bancario italiano a partire dai primi anni novanta.
In base alle rispettive quote e al valore nominale delle stesse, secondo quanto disposto dall’articolo 39 dello Statuto, i dividendi dovuti agli istituti finanziari e assicurativi privati ammonterebbero al 10% dell’intero capitale sociale, ovvero a soli €15.600. Il resto dell’utile netto (€2,5 miliardi nel 2012) viene invece ripartito fra accantonamenti a riserve statutarie (€1 miliardo) o girato direttamente al ministero del Tesoro (€1,5 miliardi). Considerando che l’utile lordo è stato di poco superiore a €7 miliardi e considerando la quota versata in anticipo al fondo rischi generali, ciò significa che allo Stato entrano all’anno all’incirca altri €2 miliardi di tasse sugli utili. In totale €3,5 miliardi sono entrati nelle casse dello Stato nel 2013. Una bella somma, che giustifica le enormi pressioni dei banchieri sul governo per accaparrarsi una fetta molto più grande del bottino. Infatti i banchieri erano già riusciti ad inserire un comma all’articolo 40 dello Statuto, secondo cui oltre ai risibili dividendi figurativi di cui sopra, spettavano agli azionisti privati altri dividendi aggiuntivi pari ai profitti degli investimenti del valore massimo del 4% delle riserve detenute nell’anno precedente (per il 2012 l’aliquota è stata piuttosto bassa, 0,5%, che tradotta in soldoni significano €70 milioni regalati alle banche). Dato il contesto istituzionale e politico favorevole (dall’inizio della crisi del 2011 i banchieri sono riusciti ad infiltrare nei governi tecnici Monti e Letta una quantità considerevole di propri dirigenti, affiliati e simpatizzanti) e la situazione di emergenza in cui versa l’Italia, era chiaro che fosse arrivato il momento di sferrare l’attacco decisivo.
Vediamo quindi qual è in sintesi la proposta dei banchieri. Innanzitutto si partirebbe con la già nota rivalutazione del capitale sociale, che ricalcolato in base ai flussi di reddito che esso genera, si collocherebbe in un intervallo compreso fra i €5 e €7,5 miliardi. Questi soldi verrebbero spostati contabilmente dalle riserve di Banca d’Italia, prendendo a pretesto il fatto che le banche per 14 anni di fila non hanno sfruttato fino in fondo le potenzialità dell’articolo 40, utilizzando sempre un valore di riserve investite inferiore al 4%. Come dire, non solo ti faccio annualmente un regalo, ma tu adesso pretendi pure di farmi pesare la colpa che non fosse all’altezza delle tue aspettative (quando si tratta di banchieri, a caval donato si guarda eccome in bocca!!! E se i denti non sono perfetti come dicono loro prima o dopo ti tocca pure pagare cara la tua generosità!!!). Inoltre verrebbe fissato un limite del 5% alle quote possedute da ogni singolo azionista e a coloro che adesso o in futuro si ritrovassero con quote in eccesso verrebbe concesso un periodo di tempo prestabilito per sbarazzarsene, vendendole ad “investitori istituzionali con un orizzonte di lungo periodo” (definizione generica che significa tutto e niente, ma alla fine si riduce a privilegiare i ben noti colossi finanziari mondiali “too big to fail” tipo Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Barclays, Deutsche Bank etc etc).
