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6218.- Presidente Meloni, Piano Mattei

Presidente, grazie.

Meloni in Libia, patto con Haftar: lotta senza tregua ai trafficanti di esseri umani

Da Il Secolo d’Italia del 7 Mag 2024 – di Redazione

Meloni Haftar


Una missione a tutto campo, quella della Meloni in Libia – accompagnata dai ministri dell’Università e Ricerca, Anna Maria Bernini, della Salute, Orazio Schillaci, e per lo Sport e i Giovani,Andrea Abodi – sotto il profilo geo-politico e della cooperazione internazionale. Il Presidente del Consiglio, in visita oggi a Tripoli, ha incontrato il Presidente del Consiglio Presidenziale Al-Menfi e il Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Dabaiba. Al termine dell’incontro sono state firmate delle dichiarazioni di intenti in materia di cooperazione universitaria e ricerca, salute, sport e giovani nella cornice del Piano Mattei per l’Africa.

Meloni in Libia: i bilaterali con Dabaiba e Haftar

Il Presidente Meloni, come rendono noto fonti di Palazzo Chigi, ha ribadito l’impegno a lavorare con la Libia in tutti gli ambiti di interesse comune, attraverso un partenariato su base paritaria fondato su progetti concreti. In particolare nel settore energetico e infrastrutturale. Al fine di approfondire ulteriormente le opportunità di investimenti, nel corso del colloquio – sottolineano le stesse fonti – il Presidente Meloni e il Primo Ministro Dabaiba hanno deciso di organizzare un business forum italo-libico entro la fine dell’anno.

La cooperazione tra Libia e Unione Europea

Non solo. Con i suoi interlocutori, il Presidente del Consiglio ha discusso anche dell’importanza di indire le elezioni libiche presidenziali e parlamentari, nel quadro della mediazione delle Nazioni Unite che va rilanciata. L’Italia, in tal senso, continuerà a lavorare per assicurare una maggiore unità di intenti della Comunità internazionale. E per promuovere la cooperazione tra Libia e Unione Europea.

Meloni e Haftar sulla ricostruzione di Derna, le iniziative sull’agricoltura e sulla sanità

Nel pomeriggio, poi, il Presidente Meloni si è quindi recata a Bengasi, dove ha incontrato il Maresciallo Khalifa Haftar, con cui ha discusso, tra l’altro, delle iniziative italiane nel settore dell’agricoltura e della salute che interessano anche l’area della Cirenaica. Oltre a ribadire la disponibilità dell’Italia a contribuire, anche attraverso le competenze specifiche del nostro settore privato, alla ricostruzione di Derna, colpita lo scorso anno da una drammatica alluvione, in linea con l’impegno a tutto campo che l’Italia aveva messo in campo subito dopo la tragedia. Aspetto, quello della ricostruzione, condiviso anche con il Presidente Al-Menfi che ha voluto ricordare il generoso impegno dell’Italia.

«Intensificare gli sforzi nella lotta al traffico di esseri umani»

Nel corso della missione, infine, il Presidente del Consiglio ha espresso apprezzamento per i risultati raggiunti dalla cooperazione tra le due Nazioni in ambito migratorio. In questa prospettiva, per il Presidente Meloni permane fondamentale intensificare gli sforzi in materia di contrasto al traffico di esseri umani, anche in un’ottica regionale. E in linea con l’attenzione specifica che l’Italia sta dedicando a questa sfida globale nell’ambito della sua Presidenza G7.

Libia e Piano Mattei, il binomio funziona. La visita di Meloni a Tripoli secondo Checchia

Da Formiche.net, di Francesco De Palo, 8 maggio 2024

L’ambasciatore Checchia: “L’Italia è punta di lancia d’Europa nel continente africano. Con il Piano Mattei sosterremo l’area del Sahel, dopo il passo indietro francese. La visita porta in grembo il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Libia, Libano e Marocco”

07/05/2024

Un altro tassello di quel puzzle geopolitico chiamato Piano Mattei è stato posizionato oggi in Libia dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ha incontrato il primo ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdul Hamid Mohammed Dabaiba, il presidente del Consiglio presidenziale libico Mohammed Yunis Ahmed Al-Menfi e il generale Khalifa Haftar. Un viaggio strutturato, come dimostra la presenza di tre ministri del governo che hanno plasticamente disteso la strategia italiana in loco, siglando accordi con gli omologhi libici in settori cardine delle istituzioni e della società. Nell’occasione è stato annunciato il Forum economico italo-libico a Tripoli per fine ottobre al fine di sostenere il settore privato di entrambi i Paesi. Non sfugge che il quadro libico, caratterizzato da un crollo delle partenze migratorie, si fonde con il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale del Paese (che porti ad elezioni) e con il dossier energetico che vede l’Eni protagonista.

Dichiarazioni di intenti

Ricerca, università, sanità e sport sono le quattro macro aree protagoniste delle dichiarazioni di Intenti siglate in Libia, in occasione del viaggio del premier accompagnata da tre ministri del governo: Andrea Abodi (Sport), Orazio Schillaci (Salute), Anna Maria Bernini (Università e ricerca). Alla voce università si segnala la nascita di una cooperazione bilaterale tra istituzioni della formazione superiore dei due Paesi, per approfondire i principali programmi multilaterali, come ad esempio Erasmus+. In questo senso verranno facilitati gli scambi tra studenti, professori, ricercatori e personale tecnico amministrativo, ma anche i dottorati in co-tutela, e i corsi di studio finalizzati al rilascio di titoli congiunti o doppi.

Circa la ricerca scientifica la partnership sarà ad ampio spettro, abbracciando settori significativi come energie rinnovabili, mari e oceani, economia blu, sostenibile e produttiva, con particolare attinenza ai settori delle risorse ittiche e degli ecosistemi marini. Grande attenzione all’agri-food e alle biotecnologie nell’ambito dei cambiamenti climatici: tutte iniziative che saranno supportate da workshop e meeting di carattere scientifico.

Altro capitolo rilevante è dedicato alla salute, con una comune collaborazione tecnico-scientifica che permetta di favorire l’accesso alle terapie in ospedali italiani a cittadini libici, soprattutto in età pediatrica, ai quali non risulti possibile assicurare trattamenti adeguati in Libia. Anche lo spot rientra in questa formula di partenariato strutturato, con la riqualificazione delle infrastrutture sportive nelle comunità libiche e la costruzione di programmi di volontariato e servizio per promuovere l’inclusione sociale giovanile.

Italia punta di lancia dell’Ue

L’Italia è la punta di lancia dell’Ue in Africa, dice a Formiche.net Gabriele Checchia,già ambasciatore italiano in Libano, presso la Nato e presso le Organizzazioni Internazionali Ocse, Esa, Aie secondo cui questa visita strutturata del premier a Tripoli con tre ministri racconta di una narrativa più ampia. “In primo luogo è il ritrovato peso dell’Italia nello scacchiere mediterraneo, con iniziative di alta visibilità e ripetute missioni in Paesi per noi partner strategici, penso ad Algeria, Egitto, Tunisia, Angola, Libia, Libano e Marocco. È un dato geopolitico rilevante che con l’attuale governo abbiamo ritrovato, ovviamente costruendo anche sulle basi poste da precedenti esecutivi a cominciare dall’esecutivo Draghi. Non si è costruito tutto questo dal nulla, ma c’è stato decisamente un cambio di passo che ci pone come attore primario nello scacchiere mediterraneo, cosa che per alcuni anni non siamo stati, lasciando l’iniziativa piuttosto a Paesi amici come la Francia”.

Una tela più ampia

Il secondo elemento per il diplomatico italiano va ritrovato nella serietà con cui il Governo, a cominciare dal Presidente del Consiglio, sta affrontando la messa in atto del Piano Mattei, perché sono tutti tasselli di una tela più ampia della quale il piano costituisce, se vogliamo, la cornice complessiva. “Governo e premier si stanno muovendo sul piano multilaterale a mio avviso in maniera impeccabile. Cito a riguardo la Conferenza su sviluppo e migrazione tenutasi a Roma lo scorso luglio, con il lancio del processo di Roma per approfondire le radici e le ragioni di fondo dei fenomeni migratori dall’Africa subsahariana. E ancora con la Conferenza Italia-Africa dello scorso gennaio che ha costituito un grande successo: eventi che hanno anche portato ad accreditare un’Italia che si configura come riferimento di una strategia veramente europea”.

Il riferimento è al Team Europe quando la presidente del Consiglio Meloni, con la presidente della Commissione von der Leyen e il presidente del Consiglio Michel sono stati in visita in Paesi chiave come l’Egitto.

La prospettiva del Piano Mattei 

Uno dei motivi di fondo che ha portato al concepimento del Piano Mattei, secondo l’ambasciatore Checchia, è anche contenere le pressioni migratorie che giungono proprio dal Sahel, “un Sahel nel quale purtroppo al ritiro progressivo delle forze francesi non fa ancora riscontro una stabilizzazione politica”. I ripetuti colpi di Stato, che non depongono certo a favore della stabilità, necessitano di una risposta corale e quindi, con il Piano Mattei “noi dovremmo creare le condizioni di sviluppo nell’Africa, nel Nord Africa ma anche nei Paesi del Sahel che poco a poco consentano alle popolazioni di quell’area di avere, non solo come ha sottolineato la presidente Meloni, il diritto a emigrare che nessuno può contestare, ma anche il diritto a non emigrare, cioè restare e farsi una vita nei Paesi di origine”.

