Archivi categoria: Nagorno-Karabakh

6083.- Le mire imperialiste di Tel Aviv, quelle di Ankara e le diaspore dei poveri: dei Curdi, degli Armeni, dei Palestinesi.

Il tradimento dei Kurdi e la doppia morale dell'Occidente ...

La guerra per la sopravvivenza del popolo Curdo.

Curdi, Armeni, Palestinesi sono popoli con un loro ordinamento giuridico e un loro territorio. Non sono gruppi etnici, tradizionalmente nomadi come, ad esempio, sono i Tuareg.

Refugees from Nagorno-Karabakh arrive in Kornidzor

La diaspora del Nagorno-Karabakh

Fuga dalla striscia di Gaza.

Lo scopo di questa guerra di Israele è lo Stato-Messia

Articolo dal blog di Sabino Paciolla, di Mattia Spanò, 20 Novembre 2023

Palestina
La Palestina nei disegni di Londra

Nella richiesta del governo israeliano alla “comunità internazionale” di accogliere tutti i palestinesi che – orwellianamente, annota ZeroHedge – “migrano volontariamente” c’è la rivelazione del piano: la scelta magnanima fra il genocidio e la deportazione. Scelta che prima o poi sarà imposta a tutti, dal momento che convivenza e fratellanza universale non sono semplici utopie, ma frescacce vere e proprie.

In sostanza la famigerata “comunità internazionale si dovrebbe accollare sia le persone – tre milioni – che i costi annessi. E lo dicono con una tranquillità macabra, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

Qualche avvisaglia del progetto c’era stata a fine ottobre, quando Israele aveva proposto all’Egitto di accogliere i palestinesi in cambio di un taglio del debito estero. Si badi bene: taglio, non azzeramento. Gli egiziani brutti sporchi e cattivi hanno gentilmente declinato la generosa offerta.

Chi conosca bene la deriva che ha preso la trappola del debito pubblico ha subito compreso che si trattava di una truffa: ciò che ti sconto oggi te lo riaccollo domani quadruplicato, per mezzo dei soliti “aggiustamenti strutturali” delle “politiche monetarie”, sempre con lo spettro del regime-change. La notizia casomai è che il debito pubblico si può condonare, ma quasi nessuno ha riportato la vera notizia: il debito non è come il vento e la pioggia, si può condonare. Specie quando è creato ad arte con la truffa e l’inganno.

Non mi straccerò le vesti per la proposta israeliana. Certamente chiunque altro, in situazione analoga, avesse osato proporre qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile sarebbe stato sepolto da contumelie, risate e soprattutto sanzioni.

Se lo fa Israele, no. Anzi: parliamone. Ma non è questo il punto. Anzi a mio avviso una ragione c’è, è più profonda e molto evidente. E che sia una ragione più che buona e più che solida lo certifica il fatto che non se ne parli.

Il punto è che l’esistenza stessa di Israele è storicamente un’operazione in vitro. È puro artificio. In un certo senso, Israele sta pretendendo qualcosa di fondato: avete creato voi il problema, adesso risolvetelo. È ovvio che parli in partibus infidelium, e quindi non siano loro a dover pagare il fio. Israele vincerà la guerra e in un modo o nell’altro ripulirà la Palestina dai palestinesi. Lo sta dicendo in forma talmente netta e chiara che a questo punto la sordità e l’assenza di comprendonio è tutta da parte nostra, instupiditi dal senso di colpa per il male commesso da altri.

Che poi Israele lo faccia per sfruttare i giacimenti di gas al largo di Gaza è la classica ciliegina sulla torta. Ma la vera partita è infinitamente più remunerativa, e molto poco ha a che fare con la storica querelle Israele-Palestina.

Il costo umano insomma sarà pagato con settant’anni di ritardo da chi il problema l’ha creato, riportando – o ri-deportando, se solo si potesse dire senza scandalizzare le anime belle – gli ebrei in una terra che avevano abbandonato duemila anni prima. Duemila anni, non duemila mesi o duemila giorni. L’impero romano è finito solo 1600 anni fa, ma provate voi a proporne la riedizione.

D’altra parte, privatizzare gli utili e socializzare le perdite è un vizio antico. Per avere un saggio di come le élite finanziarie strangolino Stati ed economie potenzialmente ricchissime, si guardi questa tanto breve quanto esatta analisi storica delle nove bancarotte subite dallo stato argentino nell’ultimo secolo.

Per tornare all’argomento è fuori dubbio che esista una specificità ebraica, ma essa non risiede tanto a mio avviso nell’aver subito l’ignominia della Shoah, quanto nel carattere messianico dello Stato nato dopo. Il Messia, secondo i sionisti, è Eretz Israel stesso.

Al potere non interessa nulla né degli ebrei, né men che meno degli israeliani, figuriamoci se gliene cale qualcosa del diritto di uno stato ad esistere o a difendersi. Sono tutti specchietti per allodole: la narrazione deve procedere spedita, monolitica e monografica.

E infatti si tace della formidabile opposizione interna allo Stato sionista, come si tace gli appelli alla pace congiunti di intellettuali israeliani e palestinesi. Né ha la minima rilevanza il fatto che sia stato anche l’esercito israeliano a sparare sui giovani al rave del 7 ottobre. La notizia la danno, per carità. Un po’ come annunciano lo stiramento alla coscia del terzino dell’Udinese che lo terrà lontano dal campo tre settimane.

La cartina di tornasole della sovrana incuranza rispetto all’identità ebraica è che se un ebreo come Moni Ovadia si permette di dissentire, viene trattato come un pazzo deliranteantisemita e quindi implicitamente filonazista,   e costretto a dimettersi, casomai avesse un lavoro e lo svolgesse egregiamente.

Il dato interessante è che gli stessi giornali che accusano gli altri di essere complottisti e negazionisti, quando si tratta di mettere a punto complotti e negazioni della realtà ben più bislacche ma organiche al potere, sono in prima linea.

Abbiano così i nazisti di Azov che leggono Kant e difendono i nostri valori, mentre un intellettuale ebreo con decenni di militanza pacifista alle spalle diventa di colpo un nazista che vorrebbe lo sterminio degli ebrei. Vero che anche nell’ ubriachezza possono aversi momenti di lucida consapevolezza – in vino veritas, si diceva un tempo – ma qui se ne abusa malamente.

La specificità di Israele è il fatto di essere, almeno in prospettiva, uno Stato-dio, cioè da una volontà superiore insindacabile. Dio non esisterebbe nell’alto dei cieli, ma sarebbe vivo e presente in mezzo a noi. Se lo Stato comanda che un’intera categoria di persone va debellata con qualsiasi mezzo, chi avrebbe la forza e le ragioni per opporsi?

In parallelo, l’élite si sta premurando di farci sapere che la “democrazia” non funziona più. Sono decenni che “tecnici” non eletti nemmeno in assemblea condominiale si occupano del nostro bene con una solerzia che ci ha ridotto tutti in mutande. La povertà, dice la Caritas, è diventata strutturale, eppure un numero non esiguo di persone impermeabili alle relazioni di causa-effetto continuano a rimpiangere Monti e Draghi.

Chi pensa che negli Stati Uniti se la passino molto meglio che a Napoli, si sbaglia di grosso. Certe persone se la passano meglio negli U.S.A., come certe persone se la passano molto bene a Bruxelles o a Ginevra, ma forse i Quartieri Spagnoli sono più civili e confortevoli di sobborghi di Los Angeles come Inglewood. Per tacere di Molenbeek a Bruxelles, o Stovner a Oslo.

Per vari gradi, e attraverso teorie politiche sempre più raffinate ma di un cinismo raccapricciante, si sono attratte le masse dentro gigantesche trappole concettuali. Una volta sancito lo Stato voluto da Dio come principio regolatore della vita umana – una vita umana sottoposta ad un controllo ferreo al quale è impossibile sottrarsi – ecco che si affaccia lo Stato-dio. L’Iran sarà anche una teocrazia, ma il tecno-stato scientista non mi pare tanto meglio.

Prima si sono sedotte le masse introducendo concetti come la razza, nel senso che un fatto banalmente somatico come avere la pelle nera o gli occhi a mandorla ha assunto un valore culturale, storico e politico.

Dopo di che, sempre restando nell’esempio fatto, si è introdotto il concetto di tolleranza e integrazione, posizioni intellettuali che si sono lentamente trasformate in obblighi.

Attirati i topi nel formaggio del pensiero mainstream, la trappola scatta. Nel caos generale, si profilano all’orizzonte entità super-statuali che devono però avere una connotazione soprannaturale per essere accettate da tutti. Utili idioti come gli attivisti di Ultima Generazione e Black Lives Matter, per tacere degli Lgbtq+ trovano spazi nel discorso pubblico impensabili per chiunque altro. Eppure, si tratta di minoranze nelle minoranze, molto ben foraggiate. Anche l’idealità si paga.

In questo e in molti altri sensi (si pensi alla teoria gender), l’Antico Testamento e la storia stessa del popolo ebraico, anche nella sua versione talmudica, tornano eccezionalmente utili.

Non pretendo di avere ragione in questa breve disamina. Mi limito ad osservare che si tratta di una possibilità, una coincidenza forse, o almeno un’intenzione nemmeno troppo nascosta.

Che poi si realizzi, è un altro discorso. Non lo farà, ma per un fatto semplice: Dio esiste e non ci permette di fare il Suo lavoro. Soprattutto non si fa prendere in giro da quattro pagliacci che non sanno come spendere la cellulosa e il cotone che hanno accumulato nelle banche.

Non mi faccio illusioni: non ci sarà nessun risveglio, ma un colossale e certosino lavoro culturale e politico. Porta a porta, casa per casa, un uomo alla volta.


Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente le opinioni del responsabile di questo blog. I contributi pubblicati su questo blog hanno il solo scopo di alimentare un civile e amichevole confronto volto ad approfondire la realtà.

Chi siamo. Quanto contiamo.

Tanto poco noi contiamo che fanno passare quest’uomo per il nostro leader.

5990.- Il Nagorno-Karabakh non esiste più

Il Nagorno-Kabarakh non esiste più, dopo l’attacco dell’Azerbaijan del 19 settembre, il governo separatista del Nagorno-Karabakh ha dichiarato di voler cessare di esistere. “Il governo azero ha ottenuto, tramite la mediazione russa, e a sue piene pretese, un accordo per lo scioglimento e il completo disarmo delle forze armate e rimozione di tutte le attrezzature pesanti e le armi dall’Artsakh (nome armeno della regione)”, si legge nell’articolo a cura di Orizzonti Politici, “Il sostegno dell’Occidente all’Armenia si limita a espressioni di acquiescenza, solo i ministri degli esteri di Francia e Germania hanno condannato come estremamente preoccupante la violazione di principi del sistema internazionale.”

Nagorno Karabakh, continua ad essere molto dura la condizione dei profughi armeni

Da Affari Internazionali, 13 Ottobre 2023

La questione del Nagorno-Karabakh si chiude. Una questione che ha visto la morte di decine di migliaia di persone per e contro questa regione, distrutto le carriere di due presidenti – uno armeno, l’altro azero – e tormentato diplomatici americani, russi ed europei che spingevano piani di pace fallimentari. Nel giro di una settimana, dopo l’attacco dell’Azerbaijan del 19 settembre, il governo separatista del Nagorno-Karabakh ha dichiarato di voler cessare di esistere, ponendo fine a più di 30 anni di dominio separatista.