In pratica si verrebbe a creare un vero e proprio mercato internazionale delle quote di Banca d’Italia, difficile se non impossibile da gestire e monitorare (se Goldman Sachs acquisisce o scala un altro azionista, chi si deve prendere la briga di obbligarla a cedere le sue quote in eccesso?), a cui potrebbero accedere soltanto gli istituti finanziari abilitati ed autorizzati (come avviene oggi con il consorzio degli “specialisti” in acquisto di titoli di stato). Insomma quel tipo di “libero mercato” che piace tanto ai banchieri, in cui il grado di libertà viene deciso dalla grandezza dei partecipanti: “più sei grande e più sei libero” (alla faccia di Adam Smith e dei suoi sedicenti epigoni liberisti!!!). In nessun altro contesto internazionale esiste un mercato regolamentato delle quote di partecipazione al capitale di una banca centrale, dato che queste ultime rappresentano ovunque una semplice certificazione azionaria fittizia che non può essere trasferita, venduta, prestata, acquistata. L’Italia sarebbe all’avanguardia in questo settore, visto che il progetto in questione prevede chiaramente che le quote siano “facilmente trasferibili e in grado di attrarre potenziali acquirenti”. La smania di incentivare l’arrivo di capitali esteri ha contagiato pure uno dei settori in cui la presenza straniera non è affatto necessaria (gli stranieri sanno per caso “stampare” le banconote meglio di noi? O azionare i computers dei funzionari della banca centrale in maniera innovativa?) e creerebbe invece dei paradossi difficilmente risolvibili senza innescare infiniti intoppi diplomatici ed istituzionali: cosa succederebbe se un giorno Banca d’Italia diventasse interamente di proprietà straniera? Potrebbero istituti finanziari esteri pretendere tutto l’oro e il patrimonio accumulato da Banca d’Italia in passato, grazie soprattutto ai privilegi di gestione concessi dallo Stato italiano? Il patrimonio di Banca d’Italia è pubblico o privato? Non sono stati gli italiani e il loro ligio rispetto della lex monetae di Stato a garantire a Banca d’Italia di incrementare nel tempo le sue proprietà e ricchezze? Un ginepraio inestricabile, che giustifica il fatto che nei paesi più civili ed evoluti del mondo la proprietà della banca centrale è interamente pubblica e anche nei casi di proprietà privata, nessuno ha mai osato tanto quanto gli italiani oggi in termini di privatizzazione.
Tuttavia, quando si comincia con la sudditanza e il servilismo nei confronti dei poteri forti, si sa da dove si parte ma non si può mai prevedere dove si arriva, dato che ogni politico o tecnocrate vorrebbe fare sempre di più per dimostrare quanto è “suddito” e “servo”, a prescindere dalle conseguenze disastrose e spesso controproducenti del suo operato, per gli stessi interessi privati che si vorrebbero avvantaggiare. E’ come se dovessero alla fine intervenire sempre i “padroni” per chiedere allo “schiavo” di essere meno zelante e servizievole, perché in caso contrario potrebbe mandare all’aria l’intero progetto. Un progetto, quello della ridefinizione dell’assetto proprietario di Bankitalia, che se attuato in tempi brevi consentirebbe al Governo dei Banchieri di raggiungere tre importanti obiettivi in un colpo solo: incassare una tassa una tantum sulle plusvalenze della rivalutazione pari a circa €1,5 miliardi, utile a coprire il mancato gettito per il 2013 dell’IMU sulla seconda casa, migliorare la situazione patrimoniale dei disastrati istituti bancari italiani in vista degli stress test che la BCE condurrà per tutto il 2014, fornire annualmente maggiori dividendi complessivi alle banche private azioniste (italiane e straniere). Analizzando un punto alla volta di questo programma, ci accorgeremo presto che ogni passaggio equivale ad un guadagno certo per loro banchieri e ad una perdita netta per noi cittadini.
Lo Stato incasserà subito €1,5 miliardi da utilizzare soltanto per un anno a copertura di un mancato gettito, privandosi però per tutti gli anni futuri di un sicuro introito derivante dalle tasse e dalla redistribuzione degli utili di Banca d’Italia. E’ lo stesso tipo di errore che si commette quando si vogliono utilizzare i proventi delle privatizzazioni (un asset strategico in conto capitale che produce rendimenti certi) per abbattere magari debiti di medio e breve periodo (che invece, in una logica di contabilità spicciola, dovrebbero essere ridotti utilizzando le entrate in conto corrente). In questo modo, una volta abbattuto tutto o parte di quel debito, lo Stato si ritroverebbe senza un asset, senza un rendimento certo, e senza essere neppure riuscito ad estirpare la vera causa da cui si originava quel buco di bilancio, che qualora dovesse riaprirsi avrebbe ora minori possibilità di essere rimarginato. Perché non solo lo Stato avrà un patrimonio minore a garanzia di quel nuovo debito ma anche meno entrate nel suo conto economico per equilibrare le uscite e le eventuali perdite di esercizio. Inoltre, ogni volta che si fanno questo tipo di operazioni malsane, bisognerebbe quantomeno fare un confronto fra i rendimenti attivi dell’asset che si vuole privatizzare (che possono essere anche figurativi, come i mancati costi di affitto di un edificio pubblico) e gli interessi passivi del debito che si vuole ridurre. Se i primi sono superiori ai secondi, la privatizzazione non ha alcun senso, perché conviene pagare gli interessi passivi e incassare annualmente la quota marginale di profitto. Cosa che sta puntualmente accadendo con il fallimentare e scandaloso piano di privatizzazioni del governo Letta chiamato beffardamente “Destinazione Italia”, che toglierà allo Stato assets strategici, rendimenti certi dell’ordine del 7%, per ripagare una parte minima del montante di debito (circa €12 miliardi), da cui scaturiscono mediamente interessi passivi del 4%. Ogni anno quindi lo Stato perderà il 3% di quei €12 miliardi, ovvero €360 milioni, che dovrà recuperare mettendo altre tasse o facendo altri tagli ingiustificati alla spesa pubblica sociale. Grazie Letta e Saccomanni, ci ricorderemo di voi al momento di stendere la sentenza di accusa per “alto tradimento della Patria”.