Il Sahel presenta una specificità particolare, è ancora covo di focolai jihadisti, come dimostrano i massacri di popolazioni da parte di gruppi armati che si ispirano a un islamismo militante. Ma è chiaro che Nord Africa, Libia, Tunisia, Egitto rappresentano dei punti di passaggio privilegiati verso l’Europa, aggiunge. “Quindi vedo il Piano Mattei come tassello di una più ampia strategia europea volta a contenere l’immigrazione illegale. Inoltre fa piacere constatare leggendo i nostri quotidiani che tra il maggio 2023 e il maggio 2024 c’è stato un calo consistente di afflussi dal Nord Africa: siamo passati da 40.000 a poco più di 17.000. Questo è un risultato che il governo Meloni può legittimamente portare a suo credito”.

Elezioni in Libia?

Infine, il contributo italiano alla normalizzazione istituzionale della Libia, che porti a elezioni libere e democratiche. In questo senso il ruolo di Roma quale può essere, oltre a quello di mettere insieme le esigenze di tutte le aree del Paese? “Certamente può essere quello di far arrivare ai nostri interlocutori libici la voce di un Paese autorevole e fondatore dell’Unione europea, membro importante dell’Alleanza atlantica, amico da sempre dei Paesi dell’area nordafricana che non ha agende nascoste, quindi che non persegue secondi fini o fini non dichiarati, ma è sinceramente e semplicemente interessato al benessere di quelle popolazioni, oltre che alla tutela degli interessi nazionali, per esempio in campo energetico”.

E aggiunge: “È chiaro che la visita di Meloni si colloca in un momento delicatissimo a poche settimane dalle dimissioni dell’inviato Onu per la Libia che ha gettato la spugna non essendo riuscito ad avere avallate, credo soprattutto da parte del generale Haftar, le sue proposte di modifica della legge costituzionale e delle leggi elettorali, né il progetto di nuova Costituzione. Siamo ancora purtroppo tornati al punto di partenza ma il premier si farà interprete di questo pressante appello europeo perché finalmente si superi lo stallo politico in Libia e si riesca a ritrovare quel percorso verso assetti istituzionali davvero unitari sulla base di una legge elettorale trasparente che porti a un Parlamento credibile e ad una elezione credibile del prossimo Presidente della Repubblica”.

Da Capri all’Unione Africana

Due i richiami conclusivi che secondo l’ambasciatore Checchia non possono mancare: ovvero il G7 a Capri che, alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha visto il tema del Piano Mattei rappresentare la principale novità programmatica dinanzi ai ministri intervenuti “e l’ulteriore successo della premier nel quadro della sua strategia nord-africana, rappresentato dal decisivo contributo fornito alla concretizzazione della proposta emersa al vertice G20 di Delhi dello scorso anno di avere l’Unione Africana ormai come membro a pieno titolo del G20, due passaggi che ritengo fondamentali per completare il quadro analitico”, conclude.

Meloni e Michel lavorano all’agenda strategica dell’Ue. Ecco come

Di Francesco De Palo

Il presidente del Consiglio europeo riconosce al governo italiano il ruolo di partner nelle delicate trattative con Paesi extra Ue: sul tavolo non solo la sfida del nuovo patto di migrazione e asilo, ma anche il Mediterraneo e il fronte sud

11/04/2024

“Con Giorgia Meloni e con l’Italia stiamo lavorando sodo per stringere rapporti con i Paesi terzi extra Ue per essere preparati anche nel campo della migrazione”. Questo uno dei passaggi più salienti della visita a palazzo Chigi del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, in vista del Consiglio europeo della prossima settimana a Bruxelles. Un’occasione sia per fare il punto sui dossier maggiormente urgenti sul tavolo europeo (Kyiv su tutti), sia per chiudere idealmente il cerchio del suo mandato alla luce delle proiezioni future, come Intelligenza artificiale, cooperazione allargata, Mediterraneo e fronte sud.

Ucraina a difesa Ue

Primo punto discusso, le decisioni dell’ultimo Consiglio europeo che ha avallato l’invio di più fondi e investimenti all’Ucraina, conseguenza di una decisione unitaria che mette al centro il costante supporto a Kyiv in un’ottica di allargamento. Michel sottolinea ancora una volta che l’Ue è determinata a sostenere l’Ucraina “più che possiamo, stanno combattendo per la loro terra, per la libertà, per il futuro e per i nostri valori democratici”.

Si dice certo che oggi l’Ue è diversa, più unita e più forte di prima, si tratta di “un effetto collaterale della guerra lanciata dalla Russia, un altro effetto è che la Nato è diventata più grande perché abbiamo preso decisioni”. Ed ecco il secondo punto, che si intreccia sia con l’Ucraina, perché mosso proprio dall’evoluzione del fronte bellico, sia con i progetti futuri legati alla difesa comune e al commissario europeo ad hoc. “Abbiamo compiuto enormi progressi nel settore della cooperazione nella difesa – aggiunge – . Si tratta di una cosa inedita e faremo di più anche in termini di investimenti: la Bei ad esempio, sta diventando uno strumento molto potente per facilitare più investimenti e più cooperazione del settore della difesa”.

Unità e futuro

Per Michel la chiave di volta per ragionare della nuova Ue si chiama unità, e il caso ucraino lo dimostra ampiamente. “Stiamo difendendo la nostra stessa sicurezza dando il nostro sostegno all’Ucraina e fornendo equipaggiamento militare. La Russia ha deciso di mettere il mondo a rischio, è in palese violazione del diritto internazionale e un’unica posizione è possibile: sostenere l’Ucraina più che possiamo ed è quello che stiamo facendo con il sostegno dei 27″.

Ulteriore dimostrazione di questa posizione è nei grandi progressi compiuti dagli Stati membri in uno spazio di tempo limitato in termini di munizioni ed equipaggiamento militare. Le politiche di aiuto all’Ucraina infatti rappresentano una primizia assoluta per l’Ue, dal momento che per la prima volta nella storia continentale “abbiamo deciso di fornire equipaggiamento militare, una decisione che abbiamo preso in pochi giorni dopo l’invasione”.

Qui Chigi

Secondo Meloni tra le future priorità d’azione dell’Unione Europea c’è il rafforzamento della competitività e della resilienza economica europea, la gestione comune del fenomeno migratorio, la collaborazione in ambito sicurezza e difesa nonché la politica di allargamento. Il Presidente Meloni ha inoltre sottolineato, quale precondizione per raggiungere questi obiettivi, la necessità di assicurare risorse comuni adeguate a sostegno dei relativi investimenti.

Una nota: Al “Grazie presidente Meloni!” Aggiungiamo una nota: Si sta conducendo l’Unione a rivestire il ruolo che “ci” spetta in ambito internazionale. Marciamo verso la sovranità? L’evoluzione dell’Ue verso uno Stato sovrano, membro attivo dello Nato, è possibile con l’impegno, anzitutto, dei suoi fondatori e chiama prodromicamente alla collaborazione in ambito sicurezza e difesa. La politica di allargamento ulteriore dell’Ue, per esempio, nei Balcani, presuppone ed ha per condizione necessaria l’avvenuta realizzazione della sovranità europea. Stiamo combattendo in questa presidenza italiana del G7, come a Sparta: “Con lo scudo o sullo scudo!” Questo Stato sovrano: l’Europa, rafforzerà la Nato quale soggetto euroatlantico, con due gambe e faciliterà una politica per l’area mediterranea, allargata, ispirata alla solidarietà attiva che distingue il Piano Mattei. ndr

Tra le risorse competitive dell’Unione su cui investire, il Presidente Meloni ha indicato il settore agricolo auspicando allo stesso tempo una rapida attuazione della revisione della Politica Agricola Comune e delle misure volte ad alleviare la pressione finanziaria sugli agricoltori concordate al Consiglio Europeo di marzo. Sono state inoltre discusse le ulteriori iniziative che l’Unione Europea potrà intraprendere a sostegno della stabilità del Libano, tema che il Consiglio Europeo della prossima settima affronterà su richiesta italiana.

Le nuove sfide

Tra le nuove sfide senza dubbio c’è la competitività, definita da Michel un capitolo importante della nostra agenda, ovvero il capital market unit, più investimenti in Ue: “Dobbiamo affrontare il cambiamento climatico e la rivoluzione digitale per sviluppare opportunità economiche. Ovviamente abbiamo parlato di temi internazionali che saranno in agenda, come la migrazione”. Ieri infatti il Parlamento europeo ha approvato il patto sui migranti (“Un passo avanti per essere in controllo della situazione”) e l’obiettivo per Michel è rafforzare i partenariati con i paesi terzi, “anche attraverso opportunità di migrazione legale”.

Sul punto va segnalata la visita che Giorgia Meloni effettuerà in Tunisia in chiave fronte sud la prossima settimana assieme alla ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini e al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per una missione legata al Piano Mattei. Verrà siglato un memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione accademica e scientifica tra i due Paesi, favorire lo scambio di know how tra le istituzioni e gli enti di ricerca, promuovere l’insegnamento di lingue e culture di entrambi i Paesi. La premier è attesa a Cartagine mercoledì 17 aprile.

6215.- Il Niger è la chiave di volta del Sahel

Vi rimando al n° 6127, che titolava: “Il Niger “caccia” la UE, disfatta europea nel Sahel.”

É preoccupante assistere all’incapacità dell’Unione di reggere il confronto con la Federazione Russa in Africa e lo è perché non c’è futuro per l’Europa senza l’Africa e non c’è per l’Africa senza l’Europa. Vedemmo bene il Vertice Italia-Africa, a Roma, tenuto da Giorgia Meloni e la nutrita partecipazione dei numeri uno africani. Il Vertice ha ribadito la centralità e la rilevanza che l’Italia attribuisce al rapporto con le Nazioni africane, ma non è da meno quella che gli attribuisce la Federazione Russa. Osserviamo che, con l’attuale Ue e con il conflitto creatosi, non casualmente, con Mosca, la strada per il Nuovo Piano Mattei sarà in salita. Per nostra scelta o no, da 108 anni, stiamo sempre con l’alleato o contro il nemico sbagliato; ma, da soli, dove andiamo?