Il governo azero ha ottenuto, tramite la mediazione russa, e a sue piene pretese, un accordo per lo scioglimento e il completo disarmo delle forze armate e rimozione di tutte le attrezzature pesanti e le armi dall’Artsakh (nome armeno della regione).

Alleanze rotte: le conseguenze

Il sostegno dell’Occidente all’Armenia si limita a espressioni di acquiescenza, solo i ministri degli esteri di Francia e Germania hanno condannato come estremamente preoccupante la violazione di principi del sistema internazionale. Oggi, il format franco-tedesco, sostenuto dal Consiglio UE, cerca di mediare un colloquio tra le parti, mentre la Francia ha unilateralmente deciso di annunciare un’apertura per la conclusione di contratti di fornitura di equipaggiamento militare.

L’umiliazione armena – il governo di Erevan infatti non è stato coinvolto nella stesura del cessate il fuoco –  segnerà un definitivo distacco del Paese dall’influenza russa. Il presidente Pashinyan, che ha subito forti contestazioni, ha denunciato l’intento dell’Azerbaigian di trascinare Erevan in guerra e ribadito la distanza politica da Mosca. Meno di 10 giorni dopo gli accordi di cessate al fuoco, il parlamento dell’Armenia ha votato per l’adesione alla Corte penale internazionale, una mossa che rende ancora più difficili i legami del Paese con il suo vecchio alleato, la Russia.

Mentre Baku ribadisce di voler perseguire una politica che garantisca una duratura sovranità interna, ora che il Nagorno-Karabakh è stato completamente riconquistato, la questione della connessione con l’esclave Naxcivan rappresenta la prossima grande questione nei colloqui armeno-azeri. Si teme infatti che l’Azerbaijan possa tentare di imporre con la forza altre questioni sospese nel conflitto con gli armeni sui confini contesi e sul controllo del corridoio di Syunik (Zangezur per gli azeri).

Migliaia di sfollati: le conseguenze sulla popolazione

Dopo che i funzionari hanno annunciato che il Nagorno-Karabakh cesserà di esistere il giorno di Capodanno del 2024, quasi tutti gli abitanti di etnia armena hanno lasciato e stanno lasciando la regione in direzione del territorio dello Stato armeno. Nonostante i dialoghi, mediati dai Paesi Europei, per garantire i diritti umani degli abitanti di etnia armena rimasti nella regione e il diritto di ritorno per chi è scappato, la popolazione non si fida.

Sono ormai oltre 100.000 le persone arrivate in Armenia, principalmente nella regione di Syunik, nel sud del Paese, dal Nagorno-Karabakh, che contava circa 120.000 armeni. La maggior parte di loro è arrivata con pochi effetti personali e ha bisogno di assistenza urgente, tra cui coperte, materiali per il letto, supporto medico e psicosociale e un riparo nell’immediato. Inoltre, molti dei rifugiati, prima di essere evacuati in Armenia, hanno subito perquisizioni personali, intimidazioni e scherno da parte degli azeri. Tutti gli uomini che avevano combattuto in guerra prima di scappare hanno bruciato i loro beni militari per sopravvivere ai checkpoint controllati dagli azeri e non farsi riconoscere.

Il governo armeno si è assunto la responsabilità di fornire protezione e assistenza con il supporto dell’UNHCR e di altre agenzie ONU e ong, ma per un Paese di 2.8 milioni di persone e un’economia debole non sarà facile continuare a fornire assistenza ai profughi. La strada per arrivare in Armenia passa tra le montagne e le macchine rimangono bloccate svariate ore a causa del traffico. Più di 170 persone sono state uccise e oltre 200 sono rimaste ferite in un’esplosione avvenuta l’ultima settimana di settembre in un affollato deposito di carburante lungo il percorso di ingresso in Armenia.

Alcuni esperti parlano di crimini contro l’umanità, di migrazione forzata in particolare, poiché queste persone stanno scappando da un territorio in cui non si sentono più al sicuro. Altri parlano di pulizia etnica perché si tratta dell’allontanamento forzato di un’intera popolazione di una etnia specifica dal proprio territorio. Josep Borrell, alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza, ha dichiarato che “l’Unione europea si aspetta che l’Azerbaigian risponda alle esigenze degli armeni del Karabakh rimasti sul territorio azero e fornisca loro la necessaria assistenza umanitaria e sicurezza. Coloro che sono fuggiti in Armenia devono poter tornare alle loro case in sicurezza. Anche il loro patrimonio culturale e i diritti di proprietà devono essere garantiti e protetti dall’Azerbaigian.” Ad oggi, però, sembra che il Nagorno-Karabakh si stia spopolando.

5950.- Turchia e Azerbaigian vogliono un pezzo di Armenia

L’Europa, serva di Washington, non esiste; la Federazione Russa, impegnata dalla NATO in Ucraina, ne ha che basta; l’instabilità dell’Asia Centrale fa gioco agli USA, ma temono un cambio di alleanze, anche ondivago, dei turchi. Erdogan ne profitta e, un pezzo alla volta, ritaglia per sé un impero impossibile. Curdi e Armeni, popoli meravigliosi, sono vittime di questo rigurgito imperialista. Chiamatelo come volete, ma nulla di quello che si sta costruendo ad Ankara sarà duraturo. Le conseguenze si riverbereranno nel Caucaso, in Mediterraneo e, ancora una volta, solo la Francia avrà una mano libera.

Da Pagine esteri, di Marco Santopadre | 5 Ott 2023 

Turchia e Azerbaigian vogliono un pezzo di Armenia

di Marco Santopadre*

Pagine Esteri, 5 ottobre 2023 – Russia e occidente continuano a rimpallarsi le responsabilità per l’ennesima tragedia nel Caucaso. Per Mosca, la colpa della disfatta armena sarebbe da addebitare al governo guidato da Nikol Pashinyan, che avrebbe tradito la Russia per cercare il sostegno di Nato e UE, che ovviamente non è arrivato. Gli USA nella regione non hanno voce in capitolo, e gli europei sono troppo interessati al gas azero per fare la voce grossa con il dittatore Ilham Aliyev.

É vero che Erevan si è avvicinata all’Alleanza Atlantica e a Bruxelles, ma non solo in ossequio all’orientamento filoccidentale del primo ministro eletto dopo la “rivoluzione di velluto” del 2018. Se Pashinyan ha cercato nuove sponde – a occidente, ma anche in Iran ed India – è anche perché era ormai chiaro che Mosca non aveva alcuna intenzione di spendersi per difendere gli armeni. Nonostante un patto di mutua assistenza militare con Erevan, Putin non si è mosso neanche quando gli azeri hanno aggredito lo stato sovrano armeno nel settembre 2022, e non più solo l’autoproclamata – ma non riconosciuta da nessuno – Repubblica di Artsakh creata dagli armeni dell’Azerbaigian nel 1991.

Specularmente, per europei e statunitensi la responsabile unica della catastrofe sarebbe Mosca, che cinicamente ha mollato gli armeni per proteggere le consistenti relazioni avviate con il regime di Baku e soprattutto con la Turchia, che importa ingenti quantità di petrolio e gas dalla Russia e si è distanziata dagli interessi di Washington, anche se non certo per compiacere Mosca.

La Repubblica dell’Artsakh non esiste più
In realtà sono vere entrambe le versioni: tutte le potenze attive nel Caucaso, seppur per motivi diversi, hanno lasciato mano libera all’esercito azero, provocando una catastrofe umanitaria e culturale la cui gravità, forse, la comunità internazionale comprenderà solo nei prossimi anni.
In due settimane, man mano che le truppe azere prendevano possesso del territorio dell’Artsakh, più di centomila armeni – più del 90% della popolazione dell’enclave – hanno abbandonato le loro case e le loro terre per rifugiarsi in Armenia, incolonnandosi per giorni su quel “corridoio di Lachin” che i 2000 peacekeeper russi schierati nel 2020 avrebbero dovuto difendere e che invece militari e funzionari azeri, travestiti da attivisti ecologisti, hanno bloccato per 10 mesi dando vita ad un assedio medievale.
Al termine dell’assedio – che ha causato fame ed estrema penuria di medicine e carburante – la comunità armena del Nagorno-Karabakh era così stremata che quando a settembre le truppe azere hanno sferrato l’ennesimo attacco, il governo di Stepanakert ha resistito poche ore, dichiarando poi la resa totale.
Il 28 settembre il presidente dell’Artsakh Samvel Sergeyi Shahramanyan ha firmato il decreto che pone fine all’esistenza dell’entità dal primo gennaio 2024. Le strade e le case di Stepanakert e delle altre città dell’enclave sono già deserte e presto la patria ancestrale degli armeni verrà ripopolata da profughi azeri (cacciati dagli armeni negli anni ’90) e da nuovi coloni inviati da Baku per assimilare le province riconquistate.

La Turchia approfitta della miopia di Mosca 
I peacekeeper russi non sono intervenuti e neanche le truppe di Mosca di stanza nella base che la Federazione possiede in Armenia. «Putin non poteva certo rischiare di entrare in conflitto con l’Azerbaigian e la Turchia per difendere un paese il cui governo flirta con la Nato», ripetono i media controllati dal Cremlino. In realtà se fosse intervenuta per bloccare l’aggressione azera all’Armenia del 2022 e per evitare il blocco del corridoio di Lachin, Mosca avrebbe potuto, senza sparare un colpo, utilizzare la sua influenza e il suo peso militare e politico per convincere Aliyev a non forzare la mano. Anche solo cristallizzando lo status quo venutosi a creare dopo l’aggressione azera del 2020, grazie alla quale Baku ha recuperato le 7 province contigue all’Artsakh occupate dagli armeni durante la guerra che ha insanguinato la regione dopo la dissoluzione dell’URSS negli anni ’90, Putin avrebbe evitato il precipitare degli eventi senza inimicarsi né Erevan né Baku.

Ma a furia di tollerare l’iniziativa dell’asse azero-turco, la presa di Mosca sull’area è notevolmente diminuita e si è affermata l’egemonia turca.
La Nato sfrutta la disillusione armena nei confronti della Russia per stringere accordi militari, economici e politici con Erevan, al solo scopo di indebolire il ruolo russo nel Caucaso. Martedì il parlamento armeno ha approvato l’adesione del paese alla Corte Penale dell’Aja; la mossa ha enormemente contrariato il Cremlino, sul cui inquilino pesa un mandato internazionale di cattura per crimini di guerra in Ucraina. D’altronde, i partiti filorussi dell’Armenia – protagonisti insieme ad altre forze di grandi manifestazioni per le dimissioni di Pashinyan, reo di aver abbandonato gli armeni dell’Artsakh – hanno perso ogni credibilità di fronte all’opinione pubblica che considera Mosca non meno colpevole della catastrofe dell’occidente. Le minacce russe di un regime change a Erevan per togliere di mezzo Pashinyan (ma queste cose non le faceva solo il perfido occidente?) non aiutano.

All’UE interessa il gas azero
Anche le promesse di sostegno da parte dei paesi europei e di Washington si sono rivelate inconsistenti. Qualche mese prima dell’aggressione sul confine armeno era arrivata una pattuglia di impotenti inviati dell’Unione Europea. Durante lo scorso fine settimana, poi – quando l’Artsakh si era ormai svuotato dei suoi abitanti in fuga dalla repressione e dall’assimilazione azera – le Nazioni Unite hanno inviato una missione per “valutare le necessità umanitarie” nella regione interdetta da Baku ai giornalisti stranieri, mentre decine di leader politici e militari dell’enclave venivano arrestati dagli occupanti.

