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6041 .- Ecco il Piano Mattei che intende rivoluzionare la politica estera italiana

Da La Voce del Patriota, di Cecilia Carapellese, 3 Novembre 2023

Sin dal suo insediamento Giorgia Meloni ha posto come priorità la realizzazione del cosiddetto Piano Mattei, presente tra l’altro anche all’interno del programma di Fratelli d’Italia presentato in occasione delle elezioni del 25 settembre 2022.
La ratio alla base di questo progetto è non solo quella di porre un freno all’annosa questione della migrazione illegale, ma anche e soprattutto quella di creare una partnership strategica che possa produrre effetti benefici sia per l’Italia che per l’Africa, rivalorizzando in particolare questo continente troppo spesso poco o mal sfruttato.

Stando a quanto si legge, i dettagli del Piano arriveranno oggi- 3 novembre- in Consiglio dei Ministri.

Una cabina di regia, presieduta dal presidente del Consiglio e che coinvolgerà anche il Ministro degli esteri, e una struttura di missione, guidata da dirigenti ed esperti, dovrebbero essere il fulcro del progetto ideato e voluto dal premier e dalla maggioranza.
Avrà una durata di quattro anni e potrà essere aggiornato ogni anno, e sarà rendicontato con una relazione al Parlamento.
La premessa sarebbe quella della “necessità e urgenza di potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del continente africano al fine di promuovere lo sviluppo economico e sociale e di prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari.”

Il Piano Mattei, come accennato anche in diverse altre occasioni dal Capo di Governo, intende focalizzarsi su diversi settori, dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, dal sostegno all’imprenditoria (in particolare quella giovanile e femminile), alla ricerca e innovazione, dall’agricoltura e sicurezza alimentare alla promozione dell’occupazione, dell’ istruzione e della formazione professionale, dalla valorizzazione delle risorse naturali alla tutela dell’ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, dall’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture alla valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico (anche nelle fonti rinnovabili). E, ovviamente, un occhio di riguardo in tema di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare.

L’operazione non è facile e i rischi sono molto alti, tenendo anche conto delle numerose crisi politiche e sociali che sono radicate in tutto il territorio africano, e che, drammaticamente, si aggiungono ai due conflitti su larga scala nel blocco russo-ucraino e in quello mediorientale. Per non parlare poi delle influenze sempre più marcate di Cina e Russia, che, a causa anche del disinteresse dell’Europa, hanno preso il potere in Africa.

La sfida in questa fase è dunque molto intensa, perché non solo l’Italia- e più in là si spera anche l’Ue- dovrà riconquistare i partner africani offrendo loro una soluzione a lungo termine, convincendoli di voler costruire un solido rapporto basato sui principi dell’uguaglianza e del rispetto, ma lo dovrà fare con una serie di variabili internazionali che appaiono sempre più difficili da gestire e da disinnescare.
Con il progetto che approda in Cdm il Governo mette in campo tutti gli strumenti che ritiene opportuni e che potrebbero portare al successo dell’iniziativa.
Ed è questo il segnale più potente e tangibile che l’esecutivo di centrodestra può lanciare, a riprova della priorità che viene data al Piano.
È esattamente in questo modo che si intende realizzare, per davvero, una rivoluzione. Una rivoluzione in termini del nostro peso in politica estera e di credibilità internazionale, tenendo sempre in considerazione la necessità di tutela e promozione della sicurezza e della grandezza italiana nel mondo.

5931.- Libia: la delegazione di Misurata discute di un nuovo governo unificato con il Parlamento dell’est

La Libia è sotto il protettorato di Erdogan, che ha la base navale turca a Misurata e la base militare aerea turca a al Watiya. Dal febbraio 2022 il Paese è diviso in due amministrazioni politico-militari: da una parte il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli del premier Dabaiba, riconosciuto dalla comunità internazionale, e dall’altra, il cosiddetto Governo di stabilità nazionale guidato da Osama Hammad

Tripoli, 27 Settembre 2023, Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Il presidente della Camera dei rappresentanti libica, Aguila Saleh, ha incontrato ieri nel suo ufficio di Qobba, una località dell’est del Paese, una delegazione composta da alcune personalità di Misurata, la terza città della Libia situata in Tripolitania. Secondo il portavoce del Parlamento libico basato in Cirenaica, Abdullah Bliheg, al centro dei colloqui “gli sforzi per formare un governo unificato su tutto il territorio libico, tenere elezioni presidenziali e parlamentari il più presto possibile e portare il Paese a una fase di stabilità”. La delegazione misuratina era guidata da Belkacem Qzeit, membro dell’Alto consiglio di Stato, il “Senato” con sede a Tripoli con funzioni prevalentemente consultive ma comunque indispensabili per le decisioni e le nomine più rilevanti.

Vale la pena ricordare che dal febbraio 2022 la Libia è divisa in due amministrazioni politico-militari: da una parte il Governo di unità nazionale con sede a Tripoli del premier Abdulhamid Dabaiba, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia; dall’altra il cosiddetto Governo di stabilità nazionale guidato da Osama Hammad, primo ministro designato dalla Camera dei rappresentanti, di fatto un esecutivo parallelo con sede a Bengasi manovrato dal generale Khalifa Haftar, comandante in capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl). Per uscire dallo stallo politico, l’inviato dell’Onu Abdoulaye Bathily aveva lanciato, il 27 febbraio scorso, un piano per redigere gli emendamenti costituzionali e le leggi elettorali necessarie per tenere elezioni “libere, inclusive e trasparenti” entro il 2023. Tuttavia, il termine ultimo proposto da Bathily per preparare la tabella di marcia è scaduto il 15 giugno e lo stesso inviato ha detto che lo “status quo” non è più tollerabile.

Martedì 25 luglio, la Camera dei rappresentanti eletta nel 2014 ha approvato a Bengasi, secondo città del Paese e capoluogo della Cirenaica, una roadmap per l’insediamento di un ipotetico nuovo mini-governo, incaricato di traghettare la Libia alle elezioni. Le capitali occidentali hanno prima accolto con estrema freddezza la decisione, salvo poi avallare l’idea di un nuovo governo tecnico dove possano coesistere est e ovest con il solo scopo di andare alle elezioni. Dopo il disastro che ha colpito Derna, le due autorità rivali hanno avviato un coordinamento – seppure al livello informale – per ricevere gli aiuti internazionali (con l’Italia in prima fila) che, sul terreno, vengono organizzati logisticamente dalle forze di Haftar. Gli analisti e gli osservatori sono divisi tra chi ritiene che le inondazioni possano accelerare il percorso verso le elezioni e chi, invece, pensa che la catastrofe di Derna manterrà la situazione di stallo per consentire a chi è al potere di gestire la ricostruzione delle aree colpite.

5912.- Libia: le inondazioni in Cirenaica aprono una partita geopolitica nel Mediterraneo

L’analista del International Crisis Group, Claudia Gazzini: “L’angolo interessante per quanto riguarda la geopolitica direi che è la questione turca. I turchi sono stati i primi a mandare la squadra di soccorso: già da un anno cercavano di consolidare i rapporti con la Cirenaica”

Tripoli, 18 Settembre 2023. Da Agenzia Nova – Riproduzione riservata

La corsa internazionale per fornire aiuti e per la ricostruzione dopo le devastanti inondazioni che hanno flagellato la Libia orientale potrebbe aprire una nuova partita geopolitica nel Mediterraneo. Paesi rivali come Turchia ed Egitto, Emirati Arabi Uniti e Qatar, Russia e Francia si sono affrettati a inviare navi, aerei, mezzi di trasporto, squadre di soccorso civili e militari a Derna, città di circa 100 mila abitanti praticamente spazzata via dalle inondazioni causate dal cedimento di due dighe.

L’Italia è intervenuta fin da subito inviando due navi da guerra anfibie classe San Giorgio cariche di aiuti, due elicotteri e tre voli C-130J. Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato 17 aerei, mentre l’Egitto ha mandato una delle sue due portaelicotteri classe Mistral, la più grande nave in dotazione alla sua Marina militare. Questi aiuti hanno certamente contribuito a salvare vite e, forse, se fossero stati inviati prima avrebbero potuto alleviare il pesantissimo bilancio di almeno 4 mila vittime accertate negli ospedali libici. Tuttavia, esiste anche il rischio che alcuni Paesi, come ad esempio la Russia, possano “approfittare” del disastro per aumentare la loro presenza in un quadrante strategico per il fianco sud dell’Alleanza atlantica. “Agenzia Nova” ne ha parlato con due esperti come Claudia Gazzini, analista senior dell’International Crisis Group (Icg), e Tarek Megerisi, senior policy fellow presso lo European Council on Foreign Relations (Ecfr).

“L’angolo interessante per quanto riguarda la geopolitica direi che è la questione turca. I turchi sono stati i primi a mandare la squadra di soccorso. Questo è un fattore rilevante. Già da un anno cercavano di consolidare i rapporti con la Cirenaica”, riferisce Gazzini, che in questi giorni sta visitando le aree colpite dalle devastanti inondazioni dopo il passaggio del ciclone sub-tropicale “Daniel” che secondo stime Onu (non confermate dalle autorità locali) ha causato almeno 11.300 morti e 10.100 dispersi. Vale la pena ricordare che dal febbraio 2022 la Libia è sostanzialmente divisa in due coalizioni politiche e militari rivali: da una parte il Governo di unità nazionale (Gun), con sede a Tripoli, del premier Abdulhamid Dabaiba, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia; dall’altra il Governo di stabilità nazionale (Gsn), di fatto un esecutivo parallelo basato in Cirenaica alleato del generale Khalifa Haftar, comandante in capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), appoggiato in primis dall’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi.

Dopo il disastro, sia le autorità rivali di Tripoli che quelle di Bengasi hanno avviato un coordinamento – al livello informale – per ricevere gli aiuti internazionali che, sul terreno, vengono organizzati logisticamente dalle forze di Haftar. Non a caso, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha “ribadito l’urgenza che la Libia disponga di istituzioni unificate e legittime per rispondere efficacemente a tutte le sfide che la nazione deve affrontare”, sollecitando “sforzi rapidi, coordinati e uniti” per soccorrere la popolazione colpita da un disastro destinato ad avere ripercussioni in Libia per decenni. Tuttavia, il rischio che le autorità di Tripoli e di Bengasi possano sfruttare la situazione di emergenza per mantenere lo status quo, rimanendo al potere e procrastinando “sine die” le elezioni, è molto alto.