L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa avrà soddisfatto gli interessi americani, ma non i nostri. Prima, abbiamo visto sventolare le bandiere russe nel Niger, ora vediamo i soldati russi acquartierati accanto agli americani, appena sfrattati e in attesa di decisioni. Gli italiani, per ora, restano in Niger a ristrutturare la moschea. Mali, Burkina Faso e Niger hanno dato vita alla ”Alleanza degli Stati del Sahel”, la NATO africana e il paragone è azzeccato.

Fino a che le basi USA e italiana in Niger resteranno, sarà importante chiarire i nostri obiettivi nel Sahel. La politica del Governo italiano della solidarietà attiva nel Magreb, nel Sahel e in Libia dovrà confrontarsi con le ambizioni di Mosca e con quelle di Ankara. Certamente, sapremo come, se saremo sostenuti. 

Due articoli tratti da Europatoday

Perché l’Europa teme l’espansione dell’influenza russa nel Sahel

Bruxelles cerca una nuova strategia dopo il golpe in Niger. Il gruppo Wagner dovrebbe restare operativo nell’area nonostante la morte di Prigozhin

Sostenitori dei soldati ammutinati tengono una bandiera russa mentre manifestano a Niamey, in Niger. Foto Sam Mednick / Associated Press/LaPresse

Un’Europa colta nuovamente di sorpresa, nonostante la presenza diplomatica e di intelligence nell’area del Sahel. È quanto sarebbe emerso dai documenti preparativi diffusi in vista del prossimo vertice dei ministri della Difesa degli Stati membri dell’Unione europea. Dopo l’aggressione dell’Ucraina, anche il colpo di Stato in Niger avvenuto a fine luglio ha trovato impreparati i Paesi europei. Il vasto Stato africano veniva considerato un partner fondamentale dell’Ue, soprattutto in materia di gestione dei migranti ed esternalizzazione delle frontiere. L’arresto del presidente Mohamed Bazoum e l’ascesa al potere della giunta militare non mette in crisi solamente i rapporti con il Paese nel cuore del Sahel, ma starebbe spingendo a ripensare più in generale il ruolo della diplomazia europea. Di fronte all’espansione dell’influenza di Russia e Cina nella regione, Bruxelles non intende però arretrare ulteriormente. Al contempo però l’idea dell’uso della forza, che la Francia gradirebbe, non risulta essere l’opzione più gettonata in un contesto già fortemente critico nei confronti della presenza europea e dove le bandiere russe vengono sventolate in strada dalla popolazione.

Dalla visita di Borrel al golpe

Un colpo di stato che “ha sorpreso inizialmente molti osservatori”. Questa la dichiarazione contenuta in una nota interna preparata dal servizio diplomatico dell’Ue e svelata dal portale Euractiv. A sorprendere, in particolare, la circostanza che “il Niger si trovava su una traiettoria politica, economica e sociale relativamente lineare, nonostante la significativa pressione sulla sicurezza su tutti i suoi confini”, si legge nella nota interna distribuita ai Paesi membri in vista delle riunioni informali dei ministri della Difesa che si terranno in Spagna. Non a caso proprio ad inizio luglio il capo della diplomazia europea Josep Borrell si era recato in Niger, definendo il Paese come un partner essenziale dell’Ue nella regione del Sahel, quella vasta area semiarida che tocca in vari punti il deserto del Sahara.

Ambasciatore espulso

Solo poche settimane dopo quello stesso Paese è diventato il teatro di un colpo di Stato, aggiungendosi alla lista dei Paesi guidati da giunte militari, insieme al Burkina Faso e al Mali. Furiosa la Francia, il cui ambasciatore è stato “invitato” dai militare al potere a lasciare il Paese. “La decisione dei golpisti di espellere l’ambasciatore francese è una nuova provocazione che non può in alcun modo aiutare a trovare una soluzione diplomatica alla crisi attuale”, ha dichiarato in conferenza stampa Nabila Massrali, la portavoce dell’Ue per gli affari esteri. L’alta funzionaria ha aggiunto che il blocco “non riconosce” le autorità che hanno preso il potere in Niger. Sostegno unanime da parte dei diplomatici europei all’omologo transalpino, ma al tempo stesso scarsa coesione sui prossimi passi da adottare. Secondo gli esperti, nonostante le pressioni di Parigi, il coinvolgimento dell’Ue rimarrà probabilmente limitato al sostegno politico alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), a sua volta diviso sul come affrontare la questione. L’intervento militare figura solo come una minaccia, ma senza il sostegno dell’Unione africana all’uso della forza difficile si muoveranno i cingolati. C’è chi, come il Togo, ha già avviato colloqui col nuovo potere in Niger. Borrell, prevede la nota diffusa tra i ministri, dovrebbe chiedere agli Stati membri e a Bruxelles di “adattare il suo approccio al Niger” e, a seconda di come si evolve la situazione, valutare “quale posizione l’Ue sarebbe disposta a prendere in considerazione in termini di aiuti allo sviluppo, sicurezza migratoria e gestione delle frontiere”.

L’ombra di Wagner

Restare nella regione del Sahel resta prioritario per proseguire nel piano di esternalizzare le frontiere e affidare ai Paesi africani, come Libia e Tunisia, la gestione dei migranti. Una presenza, quella europea, che deve fare fronte però a relazioni sempre meno solide, ad una fiducia deteriorata da parte delle popolazioni e a governi militari inaffidabili. Nonostante risulti ormai accertata la morte di Evgenij Prigožin, gli Stati Uniti sostengono che le attività del gruppo mercenario russo Wagner non si fermeranno. Rapporti della Associated Press e di France 24 sostengono che uno dei leader del colpo di stato, il generale Salifou Mody, abbia visitato il Mali poco dopo il golpe e avrebbe preso contatto con esponenti della Wagner per chiedere il loro supporto. Sebbene manchino le prove di una presenza dei militari del gruppo in Niger, nulla esclude che possano affacciarsi su questo fronte per garantire un supporto militare e strategico, come stanno continuando a fare in Mali e in Repubblica Centrafricana. Secondo il ministro degli Esteri Sergej Lavrov i contratti della Wagner in Africa dipendono interamente dagli Stati africani, anche se il gruppo di mercenari risulta “interamente finanziato” dalla Russia come ammesso dallo stesso Putin. I cori ostili alla Francia e la presenza di bandiere russe sventolate durante le manifestazione dai sostenitori dei golpisti di Niamey è l’indice però che la propaganda di Mosca non si limita esclusivamente ad un supporto militare ma intende attrarre gli africani della regione in un nuovo ordine anti-europeista.

La base militare che ospita i soldati di Usa e Russia

Le forze di Mosca sono sbarcate in Niger e hanno occupato un edificio al fianco di quello dove si trovano le truppe statunitensi. Le quali potrebbero presto lasciare il Paese

La base 101 a Niamey 

Uno è il Paese che ha invaso l’Ucraina. L’altro è quello che più sta sostenendo l’esercito di Kiev. Ma il fronte orientale europeo non è l’unico palcoscenico internazionale in cui Russia e Stati Uniti si stanno affrontando a distanza. C’è, per esempio, il Niger, Stato africano chiave per la stabilità di un’intera regione, il Sahel. Ed è proprio qui, vicino l’aeroporto della capitale Niamey, che le truppe americane e quelle russe si sono ritrovate a condividere la stessa base aerea. Un caso che fotografa la situazione del Paese, in rotta di collisione con l’Occidente e sempre più propenso a rafforzare i legali con Mosca.

In Niger, nel luglio dello scorso anno, un colpo di stato guidato dai vertici della guardia presidenziale ha rovesciato il presidente eletto Mohamed Bazoum, alleato di Washington e dei Paesi europei. La nuova giunta militare ha subito preso di mira i contingenti occidentali, a partire da quello francese (il Niger è un’ex colonia di Parigi) e ha messo in discussione l’accordo di cooperazione militare in vigore con gli Stati Uniti, ritenendo che fosse stato “imposto unilateralmente” da Washington e che la presenza americana fosse ormai “illegale”. A metà aprile gli Stati Uniti hanno accettato di ritirare gli oltre mille soldati dal Paese, ma le modalità del ritiro sono ancora oggetti di trattativa.

Per il momento, un contingente dell’aeronautica statunitense è rimasto a presidio dell’area e delle attrezzature militari, come la base di droni vicino ad Agadez, costruita per circa 100 milioni di dollari. I militari Usa occupano una base vicino l’aeroporto di Niamey, la base aerea 101. Ed è qui che nei giorni scorsi sono arrivate le forze russe. A rivelarlo è stato il segretario alla Difesa Lloyd Austin, secondo cui le truppe di Mosca non pongono un “problema significativo (…) in termini di protezione delle nostre forze”. I russi, ha spiegato Austin, “si trovano in un edificio separato e non hanno accesso alle forze statunitensi o alle nostre attrezzature”. Interrogato in una conferenza stampa a Mosca, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov non ha né confermato né smentito la presenza russa nella base, indicando semplicemente che Mosca sta sviluppando le sue relazioni con i Paesi africani in tutti i settori, compreso quello militare.