Delle sanzioni all’Azerbaigian richieste da una sessantina di euro-parlamentari – Baku è governata da un regime autocratico spietato – neanche a parlarne: il gas e il petrolio estratti nel Mar Caspio sono troppo preziosi per l’UE, e soprattutto per Roma, alla ricerca di fonti alternative con cui rimpiazzare le forniture russe boicottate dopo l’invasione dell’Ucraina. Per non parlare dei miliardi in gioco nella ricostruzione delle province azere ripulite dagli armeni, molti dei quali finiscono nelle casse di aziende italiane ed europee.

Lo schiaffo dell’Azerbaigian a Russia e Ue
Ma il vile comportamento delle varie potenze nei confronti degli armeni non è dettato esclusivamente dal cinismo.
La verità è che tanto a occidente quanto a Mosca i diversi governi hanno subito l’ennesima offensiva dell’asse azero-turco dimostrando una consistente miopia e una scarsa lungimiranza.

Ieri l’edizione europea del giornale “Politico” ha informato che alcuni rappresentanti diplomatici di Stati Uniti, UE e Russia si sono incontrati a metà settembre in Turchia per una riunione diretta a sventare un peggioramento della situazione in Nagorno-Karabakh. L’incontro si sarebbe svolto il 17 settembre a Istanbul con la partecipazione di Louis Bono, consigliere senior di Washington per i negoziati nel Caucaso, di Toivo Klaar, rappresentante speciale dell’UE per la regione, e di Igor Khovaev, inviato speciale di Putin in Armenia e Azerbaigian. I tre paesi avrebbero teoricamente ottenuto da Baku un allentamento dell’assedio agli armeni dell’Artsakh e la promessa di un rilancio dei colloqui di pace con Erevan. Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, si è più volte vantato dei presunti risultati ottenuti grazie alle pressioni europee sull’Azerbaigian.

Solo due giorni dopo l’incontro di Istanbul, il 19 settembre, le forze armate di Baku hanno attaccato i 10 mila miliziani dell’Artsakh, male armati e deperiti, in barba alle rassicurazioni offerte poche ore prima ai rappresentanti delle grandi potenze. Il regime azero ha giustificato “l’operazione antiterrorismo” come la necessaria risposta ad un’imboscata armena ai propri militari, ma da settimane Baku stava ammassando truppe ai confini dell’Artsakh all’interno di un piano d’invasione evidentemente preordinato.

Durante l’offensiva le truppe azere hanno preso di mira una pattuglia di militari di Mosca, uccidendone 5, compreso il vicecomandante del contingente russo Ivan Kovgan, e hanno bersagliato varie postazioni dei peacekeeper. Solo degli errori, si sono giustificati a Baku; il segnale che i soldati azeri si sentono padroni del Caucaso e non temono neanche il gigante russo, affermano altri.

Sulla base della stessa sensazione di onnipotenza, ieri Aliyev ha respinto l’invito a partecipare ad un incontro previsto per oggi a Granada, in Spagna, con i rappresentanti di Armenia, UE, Francia e Germania, per discutere il futuro della regione di cui Baku è rientrata in possesso dopo 30 anni e siglare un trattato di pace. Gli emissari di Aliyev hanno chiesto che alla riunione prendesse parte anche la Turchia, condizione respinta dai promotori dell’incontro, ed espresso forti riserve sulla partecipazione francese. Ripreso l’Artsakh, Baku non ha alcuna reale necessità di negoziare con Erevan e anzi punta a nuove vittorie.

Le aspirazioni egemoniche della Turchia, le rivendicazioni azere e il ruolo di Israele
È evidente sin dall’inizio della crisi che dietro le pretese dell’Azerbaigian – ormai potenza energetica di primo livello – c’è proprio la Turchia. Ankara considera la repubblica turcofona parte del grande popolo turco (“un popolo, due stati”) ma anche uno strumento per far valere le proprie aspirazioni da grande potenza in Asia centrale. Per questo Erdogan ha armato, addestrato e sostenuto con consiglieri e mercenari le truppe di Baku che contemporaneamente hanno potuto contare sul pieno sostegno di Israele. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, tra il 2016 e il 2020 il 70% delle armi acquistate dall’Azerbaigian grazie ai proventi dell’industria petrolifera provenivano proprio dallo “stato ebraico”, incuneatosi così in un’area dove non aveva alcuna influenza. Anche pochi giorni prima dell’ultimo blitz contro l’Artsakh di settembre a Baku sarebbero atterrati vari cargo pieni di armi israeliane.

Forse Mosca e le cancellerie europee pensavano di contenere le ambizioni azere e turche tollerando la riconquista dell’Artsakh da parte di Baku, ma appare evidente che Azerbaigian e Turchia nutrono ben altre aspirazioni.
A pochi giorni dalla fulminante vittoria azera in Artsakh, Aliyev ha incontrato l’omologo turco Erdogan nella Repubblica del Nakhchivan, una exclave azera separata dal resto del paese da una regione dell’Armenia meridionale. Baku pretende la realizzazione di un corridoio stradale e ferroviario in territorio armeno che colleghi le due parti del paese, esistente fino all’inizio degli anni ’90 e poi saltato dopo l’inizio del conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche. Per Erdogan il progetto è ancora più rilevante, perché concederebbe all’economia e alle aspirazioni imperiali turche una proiezione verso l’Asia centrale, le altre repubbliche turcofone ex sovietiche e la Cina, aggirando Russia e Iran.

Lunedì Erdogan e Aliyev hanno già inaugurato i lavori di realizzazione di un nuovo gasdotto che collegherà il Nakhchivan con la regione turca di Igdir, in attesa di poterlo prolungare fino a Baku passando nel corridoio di Zangezur.

Aliyev ha spesso chiarito che se non dovesse ottenere il corridoio di Zangezur con le buone – sul confine meridionale armeno e alle porte dell’Iran, che osserva con preoccupazione il precipitare della situazione a nord della sua frontiera e su è detto disponibile a inviare osservatori al confine tra Armenia e Azerbaigian – lo farebbe con la forza, prendendosi anche i territori dell’Armenia meridionale che d’altronde il “presidente a vita” azero ha definito ancora recentemente “Azerbaigian occidentale”. Senza un consistente sostegno esterno, economico e militare, l’Armenia non avrebbe alcuna chance di fermare le truppe azere e di impedire l’occupazione della provincia di Syunik, dove tra l’altro si trovano importanti giacimenti di rame e molibdeno.

A quel punto la Russia, il cui ruolo di paciere è già compromesso, si troverebbe a fronteggiare uno scenario alquanto spiacevole, dovendo scegliere tra fronteggiare anche militarmente l’iniziativa turco-azera, con tutte le conseguenze del caso, o tollerare un ulteriore rafforzamento di Ankara in un quadrante tradizionalmente di sua competenza.

La Francia offre protezione a Erevan
La difficoltà di Mosca nel Caucaso è tale che nei giorni scorsi la Francia – tradizionale protettore degli armeni e potenza energetica nucleare assai meno dipendente dal gas azero rispetto ai partner europei – ha deciso di entrare in scena con maggiore determinazione.
In visita a Erevan la Ministra degli Esteri di Parigi, Catherine Colonna, ha informato che Parigi ha accettato di consegnare non meglio precisati equipaggiamenti militari alla piccola nazione del Caucaso meridionale per garantire una migliore difesa del paese. Segno che l’ipotesi di un’aggressione militare azera all’Armenia è tutt’altro che remota.
Nel frattempo la moneta armena si è svalutata del 15% in un solo giorno e il piccolo e povero paese deve sistemare i 100 mila profughi dell’Artsakh che nei giorni scorsi hanno varcato la sua frontiera. – Pagine Esteri

5918.- Armenia, futuro sospeso

L’Occidente è sordo, la Russia è sorda e il popolo armeno, come quello curdo, non ha diritto di vivere, anzi, non ha paura di morire, ma di vivere.

Da Insideover, di Daniele Bellocchio, 20 Settembre 2023.

“Quando mi sono voltata e ho salutato i miei genitori, solo in quel momento ho capito che forse quella sarebbe stata l’ultima volta che li avrei visti”. Jasmine Avetisyan ha 18 anni, è originaria di Stepanakert, la capitale dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh, il nome con cui i cittadini armeni chiamano il Nagorno Karabakh. Jasmine oggi si trova a Yerevan per poter compiere il suo percorso di studi universitari ed è riuscita a raggiungere la capitale dell’Armenia solo da poche settimane dal momento che dal 12 dicembre il Nagorno Karabakh è stato isolato dal resto del mondo dalle forze dell’Azerbaijan che hanno istituito un checkpoint illegale nel corridoio di Lachin, l’unica via che mette in comunicazione l’Armenia con il territorio dell’Artsakh.

Per oltre nove mesi i cittadini armeni del Nagorno Karabakh hanno vissuto isolati e, a causa dell’interruzione della strada da parte delle forze dell’Azerbaijan, non hanno potuto ricevere neppure cibo e medicinali e solo negli ultimi giorni gli è stato concesso di poter lasciare il loro territorio senza però aver la possibilità di farvi ritorno.

“All’inizio, quando abbiamo appreso che era stato istituito il checkpoint pensavamo che la situazione sarebbe durata poco, credevamo si trattasse di una forma di pressione politica destinata a esaurirsi in breve tempo. Poi però il presidio degli attivisti azeri è stato sostituito da un posto di frontiera permanente e le merci non hanno più potuto entrare in Karabakh, allora, in quel momento, abbiamo iniziato a renderci conto che la situazione stava davvero divenendo grave. Nessuno però poteva immaginare che un Paese potesse arrivare ad utilizzare la fame come arma”.

Durante il periodo del “blockade”, come è stato ribattezzato dalla stampa internazionale, gli oltre 120mila cittadini armeni della regione del Caucaso meridionale si sono trovati in una situazione di assoluta incertezza e precarietà. In questi mesi, nel web e sui social, immagini di scaffali vuoti, mercati deserti e file interminabili di uomini, donne e bambini in attesa di un tozzo di pane fuori dai forni pubblicate dai residenti dell’Artsakh hanno mostrato, in tempo reale, cosa significasse vivere nel 2023 sotto assedio e senza cibo. Ma, nonostante l’evidenza e il supporto delle principali organizzazioni di diritti umani come Human Rights Watch, Amnesty International, l’International Court of Justice che hanno condannato l’Azerbaijan e chiesto l’immediata apertura del corridoio di Lachin, nulla è stato fatto affinchè venissero rispettati i diritti dei cittadini armeni. Anzi, la situazione si è deteriorata ulteriormente sino ad arrivare nelle ultime ore all’aggressione militare da parte di Baku ai danni del Nagorno Karabakh.

“Quando sono arrivata a Yerevan ho sentito un enorme peso dentro di me. Un forte dolore per aver lasciato la mia famiglia in un territorio accerchiato e senza cibo. A 18 anni ho dovuto scegliere tra la mia famiglia o lo studio. E ho fatto questa scelta perché so che se diventerò una brava professoressa e mi impegnerò nell’apprendimento, presto potrò aiutare la mia terra perché credo che la conoscenza sia davvero l’ arma più importanti di un popolo”.