“Che gli egiziani e gli emiratini mandino gli aiuti non stupisce, perché hanno interesse a salvaguardare Haftar”, aggiunge Gazzini. Intanto, il generale libico ha ricevuto ieri a Bengasi il viceministro della Difesa russo, Yunus-bek Bamatgireyevich Yevkurov, ufficialmente per colloqui sulle ripercussioni delle inondazioni. Esprimendo la “piena solidarietà” di Mosca “al popolo libico e alla leadership libica di fronte alla crisi”, riferisce il quotidiano libico “Al Wasat”, Yevkurov ha “confermato la disponibilità della Russia a fornire tutto il sostegno necessario alle città e alle regioni colpite”. La Federazione Russa ha inviato nei giorni scorsi tre aerei carichi di aiuti umanitari nelle zone colpite dal disastro. Non solo.

Una squadra di soccorso russa ha allestito un ospedale da campo mobile a Derna e altre strutture ricettive nelle città colpite per fornire assistenza medica alla popolazione. Secondo la stampa Usa, dopo la morte di Evgenij Prigozin e lo smantellamento “de facto” del gruppo Wagner, alleato dell’Enl, le attività dei mercenari russi sarebbero controllate direttamente da Mosca. “Che i russi poi appunto siano arrivati adesso, una settimana dopo il disastro, non stupisce. Ciò che stupisce è che comunque le vecchie divisioni geopolitiche, le rivalità, si siano così appianate tanto appunto da poter avere i turchi sul campo. Se poi i russi ne approfitteranno per consolidare la loro presenza, questo non posso saperlo”, aggiunge Gazzini.

Secondo l’analista libico Megerisi, la vera partita geopolitica nella Libia orientale si giocherà nella ricostruzione delle aree devastate dal ciclone. “Le prime squadre internazionali di ricerca e soccorso sul campo sono arrivate dalla Turchia, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto, tre nazioni che hanno ucciso molti libici durante la loro competizione geopolitica per il Paese, ma che ora lavorano fianco a fianco per salvare i libici”, sottolinea l’analista. “Per Haftar e il governo orientale è un momento di normalizzazione dei rapporti affinché altri paesi lavorino con loro e attraverso di loro. Ma man mano che la cartolarizzazione del disastro da parte di Haftar prende piede, i paesi presenti sul posto diventeranno sempre più selezionati”, aggiunge l’esperto libico di Ecfr.

Nel frattempo, un gruppo di ingegneri delle Forze armate egiziane si recherà nella città libica di Derna per ispezionare le due dighe il cui crollo ha causato il disastro e per condurre uno studio per ripristinarle. “Molti commentatori egiziani dicono che gli aiuti militari dell’Egitto non dovrebbero tornare a casa, nel senso che dovrebbero restare, trincerarsi ed esercitare una maggiore influenza, ma penso che sarà difficile da fare a lungo termine”, afferma Megerisi.

“Sia l’Egitto che la Russia”, prosegue l’analista di Ecfr, “hanno una vasta rete di intelligence e risorse militari in tutta la Libia orientale, con la Russia che ha messo le mani sul Sirte. I cittadini di Derna hanno paura che i militari sfruttino la situazione per saccheggiare ciò che resta della loro città e costruire qualcosa di mostruoso sulle macerie, qualcosa che potrebbe benissimo vedere una presenza russa, emiratina ed egiziana normalizzata e radicata, una presenza che Haftar a sua volta utilizzerebbe per rafforzare il suo potere sulla scena politica libica”, conclude l’esperto.

5681.- Meloni è il leader del Mediterraneo. Ieri, a Tunisi, oggi accoglie il premier libico.

Aggiornato l’8 giugno 2023

Il premier libico Dabaiba atteso a Roma, nel pomeriggio incontrerà Meloni

La visita dovrebbe concludersi con la firma di alcuni memorandum d’intesa nei settori della sicurezza e della lotta alle migrazioni illegali; della riduzione delle emissioni di CO2 e dello studio di progetti energetici; delle infrastrutture e del traffico internet

Roma, 7 Giugno 2023, © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

E’ tutto pronto a Roma per la visita del primo ministro “ad interim” del Governo di unità nazionale (Gun), Abulhamid Dabaiba. L’imprenditore e politico della “città-Stato” di Misurata (200 chilometri a est di Tripoli) guiderà una delegazione di alto livello che include, tra gli altri, i ministri dell’Interno, Imad Tabelsi, e degli Affari esteri, Najla el Mangoush, oltre che i responsabili dei principali dicasteri economici e non solo. Gli esponenti del governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite saranno a palazzo Chigi già nel primo pomeriggio. Il premier nonché ministro della Difesa della Libia terrà un colloquio bilaterale con la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, cui seguirà poi una sessione plenaria alla presenza dei membri dei due governi. Dovrebbe tenersi, infine, la firma di alcuni memorandum d’intesa nei settori della sicurezza e della lotta alle migrazioni illegali; della riduzione delle emissioni di CO2 e dello studio di progetti energetici; delle infrastrutture e del traffico internet. Sono previsti, inoltre, incontri bilaterali a margine tra i rispettivi ministri dei due Paesi.

La visita di Dabaiba, capo di un’importante famiglia di Misurata con buone entrature nell’ex regime di Gheddafi, porterà al secondo incontro in pochi mesi con Meloni, che era stata ricevuta dal premier libico a Tripoli lo scorso mese di gennaio. Dopo la visita a inizio maggio del generale libico Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica a capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), l’Italia si appresta quindi a un altro protagonista della scena politica libica: Abulhamid Dabaiba. Classe 1958, l’attuale primo ministro è stato designato nel febbraio 2021 dal Foro di dialogo intra-libico convocato dalle Nazioni Unite dopo il cessate il fuoco dell’ottobre del 2020 per dare un nuovo assetto politico unitario al Paese. Una volta insediatosi, ha avviato una importante campagna di spesa pubblica. Sopravvissuto a tre tentativi di golpe militare nel 2022, egli non intende lasciare il potere se non a un governo eletto ed è determinato candidarsi alle elezioni presidenziali.

Ad oggi, la Libia continua a essere divisa tra le due coalizioni politiche e militari rivali: da una parte il Governo di unità nazionale, riconosciuto dalla Comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia e dall’Italia; dall’altra il cosiddetto Governo di stabilità nazionale, esecutivo parallelo con sede a Bengasi. Per uscire dallo stallo politico, l’inviato dell’Onu Abdoulaye Bathily ha lanciato, il 27 febbraio, un piano per l’istituzione di un nuovo “Comitato di alto livello” incaricato di redigere gli emendamenti costituzionali e le leggi elettorali necessarie per tenere elezioni “libere, inclusive e trasparenti” entro il 2023. Tuttavia, la nuova iniziativa presentata dall’inviato delle Nazioni Unite, accolta con freddezza a Tripoli e a Bengasi, non sembra prendere slancio. Nel Paese vige al momento una stabilità parziale, basata su un implicito accordo tra due potenti famiglie: i Dabaiba e gli Haftar al potere rispettivamente a Tripoli (ovest) e a Bengasi (est).

Allo stato attuale le elezioni in Libia sono ancora lontane, soprattutto quelle presidenziali. Non c’è accordo sulla questione della doppia cittadinanza del futuro presidente: l’Alto Consiglio di Stato di Tripoli (una sorta di camera alta con funzioni prevalentemente consultive ma comunque indispensabili per le nomine e le decisioni più rilevanti) è fermamente contrario al doppio passaporto, mentre la Camera dei rappresentanti basata nell’est del Paese è favorevole. Un altro nodo riguarda gli incarichi militari: per il “Senato” i potenziali candidati non dovrebbero provenire dalle Forze armate, mentre per il Parlamento dell’est del Paese, regione dominata dal generale Haftar, la questione non sarebbe un problema. Non ci sarebbe accordo nemmeno sulla divisione dei poteri tra il premier e il presidente, così come sull’imposizione della Shari’a, la legge islamica. Un accordo definito sulla questione tarda ad arrivare e organizzare le elezioni entro l’anno appare oggi irrealistico. “Il Paese si dirige verso un metodo transattivo gheddafiano o post-gheddafiano, in cui i protagonisti sono Dabaiba, Haftar e i verdi (gli ex gheddafiani), i quali non riescono tornare indietro alla Jamahiriya ma sono sempre più influenti”, ha spiegato a “Nova” una fonte libica.

Dal punto di vista economico, l’Italia si è consolidata come primo partner commerciale della Libia nel corso del 2022. Secondo i dati diffusi dall’ufficio di Tripoli dell’Ice, nel 2022 l’interscambio Italia-Libia ha raggiunto quota 12,14 miliardi di euro con un +61,31 per cento rispetto al 2021 e una quota di mercato del 23,06 per cento davanti a Cina (9,56 per cento di quota di mercato con 5,03 miliardi di euro), Grecia (8,1 per cento con 4,27 miliardi di euro), Spagna (7,91 per cento con 4,16 miliardi di euro), Germania (7,76 per cento con 4,08 miliardi di euro), Turchia (6,5 per cento con 3,42 miliardi di euro), Paesi Bassi (4,51 per cento con 2,38 miliardi di euro). Le esportazioni dell’Italia verso la Libia sono cresciute, nel 2022, del 79,17 per cento, rispetto al 2021, con 2,17 miliardi di euro ed una quota di mercato del 13,35 per cento. L’Italia è il terzo Paese fornitore della Libia dopo la Turchia, che ha totalizzato 2,70 miliardi di euro e un +14,57 per cento, con una quota di mercato del 16,54 per cento e la Cina con 2,26 miliardi di euro e un +25,88 per cento e una quota di mercato del 13,88 rispetto al 2021. Al quarto e quinto posto Grecia e Belgio, rispettivamente con l’11,35 per cento e il 7,93 per cento di quota di mercato.

Invece, le importazioni in Italia dalla Libia sono cresciute del 57,88 per cento con 9,97 miliardi di euro. L’Italia si conferma e si consolida, nel 2022, anche come primo mercato di destinazione dell’export della Libia, con una quota di mercato del 27,41 per cento davanti a Spagna (10,33 per cento e 3,76 miliardi di euro), Germania (9,76 per cento e 3,55 miliardi di euro), Cina (7,62 per cento e 2,77 miliardi di euro). Seguono, in ordine, Grecia, come variazione 2022/2021, del +179,43 per cento e 2,42 miliardi di euro, Francia con +16,59 per cento e 2,14 miliardi di euro, Stati Uniti con +13,75 per cento e 2,09 miliardi di euro e Paesi Bassi con +35 per cento e 2,03 miliardi di euro.