Il Niger, infatti, è solo l’ultimo di una serie di Paesi del Sahel, come Mali e Burkina Faso, che si stanno allontanando dall’Occidente per avvicinarsi alla Russia e alla Cina. Negli ultimi giorni le truppe Usa hanno lasciato anche il Ciad. Tolta la Mauritania, il resto del Sahel è sempre più lontano da Stati Uniti e Ue. Una regione strategica sotto vari profili, cinghia di trasmissione tra l’Africa subsahariana e il Nord mediterraneo, anche delle rotte dei migranti. Per questo, l’Italia ha da tempo mosso le sue pedine diplomatiche nell’area, Niger compreso. Per il momento, Roma mantiene il suo contingente a Niamey. E spera di potere continuare a farlo.

6214.- 10 anni di NATO in Ucraina. Il declino della politica e della potenza USA nel mondo e l’inutilità dell’Ue in politica estera per noi.

Non è lui il capo!

L’Orso russo è meglio averlo per amico e le strategie per dominarlo avrebbero dovuto evitare il confronto militare. Stando alla situazione presente, chi detta gli indirizzi al polo angloamericano dovrà contentarsi di controllare i Paesi europei, ma avrebbe dovuto e farebbe sempre bene a evitare che la Federazione Russa sia schierata a fianco della Cina. Vieppiù oggi che gli Stati Uniti sembrano concentrarsi sul confronto con la Cina, anche se il viaggio di Blinken a Pechino, le minacce verso la collaborazione con la Federazione Russa e il loro fiasco confessano le preoccupazioni del Pentagono di fronte a un asse Mosca – Pechino. Non è tutto qui il futuro della geopolitica che apprezziamo.

Stiamo assistendo all’ingresso della Wagner nella, ancora per poco, base americana 201 di Niamey, nel Niger, con i russi, addirittura, nel palazzo a fianco del comando USA e ci vediamo, noi bravi italiani, con il nostro sacrosanto, ambizioso Piano Mattei, unico Paese occidentale a tenere un presidio gradito agli africani nel Sahel. L’Italia è consapevole di non essere una grande potenza e si deve domandare quanto una Unione europea sgradita agli africani, senza un’anima e senza una sovranità, potrà sostenere la politica di cooperazione e di solidarietà attiva di questo governo, confrontandosi e in competizione con i russi.

L’aver rotto i rapporti degli Stati europei con la Federazione Russa sarà sembrata una necessità per la Casa Bianca e avrà soddisfatto gli interessi di chi controlla il popolo americano, ma non i nostri e siamo del parere che Washington sta spendendo male le possibilità dell’Occidente. 

Dal punto di vista della politica, la realizzazione da parte della Casa Bianca, in segreto, di questa disgraziata guerra in Ucraina, con quasi un milione di morti, creata, dalla Victoria Jane Nuland insieme alla NATO, scatenata, infine, da Putin, fino al sabotaggio dei gasdotti North Stream, promesso e attuato da … e, infine la cessione degli USA a Kiev di 100 missili Atacms, americani, con una gittata di 300 km, una dichiarazione di guerra! – come tale, da sottoporre all’approvazione del Parlamento europeo -, ha confermato che ogni alleanza fra una grande potenza e un Paese di secondaria importanza, come sono, appunto, i nostri europei, si traduce in un dominio da parte della potenza. Ragione non ultima sia della necessità di giungere a uno Stato sovrano europeo, con una sua politica estera e un suo esercito sia del pericolo rappresentato dalla proposta di Giulio Tremonti, membro rappresentativo dell’Aspen, di allargare ulteriormente, a tutti i Paesi balcanici (quindi, anche la Turchia) l’Unione.

Dal punto di vista della finanza e dell’economia, aver privato i Paesi europei della risorsa energetica russa, a buon mercato e avergli venduto quella americana a un prezzo quattro volte maggiore, ha certamente risollevato le finanze USA, ma ha indebolito l’Unione e l’Occidente nel suo complesso. É noto che le sanzioni elevate alla Federazione Russa hanno nuociuto e nuocciono ai Paesi europei più che a Mosca, mentre lo sforzo bellico della Nato a favore dell’Ucraina si tradurrà o si sta già traducendo in un fallimento. Ben potrebbe essere vera la contrarietà della grande regina Elisabetta II alla guerra, e ci fermiamo qui.

Dal punto di vista strategico, siamo impegnati militarmente, di fatto, in:

Un conflitto europeo e in Mar Nero, un’altro in Medio Oriente, tra Mediterraneo Orientale e Mar Rosso e, dal Sahel al Corno d’Africa, Osservando l’evolversi del confronto fra Occidente, da una parte e Russia e Cina, dall’altra, preoccupa una strategia che prevede l’interconnessione fra l’Indo-Pacifico e il Mediterraneo Allargato. ma non sembra fare i conti con la vulnerabilità del Canale di Suez. In questo azzardato contesto, l’Us Navy ha appena ritirato dal Mediterraneo il Gruppo d’Attacco della super portaerei nucleare USS Gerald R. Ford (CVN-78), che imbarca il potente Carrier Air Wing 8 con 100 aeroplani combat ready, lasciando il testimone alle portaerei europee nel ruolo di bersagli: La bellissima mezza portaerei italiana ITS Cavour (CVH550) che, a marzo disponeva di appena 3 piloti qualificati Limited Combat Ready per l’F-35B STOVL, e, forse, oggi ne schiera 5, e alla anziana portaerei nucleare francese Charles de Gaulle (R91: due manciate di caccia di 4a generazione Rafale-M, circa 30) i cui sistemi di combattimento, in particolare contro missili antinave e droni, dovranno attendere il 2027 per essere adeguati alle odierne minacce.

La conclusione di questo rapido excursus è che ci avviciniamo alle elezioni europee, ma speriamo – chissà perché – in Donald Trump.

Mario Donnini

Il Regno Unito afferma che è pericoloso inviare truppe Nato in Ucraina

Sembra che lo sforzo di Londra di solleticare le aspirazioni espansionistiche dei polacchi e spingerli in guerra si sia esaurito davanti all’avanzata dei russi in Donbass. Vedremo cosa accadrà il 19 maggio, 60º anniversario del Giorno della Vittoria sul nazismo.

difesacivicaitalia

MAGGIO 4, 2024  

Gli stivali da combattimento occidentali sul terreno porterebbero a un’ulteriore escalation, ha affermato il ministro degli Esteri Davis Cameron.

Inviare soldati della NATO a combattere l’esercito russo in Ucraina sarebbe troppo pericoloso, ha detto venerdì il ministro degli Esteri britannico David Cameron. Ha espresso i suoi commenti mentre i leader europei hanno riacceso il dibattito sull’opportunità che l’alleanza guidata dagli Stati Uniti debba prendere in considerazione un coinvolgimento più diretto nel conflitto. 

Venerdì, parlando a Sky News, Cameron ha affermato che il Regno Unito deve continuare a fornire armi a Kiev e concentrarsi sulla ricostituzione delle proprie scorte. “come priorità nazionale”.

“Ma non vorrei avere soldati della NATO nel paese perché penso che potrebbe essere una pericolosa escalation”, ha aggiunto il primo ministro. “Abbiamo addestrato – credo – quasi 60.000 soldati ucraini”.

La dichiarazione del ministro degli Esteri è arrivata dopo che il presidente francese Emmanauel Macron ha rifiutato ancora una volta di escludere un potenziale dispiegamento di soldati della NATO in Ucraina. “Non dobbiamo escludere nulla perché il nostro obiettivo è che la Russia non possa mai vincere in Ucraina”, ha detto all’Economist in un’intervista pubblicata questa settimana. Macron ha sostenuto che potrebbe sorgere la questione delle forze NATO sul terreno “Se i russi riuscissero a sfondare la prima linea” e se Kiev chiedesse aiuto. 

Altri funzionari europei di alto rango hanno ventilato l’idea dello spiegamento di truppe, e alcuni suggeriscono che la NATO potrebbe inviare squadre di sminamento e altro personale non combattente. “La presenza delle forze NATO in Ucraina non è impensabile”, Lo ha detto ai giornalisti il ​​ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski a marzo.

Tuttavia, alcuni paesi della NATO, tra cui Ungheria e Slovacchia, si sono espressi fermamente contro un’ulteriore escalation. “Se un membro della NATO impegna truppe di terra, sarà uno scontro diretto NATO-Russia e sarà quindi la terza guerra mondiale”, ha detto giovedì il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto all’emittente francese LCI.

Mosca ha più volte avvertito che sarebbe costretta ad attaccare le truppe occidentali se prendessero parte al conflitto. Lo ha scritto venerdì su Telegram la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova “non resterà nulla” delle forze NATO se inviate in prima linea in Ucraina.

Kiev ha lanciato l’allarme sui ritardi negli aiuti militari occidentali negli ultimi mesi, accusando la carenza di munizioni per le perdite sul campo di battaglia. In un’intervista pubblicata giovedì su The Economist, Vadim Skibitsky, vice capo dell’agenzia di intelligence militare ucraina GUR, ha affermato che le difese dell’Ucraina potrebbero crollare anche con i pacchetti di aiuti aggiuntivi recentemente approvati da Stati Uniti e Regno Unito.

6203.- Tutti via dal Niger, l’Italia resta a rifare la moschea

Il Piano Mattei ha seminato.

L’unica rappresentanza occidentale rimasta dopo il golpe è quella italiana. Difficile condividere l’orgoglio dei nostri militari per il rifacimento del luogo di culto islamico della capitale, già teatro di attacchi anticristiani.

La Nuova Bussola Quotidiana, 16_04_2024UFFICIO IMAGOECONOMICA

L’11 aprile il generale Francesco Paolo Figliuolo, durante la sua audizione alle Commissioni affari esteri e difesa di Camera e Senato, ha annunciato che la missione bilaterale italiana di supporto in Niger, Misin, continuerà perchè è di primaria importanza consolidare la presenza italiana nel Paese. A tal fine nei prossimi mesi il personale potrebbe essere raddoppiato e superare le 500 unità (attualmente sono circa 250). Inoltre è prevista la dotazione di altri cinque elicotteri e aerei che si aggiungeranno a quelli già in uso e ai mezzi di terra di cui la missione dispone.