Era con queste parole, un sorriso timido e gli occhi smarriti in una scelta troppo pesante da sopportare a 18 anni che Jasmine, solo pochi giorni fa, si congedava prima di dirigersi, con altri suoi coetanei dell’Armenia e dell’Artsakh, a manifestare sotto l’ambasciata russa a Yerevan per chiedere un maggior intervento dei peacekeepers di Mosca a difesa della popolazione dell’Artsakh. Oggi il suo telefono squilla a vuoto, ai messaggi non risponde ed è impossibile anche solo provare a immaginare cosa stia vivendo in queste ore mentre si trova a Yerevan e missili e bombe travolgono la sua città natale dove vive la sua famiglia.

Anche domandarsi se può esserci ancora una speranza in cui credere, un sogno in cui rifugiarsi, un’utopia da rincorrere dopo che si sono vissuti centinaia di giorni di fame e assedio e dopo che artiglieria, droni e aviazione hanno bombardato per 24 ore la tua terra, costa caro. Perché pretende di accattare l’evidenza che la violenza ha trionfato sul dialogo e l’arbitrio sul diritto.

Il 19 settembre l’esercito di Baku, adottando come casus belli la morte di alcuni cittadini azeri in seguito all’esplosione di alcune mine nel territorio del Karabakh, ha attaccato il territorio conteso dichiarando che l’offensiva si sarebbe arrestata soltanto quando le truppe armenedell’Artsakh si fossero arrese consegnando le armi. Dopo 24 ore di pesanti bombardamenti con artiglieria, droni e aviazione e decine di morti, il governo dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh ha accettato la resa. E mentre arrivano immagini di civili che si sono radunati sulla pista dell’aeroporto di Stepanakert per cercare di fuggire in Armenia, intanto si attendono notizie relative alle condizioni che dovranno firmare i rappresentanti del governo armeno. Una firma che sembra dover mettere fine per sempre alla storia della Repubblica dell’Artsakh e forse anche alla presenza secolare degli armeni nel Caucaso meridionale. 

“È la nostra storia di armeni a farci vivere queste ore con enorme apprensione e paura. In passato abbiamo già vissuto tragedie simili e adesso il rischio è che nel territorio del Karabakh ogni singola traccia della cultura e della storia armena venga distrutta”. L’archimandrita Garegin Hambardzumyan, da Etchimiadzin, il cuore della Chiesa apostolica d’Armenia, manifesta enorme preoccupazione per quanto sta accadendo e mette in guardia il mondo su una possibile cancellazione della storia armena nelle regione del Caucaso meridionale: “Quando oggi qualcuno dice che nel Nachicevan non ci sono mai state tracce di una presenza armena, sbaglia. Non sa che in Nachicevan ogni singolo monastero, ogni chiesa, ogni croce è stataa distrutta dopo che il territorio è passato sotto controllo azero. E il rischio è che anche in Artsakh possa accadere la stessa cosa”.

A Yerevan in queste ore una folla di cittadini sta manifestando in Piazza della Repubblica e invocando le dimissioni del premier Nikol Pashinyan accusato di aver abbandonato i residenti dell’Artsakh e aver perseguito un’agenda di politica estera che ha isolato e indebolito il Paese. A poche centinaia di chilometri dalla capitale invece la popolazione vive trincerata nella paura che il conflitto possa estendersi e coinvolgere anche la Repubblica d’Armenia. 

“Il confine con l’Azerbaijan è solo a due chilometri da dove viviamo noi. L’anno scorso, l’11 settembre, c’è già stata una guerra, l’esercito azero ha occupato parte del territorio dell’Armenia e noi siamo stati bombardati: cosa ci può garantire che ciò non avvenga di nuovo?”. Susanna Mandelyan vive insieme a suo padre nel villaggio di Sotk. Terra contadina, bruciata dal sole e dal vento dove i campi ostentano la messe come un inganno. Una scuola, un municipio su cui ancora sono impressi i segni lasciati dai colpi dell’artiglieria e poi un alternarsi di case di pietra: alcune distrutte, altre per pura sorte intatte ed altre con un tetto rosso di lamiera ad indicare, come un marchio del dolore, quelle che sono state colpite dai bombardamenti e che sono andate in fiamme. 

Dopo aver perso la sua abitazione Susanna e suo padre si sono trasferiti in un alloggio provvisorio: “Prima della guerra la vita era bellissima. Avevamo l’elettricità, l’acqua corrente, il gas e il lavoro, giorno dopo giorno, dava frutti meravigliosi. Poi è arrivata la guerra, la gente ha venduto gli armenti, molte case sono state distrutte e abbandonate e adesso, non abbiamo più niente se non la paura e l’incertezza”. 

Rimangono in silenzio Susanna e suo padre Arsen che, dopo aver aspirato lentamente alcune boccate di sigaretta e aver sorseggiato un thè amaro ,aggiunge soppesando ogni singola parola: “ho abbastanza anni per dire che il più grande dramma per un uomo non è aver paura di morire ma aver paura di vivere. E oggi noi armeni stiamo vivendo questo tipo di paura. La più brutale che ci sia”.

5916.- Giornata di guerra in Nagorno-Karabakh

La regione del Nagorno Karabakh con i confini prima del conflitto del 2020

Separatisti armeni chiedono il cessate il fuoco, il presidente azero Aliyev: “Prima arrendetevi!”

L’intervento dopo che Baku aveva incolpato i separatisti della morte di sei suoi cittadini. L’Armenia: “Vogliono prendere il controllo dell’enclave, è una pulizia etnica, intervenga il Consiglio di sicurezza Onu”. Ci sarebbero già almeno sette vittime. Così, Giuseppe Asta.Separatisti armeni chiedono il cessate il fuoco, il presidente azero Aliyev: prima arrendetevi

Twitter @Caucasuswar. Sistema di difesa aerea armeno NKR 9K330 distrutto a Stepanakert / Khankendi

Il regime di Ilham Aliyev ha ordinato di colpire quella che viene ritenuta la capitale dell’Artsakh, Stepanakert, dopo aver cercato di far morire di fame 120 mila armeni nell’ultimo anno chiudendo il Corridoio di Lachin

Da Tempi, Leone Grotti, 19/09/2023

L'Azerbaigian ha iniziato a bombardare Stepanakert, la capitale dell'Artsakh, dove vivono la maggior parte degli armeni del Nagorno-Karabakh
L’Azerbaigian ha iniziato a bombardare Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, dove vivono la maggior parte degli armeni del Nagorno-Karabakh (Ansa)

Dal Caffè Geopolitico

Oggi (19 settembre) il Ministero della Difesa dell’Azerbaijan ha annunciato di avere lanciato una “operazione anti-terrorismo” in Nagorno-Karabakh. La causa ufficiale di tale misura è la morte di alcuni soldati provocata da una mina sulla strada Ahmadbayli-Fuzula-Shusha.

Per le autorità azere la mina è stata posta da gruppi “terroristici” armeni e l’operazione è volta a “disarmare e assicurare il ritiro di tutte le forze armate dell’Armenia” dal Nagorno-Karabakh. In sostanza, le forze azere mirano al completo controllo della regione, in parte riconquistata con la guerra di tre anni fa.

L’Azerbaigian ha lanciato una nuova guerra nel Nagorno-Karabakh. Di seguito è riportato il loro comunicato che lo annuncia. Diversi video mostrano il bombardamento di fascista di Stepanakert.

Qui una serie di tweet informativi di Neil Hauer :

Margarita Simonyan, caporedattrice del media statale russo RT, ha accusato Aremnia dell’attacco. “Karabach”. Tragico, senza speranza e prevedibile”, ha scritto su X. “Così, Le autorità armene hanno consegnato personalmente il luogo sacro dell’Armenia”.

E qui da Anton Barbashin: 

Qual è la posizione russa riguardo ai combattimenti in Karabakh?
Come notato molte volte in precedenza, la Russia tramite CSTO garantisce la sicurezza dell’Armenia. Il Karabakh non è l’Armenia, quindi è una zona grigia. Lo stato russo non garantisce la sicurezza degli armeni del Karabakh.

A Yerevan sono consci della situazione e Pashinyan ha infatti dichiarato che non interverrà a sostegno del Governo separatista dell’area, provocando forti proteste popolari. Secondo l’analista Thomas van Linge gli eventi odierni sono l’ultimo atto di una lunga strategia dell’Azerbaijan volta ad ottenere il controllo definitivo del Karabakh e ad espellere la popolazione armena ivi residente. Questa strategia ha visto in precedenza il blocco dello strategico corridoio di Lachin con gravissime conseguenze per gli abitanti armeni, ridotti alla fame e indeboliti quindi nella loro volontà di resistenza.

Un approfondimento da Thomas van Linge:

La strategia mensile dell’Azerbaigian sta raggiungendo la fase finale:
– bloccare la strada per il Karabakh
– rendere la vita impossibile alle persone
– avviare operazioni militari su una popolazione affamata
– mirare alle colline intorno a Stepanakert.
– dare un bello spavento alla gente disperata del Karabakh

Sia il contingente di peacekeeper russi che gli osservatori turchi presenti nell’area sarebbero stati “informati” per tempo. La Russia è formalmente alleata dell’Armenia ma è molto improbabile che intervenga a sostegno di Yerevan o in veste di mediatore, come accaduto nel 2020. In parte ciò è dovuto alla guerra in Ucraina, che ha indebolito la sua influenza nel Caucaso, ma anche al rancore di Mosca verso il Governo di Nikol Pashinyan per le continue critiche dei mesi scorsi e per le sue recenti aperture diplomatiche verso i Paesi occidentali.

Qui Laurence Broers spiega di più:

Secondo quanto riferito, il contingente russo di mantenimento della pace e gli osservatori turchi sarebbero stati “informati”. Una domanda che molti si porranno è il prezzo dell’acquiescenza russa. Anche l’irritazione russa per le denunce dell’Armenia contro il Cremlino costituisce lo scenario ideale per un’operazione del genere.

Nelle ultime ore Baku ha reso note le condizioni per mettere fine alla sua campagna militare: disarmo delle formazioni armate armene e scioglimento del Governo separatista di Stepanakert. In pratica, una resa incondizionata.

Non a caso personaggi noti del regime russo come Margarita Simonyan e Dmitry Medvedev hanno apertamente accusato l’Armenia di essere responsabile della situazione. La Russia potrebbe quindi lasciar mano libera all’Azerbaijan non solo per debolezza militare, ma anche con l’obiettivo di punire Yerevan e sbarazzarsi dell’esecutivo di Pashinyan, visto sempre con sospetto perchè frutto della Rivoluzione di Velluto del 2018. Va anche ricordato che le garanzie date all’Armenia da Mosca e dalla CSTO coprono solo il territorio armeno internazionalmente riconosciuto e non il Nagorno-Karabakh, visto invece dalla comunità internazionale come parte dell’Azerbaijan.

Da OC Media maggiori dettagli: 

5390.- L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Questo scontro vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

Sulla porta di casa di Putin, la portavoce della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi promette il sostegno degli Stati Uniti all’Armenia contro gli attacchi illegali dell’Azerbaigian. La Pelosi è arrivata domenica in Armenia e ha condannato fermamente gli attacchi “illegali” al confine dell’Azerbaigian contro l’Armenia. La sua visita arriva pochi giorni dopo che gli scontri tra le due ex nazioni sovietiche sul confine conteso hanno provocato la morte di dozzine di persone di entrambe le parti. Promettendo il sostegno dell’America al paese alleato della Russia, Pelosi ha affermato che Washington sta ascoltando le esigenze di difesa dell’Armenia e intende sostituirsi a Mosca come garante, … probabilmente, senza dimenticare che la Turchia è il sostenitore dell’Azerbaigian.