Non solo. I flussi di gas dalla Libia verso l’Italia sono ripresi pochi giorni fa e ad un ritmo accelerato, dopo un’interruzione durata circa due settimane tra maggio e aprile a causa di una vasta ristrutturazione degli impianti di Mellitah, situati sulla costa nordafricana. La Libia può esportare in Italia fino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno tramite il Greenstream, il gasdotto che collega la Sicilia ai giacimenti gassiferi di Eni della Libia. Nel corso del 2022, Eni ha prodotto in Libia 9,3 miliardi di metri cubi di gas. Di questi, 2,5 miliardi di metri cubi di gas, ovvero poco meno di un terzo, è arrivato in Italia attraverso il gasdotto GreenStream, mentre 6,8 miliardi di metri cubi sono stati destinati al mercato domestico, per la generazione di elettricità. Cifre che potrebbero effettivamente cambiare, ma solo con la scoperta di nuovi ingenti giacimenti di gas (a tal proposito, Eni sta portando avanti diverse esplorazioni sia onshore che offshore) e la costruzione di nuove centrali a ciclo combinato o grandi impianti da fonti rinnovabili di energia, in particolare solare.

Sul versante migratorio, considerando i primi cinque mesi del 2023, la rotta libica figura al secondo posto, dietro la Tunisia, con 22.662 persone sbarcate in Italia al primo giugno, il doppio rispetto ai 10.986 migranti arrivati nello stesso periodo del 2022. Più della metà dei nuovi arrivi dalla Libia è giunto dalla Cirenaica, la regione orientale della Libia dominata dal generale Khalifa Haftar, comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) sostenuto dai mercenari del gruppo russo Wagner. Dai barconi salpati dalle coste libiche della Tripolitania sono sbarcati dall’inizio dell’anno a oggi 8.923 migranti, mentre da quelle della Cirenaica 13.506. A tal proposito, è opportuno segnalare un aumento delle attività di contrasto alle migrazioni irregolari, sia in Tripolitania che in Cirenaica. Il Governo di unità nazionale ha lanciato una vasta operazione militare e di sicurezza contro i trafficanti di esseri umani e i contrabbandieri di carburante nell’area di Zawiya, importante città costiera a ovest della capitale, che include l’utilizzo di droni d’attacco per bombardare i covi degli scafisti. A est, le unità affiliate all’Lna hanno arrestato nella sola giornata del 31 maggio oltre mille presunti migranti irregolari a Tobruk e Musaid. In questi stessi luoghi sono state trovate anche delle officine per la fabbricazione di barche di legno per le partenze irregolari via mare verso l’Italia. Inoltre, fatto inedito, un barcone con a bordo almeno 500 migranti è stato recentemente respinto a Bengasi, la roccaforte del generale dell’Lna.

AGGIORNAMENTO:

INTERVISTA ESCLUSIVA. Il premier libico Dabaiba a Nova: “L’Italia è forte, da Meloni approccio serio e azioni concrete”

“L’Italia è la nostra chiave di accesso all’Europa e ora c’è un governo che è in grado di prendere decisioni forti”

8 Giugno 2023, © Agenzia Nova – Riproduzione riservata

Libia Dabaiba

Il presidente del Consiglio dell’Italia, Giorgia Meloni, si sta “seriamente occupando dei problemi della Libia”. Lo afferma il primo ministro del Governo di unità nazionale della Libia (Gun), Abdulhamid Dabaiba, in un’intervista concessa in esclusiva ad “Agenzia Nova” durante la visita a Roma. “Francamente, questo governo dell’Italia si sta occupando maggiormente dei problemi della Libia. Ho apprezzato molto la visita della presidente Meloni a gennaio, che ha scelto la Libia come sua prima o seconda visita all’estero, e che sia venuta con una grande delegazione per discutere di questioni molti importanti. Abbiamo la percezione che il primo ministro dell’Italia sia molto seria per quanto riguarda i problemi della Libia: lei si occupa della questione da vicino”, afferma Dabaiba, da ieri in missione ufficiale in Italia alla guida di una numerosa delegazione ministeriale. “Ecco perché ho voluto restituire la visita con una grande squadra: vogliamo concludere quello che abbiamo iniziato e continuare la cooperazione tra Italia e Libia”, aggiunge il premier dell’esecutivo riconosciuto dalle Nazioni Unite. “Consideriamo l’Italia come una porta per l’Europa. Molte importanti questioni ci riguardano come l’immigrazione, il settore petrolifero e l’economia. Per noi è molto importante vedere un governo in Italia che agisca in modo seria e ottenga risultati concreti”, afferma ancora Dabaiba.

Il governo dell’Italia guidato da Meloni “è in grado di prendere decisioni forti” e, soprattutto, ha gli occhi puntati sulla Libia, “l’Italia è la nostra chiave di accesso all’Europa. E poi c’è un governo che, parlando francamente, è in grado, appunto, di prendere decisioni forti. Abbiamo tentato con altri governi dell’Italia, che però avevano altri problemi. Gli occhi di questo governo sono concentrati sulla Libia: questo è un bene perché possiamo aiutarci a vicenda”, afferma Dabaiba.

“Vogliamo aiutare la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a preparare questa conferenza internazionale sui migranti. Appoggiamo ogni sforzo che possa impedire a queste persone che vengono dal profondo sud di morire nel Mediterraneo, perdonatemi per queste parole, come agnelli. Noi stiamo affrontando questo problema in Libia, ma va affrontarlo anche in altri Paesi. L’Europa dovrebbe occuparsi maggiormente di questi problemi e condividere con noi questo fardello”, aggiunge il premier del governo riconosciuto dall’Onu.

Parlando di questione energetica, il premier precisa che la Libia ha ancora “tantissimo gas non scoperto” e si è prefissata come obiettivo quello di rifornire i mercati in Italia e in Europa. “Abbiamo così tanto gas non scoperto. Vogliamo rifornire l’Italia e l’Europa con il nostro gas. È un mercato molto limitato, con poco spazio per tutti. Vogliamo usare tutte le nostre capacità e ogni nostro partner per produrre questo gas e inviarlo in Europa. Con l’Italia, nostro vicino, condividiamo delle infrastrutture e possiamo sviluppare ancora più petrolio e gas”, ha detto Dabaiba, riferendosi al gasdotto GreenStream che collega i giacimenti libici al terminal gasiero di Gela, in Sicilia. “Stiamo tentato di superare i problemi degli ultimi dieci anni e di lavorare insieme. Questo è il nostro obiettivo”, aggiunge il premier del governo riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Un nuovo, grande accordo per lo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio in Libia sarà firmato il prossimo mese di luglio. “In Libia ci sono grandi risorse di gas e petrolio. Abbiamo già firmato un accordo per aumentare la produzione di gas o

nshore e offshore. Insieme ad Eni e altri Paesi abbiamo grandi progetti in cantiere. Ieri è stato firmato un memorandum, ma il prossimo mese firmeremo un grande accordo insieme ad altri Paesi e altre grandi compagnie”, afferma Dabaiba. Eni ha firmato ieri un memorandum d’intesa allo scopo di studiare e identificare con la Libia opportunità di riduzione delle emissioni di gas serra e di sviluppo di energia sostenibile nel Paese. “Di quali compagnie parlo? E’ un consorzio, la cosa importante è che sarà guidato da Eni ma tutti sono invitati a partecipare”, aggiunge Dabaiba, senza fornire ulteriori dettagli.

Il premier aggiunge che la Libia sta portando avanti un “grande progetto” per esportare energia pulita in Europa tramite l’Italia. “Siamo in procinto di avviare un grande progetto solare con l’obiettivo di esportare elettricità in Europa attraverso l’Italia. E’ un progetto libico che si avvale dell’aiuto di una grande compagnia internazionale energetica e delle banche”, spiega Dabiaba, riferendosi probabilmente agli impianti solari da 500 megawatt che dovrebbe costruire la francese TotalEnergies. Il capo del governo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite ha parlato anche di un “elettrodotto” sottomarino con una “grande capacità” per convogliare in Europa l’energia solare catturata dagli impianti in Libia.

Dabaiba sottolinea, inoltre, come la Libia abbia rafforzato la sua rete Internet grazie all’accordo firmato ieri a Roma per il progetto BlueMed, il cavo sottomarino in fibra ottica che collegherà l’Italia con la Francia, la Grecia e vari Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Telecom Sparkle e la Libya postal telecommunication and technology holding company (“Lptic”) hanno firmato ieri un protocollo d’intesa per la realizzazione di una nuova infrastruttura che colleghi diverse città della Libia alla Sicilia. Secondo quanto appreso da “Agenzia Nova“, è prevista, in particolare, l’estensione di quattro collegamenti in Libia: due in Tripolitania e due in Cirenaica, rispettivamente a Tripoli, Misurata per l’ovest; Bengasi e Derna per l’est. “Non è un’idea, ma è un progetto esecutivo firmato da due grandi compagnie internazionali per avere un cavo Internet sicuro, che si connetterà alla nostra rete e che, dalla Libia, potrà estendersi ad altri Paesi in Africa”, afferma Dabaiba. “La poca distanza tra Italia e Libia ci consente di avere una bassa latenza e un Internet sicuro”, aggiunge il premier.

Quanto al dossier politico, Dabaiba afferma che il suo governo ha come obiettivo quello di porre fine al lungo periodo di transizione, ma è prima necessario avere una legge costituzionale “bilanciata, giusta e che includa tutti i libici senza esclusioni”. “Molte persone stanno cercando di trovare altre strade per estendere il periodo di transizione, mentre noi diciamo: andiamo alle elezioni”, riferisce Dabiaba. “Le elezioni richiedono però una legge costituzionale e questo non è un lavoro del governo. Inoltre, le elezioni in sé sono di competenza dell’Alta commissione elettorale (Hnec). Il nostro lavoro è molto chiaro e ha due finalità: sostenere la Hnec; garantire la sicurezza degli elettori e del processo elettorale. La polizia del ministero dell’Interno controlla tutta la Libia adesso. Non abbiamo alcun problema nel controllare e assicurare le urne elettorali”, afferma Dabiaba. “Abbiamo invece due problemi con la legge costituzionale e nella road map per le elezioni. Questa legge dovrebbe essere bilanciata, giusta e designata per tutti i libici senza esclusione. Se questa legge venisse approvata oggi, domani ci sarebbero le elezioni”, afferma Dabaiba.

Recentemente, il Comitato per la preparazione delle leggi elettorali 6+6, formato da parlamentari della Camera dei rappresentanti e membri del Consiglio di Stato, ha annunciato di aver raggiunto un’intesa sulle elezioni parlamentari e presidenziali, benché non sia stato firmato ancora alcun documento scritto. Lo stesso Comitato ha annunciato che, per consentire il voto, è necessario insediare un nuovo governo di transizione. “Chi cerca invece di porre la questione di nuovo governo va contro la volontà del popolo libico di andare alle elezioni e di raggiungere la stabilità”, commenta da parte sua Dabaiba.

5434.- Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice di Monteforte.

Non solo gasdotti e non solo oleodotti, anche le reti e i sistemi informativi che vedete richiedono misure di prevenzione dagli atti terroristici e dai danneggiamenti dei cavi a causa della pesca a strascico e ancoraggio nelle zone vietate

Nel Potere Marittimo la sommatoria funzionale delle componenti è, come sempre, maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. La capacità di protezione delle infrastrutture sottomarine strategiche nel Mediterraneo che garantiscono il trasporto delle informazioni e l’approvvigionamento energetico italiano è una di queste componenti. L’Italia ha recepito la direttiva europea Network and Information Security, Nis, per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e la Guardia Costiera e la Terna SpA hanno implementato un protocollo di collaborazione. Il controllo del Canale di Sicilia e la cooperazione con le marine della costa africana e di tutto il Mediterraneo si pongono fra i cardini del sistema difesa Italia e rappresentano un invito ulteriore a ricercare la comunanza fra i Paesi rivieraschi attraverso il mare. Il futuro dell’Italia “è” nel Mediterraneo.

Da Formiche.net, di Gaia Ravazzolo | 09/10/2022 – 

Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice

Le Forze armate tornano a guardare al dominio marittimo e alla sua sicurezza, anche in risposta alla crescente vulnerabilità delle infrastrutture strategiche sottomarine preposte a provvedere all’approvvigionamento energetico. Per proteggere tali infrastrutture “bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido” secondo l’ammiraglio Sanfelice di Monteforte

L’attenzione delle Forze armate sta tornando sulla dimensione marittima e sottomarina. Dopo il danneggiamento del Nord Stream è stato lanciato un allarme globale sulla vulnerabilità delle reti energetiche subacquee, accolto anche dal nostro Paese. Proprio la scorsa settimana infatti l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, ha parlato di un piano lanciato in accordo con il ministro Lorenzo Guerini per aumentare le misure di tutela a protezione delle infrastrutture strategiche nel Mediterraneo che garantiscono l’approvvigionamento energetico italiano, a partire dal Canale di Sicilia. Impegno ribadito anche nei dibattiti del Trans-regional seapower symposium di Venezia. Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici.

Il nostro Paese riconosce il Mediterraneo allargato quale principale area di riferimento strategico. Quale ritiene dovrebbero essere le priorità nazionali per permettere all’Italia di assumere un ruolo da protagonista nella regione? 

La massima priorità, affinché il Paese conservi il proprio livello di benessere, è la salvaguardia del commercio internazionale marittimo. Insieme al commercio ci sono le infrastrutture marittime quali oleodotti, gasdotti, cavi sottomarini legati alla connettività ecc. Il desiderio italiano è di voler giocare un ruolo da protagonisti in quest’area e per farlo c’è un solo modo: adottare la strategia del “fratello maggiore”. Dunque, essere benevoli verso tutti e favorire le sinergie nella regione, come si fece una quindicina di anni fa favorendo lo scambio di informazioni virtuali per tutta l’area del Mediterraneo, organizzato proprio dalla Marina militare italiana. Ne è un esempio il caso dell’Algeria, che abbiamo supportato per anni e che ora ci sostiene a sua volta attraverso le forniture energetiche. Parallelamente a questo, vi sono le riunioni periodiche a carattere biennale del Trans-regional seapower symposium proprio per conoscere e riunire insieme i capi delle Marine militari dell’area, per cercare di instaurare nuove collaborazioni e sinergie, in un’ottica di scambio reciproco.

La centralità del Mediterraneo è un elemento strategico non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa e la Nato. Ci sarà bisogno di implementare sinergie con gli alleati. L’Italia può ambire a una posizione di leadership di queste probabili iniziative future, e come?

Nell’ambito europeo l’Italia è già una potenza in questo senso. Mentre nella cornice Nato occupiamo una posizione più defilata. Questo perché disponiamo di un livello di forze nelle tre dimensioni – terrestre, aerea, marittima – che è considerato dai nostri alleati inferiore rispetto a quello che potremmo esprimere, non in senso qualitativo ma quantitativo. Quindi, nell’Alleanza Atlantica siamo ancora un po’ “al traino” degli altri. Mentre in Europa possiamo influenzare in modo più significativo la politica comunitaria. Ciò nonostante, vi è da fare una precisazione. Ultimamente con questa nuova attenzione al dominio marittimo prevale un sentimento di giusto orgoglio nazionale e il conseguente desiderio di avere una posizione preminente rispetto agli altri. Tuttavia, ad oggi quello che dovrebbe prevalere è il sentimento e la voglia di sopravvivenza economica, e non solo fisica.

Al recente simposio di Venezia, il capo di Stato maggiore della Marina, Enrico Credendino, ha parlato della necessità di un approccio olistico per garantire la sicurezza delle vie marittime. C’è necessità di superare una sorta di sea-blindness che colpisce il sistema Italia. Che ruolo dovranno avere le forze navali nazionali in questo senso?

Il ruolo delle forze navali nazionali è da una parte quello di prevenire le crisi e sedarle, e dall’altra proteggere sia il commercio sia le infrastrutture strategiche. Questo fa parte di un approccio olistico perché le Forze armate, e in particolare le Forze della Marina militare, non sono più occupate solo nel portare avanti battaglie navali ma sono impegnate a creare una situazione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile.

Quali sono gli strumenti a disposizione del nostro Paese e della Marina militare per provvedere alla protezione di cavi e pipeline in modo da continuare a garantire la connettività e l’approvvigionamento energetico?

Sono 1.500 km di cavi sottomarini che saranno sorvegliati dalla Guardia Costiera e da Terna SpA

In primo luogo è necessaria una sorveglianza particolare nelle zone di passaggio di tali infrastrutture critiche, che dovrà inevitabilmente essere ampliata e ingrandita nella sua portata. Per adesso stiamo puntando alle infrastrutture subacquee più vicine e quindi si dovrà pensare e provvedere un po’ a tutte quelle infrastrutture che esistono nell’area. In secondo luogo bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido. Siccome non è possibile prevenire le minacce in modo completo al 100%, si dovranno creare delle capacità di intervento rapido per fermare eventuali conseguenze e ripercussioni dovute a sabotaggi o guasti.

Di fronte alla crescente rilevanza della dimensione marittima e sottomarina, è importante puntare sull’innovazione. Che ruolo può giocare in questa dimensione la componente unmanned?

Le Marine dispongono e impiegano la componente unmanned ormai da vent’anni, non è qualcosa di nuovo. Tuttavia, solo nell’ultimo periodo si sta ampliando ed espandendo sempre di più. Innanzitutto, la componente unmanned è stata usata, e viene usata ancora oggi, per la “guerra di mine”. Così da sminare le aree di mare che sono state minate in passato. Poi vi sono degli altri sistemi subacquei, di più recente introduzione al servizio, quali i sommergibili, che possono lanciare dei droni a guida remota e non solo. In questo quadro bisogna però considerare anche i sistemi che possono agire ed essere sopra la superficie, dal momento che finalmente si stanno sviluppando i droni lanciabili e recuperabili dal mare. Dunque, la componente unmanned per la Marina non è certamente una novità, ma ricopre un ruolo molto rilevante. D’altronde è molto più pratico mandare un mezzo unmanned a sorvegliare le aree che ospitano infrastrutture critiche, piuttosto che dispiegare un elicottero con quattro persone a bordo.

5092.- L’Italia è la prima ad essere danneggiata dal nuovo caos libico

Da Insideover, Mauro Indelicato, 2 maggio 2022

Sempre meno gas dalla Russia, in linea con le politiche adottate dall’Europa dall’inizio dellaguerra in Ucraina, sempre più gas da altri Paesi. Per l’Italia verrebbe automatico pensare a un incremento di materie prime provenienti dalla Libia. Dopo l’accordo stipulato con l’Algeria nei giorni scorsi, è lecito attendersi analoghi contratti con Tripoli. Del resto il territorio libico è ancora più vicino ed esistono già infrastrutture, come ad esempio il Green Stream, che portano il 4% di gas necessario al nostro fabbisogno annuale. Il problema però è che Roma non avrebbe interlocutori con cui stringere un accordo. La Libia è tornata al punto di partenza: caos, confusione e, soprattutto, due governi a contendersi il potere.

Cosa sta accadendo in Libia

Appena un anno fa la situazione a Tripoli e, contestualmente, i rapporti tra Italia e Libia, sembravano a una svolta. Mario Draghi, da poco a Palazzo Chigi, si era recato nella capitale libica dove ad attenderlo c’era Abdul Hamid Ddedeiba, anche lui da poche settimane al timone essendo stato nominato a marzo nuovo primo ministro libico. Sembrava l’inizio di una nuova svolta nel Paese nordafricano, appena incamminatosi, nelle intenzioni del piano promosso dalle Nazioni Unite, verso le elezioni fissate per il 24 dicembre 2021. Un “libro dei sogni” poi rivelatosi tale. Perché in Libia non si è mai votato e perché quel piano, in cui la nascita del governo di Ddedeiba era vista come semplice tappa di avvicinamento al voto, è rimasto solo sulla carta.

Ddedeiba è ancora al suo posto a Tripoli, il Paese è ancora ben lontano da ogni forma di normalità istituzionale. L’attuale premier è rimasto nel suo ufficio perché le elezioni non sono state organizzate e quindi rivendica il suo diritto di continuare a gestire la transizione. Ma su quale base giuridica si basa il mantenimento del potere da parte di Ddedeiba? Secondo il premier basta e avanza la fiducia del Consiglio di Stato, ossia il parlamento eletto nel 2012 (dunque esattamente dieci anni fa), innalzato nel ruolo di “Camera Alta” libica dagli accordi di Skhirat del 2015. Non è dello stesso avviso invece il Parlamento di Tobruck, eletto invece nel 2014 e insignito del ruolo di “Camera Bassa” dagli accordi prima citati.

A Tobruck, città della Cirenaica quasi al confine con l’Egitto, i parlamentari hanno eletto il 10 febbraio 2022 un nuovo premier. Si tratta dell’ex ministro dell’Interno dell’era di Fayez Al Sarraj, ossia Fathi Bashaga. Il parlamento stanziato nell’est del Paese lo ha nominato con il preciso incarico di organizzare nuove elezioni entro 14 mesi e dare vita a una vera costituzione. Quella che ancora manca, a dieci anni dalla morte di Gheddafi, al Paese. Due governi, guidati peraltro da due misuratini, adesso si contendono il ruolo di guida della Libia. Con il rischio incombente di una (nuova) guerra civile. Le tensioni sono infatti agevolate dal fatto che nessuno dei due premier ha la forza e la legittimità necessarie per controllare l’intero territorio.

Si tratta di due governi la cui fiducia è stata data da due parlamenti a loro volta “scaduti” e insediati quasi un decennio fa. Manca in Libia quindi uno Stato, in grado di dare via a istituzioni, leggi ed enti in grado poi sì di normalizzare la situazione. L’Onu sembra aver rinunciato al suo piano, i libici però al momento non ne hanno uno tutto loro. O, per meglio dire, non ne hanno uno condiviso da tutti.

Italia ed Europa ancora ai margini

In questo contesto oggi per Draghi e Di Maio venire a trattare in Libia è sostanzialmente impossibile. Non c’è un esecutivo con cui poter interloquire, entrambi sono deboli ed entrambi rischiano di contendersi anche sul campo il potere. Per cui nel momento in cui l’Italia si è ritrovata ad avere estremo bisogno del gas del suo vicino mediterraneo, con cui Roma ha sempre avuto (pur tra alti e bassi) rapporti di primo piano, in Libia è impossibile anche pensare di avviare serie contrattazioni. Ma il Bel Paese non è vittima. Anzi, lo è, ma di se stesso. Oggi tocchiamo con mano cosa vuol dire trascurare la politica estera, non avere una chiara linea e un chiaro disegno. A Tripoli i vari governi, a prescindere dal colore (ammesso che oggi sia possibile distinguere tra colori), negli ultimi anni hanno solo abbozzato un progetto.

Quando ci si accorgeva che dall’Eliseo partivano corteggiamenti verso i libici, allora si cercava di rispondere. Ma senza una chiara strategia. E così i vari attori presenti a Tripoli o in Cirenaica hanno iniziato a fare a meno di italiani, francesi e, più in generale, europei. Oggi le fila, da un punto di vista politico, sono tirate da Turchia e Russia. La prima appoggerebbe Ddedeiba, ma l’accordo con cui Ankara ha stretto un memorandum d’intesa con la Libia risale all’era del governo Al Sarraj, in cui Bashaga era ministro dell’Interno. E infatti i turchi hanno buoni rapporti pure con lui. Mosca dal canto suo appoggia il generale Haftar, il quale ha dato il benestare alla formazione del governo di Bashaga. L’impressione è che se uno sviluppo in Libia ci sarà, potrà considerarsi il frutto di una mediazione tra Russia e Turchia. L’Italia è costretta, in seconda linea, ad attendere.

Quella sottile linea rossa tra Libia e Ucraina


Scrivevano Alessandro Scipione e Mauro Indelicato l’8 aprile 2022

Una sottolinea linea rossa sembra legare i destini di Libia Ucraina. Due Paesi distanti migliaia di chilometri, eppure legati da un destino comune di caos e conflitto. Nel febbraio 2014, il presidente russo Vladimir Putin lanciò l’operazione militare nel Donbass, dando così inizio all’invasione dell’Ucraina. Pochi mesi dopo, a maggio, il generale libico Khalifa Haftar, ex ufficiale di Muammar Gheddafi divenuto collaboratore della Cia dopo essere stato catturato in Ciad, annunciò l’operazione militare Karama (“Dignità” in arabo) sfociata poi nella seconda guerra civile libica. Oggi la storia sembra ripetersi: se la guerra in Ucraina è sulle prime pagine di tutti i giornali, la Libia rischia di sprofondare nella violenza nel silenzio generale.

Due governi per una sola poltrona

Nelle scorse settimane si è arrivati a un passo dallo scontro armato tra le coalizioni rivali: da una parte il Governo di unità nazionale (Gun) con sede a Tripoli del premier Abdulhamid Dbeibah, riconosciuto dalle Nazioni Unite; dall’altra il Governo di stabilità nazionale (Gsn) guidato dall’ex ministro dell’Interno, Fathi Bashagha, sostenuto dal generale Haftar e dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk. Giovedì 10 febbraio, i gruppi armati fedeli a Bashagha sono arrivati alle porte di Tripoli, ma le milizie di Dabaiba gli hanno sbarrato la strada. Solo la mediazione portata avanti da Onu e Usa ha convinto il convoglio attaccante di rientrare a Misurata. Fonti libiche hanno riferito all’Agenzia Nova che un faccia a faccia tra i due premier rivali avrebbe dovuto tenersi in Turchia, ma è saltato all’ultimo minuto per l’opposizione dell’Egitto e per l’ostinata volontà di Dabaiba di non condividere il potere con i rivali.

Tre piani per risolvere la crisi

Dal punto di vista politico la Libia è già nel caos. Ci sono almeno tre piani per uscire dalla crisi, tutti in competizione tra loro. Il premier uscente propone elezioni parlamentari entro il mese di giugno e la fine di tutte le istituzioni vigenti (governo incluso). La Camera dei Rappresentanti di Tobruk vuole insediare il nuovo governo Bashagha, redigere una nuova proposta costituzionale ed elezioni presidenziali e parlamentari non prima del 2023. Le Nazioni Unite vogliono spingere il Parlamento e il Consiglio di Stato (il “Senato” con sede a Tripoli) a formare una commissione congiunta per redigere una base costituzionale entro marzo e andare alle elezioni alla prima data disponibile. In questo guazzabuglio di road map, comitati misti e governi paralleli, l’unica cosa certa è che il Paese è profondamento diviso ed esposto a interferenze straniere.

Fattore Ucraina

Dopo un mese di guerra l’apprensione per un coinvolgimento del dossier libico nella guerra in Ucraina non sono spariti. La Russia del resto ha qui molti interessi e ha investito non poco a livello politico e militare. Nei giorni scorsi da Kiev era rimbalzata la notizia di un accordo tra il Cremlino e il generale Haftar per l’invio in Ucraina di decine di miliziani fedeli all’uomo forte della Cirenaica. Ma non è poi arrivata alcuna conferma. Probabile che il generale abbia altro a cui pensare piuttosto che accorciare la sua coperta di uomini per dare un timido aiuto alla Russia. Il vero discorso sull’intreccio tra crisi ucraina e crisi libica riguarda il ruolo in senso stretto di Mosca nel Paese nordafricano. Qui il Cremlino ha a disposizione molti uomini della Wagner, da poter usare come arma tattica.

Del resto l’altro attore importante in Libia è la Turchia, in questo momento prima mediatrice tra le parti in Ucraina. E nel gioco delle parti, poter far leva sulla presenza di propri contractors per il Cremlino si potrebbe rivelare fondamentale. Paradossalmente, i soldati della Wagner potrebbero essere più funzionali nel Sahara che nel Donbass.

Inoltre occorre capire da quale parte starà la Russia in questo momento e quale parte, vista le nuove situazioni a livello diplomatico, riterrà conveniente stare con Mosca. In teoria il Cremlino, tra i due governi venutisi a creare, sosterrebbe Bashaga. Ma quest’ultimo, al pari di Ddeibah, ha condannato l’attacco all’Ucraina. Entrambi i premier quindi hanno analoga posizione sull’operazione militare russa. A nessuno a Tripoli conviene schierarsi in modo perentorio con Mosca. È indubbio però che perdere del tutto il sostegno russo per Bashaga non è affatto conveniente. L’impressione è che il fattore Ucraina stia rimescolando diverse carte e i nuovi equilibri si vedranno soltanto fra qualche settimana.

E l’Italia?

Difficile non pensare, quando Mosca ha minacciato Roma dopo l’approvazione delle ultime sanzioni, a qualche connessione con interessi italiani in Libia. Il Cremlino ha sempre visto nel nostro Paese un’importante sponda europea per via dei legami culturali ed economici, prima ancora che politici, tra le due parti. Per questo se da un lato Mosca si aspettava le sanzioni italiane per via della scelta europea di provare su questa strada, dall’altro però in Russia non si aspettavano un atteggiamento così duro di Roma. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non si è limitato a condannare l’azione in Ucraina, ma ha apostrofato pesantemente con dure parole il presidente russo. La diplomazia del Cremlino più volte nell’ultimo mese è entrata in netto contrasto con quella italiana.

Da qui dunque l’avvertimento di ritorsioni politiche ed economiche lanciato dalla Russia nei confronti del Bel Paese. Mosca ha dalla sua la possibilità di destabilizzare ulteriormente il quadro libico, ledendo gli interessi italiani. In ambito diplomatico non sono pochi coloro che temono azioni di sabotaggio nei confronti delle infrastrutture del gas, circostanza che aumenterebbe la crisi energetica già in atto in Italia. Uno spettro non così remoto nel caso di ulteriore deterioramento delle situazioni. Anche questo è un elemento destinato a legare in modo inscindibile la Libia all’Ucraina.

4775.- La Turchia in Mediterraneo e nella NATO.