La Misin è iniziata nel 2018 per aiutare a rafforzare il controllo dei territorio, oltre che in Niger, in Mali, Mauritania, Chad e Burkina Faso e per svolgere attività di formazione, addestramento, consulenza e assistenza delle istituzioni governative nigerine. Da allora gli istruttori italiani hanno svolto 381 corsi di formazione ai quali hanno partecipato 9.235 militari nigerini e sono state organizzate diverse attività destinate alla popolazione: donazione di materiale informatico, di attrezzature sanitarie e farmaci, formazione di personale paramedico, donazione di materiale didattico e tecnico per le scuole, contributi alla bonifica di aree a rischio malaria, donazione di attrezzature sportive destinate ai giovani.

Ma il 26 luglio 2023 i militari hanno destituito il presidente Mohamed Bozoum e hanno preso il potere. Nei mesi successivi hanno progressivamente reciso i rapporti con i Paesi europei, con gli Stati Uniti, presenti nel Paese con due basi militari, e con l’Ecowas, la Comunità economica dei Paesi dell’Africa occidentale. Hanno detto di voler d’ora in poi evitare ogni forma di dipendenza dall’Occidente, di voler fare da soli, in collaborazione con gli altri due stati vicini governati dai militari, Mali e Burkina Faso, anch’essi usciti dall’Ecowas che peraltro li aveva già sospesi in seguito ai golpe. Con la Francia – ex madrepatria – hanno interrotto anche i rapporti diplomatici. Entro la fine del 2023 tutti i Paesi europei hanno ritirato le loro truppe e gli Stati Uniti hanno ricevuto ordine di fare altrettanto.

Il Niger è un Paese di importanza strategica. È attraversato da una delle rotte più usate dalle reti criminali che organizzano i viaggi degli emigranti illegali ed è sede di uno dei maggiori hub, la città di Agadez, in cui gli emigranti si concentrano in attesa di provare a entrare in Libia e Algeria, attraversare il deserto del Sahara e raggiungere le coste meridionali del Mediterraneo. Accordi raggiunti con l’Unione Europea avevano ridotto i flussi illegali. Invece a fine 2023 la giunta militare ha abrogato la legge che perseguiva i trafficanti e subito le loro attività sono riprese. In Niger inoltre, nel 2022, la Francia e gli alleati europei avevano trasferito, su invito del presidente Bozoum, la base delle loro operazioni contro i gruppi jihadisti attivi nel Sahel, soprattutto in Mali, Burkina Faso e Niger, che per oltre 10 anni era stata nel vicino Mali, Paese divenuto sempre più inaffidabile da quando nel 2021 i militari hanno compiuto il secondo colpo di Stato.

Adesso quella italiana è l’unica rappresentanza occidentale rimasta, i pochi soldati Usa della base 201 potrebbero lasciare il Niger a giorni. Di qui deriverebbe l’importanza di rafforzare la Misin, d’accordo con gli alleati occidentali, per non lasciare «spazi di manovra all’allargamento della presenza di altri attori nella regione», ha spiegato il generale Figliuolo. «L’Italia è l’interlocutore privilegiato del Paese», ha assicurato. Mai quanto la Russia, però, come dimostrano gli ottimi rapporti stabiliti dalla giunta militare con Mosca, tradottisi nella promessa di aiuti militari, promessa che si è concretizzata il 12 aprile con l’arrivo di un primo gruppo di paramilitari del Russian Expeditionary Corps, incaricati di assistere e addestrare i soldati nigerini. Con loro è arrivato un cargo pieno di attrezzature militari speciali. La televisione di Stato nigerina ne ha ripreso le operazioni di scarico.

Si vedrà presto, già nei prossimi mesi, se l’Italia avrà fatto bene a rimanere in Niger diventando uno dei pochi Stati che legittimano di fatto la giunta militare. La stessa Unione Africana ha sospeso il Niger, come fa con tutti i Paesi in cui le istituzioni democratiche vengono meno. «Le autorità nigerine hanno dichiarato il prossimo avvio del processo di democratizzazione con un piano di transizione per il ritorno all’ordine costituzionale», ha spiegato il generale Figliuolo che è stato in Niger a marzo. Bisogna crederlo se si vuole restare nelle grazie dei militari, ma è quel che dicono tutti. In Sudan è dal golpe del 2019, in Mali da quello del 2020, in Burkina Faso e in Guinea Conakry dal 2022 che si aspetta l’avvio della transizione democratica promessa. In Mali, non solo, l’11 aprile la giunta militare ha sospeso tutte le attività politiche fino a nuovo ordine. Per ripristinare le istituzioni democratiche in Niger non c’è bisogno di un processo di transizione. Basterebbe che i militari liberassero il presidente Bozoum e gli consentissero di riassumere la sua carica. 

Rende ancora più delicata e insidiosa la solitaria missione italiana il problema di come porsi rispetto alla difficile situazione della minoranza cristiana. Il Niger è a maggioranza musulmana e oltre tutto è infestato da gruppi jihadisti. La classifica 2024 dell’onlus Open Doors dei 50 stati in cui i cristiani sono più duramente perseguitati lo colloca al 27 posto, dopo il Bangladesh e prima della Repubblica Centrafricana. Uno dei momenti peggiori per la piccola comunità cristiana fu quando nel 2015 la popolazione si scatenò contro di loro per reazione alla pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto che costarono la vita ai redattori della rivista Charlie Hebdo. Attorno alla Grande Moschea della capitale Niamey si radunarono per giorni folle inferocite per poi attaccare e saccheggiare bar, alberghi, negozi e case di cristiani. Sette chiese furono saccheggiate e date alle fiamme.   

Davvero non è facile condividere la soddisfazione e l’orgoglio con cui le autorità militari italiane l’11 aprile hanno annunciato il completamento dei lavori di ristrutturazione della Grande Moschea, realizzati grazie al sostegno promesso dal generale Massimo Marceddu allo sceicco Djibril Djermakoye Karanta, imam della Grande Moschea e presidente dell’Associazione islamica del Niger. «Dal 1° al 29 marzo sono stati eseguiti i lavori di rifacimento di alcune parti della moschea, e sono stati donati sistemi di climatizzazione nelle stanze principali del luogo di culto musulmano – ha dichiarato il generale Marceddu – ogni soldato della Misin mette il cuore in quello che fa per questo bel Paese». 

6168.- Perché c’è l’Iran dietro la mossa anti-Usa del Niger

L’Occidente tutto deve sostenere l’Italia nel Piano Mattei. In Niger abbiamo di fronte non solo la Russia ma anche l’Iran. Quanto conta la patria per la giunta golpista di Niamey? Biden ha capito la posta in gioco e tenta di tenere la Base 201. La parola è ai dollari.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 19/03/2024

Il Niger nel mirino dell’Iran. Un accordo sull’uranio che guardi a Teheran è dietro alla rottura dei rapporti tra Washington e Niamey, e questo significa che oltre che dalla Russia (e dalla Cina) l’Africa sta iniziando a essere penetrata con consistenza da un altro attore ostile all’Occidente.

Il Wall Street Journal ha questa notizia: la decisione del Niger di porre fine alla sua alleanza antiterrorismo con Washington è arrivata dopo che alti funzionari statunitensi hanno accusato la giunta golpista del Paese di esplorare segretamente un accordo per consentire all’Iran l’accesso alle sue riserve di uranio. Mentre per ora il Pentagono non ha emesso alcun ordine di ritiro alle truppe, poiché l’amministrazione Biden spererebbe di negoziare ulteriori accordi con i leader della giunta, l’inclusione dell’Iran nella vicenda è un elemento nuovo che aumenta le complessità. Perché in effetti si temeva che alla rottura dell’intesa con gli Usa potesse seguire un accordo con la Russia, ma che Teheran potesse in qualche modo far parte di questo quadro è ancora più problematico dal punto di vista tattico e strategico.

A quanto pare, i colloqui tra le due parti sarebbero progrediti fino a una fase avanzata, con un accordo preliminare già firmato, dicono le fonti al WSJ, anche se non finalizzato. Sarebbe allora stata Molly Phee, assistente segretario di Stato per gli affari africani e a capo della delegazione che ha viaggiato a Niamey nei giorni scorsi, a sollevare preoccupazioni per il presunto patto con Teheran, sottolineando la necessità per il Niger di tornare alla governance democratica ed esprimendo contemporaneamente preoccupazioni per il rafforzamento dei legami con la Russia. In risposta, Phee avrebbe ricevuto un respingimento delle accuse e poi l’innesco della miccia che ha portato alla dichiarazione sulla fine della cooperazione — che con ogni probabilità era stata già pensata da tempo, con la giunta che attendeva solo il momento opportuno o l’occasione per comunicarlo.

Il Niger, il settimo produttore di uranio al mondo, esporta la maggior parte del suo uranio in Francia. Il golpe dello scorso luglio ha complicato anche questo commercio. L’ingresso di Teheran potrebbe essere utile per Niamey, dunque, mentre la questione riapre l’enorme faldone del nucleare iraniano, messo in secondo piano da una serie di avvenimenti internazionali più stringenti, ma comunque ancora tra i grandi dossier di livello internazionale — che gli americani hanno comunque continuato a gestire, come raccontano le informazioni sui recenti contatti indiretti avuti nel tentativo di fermare gli Houthi e là destabilizzazione del Mar Rosso.