Inoltre, l’UE ha appena concordato con l’Azerbaigian per quanto riguarda le alternative agli oleodotti dalla Russia e ora Pelosi sta sostenendo l’Armenia, questo sarà uno scontro che vedrà contrapporsi lo SCO all’Occidente e Putin la farà da spettatore, guardando l’UE e gli Stati Uniti che si contrappongono a vicenda.

L’Azerbaigian ha invaso il territorio sovrano dell’Armenia (che è riconosciuto dalla comunità internazionale e dall’ONU), quindi è una diretta violazione del diritto internazionale, si direbbe tal quale quella di Putin in Ucraina. Questa invasione non è realmente correlata all’Artsakh (Nagorno-Karabakh), infatti, questo stato dittatoriale sta valutando l’occupazione di Syunik, per poi costruire un corridoio economico per collegare Nakhijevan (originariamente un territorio armeno divenuto poi una regione autonoma dell’Azerbaigian) all’Azerbaigian. Anche altre parti dell’Armenia sono probabilmente minacciate, inclusa la capitale Yerevan.

La situazione vede tutti i grandi attori in campo ed è probabile che Putin faccia una selezione dei suoi impegni e venga a patti con Kiev. Sia con le esercitazioni sino-russe congiunte nell’Indo-Pacifico, sia con i colloqui con Xi a Samarcanda, Pechino e Mosca stanno dimostrando un legame che resiste alle pressioni dell’Occidente e non lascia spazi agli avversari in Eurasia. È questo il risultato numero uno ottenuto da Biden, più importante della distruzione economica dell’Europa.

L’Armenia chiede aiuto alla Russia, ma Putin non risponde e arrivano gli USA

Da AbruzzoLive, di Francesco Proia, 17 Settembre, 2022

 Condividi

Dopo il recente attacco azero all’Armenia il presidente Alen Simonyan ha chiesto aiuto a Mosca, che però non ha potuto rispondere poiché troppo impelagata nella guerra in Ucraina.

Secondo un recente tweet di Greg Yudin, direttore di filosofia politica, scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca, questo rifiuto del Cremlino non fa che palesare il crollo catastrofico della politica estera russa in una regione estremamente importante. Già dopo il conflitto del 2020 la Russia aveva completamente fallito la sua missione di pacificazione, nonostante avesse tutti i mezzi per farlo. Ovviamente questa è stata una scelta ben studiata da parte di Mosca, che non voleva in alcun modo inasprire i rapporti con la Turchia di Erdogan, da sempre a favore dell’Azerbaigian. All’epoca la Russia si era limitata a un accordo di protezione dell’Armenia, accordo di protezione a cui però oggi la Russia, con tutte le forze militari impegnate in Ucraina, fa chiaramente difficoltà a tener fede. E così l’Azerbaigian qualche giorno fa ha rialzato la testa e ha deciso di attaccare l’Armenia. Ma l’Armenia è una repubblica democratica, dove se le cose non vanno come devono andare i cittadini sono liberi di protestare contro il proprio governo. Ecco quindi che, rimasta inascoltata la richiesta di aiuto alla Russia, l’Armenia ha deciso di rivolgersi agli Stati Uniti, alla Francia e alla Gran Bretagna che nel 2020 erano stati messi da parte come paesi garanti in favore della Russia.

E proprio questo sarebbe il motivo che si nasconde dietro l’urgente viaggio di Nancy Pelosi a Yerevan, che in qualche modo certifica agli occhi del mondo che la Russia non è più il garante di sicurezza di quella regione. Ma questo certificherebbe anche che il CSTO, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’alleanza militare fondata nel 1992 da nazioni appartenenti alle Repubbliche Socialiste Sovietiche che dovrebbe fare da contraltare alla NATO, è sempre meno potente. E infatti in questi giorni proprio tra gli stati del CSTO si sta aprendo un altro fronte, con le lotte intestine tra Kirghizistan e Tagikistan. Insomma secondo Greg Yudin l’idea iniziale di Putin, ovvero di creare spaccature interne alla NATO, sta facendo invece crollare il suo blocco, trascinato proprio dalla Russia, un impero in caduta secondo lo studioso russo, che creerà sempre più instabilità.

5387.- Attacco avvolgente alla Federazione Russa

Armenia-Azerbaijan, la sfida che gli USA sembra siano vincendo

I nuovi campi di battaglia nella guerra fra gli Stati Uniti e la Russia: sfuttare il conflitto Armenia-Azerbaijan.

guerra armenia-azerbaijan

Fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere il cambiamento di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni Armenia-Azerbaijan, isolare la Transnistria. Queste le strategie della Rand Corporation messe in atto dagli Stati Uniti.

Non è complottismo, ma un documento strategico pubblico preparato dalla RAND Corporation, un istituto di ricerca statunitense fondato e finanziato dal Dipartimento della Difesa USA: 

Il documento RAND Corporation

A pagina 96 si legge:

Il presente capitolo descrive sei possibili mosse degli Stati Uniti nell’attuale competizione geopolitica: fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere un cambiamento di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni armene e azere, intensificare l’attenzione per l’Asia centrale e isolare la Transnistria.

Mentre, a pagina 117

In alternativa, gli Stati Uniti potrebbero cercare di indurre l’Armenia a rompere con la Russia.

Sebbene sia un partner russo di lunga data, l’Armenia ha sviluppato anche legami con l’Occidente: Fornisce truppe alle operazioni guidate dalla NATO in Afghanistan ed è membro del Partenariato per la pace della NATO e ha recentemente accettato di rafforzare i suoi legami politici con l’UE.

Gli Stati Uniti potrebbero cercare di incoraggiare l’Armenia a entrare a pieno titolo nell’orbita della NATO.

Gli scontri Armenia-Azerbaijan (estratti da balcanicaucaso.org)

Il contesto 

Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaijan.

Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri.

In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.

Nell’autunno del 2020, l’Azerbaijan ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena.

In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaijan ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni.

12 Settembre 2022

L’attacco dell’Azerbaijan all’Armenia avviene in aree esterne a quelle contese. In questo caso si tratta quindi di un paese che attacca in modo organizzato il vicino al di fuori di aree di conflitto, in aree tecnicamente non contese, senza obiettivi strategici evidenti: una dinamica del tutto nuova e preoccupante.

Ufficialmente, Baku ha spiegato questo attacco come una reazione a un’operazione di sabotatori armeni condotta il 12 settembre e a ripetute azioni ostili condotte dalla parte armena: lo scopo dell’intervento sarebbe quindi prevenire il ripetersi di simili provocazioni.

La spiegazione pare poco convincente, sia perché nell’attuale contesto l’Armenia non ha alcun interesse a cercare escalation militare con un vicino nettamente più forte, sia perché un attacco che raggiunge a colpi d’artiglieria oltre venti centri abitati in zone precedentemente non coinvolte dal conflitto sarebbe in ogni caso una reazione sproporzionata anche a una presunta provocazione: non può essere certo sufficiente a giustificare le oltre 200 vittime che sono conseguenza diretta di questo attacco.

Il ruolo di Israele e Stati Uniti nel conflitto Armenia-Azerbaijan

Il 17 settembre è trapelata la notizia secondo cui voli cargo israeliani atterravano in sequenza a Baku, in Azerbaigian.

Si tratta di munizioni e altri sistemi bellici che vengono consegnati all’Azerbaigian.

Il 19 settembre i ministri degli esteri armeno e azero si sono incontrati a New York, con la mediazione del Segretario di Stato Blinken.

Ma nel frattempo, dal 17 al 19 settembre la presidente della Camera USA, Nancy Pelosi, visitava l’Armenia con una delegazione del Congresso.

Trascrivo l’analisi di Rybar. Ovviamente la traduzione dal russo è automatica, quindi le imprecisioni sono altamente probabili.

La visita di Nancy Pelosi a Yerevan dal 17 al 19 settembre – La sintesi di Rybar

Una delegazione di membri del Congresso guidata dal presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi ha visitato l’Armenia dal 17 al 19 settembre. Pelosi è il più alto funzionario statunitense a visitare la Repubblica da quando ha ottenuto l’indipendenza.

Ha dichiarato che gli Stati Uniti sono preoccupati per la sicurezza dell’Armenia e hanno condannato a nome del Congresso l’attacco dell’Azerbaigian ai territori sovrani della Repubblica (bizzarro, visto che l’attacco è avvenuto su evidente impulso, ad esempio, dell’alleato USA, Israele n.d.r.).

Il Team Fish, insieme a Istanbul Wolf, analizza le implicazioni della visita del Presidente della Camera degli Stati Uniti in Armenia e parla degli obiettivi espliciti e impliciti.

Sui termini di supporto.

Dopo i colloqui con il Primo Ministro Nikol Pashinyan, sono state rese note alcune delle condizioni del sostegno statunitense: secondo il Primo Ministro, le autorità armene sono pronte a proseguire sulla strada delle riforme democratiche.

A questo proposito, è stata discussa l’adesione della Repubblica al programma Millennium Challenges dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID).

Sul genocidio armeno e le elezioni

La Pelosi ha visitato il monumento alle vittime del genocidio armeno turco del 1915, dove ha ostentatamente versato una lacrima davanti alla telecamera, e si è impegnata a stare dalla parte dell’Armenia contro la Turchia sulle questioni relative al Nagorno-Karabakh. Allo stesso tempo, il Presidente della Camera ha sottolineato che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden riconosce il genocidio armeno (anche se finora solo a parole).

Il desiderio di mostrare sostegno agli armeni in ogni modo possibile può essere legato a un’altra ragione: a novembre negli Stati Uniti si terranno le elezioni di metà mandato del Congresso. Gli uomini d’affari e i finanzieri di origine armena negli Stati Uniti potrebbero potenzialmente fornire fondi per la campagna elettorale del Partito Democratico.

Sul potenziale ritiro dell’Armenia dalla CSTO

Non sono solo le autorità armene ad aver preparato l’arrivo della delegazione: una manifestazione a Erevan per il ritiro dell’Armenia dal CSTO è stata sostenuta da membri dell’opposizione russa.

Pelosi ha annunciato di essere pronta ad “aiutare” se la leadership armena deciderà di lasciare la CSTO. Washington sembra prepararsi a questo passo: il Ministro della Difesa armeno Suren Papikyan, recentemente tornato dagli Stati Uniti, ha discusso con i membri del Congresso le prospettive di cooperazione nella sfera della difesa.

Lo speaker dell’Assemblea nazionale armena, Alain Simonyan, del partito di Pashinyan, si è spinto oltre, dimenticando il ruolo della Russia nel Caucaso meridionale e definendo gli Stati Uniti il principale garante della tregua stabilita tra Baku ed Erevan.

Sulle conseguenze del rafforzamento dell’influenza statunitense in Armenia

Il rafforzamento della sua influenza in Armenia permetterà agli Stati Uniti di assumere il controllo indiretto del corridoio Zangezur, di importanza strategica, nel sud del Paese. È ancora rivendicato dai turchi e dagli azeri, e gli americani stanno ripulendo il mercato petrolifero dagli idrocarburi russi con le loro mani.