La frontiera mediorientale della NATO è la Turchia e, quanto a numeri, vanta il secondo esercito dell’Alleanza. La politica turca segue un suo percorso. Lo abbiamo visto con i curdi, alleati tanto fedeli quanto traditi, quando i cacciabombardieri di Ankara seguivano a distanza di dieci minuti gli Hercules americani che sganciavano rifornimenti e contro l’ISIS, in Siria, quando, in nome di una fascia di sicurezza da frapporre ai guerriglieri, diventati terroristi, esercito e aviazione turchi hanno fatto strage di quel popolo meraviglioso. Qui, giova ricordare che la Turchia è un paese NATO e che, durante le operazioni contro i curdi (che non hanno mai avuto un’aviazione) il suo spazio aereo, a ridosso del confine siriano, era protetto dalle batterie di missili antiaerei italiani del Reggimento Custoza.
Al tempo, lo stato maggiore dell’Esercito turco, per non coinvolgere i suoi reparti regolari assegnati alla NATO, ha armato e diretto le operazioni di un esercito parallelo di mercenari in quel teatro, dove operano americani, russi e iraniani, insieme a varie fazioni locali, governative, ribelli, curde, terroristiche. Alcune migliaia di quei mercenari sono, poi, state trasferite e impiegate in Libia. Questo attivismo politico-guerresco mostra la figura intraprendente di Erdogan e una Turchia che opera da grande potenza. La vera potenza della Turchia sta nella sua funzione di baluardo contro la Russia e nella signoria esercitata sugli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli in forza della Convenzione di Montreux (1936). Poco ha importato l’uscita della Turchia dal programma F-35 dopo l’acquisto del sistema contraereo russo S-400. Quel rapporto con Mosca era compatibile con lo sviluppo della Nuova Via della Seta in Asia Centrale (Kazakistan) e ci lascia una visione della Turchia, una volta alleato, un’altra avamposto e un’altra ancora concorrente, in particolare nella competizione per le fonti energetiche in Mediterraneo.
Qui, sono chiamati in causa l’Egitto, Israele, la Grecia, il Regno Unito e, naturalmente, l’Italia, ma vorrei dire l’ENI. Per esempio, Atene ha accusato Ankara di aver violato il diritto internazionale conducendo attività di esplorazione del gas nelle sue acque territoriali. In particolare, i giacimenti di gas scoperti, anche dall’ENI, offrono diverse opportunità economiche e politiche per lo sviluppo regionale e la cooperazione tra paesi. Quelli all’interno della Zee egiziana superano il fabbisogno di tutti i paesi all’intorno e consentiranno l’esportazione.
Ecco che l’Italia se vorrà fare da ponte energetico tra le due sponde del Mediterraneo dovrà fare i conti con la Turchia ed avere una politica estera adeguata, particolarmente riguardo alla definizione delle ZEE. Sommando l’importanza della Turchia dal punto di vista energetico e economico con quello militare, viene all’attenzione l’accordo stipulato in novembre dalla Türk Deniz Kuvvetleri (Marina militare turca) e, più in generale, dalla Difesa turca con la Spagna, che sulla Turchia ha una sua posizione autonoma dall’Unione europea. Una banca e 600 imprese spagnole di rilievo operano in Turchia. Non solo la Türk Deniz Kuvvetleri ha costruito interamente presso il cantiere Sedef di Istanbul, con la collaborazione della Spagna, la nave d’assalto anfibio della Marina turca Anadolu, derivata dal Juan Carlos I. È una portaerei leggera tuttofare, di 27.000 tonn., con una manciata di aeroplani, un’altra di elicotteri e 4 mezzi da sbarco, che potrà essere dotata di droni. Quanto basta per giocare d’azzardo, ma, con il supporto della Spagna, il presidente turco ha in programma la costruzione di una vera portaerei, più grande del Cavour, e, sempre la Spagna, fornirà il reparto volo, cedendo i suoi AV-8. Perché più grande del Cavour ? E perché le politiche della Spagna e dell’Italia marciano su binari diversi?
Abbiamo toccato diversi temi della competizione in atto in Mediterraneo e, se la tentazione potrebbe essere di tenere la Turchia fuori dell’Unione europea e di estrometterla dalla NATO, questa non è sicuramente la via da seguire. Pubblichiamo, perciò, un’analisi della politica di Recep Tayyip Erdogan, di Giuseppe Cucchi che è stata pubblicata da Analisi Difesa il 15 luglio 2020.
L’analisi è tuttora valida, dal che possiamo trarne alcune considerazioni: la prima è che Washington ha sufficienti strumenti per sopportare e contenere le iniziative del presidente turco in Medio Oriente, nel Caucaso, in Siria e in Libia, la seconda che, al momento, l’Unione europea ha la possibilità economica di sostenere un modus vivendi con il governo turco e la terza, che ci riguarda, che la politica estera italiana non soddisfa la centralità geopolitica della penisola perché non è stata in grado di tutelare i nostri interessi in Libia, a Cipro e, più in generale, in Mediterraneo. Se aggiungiamo il contenzioso sulle ZEE, suscitato da Ankara nei confronti della Grecia e dell’Egitto, tutto ciò pone una seria ipoteca sia sull’ambizione di costituire una zona di libero scambio fra i Paesi della costa Nord e della costa Sud del Mediterraneo sia sul confine Sud allargato perseguito da Bruxelles. Se, infine, ci poniamo il problema dello sviluppo dell’Africa Bianca e del Sahel, alla luce della complementarità fra Africa e Europa, ecco, allora, che il piccolo dittatore Erdogan appare molto più grande di quanto non possa sembrare. Anche se il bilancio della difesa turco ha toccato il 2,5%, a dicembre, l’inflazione ha superato il 36%. Potremmo dire che, economicamente, la Turchia non sia all’altezza delle sfide del suo presidente, ma questo ci ricorda un altra storia, tutta italiana.

Cacciare la Turchia dalla NATO? 

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Cacciare la Turchia dalla NATO è indubbiamente una tentazione che si fa di giorno in giorno più incalzante, alimentata dal modo in cui il Paese anatolico, e soprattutto il suo “uomo forte” procedono sulla scena della politica internazionale, del tutto indifferenti al danno o al fastidio che alcuni dei loro atti possono provocare a quelli che – almeno in teoria – sono ancora formalmente loro alleati a tutti gli effetti.

Sono ormai parecchi anni che le cose procedono in questo modo e che l’Alleanza è sottoposta da Ankara a continue provocazioni e ricatti. Per non parlare poi di quelli che, pur senza interessare direttamente il Patto Atlantico, feriscono tuttavia o il suo pilastro europeo o quello di oltre Oceano.

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Così gli Stati Uniti si sono visti negare in più occasioni l’uso di basi che pure in alcuni momenti sarebbero risultate preziose. Un rifiuto, tra l’altro, che in alcuni casi si è anche chiaramente configurato come un sostegno indiretto fornito da Erdogan a regimi o movimenti islamici estremisti.

Così l’Unione Europea è stata e rimane costantemente sottoposta al ricatto dei profughi-migranti che ha avuto il torto di accettare la prima volta invece di sigillare ermeticamente le proprie frontiere e mandare al diavolo chi proponeva il baratto. Ed in materia di ricatti si sa che chi cede una volta…..

Così l’intero Occidente ha dovuto accettare prima che Ankara si crogiolasse con l’ISIS in una apparente neutralità che in molte occasioni sconfinava in aperta complicità, poi che essa attaccasse, oltretutto servendosi per buona parte di milizie irregolari legate all’estremismo islamico, quei curdi che erano stati i nostri migliori alleati nel crogiolo medio orientale.

Turchi Afrin

Così una serie di decisioni unilaterali di Ankara ha portato il disordine nelle acque mediterranee, cambiato le carte sul tavolo in Libia, ridato fiato ad una “Fratellanza Musulmana” che si sperava ridotta agli estremi e, ultimamente, restituito alla condizione di moschea la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, nonostante ciò potesse suonare come uno schiaffo deliberatamente inflitto all’intero ecumene cattolico ed ortodosso.

Quanto all’Alleanza Atlantica poi, essa è stata direttamente ferita dalla decisione di Erdogan di acquistare armamenti controaerei e reattori nucleari in Russia, una decisione su cui il Presidente turco non ha più acconsentito a ritornare nonostante gli sia costata il blocco della prevista fornitura statunitense di aerei F-35.

Ce ne è abbastanza per iniziare a considerare la Turchia non più come un fedele alleato, come essa era vista ai tempi di quel controllo militare sul paese di fronte a cui le nostre democrazie storcevano il naso incapaci di rendersi conto della sua funzione di estrema garanzia, bensì come un pericolo immanente, un costante elemento di destabilizzazione per tutta quella area mediterranea che per la NATO è di estremo interesse?

Certamente sì, e sarebbe a questo punto anche il caso di chiederci che cosa ci stia a fare un membro di questo genere in seno ad una Alleanza che dovrebbe essere il faro della sicurezza, della stabilità e della democrazia in tutta l’area Nord Atlantica.

Oltretutto lo status di membro della Turchia potrebbe permetterle , in un domani che si spera resti ipotetico, di paralizzare qualsiasi eventuale azione dell’Alleanza che risulti  non di suo gradimento .
Non sembra comunque che l’urgenza del problema di che cosa fare di questo alleato a dir poco scomodo sia sentita come tale dai vertici della NATO che sino ad oggi, probabilmente procedendo su una linea condivisa con il “Grande Fratello” americano, si sono rifiutati di iniziare qualsiasi discussione anche informale al riguardo.

ESL a Afrin EPA

A chi poneva dall’esterno la domanda sono state cosi opposte costantemente le medesime due obiezioni. La prima, di carattere formale, consiste nel fatto che il Trattato del Nord Atlantico, pur prevedendo esplicitamente il caso e la procedura per il ritiro volontario di un membro dall’Alleanza, non si esprime invece sull’eventualità che esso venga invitato, o costretto, ad andarsene dalla volontà congiunta di tutti gli altri associati.

Quello che non viene mai indicato è però come un altro articolo sancisca come basterebbe la richiesta di un solo partner per aprire la via ad una eventuale revisione che consenta di rimediare alla mancanza.
La seconda obiezione, di carattere storico/pratico questa volta, è centrata poi sul modo in cui, anche nei momenti più delicati della sua e della loro storia, la NATO non abbia mai considerato provvedimenti tanto drastici nei riguardi dei propri membri.

Al massimo essa si è limitata ad applicare nei loro confronti quella specie di “periodo di quarantena” non dichiarato che nella pratica, anche se non formalmente, li escludeva dalle maggiori decisioni.
Si trattò di un provvedimento che venne a suo tempo utilizzato verso la “Grecia dei Colonnelli”, verso il “Portogallo della rivoluzione dei garofani ” ed anche nei riguardi dell’Italia, per lo meno nel 1976 allorché sembrava che il PCI di Berlinguer potesse diventare maggioritario nel nostro paese.

Anche qui vi è comunque qualcosa che non viene detto esplicitamente. La quarantena dei reprobi di turno fu resa infatti possibile da una silente approvazione del provvedimento da parte degli interessati che trovarono più conveniente tacere e continuare a rimanere membri piuttosto che finire col rischiare di mettere in discussione la loro appartenenza alla Alleanza, con tutto ciò che da tale condizione derivava.

Haka e Erdogan

Non sembra che in questo momento tale sia il caso nè della Turchia ne’ del Presidente Erdogan che ne è l’espressione pubblica di vertice.  Basta far mente locale alla feroce arroganza con cui egli ha definito “intromissione negli affari interni turchi ” le civili proteste di buona parte del mondo nei riguardi della trasformazione in moschea di Santa Sofia per rendersi infatti conto di come Ankara reagirebbe nel vedersi silenziosamente esclusa dai giochi maggiori della Alleanza.

Cosa fare allora? E per quanto continuare a sopportare un rosario di eventi e di forzature collegate l’una all’altra che ricorda molto tanto nel modo, quanto negli effetti, quanto infine nell’impatto sulla opinione pubblica occidentale quello che fu il comportamento delle grandi dittature europee negli anni Trenta del secolo scorso?

Certo, perdere la Turchia significherebbe lasciare quasi sguarnito il fianco sud-est della nostra Alleanza e ciò potrebbe rivelarsi poco prudente, almeno sino a quando rimarranno aperti con la Russia i vari contenziosi in atto.

Vi è però da considerare come, se non agiamo noi tempestivamente, domani potrebbe essere proprio la Turchia a decidere di andarsene.
Leopard turco in Siria al-Bab TWITTER

Basterebbe che il suo Presidente valutasse l’uscita dalla Alleanza come una mossa capace di rendergli parte di quel sostegno popolare che la caduta dell’economia sta facendogli perdere. E magari ad una mossa del genere potrebbe anche essere associata una politica di maggiore e più muscolosa presenza in tutta quella “dorsale verde” Islamica che attraversa il sud est dei Balcani.

Se ciò dovesse avvenire il vantaggio della iniziativa sarebbe tutto dalla sua  parte e noi saremmo ridotti ad una difensiva che, oltretutto, il numero troppo alto dei membri ed i troppi interessi parziali da salvaguardare della Alleanza renderebbero particolarmente difficoltosa .

Vogliamo che ciò accada? Pensiamoci bene ed evitiamo soprattutto di rifugiarci come al solito in una non decisione. Come diceva Andreotti, che in politica internazionale aveva le idee molto chiare, vi sono infatti momenti storici in cui ciò che viene gabellato come una non decisione consiste in realtà in una decisione ben precisa!

4728.- La strigliata di Putin a Erdogan sui droni e la fase 2 in Siria e Libia

Questo cavalcare di Erdogan a mezz’acqua fra NATO, USA e Russia è un segno della debolezza dell’Occidente. Sta di fatto che le mosse di Erdogan, da un lato, possono contenere la tendenza russa a sottrarre zone d’influenza in Medio Oriente e nell’Asia Centrale, da un altro, hanno l’effetto di cristallizzare nel Mediterraneo situazioni di esito incerto per la Turchia, di interesse di volta in volta variabile per gli Stati Uniti, ma certamente negative per la NATO, per l’Italia e per la Francia. Con lo sguardo allo stabilimento di basi navali e aeree turche in Libia, da Tripoli a Misurata, alla cooperazione in campo navale fra Spagna e Turchia, riguardo alla costruzione di una portaerei turca e all’acquisto del suo reparto volo, emerge la mancanza di coesione fra i Paesi dell’Unione europea.

Di Francesco De Palo | 03/01/2022 – Formiche.net-Esteri

La strigliata di Putin a Erdogan sui droni e la fase 2 in Siria e Libia

Do ut des: Ankara potrebbe fare ammenda sui droni, se Mosca offrisse un supporto in partite chiave per i conti disastrati di Erdogan. Nel Mediterraneo, dopo l’episodio del blocco del Canale di Suez, anche per questa ragione, la portaerei nucleare USS Harry STruman (CVN-75) rappresenta il ritorno di un gruppo d’attacco dell’US.NAVY in pianta stabile.

L’incontro telefonico tra i leader di Russia e Turchia porta in grembo la volontà di Mosca di non essere messa ancora alla prova, soprattutto sul caso Kiev, in un momento in cui Zelensky è definito dal Cremlino una minaccia per il suo Paese. Il tutto mentre alla vigilia dei colloqui Usa-Russia, il Pentagono decide di mantenere la portaerei Truman nel Mediterraneo, per “rassicurare” gli europei in mezzo alle tensioni con la Russia, lì dove Erdogan vorrebbe far valere il suo passo indietro in altri fronti caldi.

MOSCA REGISTA

C’è un (non più) sottile filo che lega Ucraina, Siria, Libia e dossier energetico (compreso l’Iran e il Mediterraneo): la volontà di Mosca di essere regista di tutte le partite che coinvolgono lo storico avversario a stelle e strisce, ma con la partecipazione sia diretta che indiretta di Ankara. Lo dimostra, ancora una volta, il tenore delle relazioni tra i due Paesi al netto delle frizioni su alcuni punti chiave. Al di là delle dichiarazioni di rito riguardo l’ultimo contatto telefonico tra i due (“Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan si sono augurati un felice anno nuovo, hanno esaminato la cooperazione bilaterale e hanno riaffermato la loro determinazione a continuare a rafforzare la partnership reciprocamente vantaggiosa tra Russia e Turchia”) il caso dei droni turchi è stato un fatto poco gradito da Putin nello scenario ucraino, che potrebbe avere conseguenze dirette.

IL RUOLO DI ANKARA

La Turchia, membro Nato, vanta il secondo esercito dell’alleanza e l’aver fornito droni a Kiev che li ha impiegati contro i separatisti sostenuti dalla Russia ha rappresentato uno schiaffo che Putinpotrebbe restituire molto presto a Erdogan. Dove? Due sono le aree in cui la Turchia sgomita per avere un ruolo maggiore: la Siria, con vista Medio Oriente, e il Mediterraneo (Libia e gas a Cipro/Grecia).

È di tutta evidenza come il Caucaso, assieme alla partita per la ricostruzione siriana e libica, siano al centro dei pensieri della politica e del business di Russia e Turchia. I soldati ammassati sul confine ucraino non sono solo la spia di una possibile offensiva russa in Ucraina, ma un guanto di sfida agli altri super players. Inoltre la visita da parte del ministro della Difesa turco Hulusi alle truppe turche al confine siriano di Şanlıurfa è stata più ad uso interno dei media, che un voler mostrare i muscoli visto che la Russia da questo punto di vista non si fa influenzare: le tensioni mai sopite con Cipro e Grecia stanno registrando altre provocazioni negli ultimi giorni.

IL VIDEO DI KASTELLORIZO

Il ministero della Difesa turco ha pubblicato sul suo account Twitter ufficiale un video di propaganda rivolto a Kastellorizo. Prima ci sono le dichiarazioni di Akar del 24 dicembre scorso, secondo le quali Kastelorizo è a 1.950 metri dalla Turchia e quindi gli studenti dell’Accademia di guerra turchi possono arrivarci nuotando. In seguito è stata pubblicata una mappa della costa turca, seguita da studenti turchi che nuotano fino a Tuzla, che dista appunto solo 1.950 metri. La mossa rientra nella strategia complessiva di Ankara, che per sviare le attenzioni dalla difficile situazione economica interna, agita lo spettro del conflitto nell’Egeo. Lo stesso ministro ha ribadito la provocatoria richiesta di smilitarizzazione delle isole dell’Egeo, chiedendo che non si tengano cerimonie nelle isole greche di Samos, Chios e Oinousses perché rappresenterebbero una sfida greca alla Turchia.

IL RUOLO DELLA GRECIA

Il tutto mentre la Grecia prosegue nella sua strategia di tessere maggiori relazioni con il Golfo: domani il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, il principe Faisal Bin Farhan Al-Saud, sarà ad Atene per approfondire le relazioni bilaterali nei settori della difesa, dell’economia e degli investimenti, nel Mediterraneo orientale e in MO. Inoltre il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ha deciso di mantenere una portaerei nel Mediterraneo al fine di “rassicurare” gli europei in mezzo alle tensioni con la Russia. La USS Harry Truman  resterà nell’Area di comando europea (EUCOM) invece di recarsi nell’Area di comando centrale (CENTCOM) come previsto, vista la necessità di una presenza continua in Europa. La USS Harry Truman e la sua forza aeronautica di accompagnamento si trovano nel Mediterraneo dallo scorso 14 dicembre: avrebbero dovuto fare rotta nella regione del Golfo attraverso il Canale di Suez, ma le tensioni sul caso ucraino e le possibili conseguenze geopolitiche nella macro area ne hanno modificato i piani.

GAS & GEOPOLITICA

La Russia resta un soggetto molto performante in Turchia, come dimostrano anche i dati relativi al gas: le esportazioni di gas naturale della Russia Gazprom al di fuori dell’ex Unione Sovietica nel 2021 sono aumentate di 5,8 miliardi di metri cubi (bcm) a 185,1 miliardi di metri cubi, con le esportazioni verso la Turchia in aumento del 63%. Il gigante del gas russo aveva pianificato di fornire 183 miliardi di metri cubi di gas all’Europa e alla Turchia ma tale cifra include la Cina, dove ha iniziato le esportazioni nel 2019. Su Pechino però non ci sono dati sull’export per l’intero 2021 ma solo per i primi nove mesi (7,1 miliardi di metri cubi). Come dire che il triangolo costruito da Russia, Cina e Turchia sul dossier energetico è solido e mostra un potenziale costante nel tempo che si intreccia inevitabilmente con la geopolitica che si svilupperà in Libia e in Siria (oltre che in Ue).

@FDepalo

4592.- Le ultime cose turche della Turchia in Africa

Altro che Trattato del Quirinale! Altro che esercito europeo! Di Erdogan, ce n’è Uno!

Turchia Africa

di Giuseppe Gagliano. Start Magazine. Aggiornato il 4 dicembre 2021.

Il 17 e il 18 dicembre si svolgerà il terzo vertice Turchia-Africa. Ecco di cosa si parlerà

Tra il 17 e il 18 dicembre si svolgerà il terzo vertice Turchia-Africa, nel quale non solo si discuterà della lotta comune contro il terrorismo, della crisi libica e di quella somala ma anche della situazione di diffusa instabilità politica in Mali, nella Guinea e in Sudan.

È evidente che questo vertice non farà altro che rafforzare la penetrazione turca in Africa.

Infatti nel giro di pochi anni infatti la Turchia ha siglato accordi bilaterali con il Burkina Faso e con il Niger. Ora tocca al Togo.

E mentre i giornali italiani e di oltre Alpe commentano con favore il trattato italo-francese, la Turchia non solo addestra in Somalia – ex zona di influenza italiana – uomini dell’esercito nazionale ma ha stabilito anche una infrastruttura militare a Mogadiscio nel 2017.

È talmente profonda la penetrazione della Turchia in Africa che nel 2018 la Turchia ha dato 5 milioni di dollari alla forze antiterrorismo del G5 del Sahel con profondo e comprensibile disappunto da parte della Francia.

E che dire del fatto che proprio ad ottobre il presidente turco ha ricevuto con tutti gli onori sia il presidente nigeriano Muhammadu Buhari che quello ciadiano Mahamat Idriss Déby Itno?

In poco meno di vent’anni vent’anni, gli scambi tra la Turchia e l’Africa sono arrivati a 25,3 miliardi di dollari. Ecco come e dove.

Il punto di Giuseppe Gagliano

È indiscutibile la proiezione di potenza economica e militare della Turchia in Africa, per quanto non sia certo paragonabile a quella cinese.

In Algeria vi sono 1300 aziende turche attive, tra le altre, nell’industria siderurgica (gruppo Tosyali), tessile (Tayal), nei prodotti per l’igiene (Hayat Kimya), nell’energia (accordo tra Botas e Sonatrach).

Insomma, in poco meno di vent’anni vent’anni, la Turchia ha un volume di scambi con l’Africa che arrivava a 5,4 miliardi di dollari nel 2003, ora ammonta a 25,3 miliardi di dollari. Questo è poco rispetto ai 180 miliardi di scambi cinesi con l’Africa, ma i progressi sono costanti. Nello stesso periodo, le esportazioni di Ankara verso il continente sono aumentate da 2 a 15 miliardi di dollari e le sue importazioni da 3 a 10 miliardi di dollari. Questi dati riguardano principalmente i prodotti grezzi (idrocarburi, prodotti alimentari e minerari).