Andiamo al secondo punto, la questione controversa della patrimonializzazione delle banche, che è all’origine di tutti i problemi attuali dei paesi europei. Come già sappiamo, nell’eurozona si è già deciso da tempo che i costi della cattiva gestione dei banchieri devono essere pagati dai cittadini, con ingarbugliati accordi intergovernativi o fraudolenti schemi di salvataggio pubblico (Fiscal Compact, MES, bail in e bail out, prelievi forzosi etc). Anche nel caso della rivalutazione del capitale sociale di Banca d’Italia la musica non cambia, perché quei €7 miliardi di aumento di capitale, che i banchieri si ritroveranno spalmato come per magia sui loro bilanci, deriva da un fondo di riserve che in teoria (ma anche in pratica) è di proprietà dello Stato e dei cittadini italiani. Sono infatti lo Stato e i cittadini italiani (questi ultimi come sempre a loro insaputa) ad avere concesso negli anni alla Banca d’Italia il privilegio di emettere la moneta legale a corso forzoso, senza il quale l’istituto nazionale di Palazzo Koch non avrebbe mai potuto registrare utili o creare riserve statutarie. Siamo alle solite insomma, il Governo dei Banchieri cerca di mascherare una chiara operazione di salvataggio pubblico delle banche, con nomi più o meno evocativi di altro: rivalutazione delle quote di Banca d’Italia non significa altro che spostamento fisico e contabile di un tesoretto degli italiani nelle casse delle banche private. Qualora un giorno lo Stato italiano volesse procedere alla sacrosanta e legittima nazionalizzazione della sua banca centrale, per mettersi al passo con i paesi europei più grandi ed evoluti (Germania, Francia ed Inghilterra) e allontanarsi dalla condizione di colonia del Terzo Mondo, dovrebbe conferire ai banchieri privati ben €7 miliardi di regali ed elargizioni per riacquistare tutte le quote azionarie circolanti. Insomma i banchieri si sono già messi il ferro dietro la porta, nell’improbabile caso in cui agli italiani dovesse un giorno venire un insperato (e alquanto provvidenziale) impeto di orgoglio e amore nazionale.
Inoltre quelle quote un tempo simboliche e fittizie, con la rivalutazione diventerebbero concreti e reali attestati di proprietà, che potrebbero porre diversi contenziosi o interrogativi in caso di liquidazione della Banca Centrale: chi sarebbero i proprietari dei €100 miliardi e oltre di riserve valutarie e auree, lo Stato o i banchieri? E i €23 miliardi di riserve statutarie invece? Visto che proprio da queste ultime sono stati ricavati i €7 miliardi di rivalutazione, sembrerebbe che le banche private abbiano ad oggi maggiori diritti di proprietà rispetto allo Stato riguardo al patrimonio di Banca d’Italia e potrebbero sfacciatamente rivendicare questo diritto in qualsiasi momento futuro (magari richiedendo una nuova ricapitalizzazione dell’Istituto per ripianare i loro buchi di bilancio). E non abbiamo ancora parlato dell’enorme conflitto di interessi che vede i controllati proprietari dell’ente controllore di vigilanza. Ed è qui che entra in ballo il più sfrontato raggiro dell’opinione pubblica, perché questa intollerabile ambiguità viene definita la maggiore garanzia di imparzialità, autonomia ed equidistanza dell’istituto di sorveglianza, dato che, testuali parole, “non va alterato l’equilibrio che ha assicurato l’indipendenza dell’Istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche”. Prendendo ad esempio gli Stati Uniti e la Federal Reserve come massimo modello di efficienza dell’azionariato privato all’interno dell’ente di vigilanza bancaria (senza citare però minimamente i disastri della crisi finanziaria dei subprime del 2008, avvenuti anche grazie ad un controllo quasi inesistente della Federal Reserve sull’operato delle grandi banche private sue proprietarie).