L’accesso diretto della Turchia al Mar Caspio attraverso l’Armenia meridionale risolverebbe il deficit energetico di Ankara, mentre la potenziale costruzione di nuovi gasdotti nell’area getterebbe le basi per estromettere la Russia dai mercati.

La Turchia, che è indirettamente controllata dall’Occidente, è un alleato di gran lunga migliore per gli Stati Uniti rispetto all’Armenia. Naturalmente, la scelta tra Turchia e Armenia non sarà a favore di quest’ultima.

La Turchia è più ricca, ha un esercito e un complesso militare-industriale. Inoltre, i turchi hanno la capacità geopolitica di esercitare pressioni sull’Europa orientale, sul Nord Africa, sul Medio Oriente e sulla Russia.

Pertanto, il massimo che gli americani si aspettano è la creazione di una vera e propria opposizione tascabile, oltre che di un governo armeno tascabile, attraverso gli imprenditori armeni emigrati. Questo è necessario sia per la competizione tra il governo e l’opposizione, sia per il loro controllo reciproco.

E tutto questo si combinerà per provocare un’instabilità ancora maggiore in Armenia e quindi nel Caucaso meridionale.

Soldati su un carro amrato © Bumble Dee/Shutterstock

Su Armenia-Azerbaijan il “progetto” RAND Corporation in tutto il suo splendore

Quindi:

  • “Riforme democratiche” secondo i parametri degli Stati Uniti (ricordiamo l’esportazione di democrazia in Jugoslavia, in Irak, in Libia, in Afghanistan eccetera)
  • Adesione a USAID, lo strumento utilizzato dagli Stati Uniti per i “Regime Change” in giro per il mondo
  • Aiuti solo se l’Armenia lascerà la CSTO, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva di alcuni dei Paesi dell’ex Unione Sovietica

Le intenzioni americane sullo sfruttamento del conflitto Armenia-Azerbaijan erano chiare e pubbliche.

Le ragioni dell’apparente disinteresse russo molto meno.

Al n. 5385 abbiamo trattato della debolezza di Mosca, della guerra in Ucraina, della difficoltà per l’Unione europea di rinunciare alle forniture di gas azere, dell’attuale vulnerabilità armena, tutti fattori che contribuiscono a chiarire il contesto del rinnovato conflitto tra Armenia e Azerbaijan e i motivi dell’escalation dei giorni scorsi

5385.- Conflitto tra Armenia e Azerbaigian: perché proprio in questo momento, perché questa volta è più preoccupante e c’entra anche la debolezza di Mosca

Manovra avvolgente

18 Settembre 2022, di Giorgio Comai, Valigia Blu

Per due giorni, a partire dalla notte tra il 12 e 13 settembre e fino alla sera del 14 settembre ci sono stati intensi scontri a fuoco lungo estesi settori del confine tra Armenia e Azerbaigian. Attacchi con artiglieria e droni dell’Azerbaigian hanno colpito non solo posizioni di confine, ma hanno raggiunto anche centri abitati armeni che non si trovano in immediata prossimità del confine. Ufficialmente gli scontri hanno causato 77 morti di soldati dell’Azerbaigian, e 135 in Armenia (numeri non definitivi), con feriti e oltre 7.600 persone evacuate per sicurezza dai centri abitati armeni più esposti all’attacco. Sebbene l’Azerbaigian abbia presentato questa azione militare come una risposta a provocazioni armene, tutto fa pensare a un deliberato intervento di Baku per evidenziare la propria posizione di forza e imporre sostanzialmente i propri termini all’Armenia nella fase avanzata dei negoziati di pace attualmente in corso. Un cessate-il-fuoco tra le parti sembra per ora reggere, ma la situazione rimane tesa; in seguito a questi eventi, l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune alture in aree di confine armene. 

Il contesto

Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaigian. Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri. In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.

Leggi anche >> Il conflitto Armenia-Azerbaigian: le pulizie etniche, gli interessi economici e geopolitici e una guerra che non è mai finita

In questi anni, l’Azerbaigian – la cui popolazione è oltre il triplo di quella dell’Armenia –  si è notevolmente rafforzato dal punto di vista economico grazie all’esportazione di idrocarburi e ha dedicato crescenti risorse alle proprie forze armate, rendendo così sempre più evidente la disparità di forze tra i paesi vicini. Nell’autunno del 2020, l’Azerbaigian ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena. In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaigian ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni. La guerra ha causato decine di migliaia di sfollati armeni, ma buona parte della popolazione armena del Nagorno Karabakh (circa 140.000 persone prima della guerra del 2020) continua a vivere nella regione protetta da un contingente di forze di pace della Federazione russa, in un contesto che pare sempre più fragile.

Perché gli eventi di questi giorni sono preoccupanti

Durante la guerra del 2020, le azioni militari si sono svolte per intero in Nagorno Karabakh e nei territori adiacenti, ovvero, all’interno di quelli che sono i confini internazionalmente riconosciuti dell’Azerbaigian. Ad eccezione di piccole schermaglie che interessavano in particolare aree in cui vi sono centri abitati che si trovavano in diretta prossimità del confine tra Armenia e Azerbaigian (gli incidenti più gravi si sono registrati nel 2014 e nel 2020), né prima né dopo quella guerra gli eserciti dei due paesi si sono scontrati lungo il confine internazionalmente riconosciuto che li separa, né erano mai stati colpiti obiettivi militari o altra infrastruttura situata all’interno dei confini dell’Armenia. A differenza dei precedenti episodi in ampia parte imputabili alla vicinanza tra le forze che controllano il confine dalle due parti e a dinamiche incidentali, l’attacco del 13 settembre da parte dell’Azerbaigian è evidentemente pianificato e deciso a livello centrale: l’impiego di artiglieria pesante e droni su lunghi settori del confine non lascia adito a dubbi. È un evento su scala molto più ampia rispetto a piccole seppur contestate avanzate in zone scarsamente presidiate e dove il confine non è pienamente demarcato, come si era osservato a maggio dello scorso anno in zone montane.

In questo caso si tratta quindi di un paese che attacca in modo organizzato il vicino al di fuori di aree di conflitto, in aree tecnicamente non contese, senza obiettivi strategici evidenti: una dinamica del tutto nuova e preoccupante.

Perché quindi da parte dell’Azerbaigian si è deciso di intervenire in questo modo, in questo momento e in questa area?

Perché proprio in questo momento?

Ufficialmente, Baku ha spiegato questo attacco come una reazione a un’operazione di sabotatori armeni condotta il 12 settembre e a ripetute azioni ostili condotte dalla parte armena: lo scopo dell’intervento sarebbe quindi prevenire il ripetersi di simili provocazioni. La spiegazione pare poco convincente, sia perché nell’attuale contesto l’Armenia non ha alcun interesse a cercare escalation militare con un vicino nettamente più forte, sia perché un attacco che raggiunge a colpi d’artiglieria oltre venti centri abitati in zone precedentemente non coinvolte dal conflitto sarebbe in ogni caso una reazione sproporzionata anche a una presunta provocazione: non può essere certo sufficiente a giustificare le oltre 200 vittime che sono conseguenza diretta di questo attacco. 

Una serie di elementi di contesto aiuta a capire meglio le dinamiche che plausibilmente hanno portato Baku a prendere questa decisione. Primo tra questi è il contesto internazionale estremamente favorevole per l’Azerbaigian: Baku ha potuto decidere di intervenire con un attacco sul suolo di un altro Stato senza un credibile pretesto anche perché aveva la convinzione – per ora, confermata dai fatti – che non avrebbe pagato un prezzo sostanziale per quella che a tutti gli effetti è una grave e ingiustificata violazione del diritto internazionale. L’Armenia è militarmente indebolita e conscia di non potersi permettere una reale escalation militare. La Russia, storico alleato dell’Armenia e garante dell’armistizio del novembre 2020, ha evidentemente altre priorità in questo momento; potrebbe non essere solo una coincidenza il fatto che questo attacco abbia avuto luogo solo pochi giorni dopo l’importante controffensiva di Kharkiv che ha messo ulteriormente in evidenza i limiti della forza militare russa. Più in generale, le dinamiche legate all’invasione dell’Ucraina riducono strutturalmente l’influenza di Mosca nel Caucaso meridionale. 

Inoltre, evitando di colpire le aree protette dai peacekeeper russi in Nagorno Karabakh, Baku ha ridotto ulteriormente il rischio un coinvolgimento diretto delle forze di Mosca, anche se ha comunque messo in evidenza la debolezza degli accordi internazionali che dovrebbero tutelare la sicurezza dell’Armenia. Oltre ad avere un accordo bilaterale di sicurezza e mutuo soccorso con la Federazione russa, l’Armenia infatti è membro dell’“Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva” (OTSC), un’alleanza militare attualmente composta da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’OTSC ha una clausola di difesa collettiva simile all’articolo 5 della NATO, che impegnerebbe gli stati partecipanti a venire in soccorso qualora uno di questi stati sia attaccato. Yerevan ha cercato di ottenere aiuto dagli alleati, ma un loro sostegno militare diretto, mentre la Russia è “distratta” dalla guerra in Ucraina, pare semplicemente implausibile anche nel contesto di un’escalation più ampia: l’OTSC si è limitata a esprimere genericamente preoccupazione per la situazione e a mandare una missione conoscitiva in Armenia.

Baku sa inoltre di non dover temere reazioni dure neppure dall’Occidente. Sia Unione Europea che Stati Uniti hanno intimato di interrompere le azioni militari, ma realisticamente Baku ha poco di cui preoccuparsi: in questa fase l’Unione europea difficilmente rinuncerebbe alle forniture di gas dall’Azerbaigian quanto mai necessarie nei prossimi mesi per supplire alle ridotte importazioni dalla Russia (la presidente della Commissione Europea von der Leyen ha profusamente ringraziato il presidente dell’Azerbaigian Aliyev per il suo sostegno durante una sua visita a Baku lo scorso luglio). L’attuale dinamica dei prezzi degli idrocarburi garantisce inoltre un aumento molto significativo degli introiti per il bilancio di Baku per l’anno in corso e per il futuro prossimo.

In breve, il contesto favorevole spiega perché non ci fosse alcun deterrente immediato per Baku; non è però sufficiente a spiegare perché abbia deciso di agire in questo momento, in quest’area e con queste modalità.

Questi scontri lungo il confine avvengono infatti in una fase apparentemente positiva e costruttiva del processo negoziale, con ripetuti incontri diretti tra la leadership di Armenia e Azerbaijan ospitati dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. L’incontro più recente si è tenuto a Bruxelles lo scorso 31 agosto, solo due settimane prima delle violenze dei giorni scorsi, e secondo il comunicato ufficiale rilasciato dall’Unione Europea si è trattato di uno scambio produttivo, in seguito al quale veniva dato compito ai ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaigian di produrre una bozza di trattato di pace entro fine settembre.

Violenza, rivendicazioni e minacce

In questo contesto, l’attacco dei giorni scorsi è quindi interpretabile in primo luogo come un modo da parte dell’Azerbaigian per evidenziare la situazione di estrema vulnerabilità in cui si trova l’Armenia in questo momento, e quindi per sottolineare in questa fase avanzata di negoziati che l’Azerbaigian non è in cerca di concessioni, ma che in quanto vincitore dell’ultima guerra e stato militarmente più forte ha tutta l’intenzione di imporre le proprie condizioni.