Insomma, la Turchia, la diciassettesima più grande potenza economica del mondo, intende costruirsi una sfera di influenza sul mercato africano. È indubbio tuttavia tre difficoltà economiche della Turchia sono accentuate ma certamente contribuiranno a rallentare, seppure in modo temporaneo, la politica di proiezione di potenza economica.

Vi sono certo diverse ragioni che hanno consentito alla Turchia un successo rilevante in Africa e cioè le capacità in ambito commerciale, l’alta qualità dei prodotti venduti, il rapporto tra il prezzo e il prodotto che viene venduto e infine la rapidità con la quale i prodotti raggiungono i mercati africani. Proprio grazie a queste capacità la Turchia inizialmente presente in Etiopia, Somalia il Sudan si sta espandendo all’Africa occidentale e all’Africa meridionale. La Turchia si sta accorgendo il ruolo sempre più rilevante che la Nigeria e l’Angola possono svolgere per la sua economia.

Se poi guardiamo i dati con altri paesi dell’Africa vediamo che vi sono degli incrementi notevolissimi. Costa d’Avorio: 630 milioni di dollari nel 2020 (+67% in due anni). Ruanda: 81 milioni di dollari (rispetto ai 35 milioni di dollari nel 2019). Burkina Faso: 72 milioni di dollari per i primi nove mesi del 2021 (+65% rispetto al 2020).

Tuttavia il Sudafrica rimane un caso a sé: è un mercato infatti di difficile accesso per la Turchia, e non a caso la Turchia ha infatti un deficit commerciale di bene 300 milioni di dollari. Questo dipende anche dal fatto che le esportazioni cemento sono limitate e quindi ostacolano la crescita delle imprese edilizie, nonostante il fatto che in questo settore la Turchia abbia una vera e propria leadership. A questo proposito le imprese più note e che si sono consolidate in Africa sono Limak, Rönesans, Mapa, Summa o Yenigün. Pensiamo anche all’edilizia religiosa come le mosche come quelle costruite in Sudan, Gibuti e Bamako o a quella di Accra, dove è stata costruita una replica della Moschea Blu di Istanbul.

Accanto al settore edilizio non possiamo dimenticare quello delle infrastrutture aeroportuali, come la TAV in Tunisia (Monastir e Hammamet), l’ aeroporto di Blaise-Diagne Albayrak o quelle portuali come quella del porto di Mogadiscio e parte di quello di Conakry.

Ma anche le centrali elettriche sono un investimento importante: pensiamo a quelli del Senegal, in Ruanda o in Gabon. Alla Guinea-Bissau fornisce il 100 % di energia elettrica, l’80% alla Sierra Leone e il 15% al Senegal.

Ma non c’è dubbio che uno dei settori emergenti delle esportazioni turche sia quello della difesa: Tunisia, Marocco, Etiopia e presto Niger, sono tra gli acquirenti di droni; il Burkina Faso, che ha già acquisito veicoli Cobra da Otokar, ha ordinato attrezzature di sminamento dalla società pubblica Afsat; il Kenya riceverà carri armati Hizir dalla società privata Katmerciler, nel 2022.

Ma come dimenticare infine la compagnia aerea turca, e cioè la Turkish Airlines, che organizza trentacinque voli settimanali con l’Algeria, sette con la Costa d’Avorio, il Gabon o il Burkina Faso, cinque con il Sudafrica.

4479.- Politica estera e difesa europea, un tema fondamentale nello scenario geopolitico di oggi

È prassi parlare di politica estera, difesa e sicurezza europee senza anteporvi il problema istituzionale della mancanza di sovranità e di una costituzione per l’Europa.

Al centro degli interessi italiani c’è il Mediterraneo, con le dispute sullo sfruttamento delle risorse energetiche e i diritti di pesca. Ricordiamo la vicenda della SAIPEM, costretta a lasciare le acque di Cipro, malgrado un atto sottoscritto e la presenza di una fregata della Marina Militare. Abbiamo visto il patto sottoscritto tra Ankara e Tripoli e, ancora, Ankara e Atene tenere una serie di attività “provocatorie” nel Mare Egeo e nel Mediterraneo orientale, rivendicando i rispettivi diritti di esplorazione energetica. La Francia inviò la fregata Lafayette a monitorare le attività della Turchia nella regione e le sue navi svolsero esercitazioni congiunte con quelle della Grecia. La Grecia ha acquistato dalla Francia 24 caccia Rafale, 3 fregate e 3 corvette. Con questa “partnership strategica”da 3 miliardi di euro con la Grecia, la Francia ha compensato, almeno in piccola parte, lo smacco subito dall’Australia. Grecia, Turchia e Francia sono membri della NATO e, allora, è legittimo porsi la domanda se la NATO è ancora, da sola e in assoluto, l’alleanza che garantisce la difesa e la sicurezza degli europei. Ad esempio, non è facile ipotizzare lo schieramento di reparti dell’esercito turco sul Reno, anche se le tensioni nel Mediterraneo Orientale si devono leggere in chiave energetica. L’argomento dei diritti di sfruttamento energetico è stato al centro di un summit in seno al Consiglio Europeo fra i 7 Paesi del Sud dell’Unione europea, ovvero Italia, Spagna, Francia, Grecia, Portogallo, Cipro e Malta. Il summit era stato preceduto da un vertice, che si era tenuto il 10 settembre 2020 a Porticcio, in Corsica, sotto l’egida del presidente francese, Emmanuel Macron. Al centro delle tensioni sono state le “azioni provocatorie turche nel Mediterraneo orientale”, da che, il presidente francese e il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis hanno affrontato il tema della cooperazione in materia di Difesa.

L’esplorazione sottomarina ha aperto nuovi scenari in Mediterraneo. Stiamo assistendo a programmi navali importanti e al riarmo dei paesi rivieraschi: l’Egitto e l’Algeria, per esempio, si sono dotati di navi portaelicotteri e la Russia e la Turchia si stanno radicando in Libia. È nota la situazione di intolleranza dei libici e dei turchi nei confronti dell’ospedale dell’esercito italiano a Misurata, la cui base navale è stata concessa alla Turchia per 99 anni.

Nei confronti di Atene, le rivendicazioni di Ankara si fondano su aspetti geografici. Le coste della Turchia si sviluppano nel Mediterraneo orientale più di quelle di ogni altra nazione, ma l’estensione della piattaforma continentale greca, con le sue tante isole prossime alla frontiera turca, riduce la sua zona marittima a una stretta striscia di acque. Per esempio, l’isola greca di Castelrosso dista 570 km dalla Grecia continentale, ma si trova a 2 km dalla costa meridionale della Turchia. Erdogan non riconosce la Convenzione di Montego Bay, firmata nel 1982 davanti alle Nazioni Unite e sostiene che “La richiesta della Grecia di una zona di giurisdizione marittima di 40.000 chilometri quadrati a causa dei 10 chilometri quadrati di terra occupati dall’isola di Kastellorizo è assolutamente illogica”.

La contesa fra Grecia e Turchia non è di oggi e nemmeno di ieri. Ricordo, in una mia visita a una base aerea greca, una quarantina di anni fa, che il comandante lasciò la base alle ore 20, ma il comandante in seconda lo aveva già sostituito per la notte da 10 minuti.

Lo sfruttamento dei diritti di pesca

Non meno importante del disaccordo sui diritti di sfruttamento delle risorse di idrocarburi nella regione del Mediterraneo orientale è lo sfruttamento dei diritti di pesca in tutto il Mediterraneo, che necessita della cooperazione tra gli Stati costieri, anzitutto nella definizione delle rispettive Zone Economiche Esclusive, ZEE. Ricordiamo l’exploit di Haftar con il sequestro di due pescherecci italiani e il permanere dell’agguato di Macron sulla zona di pesca, secolare, del gambero rosso, con l’avvallo di Gentiloni; ma anche le pretese dell’Algeria sulle acque sarde e, recentemente, le dispute sorte sui diritti di pesca nella Manica, in seguito alla Brexit.

È appena di due giorni fa la convocazione dell’ambasciatrice francese Catherine Colonna da parte del ministro degli Esteri del Regno Unito Liz Truss. Oggetto della convocazione, le tensioni sorte con la Francia sui diritti di pesca, negato lo scorso mese. La Francia ha rispettivamente multato e costretto ad attraccare a Le Havre, nel Canale della Manica, due pescherecci inglesi, cui era stato negato il permesso di pesca in quelle acque.

Prima di questo, il 17 Settembre scorso, la Commissione europea ha adottato una proposta sulle possibilità di una pesca sostenibile per l’anno 2022 sia nel Mar Mediterraneo sia nel Mar Nero. La proposta promuove la gestione sostenibile degli stock ittici nel Mar Mediterraneo e nel Mar Nero, nel rispetto degli impegni politici già assunti.

Sulla creazione di una politica estera e di difesa comune europea. Video.

Nei video che seguono Roberto Castaldi trascura l’aspetto istituzionale e si concentra sulla situazione geopolitica, condividendo, di fatto, il disegno tedesco di europeizzare la Force de Frappe e il seggio francese all’ONU.

By:  Redazione e Roberto Castaldi |  EURACTIV Italia

Il dibattito sul tema della creazione di una politica estera e di difesa comune europea, di cui ha parlato anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, resta fondamentale e di attualità. Lo scenario geopolitico continua a deteriorarsi, come dimostrano i sorvoli di aerei cinesi su Taiwan e russi sui paesi baltici.
Gli stati europei non sono in grado di garantire la sicurezza separatamente: serve una responsabilità piena dell’Ue in materia di politica estera e di difesa. Serve un’europeizzazione del seggio francese all’Onu.

Serve una politica estera comune per rendere l’Europa rilevante sul piano internazionale

I leader europei hanno discusso martedì 5 ottobre della difesa europea, dibattendo sulla necessità di potenziare la propria capacità di agire in maniera indipendente oppure se rafforzare la cooperazione con la Nato, ma senza giungere a un risultato. Gli europei sembrano accorgersi delle vicende internazionali solo quando c’è una grande crisi che occupa le prime pagine dei giornali. Così di fronte alla fuga dell’Afghanistan si è tanto parlato della necessità di una difesa europea e di una politica estera comune, ma poi non si è concretizzato nulla. È necessario unire l’Europa dal punto di vista della sicurezza e della difesa, altrimenti continuerà a non riuscire a proiettare stabilità nell’area di vicinato e a rimanere scarsamente rilevante sul piano internazionale.