Ma che cos’è questa se non una burla? Sappiamo già che i Trattati di Maastricht impediscono a monte qualsiasi influenza dei politici sull’operato della banca centrale, sia in termini finanziari (impossibilità di acquisto diretto di titoli di stato o di scoperti sul conto di tesoreria) sia in termini operativi (incapacità di fissare il tasso di interesse di riferimento o di regolamentare il sistema del credito). Quindi che bisogno c’è di blindare l’autonomia e l’indipendenza della banca centrale dal governo, ricorrendo all’azionariato privato? Prova ne è il fatto che la Bundesbank e la Banque de France sono interamente pubbliche, eppure né Hollande né la Merkel né l’ultimo dei politici tedeschi o francesi avrebbe oggi la capacità di influire anche lontanamente sulle scelte di politica monetaria dei rispettivi istituti centrali. Mentre il modello degli Stati Uniti è completamente fuori luogo per fare un paragone con gli stati non più sovrani dell’eurozona, perché sappiamo che la Federal Reserve benché di proprietà privata è obbligata ad indirizzare le proprie decisioni di politica monetaria in base alle esigenze del Governo, che può in qualunque momento modificare per decreto l’operatività della banca centrale (l’innalzamento del tetto del debito pubblico è l’ultimo caso di tale tipo di intervento). Gli americani non immaginano nemmeno che sia possibile interrompere drasticamente il collegamento e il coordinamento fra politica monetaria della banca centrale e politica fiscale del governo, come è avvenuto qui in Europa con l’adesione ai trattati comunitari. E a differenza dei governatori delle banche centrali dell’eurozona, il governatore della Federal Reserve è obbligato per legge a riferire periodicamente presso il Congresso per dimostrare la bontà del suo operato. Si tratta insomma di un’autonomia e indipendenza vincolata al benessere dell’intera nazione, perché la banca centrale è sì autonoma ed indipendente dal governo (e anche privata), ma può mantenere inalterato questo assetto solo fino a quando la sua attività non interferisce con quella del governo e riesce a migliorare effettivamente le condizioni economiche e finanziarie del paese (inflazione, occupazione, tassi di crescita). In caso contrario la politica interviene eccome sull’operato del governatore della Federal Reserve, potendone in casi eccezionali richiederne la rimozione anticipata dal suo incarico.
Un’impostazione di massima che qui da noi, nel magico mondo di eurolandia, è categoricamente esclusa, dato che la tecnocrazia bancaria è del tutto svincolata per trattato dall’influenza politica. Nessun politico può imporre ad un governatore cosa fare e chiedere conto e ragione del suo operato, mentre la situazione opposta è incredibilmente ammessa: il governatore di Banca d’Italia o della BCE può indicare ai singoli governi quali sono le migliori (migliori per chi non è dato sapersi) ricette di politica fiscale ed economica da applicare nei rispettivi paesi (riforme del mercato del lavoro e del sistema pensionistico, privatizzazioni, liberalizzazioni, livello di pressione fiscale e mantenimento dei conti pubblici). E la famigerata lettera del 5 agosto 2011 inviata dai banchieri centrali Draghi e Trichet al governo Berlusconi è il più fulgido esempio di ingerenza diretta della tecnocrazia sovranazionale negli affari politici nazionali degli organismi democraticamente eletti. E non sarà un caso che tutti i governi che si sono succeduti in Italia da quel momento ad oggi stanno continuando ininterrottamente ad applicare le misure di austerità “caldamente” suggerite dai governatori delle banche centrali. Un’eventualità assolutamente esclusa negli Stati Uniti, dove il governatore della Federal Reserve non si sognerebbe mai di mettere bocca nelle decisioni di politica fiscale del Congresso o del Governo. Il confronto quindi fra l’azionariato privato della Federal Reserve e quello di Banca d’Italia è del tutto inappropriato, mentre con questa riforma noi ci avvicineremmo più che altro ai sistemi privatistici utilizzati in Belgio e in Grecia (non proprio due fari di innovazione, sviluppo e modernità nel panorama internazionale), allontanandoci invece pericolosamente dai modelli più equilibrati ed evoluti di Francia, Germania ed Inghilterra.
Ma è proprio questo il nodo più spinoso della questione. L’Italia ha già deciso di uscire dal novero dei paesi egemoni in Europa, autoriducendosi al grado di protettorato e colonia (sulla scia di Grecia e Belgio), oppure esiste ancora qualche possibilità di riscatto per il nostro paese? I nostri politici sono davvero così incapaci e incompetenti da svendere in pochi anni tutto il nostro notevole patrimonio economico e geopolitico agli stranieri, oppure esiste ancora un modo per liberarci da questi impostori collaborazionisti e mercenari? Stando alla cruda realtà dei fatti, pare che il destino dell’Italia sia già stato scritto e segnato da tempo, e nel nostro paese ormai la tecnocrazia bancaria abbia preso il sopravvento e incorporato l’intera classe politica e dirigente. Non si spiegherebbe altrimenti la tracotanza con cui viene ribadito nel documento di Banca d’Italia che bisogna “evitare che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005, mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della proprietà della Banca”. Per carità, non dobbiamo ambire a diventare come Francia, Germania, Inghilterra, ma rassegnarci a ridurci come Belgio e Grecia. Solo per la cronaca, la legge n. 262 del 2005 prevedeva che entro tre anni dalla sua entrata in vigore le quote di partecipazione a Banca d’Italia possedute da istituti privati venissero trasferite allo Stato o ad enti pubblici. Ma, oltre ad essere ignorata, ci pensarono Prodi, Napolitano, Padoa Schioppa, Draghi (il quartetto di Quisling più pericoloso del paese) già nel 2006 a modificare l’articolo 3 dello Statuto di Banca d’Italia per vanificare l’attuazione della legge e rendere legittima la presenza di azionisti privati nel capitale sociale della banca centrale.

Ma veniamo adesso all’ultimo punto cruciale della riforma, quello del rendimento garantito da corrispondere agli azionisti privati. Prendendo spunto dalle regole utilizzate negli Stati Uniti e in Giappone (due esempi come abbiamo detto del tutto inopportuni), il tasso di dividendo verrebbe fissato al 6% del nuovo capitale sociale rivalutato, ovvero ben €420 milioni annui nel caso in cui quest’ultimo fosse ampliato a €7 miliardi. Una bella differenza dai €70 milioni attuali, che verrebbe sottratta direttamente alle casse dello Stato per un ammontare di €350 milioni annui. I banchieri insomma con un investimento iniziale di €1,5 miliardi, ammortizzabile in soli quattro anni, si assicurerebbero una rendita perpetua di posizione di €420 milioni annui, con un valore di riscatto del capitale di €7 miliardi. Chi, sano di mente, non farebbe mai un investimento simile? E viceversa, quale politico veramente interessato al bene del proprio paese priverebbe i propri cittadini di una rendita che gli spetta di diritto per regalarla ai banchieri nazionali e internazionali? La risposta è presto trovata: Saccomanni e Letta stanno facendo questo all’Italia, perché il primo non nasconde neppure di fare gli interessi dei banchieri essendo un banchiere lui stesso, e il secondo ormai è troppo impelagato negli intrecci di palazzo e nella difesa dei suoi interessi personali per pensare seriamente al bene dei propri connazionali. Fermarli ormai appare umanamente impossibile perché l’enormità del saccheggio che stanno mettendo in pratica ai nostri danni è così elevata da impedire qualsiasi capacità di reazione. E’ come se noi tutti fossimo stati paralizzati da un sortilegio di immani proporzioni, dato che ci infuriamo quando un politico spende poche migliaia di euro di soldi pubblici per offrire una cena galante agli amici (cosa riprovevole per carità, ma risolvibile con un aumento dei controlli e il lavoro della magistratura e degli organi inquirenti), ma non riusciamo a vedere i miliardi di euro di patrimonio pubblico e privato che ci vengono inesorabilmente sottratti davanti ai nostri occhi con le privatizzazioni, le svendite, i fondi di salvataggio europei, le misure di austerità, la micidiale menzogna del pareggio di bilancio e della legge di stabilità (stabilità di un cimitero, come ha scritto il Wall Street Journal qualche tempo fa).
Letta e Saccomani in fondo stanno portando fino alle estreme conseguenze il loro ruolo di Quisling, ma purtroppo siamo noi cittadini che non stiamo rispettando per niente il nostro compito di sentinelle della democrazia e garanti del futuro dei nostri figli. Ci meritiamo tutto questo e anche peggio, visto che il nuovo che avanza (Renzi) ha nella sua agenda politica personale il proposito di continuare l’opera di demolizione e saccheggio dei suoi predecessori: riforma del mercato del lavoro in termini di maggiore precarietà e flessibilità (Fornero docet) e attacco diretto al sistema pensionistico, che con l’alibi della riduzione delle pensioni d’oro andrà poi a colpire tutti i bassi e medi redditi previdenziali, perché come ci ricordava il buon Monti è con la massa che si fanno i numeri. Ed è proprio Banca d’Italia in questi giorni a rimarcare che si può fare ancora meglio sulla strada della moderazione salariale, dato che dal 2010 al 2012 la retribuzione media dei lavoratori dipendenti è scesa di soli €64 al mese, passando da una media di €1.328 a €1.264 (una perdita netta annua per lavoratore di €832 euro). Renzi sa bene che per essere “competitivi” come i tedeschi, rimanendo all’interno dell’eurozona, siamo costretti soltanto a puntare sulla svalutazione dei salari, senza dare però ai nostri lavoratori nessuna di quelle garanzie sociali o sussidi statali previsti in Germania. In una parola sola “cinesizzazione” del mercato del lavoro, riduzione della quota salari a beneficio della quota profitti e rendite, sia essa nazionale o straniera. Così come auspicata da questa riforma dell’assetto proprietario di Banca d’Italia.
E se a difendere i diritti dei cittadini ci pensano “populisti da strapazzo” alla Grillo, che ignorano i fatti esposti in questo articolo e indicano nel taglio della spesa pubblica e nell’aumento delle tasse indirette (che colpiscono maggiormente i bassi redditi) rispetto a quelle dirette (che se applicate in maniera progressiva danneggiano gli alti redditi), le soluzioni per uscire dalla crisi, non abbiamo alcuna via di scampo. Non ci sono proprio più i “populisti” di una volta. Non c’è più la “sinistra” che tutela il salario e la dignità dei lavoratori. Non c’è più la “destra” che tiene alto l’orgoglio nazionale e la difesa delle libertà individuali. Siamo destinati ancora ad essere saccheggiati e svenduti agli stranieri. Fino a quando nel paese non ci sarà più un palazzo o una spiaggia da mettere all’asta al migliore offerente. Solo allora gli italiani si ridesteranno all’improvviso dal torpore e capiranno di essere stati raggirati dalla più grande manovra trasversale di attacco alle istituzioni democratiche del paese mai avvenuta in 150 anni di storia nazionale. Un’operazione trentennale portata avanti con la compiacenza di tutti, dei “presunti populisti”, dei “moderati di sinistra e di destra”, degli “estremisti integrati e funzionali al sistema”, dei “sindacalisti”, degli stessi “cittadini” che stremati dalla manipolazione mediatica hanno creduto davvero di fare il bene dell’Italia votando partiti di impostori e truffatori come il PD, Forza Italia, Scelta Civica, Movimento 5 Stelle. E’ ora di svegliarsi. E’ ora di crescere. E’ ora di ricostruire l’Italia e rifare gli italiani. Parola di un “vero populista”, orgoglioso di esserlo.

Un’ultima postilla prima di chiudere. Ho intitolato questo post “la più grande truffa del secolo”, ma in realtà il titolo più giusto sarebbe stato “la penultima più grande truffa del secolo”, perché nelle condizioni miserabili in cui ci troviamo, l’ultima riforma (o meglio truffa) che verrà attuata, la prossima, sarà sempre peggiore della precedente. Qualcuno avrà notato che la propaganda di regime nostrana (Santoro, Floris, Gruber, Gabanelli, Formigli, Fazio) ha cambiato repentinamente atteggiamento nei confronti del progetto globalista dell’euro, abbandonando ormai la ridicola censura e lasciando i propri ospiti parlare liberamente dei problemi derivanti dalla dittatura europeista. Ma con uno schema ben preciso e rodato da ripetere puntualmente in ogni occasione. Il giornalista-menestrello fa la domanda pilotata al proprio ospite competente (?) e preparato a dovere sull’argomento: “ma secondo lei è l’euro il problema dell’Italia e uscendo dall’euro saremmo salvi?” E poi attende in religioso silenzio la prevedibile risposta, mentre gli altri ospiti annuiscono soddisfatti: “sarebbe una catastrofe, un disastro, un salasso per lavoratori e pensionati, una patrimoniale secca dell’ordine del 30%, 40%, 50% (e perché no, anche 100%, tanto non esiste alcun contraddittorio che possa frenare l’impennata arbitraria dei numeri del terrore!)”. Ecco perché dobbiamo fare ancora di più in termini di divulgazione e informazione per smontare le tecniche mediatiche di manipolazione di massa di questi criminali. E volevo cogliere l’occasione per ringraziare l’amico e collega di ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità) Fiorenzo Fraioli di Ecodellarete, che spende energie, tempo, denaro per filmare dibattiti, discussioni, forum che altrimenti passerebbero inosservati (come quello organizzato qui a Palermo il 22 novembre scorso). Noi ce la stiamo mettendo tutta per darvi qualche sprazzo di verità e spunto di riflessione in più, ma adesso tocca a voi dimostrare la vostra volontà di partecipazione e coinvolgimento. Se non riuscirete a mettervi in gioco personalmente, nel modo che riterrete più opportuno e consono alla vostra personalità ed esperienza, noi questo “gioco” non lo potremo mai vincere da soli. Mobilitatevi!!! Muovetevi!!! Svegliatevi!!!

La vera truffa sta nella autonomia e indipendenza delle banche centrali dai governi democratici e non nel semplice guadagno dei banchieri sull’agio di emissione. Anzi i banchieri centrali non solo sono svincolati dai governi, ma pretendono pure di dare loro i programmi da applicare ai governi, siamo al paradosso più completo. La questione dei proprietà privata di Banca d’Italia loro la giustificano sempre in termini di garantire maggiore autonomia e indipendenza ai banchieri, ed è proprio su queste due paroline che dovresti concentrare la tua attenzione: “autonomia” ed “indipendenza”. Tralasciando per un attimo tutto il resto del tuo credo fideistico. Ho ripetuto più volte che la banca centrale pubblica tedesca e francese sono completamente PUBBLICHE, quindi a tuo modo di vedere Francia e Germania dovrebbero essere le nazioni più felici e democratiche del mondo…l’agio di emissione appartiene al popolo, giusto, il popolo è il signore!!!! E invece….e invece sono due nazioni intrappolate esattamente come noi nella gabbia monetaria, a causa di quelle due paroline famose “autonomia ed indipendenza”….
La truffa a cui mi riferivo in questo articolo riguarda appunto il fatto che non solo Banca d’Italia è ormai definitivamente autonoma ed indipendente dal governo, ma neppure vuole concedere allo Stato le “briciole” che gli spettano, che intrappolati come siamo nella criminale morsa dell’austerità ci servirebbero eccome. Ma solo perchè siamo intrappolati nell’eurozona, in caso contrario quelle briciole sarebbero appunto inutili, rispetto alla possibilità di un governo democratico con pieno controllo della sua banca centrale di potere avere piena solvibilità del suo debito pubbico (quantunque enorme esso sia), pieno controllo dell’inflazione e dell’occupazione, “infinita” capacità di spesa per piani industriali, piani energetici, difesa del territorio e del patrimonio pubblico (l’unico vincolo a quella parola “infinita” è l’equilibrio dei conti con l’estero e la stabilità del valore di cambio della nostra moneta, perchè per i paesi stranieri la nostra moneta che tu tanto veneri non vale una cippa di niente, se con quella moneta non ci possono comprare nulla e non la possono scambiare nei mercati valutari senza perdere valore ad ogni secondo che passa)….spero di essere stato finalmente chiaro sul motivo per cui credo che sia l’utilizzo e la piena disponibilità della leva monetaria da parte dei governi democratici la vera discriminante, e non la proprietà di un pezzo di carta, che se non ha sotto un controvalore di scambio in prodotti, merci, lavoro, know how e capacità produttiva vale meno della carta igienica (il classico caso dello Zimbabwe ti dice nulla??? Come mai il dittatore dello Zimbabwe non è diventato ricco??? Eppure aveva anche lui l’agio del signore!!!! Era il padrone del mondo!!! E invece….e invece era solo un pezzente, che non aveva capito nulla di cosa significa coordinare la politica monetaria della banca centrale e la politica fiscale del governo, per migliorare gradualmente la struttura produttiva, l’autosufficienza, la sostenibilità economica del suo paese…..)