Come le giunte militari nei vicini Mali e Burkina Faso, il Niger ha già iniziato il rafforzamento dei legami militari con la Russia. Funzionari della difesa russa di alto livello, tra cui Yunus-bek Yevkurov, vice ministro della Difesa e supervisore dell’Africa Corps (la struttura paramilitare collegata all’intelligence che sta prendendo il posto del Wagner Group), hanno visitato il Paese e incontrato il leader della giunta. Il primo ministro della giunta al potere, Ali Mahamane Lamine Zeine, ha inoltre visitato l’Iran a gennaio durante una tour internazionale che prima lo aveva portato in Russia e poi anche in Serbia. Zeine guidava una delegazione composta da mezzo governo (ministri della Difesa, del Petrolio e del gas, dell’Agricoltura, del Commercio, della Gioventù e dello Sport).

Parlando con il presidente Ebrahim Raisi, l’uomo scelto dai militari nigerini per guidare il governo aveva ottenuto il via libera per la costruzione delle relazioni (obiettivo del viaggio), anche attraverso accordi bilaterali che l’iraniano diceva avrebbero aiutato la giunta a schivare gli effetti delle sanzioni; attività su cui Teheran ha un’expertise storica, sfuggendo da anni a parte di quelle connesse all’iniziativa sul nucleare (che per altro, per alimentarsi ha bisogno anche dell’uranio appunto). La Repubblica islamica vende le proprie esperienze a certi Paesi come vettore per costruire relazioni. L’Iran è stato soggetto a pesanti sanzioni occidentali per anni, mentre la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, nota come Ecowas, ha imposto sanzioni al Niger in seguito al colpo di stato. Yunus-bek Yevkurov

L’interesse è reciproco, perché con l’apertura di rapporti anche commerciali con Paesi non raggiungibili dalle sanzioni occidentali, riesce a sua volta a schivarle quelle contro di sé. Le informazioni sul coinvolgimento iraniano sono preoccupanti perché dimostrano sia l’intenzione della Repubblica islamica di allungare le mire fino all’Africa, si la capacità della coppia alleata e ostile all’Occidente – Russia, Iran – di agire in qualche modo a sistema (sebbene non è chiaro quanto ci siano pianificazioni condivise oppure sovrapposizioni anche competitive). Lo scenario di penetrazione di attori velenosi anti-americani e in generale anti-occidentali si sta espandendo. Dopo la diffusione in tutto il Medio Oriente del network di milizie regionali collegate ai Pasdaran, noto come Asse della Resistenza, ora l’Africa è tra i nuovi target iraniani. Un elemento da non sottovalutare per i progetti di cooperazione come il Piano Mattei.

6166.- Dal ripudio della guerra al trasporto di bombe nucleari per conto terzi.

C’era una volta l’art. 11… Vogliono suscitare in noi un moto di orgoglio perché, nei QRA delle solite basi della Guerra Fredda, i nostri F-35 potranno montare d’allarme con appese le bombe nucleari B-61-12 di proprietà americana, evidentemente, per sganciarle sui russi. Ecco, senza fare il filo a Putin, a noi di far la guerra al popolo russo non passa neanche per l’anticamera del cervello. Vorremmo che la guerra nucleare la faceste con il vostro … Meglio e più chiaro ancora, con la vostra incapacità di instaurare una nuova politica occidentale, ci avete rotto gli zibidei.

F-35 Bombe Nucleari
  • Da Startmag.it, di Chiara Rossi, 18 Marzo 2024

Difesa, il caccia F-35A trasporterà anche bombe nucleari

Il caccia multiruolo F-35 prodotto dall’americana Lockheed Martin ha ottenuto la certificazione per il trasporto di bombe nucleari. Nello specifico, la bomba a gravità termonucleare B61-12. Tutti i dettagli.

Che bello!

L’F-35 Lightning II è ora in grado di sferrare attacchi nucleari.

Il caccia di quinta generazione, prodotto dal gruppo aerospaziale statunitense Lockheed Martin, ha ottenuto a ottobre del 2023 la certificazione per il trasporto di bombe nucleari.

È quanto ha dichiarato un portavoce dell’F-35 Joint Program Office (JPO) a Breaking Defense lo scorso 8 marzo. In caso di guerra, gli F-35 dovranno trasportare le bombe atomiche sul bersaglio nel quadro della “condivisione nucleare” della Nato. La designazione segna la prima volta che un caccia stealth può trasportare un’arma nucleare, in questo caso la bomba a gravità termonucleare B61-12.

Tutti i dettagli.

DOPPIA CAPACITÀ PER L’F-35A

In una dichiarazione alla testata americana, il portavoce della JPO Russ Goemaere ha affermato che l’F-35A ha ottenuto la certificazione il 12 ottobre 2023, mesi prima della promessa agli alleati Nato di concludere il processo entro gennaio 2024. Alcuni F-35A saranno ora in grado di trasportare ufficialmente i B61-12, rendendo il caccia stealth un aereo a “doppia capacità” in grado di trasportare sia armi convenzionali che nucleari.

“L’F-35A è il primo velivolo con capacità nucleare di quinta generazione di sempre e la prima nuova piattaforma a raggiungere questo status dall’inizio degli anni ’90″, ha spiegato Goemaere. “L’F-35A ha ottenuto la certificazione nucleare prima del previsto, fornendo agli Stati Uniti e alla Nato una capacità critica che supporta gli impegni di deterrenza estesi degli Stati Uniti prima del previsto.”

LA TIPOLOGIA ARMI NUCLEARI

In particolare, l’F-35 è certificato come vettore di bombe termonucleari B61-12. Secondo un’analisi della Federazione statunitense degli scienziati, circa 100 esemplari del precedente modello B61 sono immagazzinati in Belgio, Germania, Italia (a Ghedi e Aviano), Paesi Bassi e Turchia.

Il B61-12 è un programma di estensione della vita utile che ha avuto origine durante l’amministrazione Obama e sta sostituendo i vecchi modelli -3, -4, -7 e -10. La prima unità di produzione del B61-12 risale al novembre 2021, con la produzione prevista fino alla fine dell’anno fiscale 2025. Si stima che il programma costerà 9,6 miliardi di dollari nell’anno fiscale 22 nel corso della sua durata, sebbene gran parte di tale costo sia già stata spesa, rileva ancora Breaking Defense.

Lo scorso ottobre l’amministrazione Biden ha annunciato che avrebbe sviluppato una nuova variante dell’arma denominata B61-13. Si prevede che il nuovo -13 avrà una resa simile al -7, hanno detto i funzionari, che corrisponderebbe approssimativamente a un’esplosione equivalente a 360 kilotoni, spiega la testata americana.  Tecnicamente, né le B61-12 né le -13 sono “nuove” armi nucleari che aumentano le scorte, poiché prendono le testate delle bombe più vecchie e le collocano in nuovi alloggiamenti.

LA CERTIFICAZIONE NON RIGUARDA LE ALTRE VARIANTI

Infine, non va dimenticato che la certificazione non si estende alle varianti gemelle del jet stealth: ovvero la variante a decollo corto/atterraggio verticale F-35B e la variante per portaerei F-35C. Il jet a decollo e atterraggio convenzionale F-35A è l’unico certificato per trasportare bombe nucleari.

L’aeronautica americana non ha ancora rivelato se qualche altro paese o i suoi F-35A abbiano ricevuto la certificazione per schierare il B61-12. Nell’ottobre 2021 l’Air Force degli Stati Uniti ha concluso i test di volo necessari per garantire che il design della bomba nucleare tattica B61-12 sia compatibile con l’F-35A Lightning II, completando il processo di certificazione. Tuttavia, non tutti gli F-35A saranno dotati di capacità nucleare.

NON TUTTI GLI F-35A SARANNO DOTATI DI CAPACITÀ NUCLEARE

“Non tutti gli aerei diventeranno abilitati al nucleare dopo la certificazione completa”, ha dichiarato in quell’occasione l’Air Force. “Solo le unità con una missione nucleare riceveranno l’hardware e la manodopera necessari per configurare e mantenere gli F-35 con capacità nucleare” sottolineava Ares Difesa. “Ciò potrebbe includere la RAF Lakenheath in Inghilterra e la base aerea di Aviano in Italia”, aveva affermato a Airforcetimes Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project presso la Federazione statunitense degli scienziati.

6163.- Centralità del Mediterraneo, centralità dell’Italia e della Nato con gli occhi alla Turchia

L’Italia è “impegnata per la sicurezza del Mediterraneo, delle rotte del Mar Rosso e dell’Europa”. É il ponte che unisce l’Africa all’Europa. Anche la Turchia, impegnata nella regione Transcaucasica e nel Corno d’Africa, può contribuire alla sicurezza delle rotte che uniscono l’Asia al Mediterraneo. Sta alla Nato di favorire la cooperazione fra Italia e Turchia.

Così MedOr mette l’Italia e la Nato al centro del Mediterraneo

Da Formiche.net, di Lorenzo Piccioli, 14 marzo 2024

Alla kermesse che si è tenuta presso la sede del Centro Alti Studi per la Difesa, le dinamiche securitarie del Mediterraneo allargato vengono affrontate secondo i punti di vista nazionale, europeo e atlantista. Che devono essere integrati per dare una risposta efficace

14/03/2024

Che il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo fosse centrale non vi erano dubbi. Ma nel nuovo contesto di disordine internazionale, qual è il ruolo dell’Italia in un bacino che sta diventando sempre più turbolento, sia come attore statale a sé stante che come membro dell’Europa e della Nato? È questo il tema dell’evento “Italia, Europa, Nato e il Futuro del Mediteranneo” organizzato dalla Fondazione Med-Or e dal Centro Alti Studi della Difesa, la cui sede ha ospitato l’evento che si è svolto il 13 marzo. Ad animare il dibattito, introdotto dal presidente del Casd Amm. Giacinto Ottaviani e moderato dalla giornalista Monica Maggioni, il presidente della Fondazione Med-Or Marco Minniti, il rappresentante permanente della Repubblica Italiana presso la Nato Marco Peronaci, l’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Repubblica Italiana Jack Markell, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone e il ministro della Difesa Guido Crosetto.

E proprio dalla centralità del Mediterraneo e dal suo disordine parte il ragionamento della tavola rotonda. “Si pensava che le grandi partite del pianeta si giocassero in altri mari, dal Pacifico all’Indiano, invece dobbiamo imparare che il Mediterraneo sarà sempre più centrale per gli equilibri del pianeta”, ha affermato durante il suo intervento Minniti, che ha suggerito la presenza di un filo rosso tra la guerra in Ucraina, il bacino mediterraneo e il conflitto in Medio Oriente, segnali di una crisi dell’ordine mondiale. “Se vogliamo costruire un percorso di pace in Ucraina come in Medioriente è naturale dover pensare a una ricostruzione di un nuovo ordine mondiale. E per farlo non possiamo non immaginare il coinvolgimento del sud del mondo”, ha proseguito il presidente di Med-Or, che ha indicato nell’Italia un punto di congiunzione tra il Mediterraneo e l’Europa intera elogiando il ruolo di guida assunto da Roma nella missione Aspides nel Mar Rosso, “una missione che è giusto che l’Unione europea abbia fatto”.

Nel Mar Rosso, è un imperativo per l’Italia e l’Europa prendere la difesa delle rotte commerciali così come delle infrastrutture strategiche, ha proseguito Peronaci riprendendo quanto detto da Minniti, e in particolare dei cavi sottomarini, “a cui bisogna prestare la massima attenzione, soprattutto nel contesto di una guerra ibrida”.

Il ruolo del Mediterraneo nel “connettere il mondo” viene riaffermato anche durante l’intervento dell’ambasciatore Markell, che ha ricordato come il esso rappresenti la priorità numero uno della politica estera italiana, non solo come attore statale ma come parte dell’Alleanza Atlantica, la quale “è impegnata per la sicurezza del Mediterraneo e dell’Europa”. Ed è anche grazie alle “security partnership” che la robustezza delle relazioni tra Stati Uniti e Italia è oggi più forte che mai, afferma l’ambasciatore, che ringrazia Roma per il suo “incrollabile sostegno”.

Sulle minacce che aleggiano sul Mediterraneo, e sulla necessità di prevenire che esso si trasformi in un’area di guerra ibrida, incentra il suo discorso Cavo Dragone. Il Capo di Stato maggiore della Difesa si è mostrato preoccupato dell’“arco di crisi che avvolge l’Europa. Dobbiamo evitare che le dinamiche pericolose si concretizzino in armi ibride puntate verso l’Italia e l’Europa”, ponendo in particolare l’accento sulla disinformazione, resa sempre più pericolosa dalle nuove tecnologie, che “è una minaccia invasiva che si sviluppa in maniera strutturata attraverso molteplicità di centri strategici e flussi finanziari rilevanti. Essa ha assunto una dimensione transnazionale, e questo richiede un’azione congiunta di Unione europea e Nato”.

“I prossimi due anni saranno i più bui dal dopoguerra ad oggi: non c’è mai stato un così grande caos nell’ordine mondiale”, ha detto il ministro della Difesa Crosetto, secondo cui negli ultimi decenni “abbiamo raccontato un mondo diverso da quello che viviamo oggi. Non è possibile garantire la sicurezza con le stesse regole e tempistiche di cinque anni fa: il mondo è cambiato”. Il ministro ha rimarcato come la Difesa abbia una incidenza totale nelle nostre vite, e che per la sua importanza cruciale essa andrebbe esonerata dal dibattito politico. “C’è del lavoro da fare a livello nazionale, anche di tipo culturale, bisogna spiegare che un investimento nella Difesa è un investimento per la sicurezza”. E ha lanciato l’apertura della Nato a nuovi partner: “Il valore numerico è importante e uno degli obbiettivi della Nato è di non farsi percepire come qualcosa che è contro tutto ciò che non è Nato, non solo in Africa ma anche in India o nell’America Latina”.

6156.- La politica estera tracciata dai generali della Folgore

11 Marzo 2022: COSÌ PARLAVA IL GENERALE MARCO BERTOLINI.

11 Marzo 2022: COSÌ PARLAVA IL GENERALE MARCO BERTOLINI.

Parla il gen. Marco Bertolini, già capo del Comando operativo interforze e Presidente dell’Associazione Paracadutisti Folgore, ha le idee più chiare dei nostri politici. Ecco in sintesi cosa dice al Messaggero:

  1. Le armi all’Ucraina sono “un atto di ostilità che rischia di coinvolgerci” nella guerra, mai visto prima: “Bastavano le sanzioni, anche inasprite”.
  2. Putin non è un pazzo né il nuovo Hitler: “Voleva interrompere il percorso che avrebbe dovuto portare l’Ucraina nella Nato” per non perdere “l’agibilità nel Mar Nero”.
  3. Il governo italiano non conta nulla e Di Maio che dà dell’ “animale” a Putin “ci taglia fuori da ogni trattativa”, diversamente dalla Francia di Macron.
  4. Guai a seguire Zelensky sulla no fly zone, che “significherebbe avere aerei Nato sull’Ucraina e l’incidente inevitabile”.
  5. I negoziati non sono un bluff, ma una “dimostrazione di buona volontà delle due parti”.
  6. La sconfitta di Putin esiste solo nei nostri sogni e nella propaganda occidentale: la Russia s’è già presa l’Est, collegando Crimea e Donbass; “le grandi città al momento sono state risparmiate e non è partita la caccia a Zelensky” per “precisa volontà” di Mosca, che finora ha limitato al minimo “i bombardamenti dall’alto” per non moltiplicare le stragi e non provocare un “intervento della Nato”.
  7. Putin non ha bombardato la centrale di Zaporizhzhia: “Non ho visto missili, ma bengala per illuminare gli obiettivi” degli scontri con gli ucraini lì vicino: le radiazioni avrebbero colpito pure il Donbass e la Russia, che le centrali vuole controllarle, non farle esplodere.
  8. Putin non vuole conquistare l’Europa, né rifare l’Urss né “governare l’intera Ucraina”, ma “trattare una ricomposizione”: un regime fantoccio sull’intero Paese scatenerebbe anni di guerriglia antirussa.
  9. “La Russia vuol essere europea e noi non facciamo che schiacciarla verso Asia e Cina”. 10. Un successo ucraino è, purtroppo, fuori discussione. I possibili esiti sono due: una vittoria russa dopo “una lunga guerra”; o un negoziato che i soli mediatori credibili – Israele, Francia, Cina e Turchia – possono favorire se aiutano le due parti a trattare con reciproche concessioni anziché “istigarle a proseguire” nella guerra. Dire queste cose con pacatezza e realismo non sposta di una virgola la condanna dell’aggressore russo e non leva un grammo di solidarietà agli ucraini aggrediti. Significa conoscere per deliberare e scongiurare altre inutili stragi.

Annotiamo questa affermazione sulla Russia che vuol essere europea perché la Russia è in Europa, sicuramente, più degli Stati Uniti e non soltanto geograficamente.

il generale Marco Bertolini, voce esperta e ponderata, si fa portavoce di una visione lucida in un mare di retorica infiammata. Con la precisione di chi ha vissuto la strategia e la tattica, Bertolini disegna un quadro della situazione ucraina che sfida la narrativa comune. Le sue parole sono come frecce che colpiscono al cuore della complessità geopolitica: l’invio di armi all’Ucraina non è solo un gesto di solidarietà, ma un atto che ci avvicina al baratro della guerra. Le sanzioni, secondo lui, avrebbero dovuto essere l’arma scelta, non i missili e i fucili. Putin, descritto non come un folle o un tiranno, ma come un giocatore di scacchi che muove le pedine per proteggere i propri interessi strategici. Il Mar Nero non è solo un corpo d’acqua, ma un punto di accesso cruciale, una porta verso il mondo che la Russia non vuole chiudere. E poi c’è l’Italia, la cui voce sembra perdersi nel coro internazionale, con figure politiche che, secondo Bertolini, non riescono a incidere sul palcoscenico delle trattative come altri leader europei. La no fly zone, un termine che evoca sicurezza, ma che potrebbe trasformarsi in una trappola mortale, portando a un confronto diretto tra giganti militari. I negoziati, non un teatro, ma una possibilità di pace, una speranza che ancora arde nonostante il fumo dei cannoni. La sconfitta di Putin, un miraggio alimentato da desideri e propaganda, mentre la realtà sul campo mostra una Russia che consolida la sua presenza, evitando deliberatamente la distruzione totale per non incendiare un conflitto più ampio. La centrale di Zaporizhzhia, un nome che evoca il terrore nucleare, ma che secondo Bertolini non è stata bersaglio di attacchi deliberati, perché la stessa Russia sarebbe stata vittima delle conseguenze. E infine, la visione di una Russia europea, schiacciata tra le aspettative dell’Occidente e l’abbraccio dell’Asia. La guerra in Ucraina, un conflitto senza vincitori, dove l’unico esito positivo può venire solo da una negoziazione guidata da mediatori imparziali e credibili. Queste non sono solo opinioni, ma riflessioni che invitano a guardare oltre il velo della retorica, a cercare soluzioni che evitino altre tragedie, a riconoscere la complessità di un mondo dove ogni azione ha una reazione, e dove la pace è l’unico vero successo che possiamo e dobbiamo perseguire.

6151.- Il Piano Mattei si chiamerà Mustafà Kemal Ataturk.

Mentre a Bruxelles e a Parigi qualche cerebroleso blatera di guerra, mentre gli italiani si stracciano le vesti per i poveracci di Gaza e la politica estera italiana si spende per l’Ucraina, per metà già acquistata dalle multinazionali USA, l’unico vero statista occidentale, Recep Tayyip Erdoğan, sta creando in Africa e nei Balcani un’area di influenza che gli consentirà di farci marciare dietro alla sua fanfara.

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre, 23 Feb 2024

La Turchia allunga i suoi tentacoli sul Corno d’Africa

Pagine Esteri, 23 febbraio 2024 – Non sono soltanto gli Stati Uniti ad aver in parte approfittato dello scompiglio e dall’allarme suscitati nel Corno d’Africa dallarichiesta etiope di uno sbocco al mare, perso all’inizio degli anni ’90 con l’indipendenza dell’Eritrea.

Anche la Turchia, uno dei paesi più influenti nel continente africano, sta rafforzando la sua presenza militare nel Corno d’Africa offrendosi come alleato militare e garante dei confini e dello status della Somalia e di Gibuti.

L’accordo tra Etiopia e Somaliland genera allarme 
I due paesi hanno reagito con estrema preoccupazione all’intesa siglata a gennaio tra il governo di Addis Abeba e quello del Somaliland, uno stato somalo che da decenni è di fatto indipendente da Mogadiscio, che consente lo sfruttamento di un porto e di una base militare sulle coste del Golfo di Aden.

In base all’accordo, all’Etiopia verranno concessi 20 km di costa del Somaliland per almeno 50 anni e la costruzione di una base militare, in cambio della concessione ad Hargheisa di una quota della compagnia di bandiera etiope Ethiopian Airlines e del riconoscimento, da parte di Addis Abeba, dell’indipendenza del Somaliland.

Con Gibuti e Somalia, negli ultimi giorni, Ankara ha siglato due importanti accordi di cooperazione militare, schierandosi esplicitamente contro le rivendicazioni etiopi e ottenendo così un ruolo di maggiore spicco nel controllo del Mar Rosso.

Anche l’Egitto si è immediatamente schierato al fianco della Somalia, considerando nullo l’accordo tra Somaliland ed Etiopia (paese con cui il Cairo ha un contenzioso sullo sfruttamento delle acque del Nilo) e respingendo ogni «ingerenza negli affari interni della Somalia» e qualsiasi tentativo «di minare la sua integrità territoriale».

Truppe somale addestrate in Turchia

La Turchia sfrutta la debolezza della Somalia
Nei giorni scorsi, quasi all’unanimità, il parlamento federale della Somalia ha ratificato un accordo di difesa e sicurezza sottoscritto dal governo di Mogadiscio con la Turchia l’8 febbraio. Formalmente il documento mira a «rafforzare le relazioni bilaterali e la stabilità della regione, nonché a combattere il terrorismo e la pesca illegale». «La Somalia avrà ora un vero alleato, un amico e un fratello sulla scena internazionale» ha commentato con toni trionfalistici il primo ministro somalo Hamza Abdi Barre.

In base all’accordo, che avrà una durata di dieci anni, la Turchia fornirà addestramento e attrezzature alla Marina somala – al momento quasi inesistente – per consentire a Mogadiscio di proteggere le sue risorse marine e le acque territoriali da minacce come il terrorismo, la pirateria e le “interferenze straniere”. In cambio la Turchia riceverà il 30% delle entrate provenienti dalla Zona economica esclusiva somala, nota per le sue abbondanti risorse marine, e Ankara avrà un’autorità completa sulla gestione e sulla difesa delle acque della Somalia.

Già nel 2016 Somalia e Turchia avevano firmato un memorandum d’intesa sulla cooperazione energetica e mineraria poco dopo l’autorizzazione concessa da Mogadiscio alle compagnie turche ad effettuare operazioni di perforazione ed esplorazione petrolifera al largo delle sue coste. Nel 2017, poi, la Turchia ha aperto un’importante struttura militare di addestramento a Mogadiscio, Camp Turksom, dove ogni anno 200 consiglieri militari turchi addestrano ogni anno centinaia di soldati somali impegnati nel contrasto alle milizie jihadiste.

Il nuovo accordo consentirà ora alla Turchia, la cui la marina già pattuglia da quattordici anni il Golfo di Aden, di schierare le proprie navi da guerra in uno dei quadranti geopolitici più importanti del pianeta.

Gibuti non vuol perdere il monopolio del commercio etiope
E ora, dopo la Somalia, anche il piccolo ma strategico stato di Gibuti ha deciso di serrare i ranghi della cooperazione militare con la Turchia. Nel corso di una cerimonia che si è svolta lunedì ad Ankara, il ministro della Difesa turco, Yasar Guler, e l’omologo gibutino Hassan Omar Mohamed hanno firmato tre accordi relativi all’addestramento militare e alla cooperazione finanziaria. All’incontro ha partecipato anche il comandante delle forze terrestri turche, generale Selcuk Bayraktaroglu.

Nel giugno del 2022, il governo di Erdogan ha già consegnato a Gibuti droni armati Bayraktar TB2. Con una popolazione di meno di un milione di abitanti, il piccolo Paese del Corno d’Africa è un partner strategico per Ankara nel Corno d’Africa, grazie alla sua posizione lungo il Golfo di Aden e il Mar Rosso, vitali per il commercio e la sicurezza globali.

Finora dai porti di Gibuti passa l’85% dell’import/export dell’Etiopia, ma se Addis Abeba ottenesse effettivamente uno sbocco sul mare le merci provenienti o dirette in Etiopia passerebbero dal porto di Barbera, in Somaliland, causando un forte danno economico al piccolo stato. Pagine Esteri

6140.- La sicurezza condiziona il Piano Mattei

meloni migranti

Migranti, Meloni ai ministri: “Serve un modello Caivano per l’Africa: tutti dobbiamo andare”

Da Il Secolo d’Italia del 5 Feb 2024 19:05 – di Sveva Ferri

Un “modello Caivano” per dare seguito agli intenti del Piano Mattei e chiudere spazio ai trafficanti nelle nuove rotte che hanno identificato, dopo gli interventi positivi che hanno frenato gli arrivi di migranti dalla Tunisia: è quello che il premier Giorgia Meloni ha presentato al governo, nel corso della sua informativa in Consiglio dei ministri sul tema dell’immigrazione.

La centralità del Piano Mattei e “il diritto a non emigrare”

“Prima con la Conferenza Internazionale su Sviluppo e Migrazioni, poi con la conferenza Italia-Africa si è avviato il percorso del Piano Mattei. Il tratto che nessuno deve dimenticare è che non abbiamo in mente un modello di cooperazione predatorio con le Nazioni africane bensì collaborativo, e rivendichiamo tra i tanti diritti da tutelare anche il diritto a non emigrare”, ha ribadito Meloni ai ministri.

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La cooperazione condivisa con i Paesi africani anche per colpire i trafficanti

“Dobbiamo insistere con le Nazioni della regione del Mediterraneo allargato e dell’Africa Sub-Sahariana, per un metodo di lavoro condiviso -ha aggiunto Meloni – che faccia contrastare insieme gli sbarchi di migranti sulle nostre coste, cooperando per colpire la rete dei trafficanti e aiutando le economie più fragili per rimuovere le cause che spingono a migrare”. “Crediamo in questo metodo e ci sentiamo confortati da piccoli segnali di speranza. Pensiamo – ha spiegato il presidente del Consiglio – al consistente calo degli sbarchi negli ultimi 4 mesi: comparando le settimane di inizio anno rispetto all’analogo periodo del 2023 siamo al – 41%”.

Sugli sbarchi di migranti “segnali di speranza”, ma nessuna facile illusione

I risultati conseguiti, però, ha di fatto avvertito Meloni, non devono far dimenticare la difficoltà della sfida. “È tuttavia una rincorsa continua”, ha avvertito il premier, ricordando che “contenere gli arrivi lungo una rotta porta all’attivazione o riattivazione di un’altra direttrice”. Così, “se 5 mesi fa la nostra prima preoccupazione erano gli arrivi dalla Tunisia, oggi lo è divenuta la costa della Tripolitania, che sta facendo registrare un incremento di partenze”. Meloni ha ricordato che “fra le nuove fonti di pressione vi sono anche gli arrivi dal Sudan, a seguito del conflitto iniziato nell’aprile 2023: i profughi sudanesi non si fermano più in Egitto, ma giungono in Libia, e da lì vengono da noi; e la decisione della giunta golpista in Niger di decriminalizzare in traffico di migranti, con conseguente aumento dei movimenti migratori da quell’area”.

Il “modello Caivano” per l’Africa, a partire da Libia e Tunisia: tutti i ministri devono andare

Dunque, “dobbiamo tenere alta l’attenzione. E per questo – ha chiarito il premier – ho bisogno di tutto il governo, poiché quello che immagino operativamente, e mediaticamente, è un “modello Caivano” da proporre per il nord del Continente africano, in modo particolare per la Tunisia e la Libia, ben consapevoli delle differenze sussistenti tra Tripolitania e Cirenaica”. “Dobbiamo sforzarci di far sentire ad entrambe le Nazioni la nostra vicinanza e il nostro reale spirito di solidarietà. Pensiamo innanzitutto a impostare tavoli ministeriali che rafforzino la collaborazione”, è stata dunque l’indicazione. “Andiamo tutti in Libia e Tunisia, sviluppiamo progetti, controlliamone l’esecuzione, coordinando, come per Caivano, le presenze, in modo – ha concluso il premier – che siano cadenzate e diano il senso della continuità”.