Questo attacco è quindi non solo un pro-memoria della superiorità militare dell’Azerbaigian e della situazione di estrema vulnerabilità dell’Armenia, ma anche un’esplicita minaccia, che accompagna minacce verbali e rivendicazioni ripetutamente espresse in passato. Già nel 2021 infatti, il presidente Aliyev aveva dichiarato che l’Azerbaigian avrebbe stabilito un corridoio attraverso la regione armena di Syunik per facilitare il collegamento con la regione del Nakhchivan e la Turchia alle proprie condizioni: “Se l’Armenia sarà d’accordo, risolveremo questa situazione in modo più semplice, se non vuole, la risolveremo con la forza.” Ripetutamente negli scorsi anni, e più recentemente anche in contesto di negoziati, il presidente dell’Azerbaigian ha descritto gran parte del territorio dell’Armenia come territorio storicamente azero, insistendo in particolare sull’area meridionale dell’Armenia dove si sono concentrati gran parte degli attacchi dei giorni scorsi.

Cosa vuole ottenere l’Azerbaigian

Anche trascurando le rivendicazioni più ampie – che comunque è importante non normalizzare –  nell’immediato pare che l’intenzione da parte dell’Azerbaigian sia quella di spingere la leadership dell’Armenia a sottoscrivere un accordo di pace con il rispettivo riconoscimento dell’integrità territoriale tra i due paesi, senza alcun riferimento allo status o ai diritti delle popolazione armena del Nagorno Karabakh, e con la creazione di un corridoio azero attraverso Syunik alle condizioni di Baku, ovvero un corridoio al di fuori della giurisdizione armena e senza punti di controllo (l’armistizio del novembre 2020 prevedeva l’apertura di una linea di comunicazione, affidandone la supervisione alla Russia). 

Quando sono iniziati i colpi d’artiglieria nel cuore della notte del 12 settembre, era difficile da parte armena capire se si trattasse di un attacco relativamente limitato, o se fosse solo l’inizio di un’avanzata più sostanziale mirata a mettere in pratica le minacce ripetutamente espresse in passato. Instillare preoccupazione e paura nella popolazione armena per ottenere un accordo di pace che soddisfi a pieno le richieste di Baku senza ulteriori indugi era presumibilmente tra le motivazioni principali di questa offensiva di Baku.

Sicuramente l’attacco ha destato timore e preoccupazione, ma anche tanta rabbia, aumentando le tensioni interne in Armenia e mettendo potenzialmente a rischio la stabilità del governo. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan da tempo sta infatti lavorando per preparare il pubblico armeno ai difficili compromessi che saranno parte di ogni realistico accordo di pace, inclusa la rinuncia all’indipendenza del Nagorno Karabakh che per tanti anni è stato elemento centrale tra le richieste armene. Affinché si arrivi ad un trattato di pace che sia effettivamente difendibile di fronte alla popolazione, è importante che Pashinyan sia in grado di comunicare che questo difficile compromesso è fatto nell’interesse del paese e del popolo armeno. 

Cercare di concludere i negoziati sotto minaccia di violenza complica quindi ulteriormente il processo negoziale e rischia effettivamente di farlo deragliare, creando rischi per la tenuta del governo Pashinyan e favorendo l’ascesa a Yerevan di forze che più esplicitamente si oppongono a eventuali accordi. Baku potrebbe forse imporre con le armi le proprie condizioni, ma ad un costo umano, politico ed economico molto alto: si tratta di uno scenario difficilmente sostenibile e ricco di incognite che l’Azerbaigian non ha effettivo interesse a perseguire finché ha realistiche possibilità di ottenere gran parte di ciò che desidera per vie negoziali. 

Le prospettive

Sebbene la situazione sia ancora tesa e non sia affatto possibile escludere nuove violenze nei prossimi mesi, pare realistico che quantomeno nel breve periodo non emergano nuovi attacchi su ampia scala lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian. In questo momento entrambe le parti hanno interesse a fare in modo che gli scontri del 13-14 settembre escano al più presto dal dibattito pubblico; lo stesso presidente Aliyev ha minimizzato l’accaduto in un incontro con il presidente russo Vladimir Putin avvenuto il 16 settembre: “Nessuna delle parti aveva intenzione di arrivare ad un escalation su ampia scala. Scontri di confine, purtroppo, succedono. L’importante è che si sia arrivati a stabilizzare la situazione”.

È importante che nelle prossime settimane si riprendano i negoziati, proseguendo il percorso negoziale in corso che, pur tra enormi difficoltà, potrebbe progressivamente portare ad un accordo di pace. Il governo armeno in questi mesi ha dimostrato effettiva disponibilità a cercare compromessi, riducendo al minimo le proprie richieste, ma insistendo comunque che un eventuale accordo includa effettivi meccanismi di tutela per la sicurezza e i diritti della popolazione armena del Nagorno Karabakh, seppur accettando la piena sovranità di Baku su quest’area.

Per superare questa difficile fase del conflitto tra armeni e azeri e favorire dinamiche positive è quindi fondamentale trovare formule di compromesso riguardo alle vie di transito a disposizione dell’Azerbaigian attraverso il suolo armeno previste dall’armistizio del 2020 e soprattutto soluzioni che garantiscano diritti e sicurezza per la popolazione armena del Karabakh o che comunque contemplino un realistico percorso per definirli.

La sicumera che emerge costantemente dalle dichiarazioni di Baku, la prontezza nel ricorrere alle armi dimostrata anche nei giorni scorsi e l’esplicita e ripetuta minaccia dell’uso della forza per imporre le proprie condizioni, purtroppo, non lasciano ben sperare. La sostanziale assenza di una retorica pubblica effettivamente conciliatoria e inclusiva da parte di Baku e l’esclusione della comunità locale del Nagorno Karabakh dal processo negoziale sono destinati a creare nuove fratture. Il presidente Aliyev insiste che il Nagorno Karabakh è ora una questione interna dell’Azerbaigian, che l’Azerbaigian è uno stato multietnico dove non vi sono discriminazioni, e che non vi è quindi bisogno di alcun trattamento di privilegio per gli armeni né alcuna forma di autonomia. Si tratta di dichiarazioni nient’affatto rassicuranti. Senza esplicite tutele sulle quali dovrebbero attivamente insistere anche i principali attori internazionali coinvolti, il rischio che rinnovate tensioni portino a una nuova guerra e che la popolazione armena del Karabakh sia vittima di pulizia etnica nei prossimi anni è purtroppo del tutto concreto.

*Giorgio Comai è ricercatore ad Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa

5377.- Notte bianca per Putin. L’Azerbaigian, membro Nato, attacca l’Armenia, alleato russo.

Le strategie dell’Occidente contro la Federazione russa riaccendono il conflitto nel Nagorno-Karabakh. Nella notte, l’Azerbaigian, membro della Nato e alleato della Turchia, ha aperto il fuoco con artiglieria pesante, razzi e droni contro il territorio dell’Armenia, alleato della Russia, che vi mantiene una forza di pace. E, allora, una domanda: Attraverso l’Azerbaigian, è la Nato che tenta di profittare del momento che vede impegnata la Russia in Ucraina o è l’Azerbaigian, appoggiato da Erdogan, che attraverso l’Armenia riapre la partita del Nagorno-Karabakh? L’ONU non pervenuta. Di là dall’Atlantico regna la pace!

L’Armenia chiede aiuto militare alla Russia negli scontri con Azerbaigian

Da Scenari economici del 13 settembre 2022, di Giuseppina Perlasca,

Pesanti combattimenti sono scoppiati tra Armenia e Azerbaigian lungo il confine poco dopo la mezzanotte di domenica ora locale, con il ministero della Difesa di entrambi i Paesi che ha citato scontri in diverse località. L’Armenia afferma che il suo territorio è sotto attacco e che intensi bombardamenti stanno colpendo Goris, Sotk e Jermuk nella parte orientale. La situazione è talmente grave che l’Armenia ha chiesto aiuto all’esterno, al potente alleato russo.

In particolare, si parla di scambi di fuoco ben oltre la regione contesa del Nagorno-Karabakh, ma di bombardamenti sull’Armenia vera e propria. “Le forze armate azere hanno lanciato un’offensiva militare contro le posizioni armene in Armenia”, scrive un corrispondente regionale.

Azerbaijan TB2 drone striking Armenia artillery position.

Circolano diversi video che mostrano soldati armeni presi prigionieri.

Pesante fuoco di artiglieria segnalato dall’Azerbaigian verso l’Armenia.

·Twitter for Android

Massive rocket barrage by Azerbaijan on Armenian positions. Un fiume ininterrotto di razzi: questa non è una scaramuccia.

Sembra che i combattimenti si siano protratti per due ore, suggerendo che questo potrebbe essere l’inizio di un conflitto su larga scala, dato che le tensioni si sono stemperate a partire dall’ultima guerra per il Nagorno-Karabakh nel settembre e nel novembre 2020.

Arman Torosyan, portavoce del Ministero della Difesa armeno, ha confermato che “le intense schermaglie continuano a seguito della provocazione su larga scala dell’Azerbaigian lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian”. Entrambe le parti ora accusano l’altra di aggressione e provocazione.

La notte di combattimenti in più punti lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian è abbastanza grave da indurre Erevan a chiedere l’aiuto della Russia, suo potente alleato. Questo è stato rivelato poche ore dopo che il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan ha avuto una conversazione telefonica a tarda notte con il Presidente Vladimir Putin. Il governo armeno ha poi confermato di aver richiesto l’assistenza militare russa per respingere le aggressioni e i bombardamenti dell’Azerbaigian, secondo un comunicato:

Durante l’incontro sono stati discussi ulteriori passi per contrastare le azioni aggressive dell’Azerbaigian contro il territorio sovrano dell’Armenia, iniziate a mezzanotte. In relazione all’aggressione contro il territorio sovrano della Repubblica d’Armenia, è stato deciso di rivolgersi ufficialmente alla Federazione Russa per attuare le disposizioni del Trattato di Amicizia, Cooperazione e Mutua Assistenza, nonché all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva e al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.”

L’Armenia basa la richiesta sul patto dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva che ha con la Russia e in base al quale la Russia ha precedentemente inviato forze di pace nel Nagorno-Karabakh dopo il conflitto dell’autunno 2020. In base a questo accordo i due paesi devono intervenire militarmente per difendere l’altro in caso di attacchi.

The Armed Forces of Azerbaijan are shelling Armenia. Local reports indicate that the residents of Jermuk, Goris and Vardenis took shelter in the basements. pic.twitter.com/p9piXkqbqB

— Vugar Bakhshalizade (@vbakhshalizade) September 12, 2022

L’intervento russo aprirebbe un ennesimo piano di confronto con la Turchia, paese strettamente collegato all’Azerbaigian e parte della NATO. Inoltre l’Azerbaigian si è rivelato come uno dei fornitori di riserva della UE nel caso di interruzione degli invii di gas russo. Un altro focolaio di tensione internazionale molto pericoloso.

3489.- Macron scioglie il gruppo ultranazionalista turco dei Lupi Grigi. Erdoğan: Ankara “risponderà con la forza”

Mentre aspettiamo di capire quale sarà la politica della NATO verso la Turchia dopo Trump, Emmanuel Macron fa fronte all’attacco dell’Islam, fomentato da Recep Tayyip Erdoğan. Lo scontro è frontale.

Ci mancavano pure i Lupi Grigi, i famigerati nazionalisti dell’ultra destra parafascista e xenofoba turca, che spesso si sono macchiati di crimini efferati e che sono tra i sostenitori del sultano Recep Tayyip Erdoğan.  Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdoğan sono coinvolti in uno scontro che, molto possiamo dire certamente voluto e cercato da entrambi e che trova radice, da un punto di vista, nella politica sempre più aggressiva, espansionista di Erdoğan, da un altro punto, nella debolezza politica della Turchia, come potenza regionale, impossibile a sostenere le aspirazioni del cosiddetto neo sultano. Non dimentichiamo che, con l’eccezione dei droni, le proiezioni di potenza turche in Siria, in Libia, nel Karabach, hanno visto l’impiego di un arsenale datato della NATO, risalente alla Guerra Fredda. Nemmeno dimentichiamo, che nella regione di cui il sultano varrebbe diventare arbitro e padrone si intrecciano gli interessi delle vere potenze.

Per l’Europa, i soli a fare fronte a Erdoğan sono i greci e Emmanuel Macron.

Alle spalle dell’attivismo turco c’è la cosiddetta Nuova Via della Seta, dalla Cina verso il Mediterraneo e l’Europa. In questi ultimi tre anni, la Cina ha investito tre miliardi di dollari in Turchia e, dopo la Russia, è il secondo più grande importatore di prodotti turchi. Il progetto della Nuova Via della Seta è stato solo rallentato dalla pandemia e costituisce una occasione unica per i paesi del Medio Oriente. La Grande Turchia deve, però, fare i conti con Israele e con l’Arabia Saudita. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebrando alla Casa Bianca la firma degli Accordi di “Abramo” da parte di Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein per la normalizzazione delle loro relazioni, aveva, anzi, ha messo la prima pietra sul Nuovo Medio Oriente. Ora, mentre la normalizzazione dei rapporti degli arabi con Israele ha fermato l’annessione dei Territori palestinesi e permetterà agli Emirati Arabi Uniti di sostenere con maggior forza i palestinesi nella realizzazione di un loro Stato indipendente, l’intenzione di Erdoğan, malgrado le smentite, senz’altro strumentali, sarebbe di annettere o sottomettere territori, ridisegnare a pro suo i confini degli stati inventati nella regione medio orientale dagli accordi di Sykes-Picot  tra i governi del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e della Repubblica francese. La sconfitta di Trump e della sua ferma leadership non dovrebbero fermare questo processo.

In tutto questo divenire, le continue iniziative aggressive di Recep Tayyip Erdoğan costituiscono un problema e, per la Turchia, un boomerang, a parere nostro. Erdoğan è abile a collocarsi dove gli interessi contrapposti lasciano spazi alla sua ambizione e alla sua necessità di alimentare il favore dei turchi per la sua politica. Proprio gi interessi contrapposti, hanno fatto sì che Francia e Turchia siano giunte ai minimi termini. Nel Nagorno-Karabakh, Erdoğan ha armato, sostenuto e condotto le operazioni degli azeri e, con vari progetti, mira a mantenere la sua influenza sull’Azerbaijgian. Qui, Erdoğan ha dovuto sottomettersi a Putin. In Medio Oriente, Ankara sta deliberatamente lavorando per una autonomia dall’Occidente e dalla Russia. Un’ambizione da tavolo del poker. Nel recente conflitto del Nagorno-Karabakh, la politica dell’Eliseo è stata a favore dell’Armenia e l’impegno militare di Ankara nel conflitto ha acuito le tensioni. In Libia, Erdoğan ha comprato da al-Sarraj una posizione privilegiata, promettendo di debellare l’esercito fedele a Khalifa Haftar, senza però riuscirci. Lo avessero lasciato libero di strafare, avrebbe trasferito in Libia l’esercito turco, ma non demorde. Di certo, a Erdoğan non manca il coraggio che difetta al governo italiano. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura. La Turchia, dopo 108 anni, è tornata in Libia e ha fatto di Misurata una sua base navale. A giugno, la Turchia, aveva accusato la Francia di aver appoggiato le forze del generale Khalifa Haftar e di aver violato quanto deciso dall’Alleanza Atlantica e dalle Nazioni Unite. Il Ministro della Difesa aveva parlato molto chiaramente di “un problema turco” da affrontare in seno alla Nato. Considerate anche la cacciata dell’ENI dalle acque di Cipro, i tentativi di accaparramento delle risorse energetiche, le frizioni della Turchia con la Grecia su queste risorse e sull’Asia Minore e le manovre congiunte fra le flotte francese e greca, in chiave anti turca, niente di più vero. Aspettiamo di vedere come Biden affronterà il problema turco denunciato da Macron e non da Merkel. Trump, sorpassando anche l’ONU, ha fatto pensare a un futuro in cui arabi e israeliani, musulmani, ebrei e cristiani possano vivere insieme, pregare insieme e sognare insieme, vicini, in armonia”. Il Corano non dice questo.

Mercoledì la Turchia ha avvertito che avrebbe “risposto con forza” allo scioglimento da parte della Francia dell’organizzazione ultranazionalista turca “I lupi grigi”, definendo la mossa una “provocazione”. “Sottolineiamo che è necessario tutelare la libertà di espressione e di riunione dei turchi in Francia (…) e che risponderemo nel modo più forte possibile a questa decisione”, ha dichiarato in un comunicato il ministero degli Affari esteri turco.

DRHugo Rouet. Il segno distintivo dei Lupi Grigi, noti col nome ufficiale di Ülkücüler, sono le corna, in alto, con cui, però, si rappresentano le orecchie del lupo.

Il decreto che scioglie i Lupi Grigi è una mossa di Macron contro Erdoğan

La decisione è stata assunta in seguito ad un atto vandalico che ha colpito un memoriale del genocidio armeno situato nei sobborghi della città di Lione. Il memoriale è stato imbrattato da una serie di graffiti tra i quali ci sono la firma dei Lupi Grigi e le iniziali del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La recrudescenza delle attività del gruppo fa seguito anche alle polemiche fra Francia e Turchia seguite all’appello di Macron a mettere fine al “separataismo islamico” e all’Islam radicale in Francia. Il presidente turco Erdoğan aveva invitato l’omologo francese a “farsi esaminare il cervelllo”, affermazioni definite “inaccettabili” tanto dall’Eliseo che dall’Unione Europea. Non dimentichiamo gli efferati delitti compiuti da terroristi islamici in Francia, contro cittadini indifesi e innocenti e contro le chiese. Questo attivismo violento dimostra, che l’Islam propugnato da Erdoğan persegue i suoi propositi imperialisti, con la consueta ipocrisia, anche avvalendosi di cellule eversive, dormienti o quasi.

Chi sono i lupi grigi fascisti che sostengono Erdoğan

Il gruppo viene definito idealista perché tra i suoi fondamenti ideologici ci sono l’ideale del panturchismo (o turanismo, e cioè l’unione di tutte le popolazioni di cultura turca) e la xenofobia nei confronti delle minoranze etnico-religiose in Turchia e nei paesi confinanti. Il gruppo accompagna al panturchismo, un generale atteggiamento militarista e parafascista. I lupi Grigi sono giunti in Germania, Francia, Austria, Svizzera e nei Paesi Bassi, a seguito di una messa al bando in patria, dedicandosi prevalentemente al contrabbando di eroina, alla gestione di moschee, alle rapine e all’organizzazione di eventi, apparentemente, culturali, di copertura. Soltanto dal 1997, una nuova leadership del movimento li ha portati su posizioni, apparentemente, più moderate. I lupi Grigi sono tra i sostenitori di Recep Tayyip Erdoğan. Infatti, il gruppo è affiliato al Partito del Movimento Nazionalista, già alleato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdoğan e questo spiega la durezza della reazione del ministro  per gli affari esteri Mevlüt Çavuşoğlu. 

A Lione e a Digione, Manifestazione dei nazionalisti turchi nel “segno” dei lupi grigi

Da Globalist, 4 novembre 2020 

Una mossa importante e inevitabile: la Francia ha messo ufficalmente al bando l’organizzazione nazionalista turca dei “Lupi grigi”, su decisione adottata in Consiglio dei Ministri dal presidente francese Emmanuel Macron: lo ha reso noto il ministro degli Interni, Gerald Darmanin.
“Come dettagliato nel decreto che ho presentato, l’organizzazione incita all’odio ed è implicata in atti violenti”, scrive Darmanin elencando le ragioni che hanno portato a “decretare lo scioglimento del gruppo”. In particolare, nel decreto viene sottolineato che il gruppo incitava alla discriminazione, all’odio e alla violenza contro persone di origine curda o armena, come è capitato di recente a Lione. Per chi manifesta, la pena prevista è fino a tre anni di reclusione, più una multa di 45mila euro.

Nelle zone di Lione e Digione, malgrado il lockdown in atto, i militanti del gruppo paramilitare ultranazionalista turco dei Lupi Grigi si sono riversati in strada a decine, urlando “Allah Akbar uccidiamo gli armeni”, scontrandosi con la polizia. Nelle vie delle cittadine di Vienne e del sobborgo lionese di Décines-Charpieu, nei quartieri abitati da armeni, centinaia di turchi e azeri, organizzati dai Lupi Grigi e armati di spranghe, martelli e coltelli, avevano dato luogo a una caccia all’uomo, dopo che un’ottantina di armeni, muniti di bandiere armene e striscioni avevano picchettato l’autostrada dalle 7,30 del mattino per richiamare l’attenzione del pubblico alla guerra del Nagorno Karabakh: “vogliamo impedire un secondo genocidio, vogliamo la pace”. Décines-Charpieu ospita un memoriale del genocidio armeno. I Lupi Grigi sono foraggiati da Erdoğan. Quella dei turchi era stata spacciata per una “contro-manifestazione”, ma si è palesata come un vero attacco all’armeno e ai negozi armeni da devastare, fallito solo per la massiccia presenza della polizia francese.

Décines-Charpieu, sobborgo lionese, dove il 29 ottobre 2020 si è scatenata la caccia dei turchi e degli azeri all’Armeno.

La comunità armena di Décines-Charpieu aveva denunciato l’azione dei Lupi Grigi e chiesto la messa al bando dell’organizzazione nazionalista turca. “Questi gruppi, foraggiati dal presidente turco, stanno indebolendo il nostro modello di società”, aveva dichiarato Sarah Tanzilli, presidente della Casa della cultura armena di Décines. “E’ la stessa logica in base alla quale si arriva all’odio delle caricature. Sono delle pressioni volte a limitare il nostro diritto di libertà d’espressione, in un Paese in cui questo diritto è fondamentale”. Per questo diritto di libertà d’espressione sono stati orridamente assassinati il prof Patry e le vittime di Nizza.

Gli attacchi di Parigi, Nizza e Vienna sembrano aver scosso l’Europa. Per la Germania di Merkel e della sua nutrita comunità turca, l’Europa e la Turchia hanno reciproco bisogno tra di loro. Francamente, faremmo a meno della Turchia, della Nuova Via della Seta e degli assatanati per non sentire più parlare di questa barbarie.

Misurata è turca per 99 anni! La Turchia ha ottenuto di fare del porto di Misurata una sua base navale e anche l’utilizzo della base aerea di al-Watya. Giuseppe Conte non è al livello di Recep Tayyip Erdoğan. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura.