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6173.- Inferno nel Sudan, la peggior crisi umanitaria della storia recente

9 milioni di disperati.

La guerra civile del Sudan, scoppiata a seguito del colpo di Stato del generale Hemedti, è diventata la peggiore crisi umanitaria della storia recente, con 9 milioni di profughi.

Da La Nuova bussola Quotidiana, di Anna Bono,  22_03_2024Campo profughi in Chad

Il delirio di onnipotenza, l’ambizione sfrenata, l’insaziabile avidità di due uomini, due generali, hanno sprofondato il Sudan nella peggiore crisi umanitaria del mondo. Il generale Abdel Fattah al-Burhan è il comandante delle forze armate e il presidente del Consiglio superiore che ha assunto il potere dopo il colpo di stato militare del 2021. Ai suoi ordini ha 120mila militari. Il suo avversario è il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti, che fino all’anno scorso era il suo vice. È il leader delle Forze di supporto rapido (FSR), un organismo paramilitare composto da circa 100mila combattenti. Lo scorso aprile le crescenti tensioni tra di due generali sono degenerate in conflitto armato. I combattimenti sono iniziati nella capitale Khartoum e nello stato occidentale del Darfur. Nei mesi successivi si sono estesi ad altre regioni.

Le conseguenze della guerra sono di portata apocalittica. Le perdite civili si contano ormai a decine di migliaia. I profughi sono almeno nove milioni, circa 1,7 milioni dei quali rifugiati nei paesi vicini, soprattutto in Ciad e nel Sudan del Sud. Circa 25 milioni di persone, più di metà della popolazione, hanno bisogno di assistenza. Già lo scorso febbraio la situazione era stata definita prossima al punto di non ritorno. “La guerra – aveva ammonito Martin Griffiths, sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari e coordinatore dei soccorsi – ha privato gli abitanti del paese quasi di tutto, la loro sicurezza, le loro case e i loro mezzi di sussistenza. Hanno bisogno di aiuto subito, con estrema urgenza o sarà una catastrofe”. Invece gli aiuti hanno tardato ad arrivare, fermati da continui ostacoli, e ancora non hanno raggiunto diverse parti del paese. Le agenzie internazionali e le organizzazioni non governative hanno dovuto lottare con i funzionari di Port Sudan per ottenere i permessi di transito e soccorrere gli sfollati rifugiati nelle regioni per ora risparmiate dalla guerra. Solo da qualche giorno il governo ha consentito l’uso di tre aeroporti per far atterrare aerei carichi di aiuti e l’ingresso di soccorsi dal Ciad e dal Sudan del Sud. Aveva bloccato quelli dal Ciad sostenendo che gli Emirati Arabi Uniti si servivano dei convogli umanitari per fornire armi alle FSR. Questo ha lasciato senza assistenza gli abitanti del Darfur dove i combattimenti sono più intensi, milioni di persone. Come se non bastasse, a peggiorare la situazione contribuiscono i continui attacchi agli operatori e ai convogli per saccheggiarne i carichi.

All’inizio di marzo la situazione è precipitata. A causa della guerra la produzione agricola è crollata, milioni di persone sono senza raccolti e hanno perso tutto il bestiame. A questo si aggiungono i gravi danni alle infrastrutture, l’interruzione dei flussi commerciali, il vertiginoso aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. La prospettiva è la fame per milioni di persone: cinque milioni per il momento, ma il numero è destinato ad aumentare.

“Ormai siamo di fronte a uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente” ha dichiarato il direttore delle operazioni e della difesa dell’OCHA, Edem Wosornu, parlando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 20 marzo. Ma i contendenti non mostrano nessuna pietà per questa umanità esausta, disperata, tanto spietati da usare la fame come arma di guerra negando l’accesso agli aiuti. Nel corso dei mesi si è delineato un quadro raccapricciante di violenze inflitte senza risparmiare nessuno: torture, stupri di gruppo, attacchi indiscriminati in aree densamente abitate con conseguenti, inevitabili vittime civili e tutti gli altri orrori che caratterizzano le guerre in cui le violenze sui civili sono deliberate e non effetti collaterali dei combattimenti. Nel maggio del 2023 in una sola città, El Geneina, nel Darfur occidentale, da 10mila a 15mila persone di etnia Masalit sono state uccise dalle FSR. Sia i militari governativi che quelli delle FSR sono accusati di crimini di guerra e le FSR si ritiene siano responsabili anche di crimini contro l’umanità e pulizia etnica nel Darfur. 

Per dare sollievo alla popolazione, l’8 marzo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione proposta dalla Gran Bretagna che chiedeva ai contendenti di sospendere i combattimenti nel mese di Ramadan, che quest’anno è iniziato il 10 marzo. Sia al-Burham che Hemedti si sono dichiarati favorevoli a una tregua, ma in realtà finora non hanno deposto le armi neanche per un giorno e tutto fa pensare che non accetteranno presto di sedersi al tavolo delle trattative al quale da mesi si tenta di portarli. Del tutto indifferenti alle sofferenze e ai danni immensi provocati dalla loro guerra, non danno il minimo segnale di voler mettere fine alle ostilità se non con la completa sconfitta dell’avversario.   

Sembra che i soldati dell’esercito governativo per mesi non siano stati pagati, che molti, di entrambi i fronti, combattano in sandali, senza uniformi, il che provoca frequenti perdite da fuoco amico. Può darsi, ma le forze armate sudanesi sono uno degli eserciti africani più forti e le FSR sono ben armate e addestrate. Entrambi i generali inoltre continuano ad arruolare e addestrare nuove reclute e sembra che lo facciano su base etnica, una scelta molto allarmante perché la tribalizzazione dei conflitti in Africa accresce sempre la violenza degli scontri e rende più difficile raggiungere accordi di pace definitivi. Altrettanto preoccupanti, per l’esito della guerra, sono le interferenze esterne. La risoluzione adottata dal Consiglio di Sicurezza conteneva anche la raccomandazione ai governi di tutti i paesi di “astenersi da interferenze che cercano di fomentare lo scontro e di sostenere invece l’impegno per una pace duratura”.

La richiesta era rivolta agli Stati che stanno sostenendo i due generali e che in effetti, con i loro aiuti militari, deliberatamente contribuiscono a far sì che la guerra continui con conseguenze sempre più dolorose. I più potenti sostenitori del generale Hemedti sono gli Emirati Arabi Uniti e la Russia. Inoltre ha al suo fianco i mercenari russi della compagnia Wagner ai quali, in cambio, consente di sfruttare le miniere d’oro che controlla. L’alleato più forte del generale al-Burhan è l’Egitto. Di recente può contare anche sull’Iran che gli ha fornito armi e servizi di intelligence grazie ai quali ha lanciato una controffensiva dopo settimane di sconfitte e ha riconquistato la città gemella della capitale, Omdurman. Inoltre ha chiesto e ottenuto aiuto dall’Ucraina. I primi militari ucraini, principalmente dell’unità Tymur, sono arrivati in Sudan lo scorso anno in tempo per aiutarlo a lasciare la capitale, ormai circondata dalle FSR, e riparare a Port Sudan. 

A differenza di altri contesti, nei quali dei paesi stranieri, seppure motivati dall’interesse di stabilire rapporti economici e politici proficui, sono intervenuti a sostegno di governi e popoli africani minacciati da gruppi ribelli o jihadisti, in Sudan i militari russi e ucraini e gli Stati schierati su fronti opposti – Egitto, Yemen, Iran, Arabia Saudita, Qatar… – alimentano con il loro sostegno e le loro ingerenze una guerra voluta da due militari al solo scopo di sopraffare l’avversario. Ne approfittano, disposti a prolungarla e a renderla più cruenta – perché questo è il risultato – se serve a conquistare posizioni nel continente africano, incuranti delle conseguenze tanto quanto i generali Hemedti e al-Burhan.

6159.- Nave Duilio è stata mandata in una missione di guerra, non di pace. La favola è già finita


Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sanguinario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez”, sottolinea infatti Frattini l’irriducibile, “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40%. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Di Fabrizio Micheli

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan YaeeshIl terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5scome titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sullalavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensivadei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchiocon una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar AllahAbdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.


La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. 

6187.- L’Iran colpisce in Iraq e Pakistan. È guerra non dichiarata

La guerra larga di Joe Biden, Rishi Sunah e Benjamin Netanyahu.

L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra Iran e Usa. L’Iran colpisce nel Kurdistan iracheno, ma anche in Siria e Pakistan.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Gianandrea Gaiani, 18_01_2024Erbil dopo il bombardamento iraniano (La Presse)

L’Iran risponde con le armi a lungo raggio ad attacchi e attentati compiuti nelle ultime settimane sul suo territorio e contro esponenti delle milizie alleate di Teheran in Libano, Iraq, Siria e Yemen. 

L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra l’Iran e l’asse Usa-Israele. Il 16 gennaio missili balistici iraniani hanno distrutto nel Kurdistan iracheno un obiettivo definito il “quartier generale del Mossad” a Erbil che sembra essere la casa del ricco uomo d’affari curdo Peshraw Dizayee, rimasto ucciso a quanto sembra con diversi membri della sua famiglia. Dizayee era vicino al governo curdo, possedeva aziende attive nel settore immobiliare e petrolifero ed era considerato da Teheran vicino al Mossad anche se le autorità curde lo hanno seccamente smentito.  Altri missili balistici iraniani hanno colpito anche la casa di un alto funzionario dell’intelligence curda e un centro della stessa organizzazione.

Un comunicato dei Guardiani della Rivoluzione iraniani (Irgc) ha rivendicato l’azione, sostenendo di aver attaccato anche le basi dello Stato Islamico nel nord della Siria e descrivendo l’attacco come «una risposta ai recenti atti malvagi del regime sionista nel martirizzare i comandanti dell’Irgc e della resistenza. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche ha identificato i luoghi di raccolta dei comandanti e i principali elementi legati alle recenti operazioni terroristiche, in particolare l’Isis, nei territori occupati della Siria e li ha distrutti sparando un certo numero di missili balistici” hanno riportato i media iraniani.

Un evidente riferimento all’assassinio in Siria del generale iraniano Razi Mousavi, e in seguito alle uccisioni attuate sempre dagli israeliani in Libano del numero due di Hamas Saleh al-Arouri e del comandante di Hezbollah Wissam al-Tawil ma anche all’incursione statunitense nel quartier generale delle milizie filo-iraniane a Baghdad di inizio gennaio.

Lo Stato Islamico è indicato come autore dell’attentato a Kerman del 3 gennaio scorso, costato la vita a oltre 90 persone durante le celebrazioni per il quarto anniversario dell’uccisione, a Baghdad, del generale Qasem Soleimani: il 4 gennaio un comunicato dello Stato Islamico ha rivendicato su Telegram la paternità dell’attentato attribuito a due suoi attentatori suicidi, ma Teheran ha sempre definito gli attentatori dell’IS come gli esecutori della strage per conto dei mandanti israeliani e statunitensi.

In Siria milizie irachene sciite filo iraniane hanno invece attaccato con razzi la base americana presso il giacimento petrolifero Conoco, già in precedenza colpita. Un comunicato di rivendicazione dichiara che l’attacco è stato condotto «in risposta ai recenti eventi di violenza perpetrati dall’entità sionista nella Striscia di Gaza».

La presenza militare statunitense in Siria non ha alcuna giustificazione giuridica poiché il governo di Damasco non ha mai invitato le truppe americane che considera “invasori” e nessuna risoluzione dell’ONU ha mai autorizzati gli USA a violare il territorio siriano dove meno di 2 mila militari presidiano alcune basi, sostengono le milizie curdo-arabe delle Siryan Democratic Forces contro lo Stato Islamico ma soprattutto impediscono al governo di Bashar Assad di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi delle regioni orientali. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, ha dichiarato che gli attacchi sono stati condotti «con l’obiettivo di difendere l’autonomia, la sovranità e la sicurezza dell’Iran». 

Il governo di Baghdad, che nei giorni scorsi aveva duramente condannato il raid di un drone statunitense sul quartier generale delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite che ha provocato tre morti, ha condannato gli attacchi iraniani denunciando “l’attacco alla sua sovranità” e rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L’Iran rispetta l’integrità territoriale degli altri Paesi, ma il diritto a difendere la sua sicurezza non può essere limitato», ha risposto il ministro della Difesa, di Teheran, il generale Mohammadreza Ashtiani. «Reagiremo verso qualsiasi area che minacci l’Iran», ha dichiarato Ashtiani, precisando che la reazione dell’Iran sarà «proporzionata, decisa e dura».

Paradossalmente la stessa risposta che aveva fornito Washington alle proteste di Baghdad per la violazione della sua sovranità. L’Iraq quindi sembra tornare a costituire il campo di battaglia di un confronto militarmente sempre più aspro tra Usa e Iran anche se il Dipartimento di Stato, pur condannando il bombardamento missilistico di Erbil, ha fatto sapere che nessuna struttura americana è stata presa di mira.

Lo stesso 16 gennaio missili iraniani hanno colpito anche due basi utilizzate dalle milizie jihadiste sunnite di Jaish al-Adl, situate nel Baluchistan pakistano. In passato il gruppo jihadista (definito terrorista dagli Usa e dall’Iran) aveva rivendicato diversi attacchi nel sud-est dell’Iran nel nome dell’indipendenza del Baluchistan. L’attacco alla milizia, che l’Iran ritiene sia sostenuta da Israele, ha provocato dure proteste da Islamabad che ha minacciato “gravi conseguenze”.

Dallo Yemen le milizie Houthi hanno promesso “risposta inevitabili” agli attacchi aerei e missilistici statunitensi e britannici nello Yemen. I miliziani hanno colpito con un missile un mercantile americano in transito senza provocare vittime o gravi danni, definendo tutte le navi commerciali e militari statunitensi e britanniche “obiettivi legittimi e ostili” e aggiungendo che «le operazioni militari per impedire la navigazione israeliana nel Mar Arabo e nel Mar Rosso, continueranno fino a quando non cesserà l’aggressione e non sarà tolto l’assedio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza».

Benché i fronti del conflitto in Medio Oriente si moltiplichino (da Gaza al Libano, dall’Iraq al Mar Rosso, dal Pakistan alla Siria…) l’impressione è che tutti i protagonisti intendano mostrare i muscoli e capacità di deterrenza ma non abbiano interesse a trasformare scaramucce e rappresaglie in guerra aperte.

A raffreddare i rischi di guerra tra Iran e Usa contribuiscono anche anonimi funzionari dell’intelligence Usa citati dal New York Times che hanno assicurato l’assenza di “prove dirette” che dimostrino la compartecipazione di Teheran dietro agli attacchi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso: «Lo scopo dei responsabili iraniani è trovare un modo per colpire Israele e gli Stati Uniti senza scatenare il tipo di guerra che l’Iran vuole evitare». Tuttavia «non esistono prove dirette che colleghino gli alti dirigenti iraniani, né il comandante della forza d’élite dei pasdaran al-Quds né il leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei ai recenti attacchi Houthi alle navi nel Mar Rosso».

La crisi nello Stretto di Bab el-Mandeb sta avendo un forte impattosull’economia globale e colpisce soprattutto quella israeliana (-85% il traffico di merci nel porto israeliano di Eliat, sul Mar Rosso) e dell’Europa Mediterranea (Italia in testa) riducendo i transiti dal Canale di Suez da dove passa il 12% del commercio marittimo globale. Questa situazione rischia di generare un aumento dell’inflazione, come avvisava già venerdì scorso JP Morgan. Oltre a far lievitare il prezzo del petrolio e del gas naturale si stanno impennando le tariffe di spedizione dei container sulle principali rotte commerciali, ma soprattutto tra l’Asia e l’Europa.

6185.- Yemen, ovvero, la guerra larga di Netanyahu.

Ne parleremo con Massimo Martire domenica 21 dalle ore 7 a Notizie Oggi, Canale 71 nazionale e 12 regionale.

Attacco di USA e GB contro gli Houthi in Yemen: cosa sappiamo e quali sono i rischi

Da Geopop, di Alessandro Beloli, 12 gennaio 2024

Alle prime luci del 12 gennaio 2024 (ore 02:30 a Sana’a, capitale dello Yemen) una coalizione di Paesi coordinata dagli Stati Uniti d’America ha bombardato, con più di 100 missili, 60 obiettivi sensibili in 16 luoghi controllati dagli Houthi. Houthi che sono un gruppo ribelle che ha il controllo di gran parte dello Yemen, paese mediorientale affacciato su Mar Rosso e Golfo di Aden a sud dell’Arabia Saudita.

La coalizione è formata, oltre che dagli USA e da Regno Unito, da altri 8 Paesi: Australia, Bahrein, Canada, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda e Corea del Sud. I motivi della risposta statunitense e britannica sono vari: sostenere Israele nel conflitto contro Hamas in Palestina, danneggiare un alleato dell’Iran in Medio Oriente, ma soprattutto tutelare il commercio globale.

A partire dal 17 ottobre 2023, infatti, gli Houthi hanno realizzato vari attacchi missilistici contro numerose navi cargo e commerciali di passaggio nel Mar Rosso, mettendo sotto scacco i traffici commerciali mondiali e costringendo varie imbarcazioni a circumnavigare l’Africa. Questo ha fatto aumentare i tempi di percorrenza e i costi di trasporto – e quindi i prezzi finali dei prodotti finiti – e danneggiato Paesi come l’Italia, i cui porti rischiano così di rimanere tagliati fuori dalle principali rotte commerciali.

In questo articolo e nel video qui sopra capiamo più nel dettaglio chi sono gli Houthi, i motivi dei loro attacchi e le ragioni della risposta statunitense; inoltre cerchiamo di ipotizzare eventuali scenari futuri: potrebbe scoppiare un’ampia guerra in tutto il Medio Oriente?

Carta dell’area mediorientale. Lo Yemen si trova a sud dell’Arabia Saudita
Chi sono gli Houthi e la guerra civile in Yemen

Chi sono gli Houthi e la guerra civile in Yemen
In estrema sintesi, in Yemen dal 2014 al 2023, a fasi alterne, si è verificata una sanguinosissima guerra civile che purtroppo ha causato la morte di più di 100.000 civili. Il conflitto interno al momento non è terminato, ma è stato solo congelato in una tregua grazie alla mediazione della Cina. La fazione vincitrice per ora risulta quella degli Houthi, un gruppo armato sciita, alleato dell’Iran e nato nel 1992 che attualmente controlla le parti più importanti del Paese: il nord-ovest, la capitale Sana’a e la costa che si affaccia sul Mar Rosso.

La guerra civile, in realtà, ha visto la partecipazione diretta e indiretta di forze esterne allo Yemen, alleate a fazioni diverse. Parliamo ad esempio dell’Iran, alleato degli Houthi per motivi politico-religiosi, che li finanzia e spedisce loro armamenti come missili e droni; e dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, avversari del gruppo in questione e quindi al momento sconfitti.

In questo senso il conflitto in Yemen ha avuto tra le sue cause sia questioni interne – condizioni socio-economiche drammatiche e rivalità tra vari gruppi di potere – sia questioni esterne al Paese. In Medio Oriente, infatti, è attiva da secoli e secoli una sfida per il controllo geopolitico della regione. E l’Iran – cioè l’antica Persia – e l’Arabia Saudita sono due dei principali poli di attrazione e di influenza e – per questo motivo – profondamente rivali tra loro.

Iran e Arabia Saudita, cioè, fin dai tempi dell’impero persiano e poi dell’impero arabo cercano di conquistare o di attrarre nella propria area di influenza quante più zone possibili del Medio Oriente e quindi avevano e hanno interesse e necessità di sfidarsi anche in Yemen.

Perché gli Houthi hanno attaccato le navi nel Mar Rosso

Gli Houthi si sono da sempre dichiarati nemici di Israele e degli Stati Uniti e, soprattutto, dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, si sono apertamente schierati a difesa di quest’ultima e, più in generale, del popolo arabo-palestinese. Dal 17 ottobre 2023 hanno così iniziato ad attaccare numerose navi cargo e mercantili che dal Mar Rosso erano dirette nel Mar Mediterraneo e in Israele. Il conteggio ufficiale ad ora si attesta a 27 imbarcazioni, con problemi causati a più di 55 nazioni.

Oltre a sostenere in maniera concreta Hamas dal punto di vista politico e militare e a danneggiare due nemici dichiarati (USA e Israele), gli attacchi degli Houthi hanno anche altri obiettivi. Due dei più importanti sono mostrarsi a livello internazionale e mediorientale come un attore forte, capace e attivo, con il fine di essere maggiormente riconosciuti e considerati; e, dall’altro lato, cercare di indirizzare l’opinione pubblica interna su una questione esterna al Paese, viste le enormi difficoltà che gli Houthi stanno avendo nel risolvere i gravi problemi socio-economici presenti nei territori che controllano.

I danni degli Houthi al commercio globale e all’Italia

Gli Stati Uniti d’America basano molta della propria influenza a livello mondiale sulla loro capacità di controllare e difendere il commercio globale, commercio globale che avviene per l’80-90% via mare. Per fare questo, in particolare, tengono sotto controllo i nodi delle principali rotte marittime, dei colli di bottiglia attraverso cui le navi sono costrette a passare, che in inglese vengono chiamati choke points, cioè punti di soffocamento.

Ecco, gli Houthi attualmente stanno mettendo sotto scacco uno dei principali choke point mondiali. Minacciano concretamente, infatti, il traffico navale nello stretto di Bab el-Mandeb, tra Yemen e Gibuti, che collega Golfo di Aden e Mar Rosso, ma soprattutto l’Asia – e quindi Cina, Corea, Giappone, Sud-est asiatico, India, Medio Oriente – all’Europa, Italia compresa.

Pensate che si stima che attraverso lo Stretto di Bab el-Mandeb transiti oltre al 10% del traffico marittimo mondiale, compreso quello cruciale dal punto di vista energetico di gas naturale e petrolio, il cui uso contribuisce purtroppo al riscaldamento globale, ma attualmente, ad esempio ci permette di scaldare ancora in gran parte le nostre case. Avete quindi idea di che cosa significhi dal punto di vista economico e sociale danneggiare o bloccare il commercio in un punto del genere?

Se non possono passare per lo Stretto di Bab el-Mandeb, le navi mercantili sono costrette a circumnavigare l’Africa, come si faceva prima della costruzione del canale di Suez nel 1869, oltrepassando il Capo di Buona Speranza, e allungando il percorso di circa 3000 miglia nautiche, cioè oltre 5.500 km. In termini di tempo parliamo di circa due settimane di viaggio in più, con un conseguente aumento notevole dei prezzi finali dei beni che poi acquistiamo.

L’Italia ha moltissimo da perdere in una situazione in cui il Mar Rosso non sia più transitabile. Le navi in arrivo dall’Asia, infatti, che già spesso passano dal Mediterraneo solo per raggiungere i grandi porti dell’Europa del nord, dovendo circumnavigare l’Africa, avranno sempre meno interesse a fare tappa nei nostri porti e questo potrebbe causarci gravi problemi economici e, di conseguenza, sociali

Il problema per l’Italia è proprio che, circumnavigando l’Africa, , giunte a Gibilterra, passando dai porti italiani, le merci dirette ai grandi porti dell’Europa del Nord allungherebbero ancora più il percorso.

L’attacco in Yemen di americani e alleati

Prima di attaccare, una settimana fa, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano dato un ultimatum agli Houthi, intimando loro di smettere di compromettere la navigazione nel Mar Rosso. Questi ultimi, però, hanno proseguito e così la coalizione coordinata dagli USA ha proceduto a bombardare, con più di 100 missili, 60 obiettivi sensibili in 16 luoghi controllati dagli Houthi. Parliamo di postazioni, strutture e infrastrutture militari, come siti di lancio di missili e droni, radar e magazzini che contengono armi, munizioni e razzi.

Ecco, ribadiamo una cosa: nell’attacco non è coinvolta l’Italia. Il bombardamento inoltre non ricade nemmeno all’interno dell’Operazione Prosperity Guardian che, per chi non lo sapesse, è una coalizione di difesa, formata da oltre 20 Stati, che dovrebbe vigilare sull’area per consentire il normale svolgimento del commercio marittimo.

I possibili scenari futuri

In seguito all’attacco, la Russia ha immediatamente criticato l’azione di Stati Uniti e Regno Unito e richiesto con urgenza una riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, la Cina si è detta molto preoccupata che il conflitto possa espandersi nell’area e l’Iran e la Turchia hanno condannato il bombardamento. Gli Houthi, dal canto loro, hanno ribadito che quest’operazione non li fermerà e continueranno ad agire.

I possibili scenari al momento sono diversi. Tutto dipenderà da quali saranno davvero le mosse del gruppo yemenita. Se riprenderanno gli attacchi missilistici alle imbarcazioni è probabile che gli Stati Uniti e i loro alleati possano procedere a nuovi bombardamenti; in caso contrario la questione dovrebbe congelarsi.

Quel che è certo è che se la situazione si dovesse evolvere per il peggio non è escluso che altri attori regionali, come l’Iran o Hezbollah (altro alleato di Hamas, Houthi e Iran), possano sentirsi portati a intervenire in difesa degli alleati o che gli Stati Uniti, non riuscendo a fermare gli Houthi solo con attacchi missilistici, possano decidere di portare un attacco via terra, rischiando però degli scenari come quelli delle lunghissime guerre in Iraq e Afghanistan.

Insomma, il rischio che il conflitto possa espandersi progressivamente ad altre aree del Medio Oriente, legandosi alla guerra tra Israele e Hamas, esiste. Speriamo ovviamente che non accada.

I bombardamenti Usa e britannici hanno riavvicinato vecchi e nuovi nemici

La Turchia accusa i due Paesi Nato di uso sproporzionato della forza e gli Usa di armare i terroristi 

[Da greenreport, 15 Gennaio 2024

Prima dei nuovi bombardamenti aererei e missilistici statunitensi e britannici contro strutture dell’esercito Houthi nord-yemenita, l’ambasciatore del governo yemem nita di Sana’a in Iran, Ibrahim Mohammad al-Deilami aveva detto in un’intervista con l’agenzia di stampa iraniana ISNA: «Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali cercano di impedire allo Yemen di sostenere il popolo di Gaza nel mezzo della guerra genocida di Israele contro gli assediati Territorio palestinese. Gli americani cercano di espandere la portata della guerra in tutta la regione, e li abbiamo già avvertiti di evitare qualsiasi atto insensato. Gli Stati Uniti sono responsabili di qualunque cosa possa accadere nel Mar Rosso. Il mio Paese non vuole un’ulteriore diffusione della guerra nella regione. Tuttavia, gli americani stanno cercando di espandere la portata della guerra [per] distogliere l’attenzione dalla questione della Palestina».

Il 12 gennaio a Sana’a e in diverse province dello Yemen del nord si sono svolte grandi  manifestazioni contro gli attacchi della coalizione guidata dagli Usa e con lo slogan “Vittoria promessa e santa jihad” e Murad Qasim Ali uno dei capi politici di Ansarullah – il movimento sciita che governa il nord dello Yemen – ha detto che «La nostra posizione è chiara, non staremo in silenzio, non ci fermeremo e risponderemo al nemico; Sosteniamo la nostra nazione a Gaza e questa aggressione non ci porterà ad allontanarci da loro».

Ma aerei, navi e sottomarini statunitensi e britannici hanno continuato a bombardare lo Yemen in risposta agli attacchi dell’esercito nord-yemenita nel Mar Rosso contro navi israeliane o legate in qualche modo a Israele e Mehdi Al-Mashat, capo del Consiglio politico supremo dello Yemen, ha dichiarato in un’intervista all’agenzia di stampa ufficiale nord-yemenita Sabah che «L’aggressione criminale degli Usa ed Inghilterra non allontanerà lo Yemen dalla sua posizione di sostegno alla Palestina. La nostra coscienza è chiara: stiamo effettivamente partecipando al vostro fianco [dei palestinesi] in questa guerra e da oggi la Palestina non sarà più sola nella battaglia. La navigazione nel Mar Rosso e nel Mar Makran è sicura per tutte le navi, ad eccezione delle navi la cui destinazione sono i territori palestinesi occupati. America ed Inghilterra sono responsabili della militarizzazione del mare e  dimostreremo all’America ed all’Inghilterra che lo Yemen sarà il cimitero dei grandi».

L’attacco allo Yemen del nord sembra ottenere l’effetto contrario a quello voluto e ha riavvicinato antichi e nuovi nemici. Se Hossein Amir Abdollahian, il ministro degli esteri dell’Iran, il più potente alleato degli Houthi, ha detto che «Gli Stati Uniti invece di sferrare attacchi allo Yemen, dovrebbero porre fine ai sostegni al regime sionista, in modo che la sicurezza ritorni nell’intera regione», perfino l’Arabia saudita, che per anni ha guidato una coalizione sunnita che fino a poche settimane fa bombardava quotidianamente il nord sciita dello Yemen, ha chiesto moderazione, imitata da uno dei partner della sua coalizione: l’Egitto che ha invitato tutti a compiere «Sforzi concertati a livello internazionale e regionale per allentare la tensione e ridurre l’instabilità nella regione, compresa la sicurezza della navigazione nel Mar Rosso. A partire da un immediato cessate il fuoco globale e la fine della guerra in corso contro i civili palestinesi». Perfino Ayman Safadi,  il ministro degli esteri della moderatissima Giordania  ha detto che «I crimini di guerra del regime sionista contro i palestinesi sono responsabili dell’accresciuta tensione regionale e della violenza nel Mar Rosso. L’operato di Israele minaccia di innescare una guerra più ampia in Medio Oriente. La comunità internazionale non è riuscita ad agire per fermare l’aggressione israeliana contro i palestinesi».

E l’azione militare di due Paesi Nato contro lo Yemen viene duramente condannata da un altro Paese Nato e sunnita: la Turchia. Durante un in un discorso in una moschea di Istanbul, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan – che di uso della forza se ne intende – ha dichiarato che «Tutte queste azioni rappresentano un uso sproporzionato della forza. Washington e Londra vogliono trasformare il Mar Rosso in un mare di sangue. Vogliono un bagno di sangue nel Mar Rosso. La Turchia è stata molto critica nei confronti di Israele per la sua operazione militare a Gaza, e nei confronti dei Paesi occidentali per il loro sostegno alla campagna israeliana».

Poi, tanto per mantenere buoni rapporto con i Paesi NATO, il quotidiano turco Hurriyet ha rivelato che gli Usa avrebbero recentemente fornito informazioni, armi e munizioni al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e che «Lo scopo di questa azione è creare una guerra di logoramento per la Turchia. Le informazioni indicano che non solo gli Usa ma anche altri centri hanno fornito informazioni, munizioni e armi al PKK. L’aumento del numero degli attacchi terroristici è legato anche ad eventi nazionali ed esteri. Alcuni paesi non vogliono che la Turchia sia un attore attivo nella regione, per questo la prendono di mira attraverso organizzazioni terroristiche».

Un’accusa pesantissima contro gli statunitensi colpevoli di aver fornito armi ai kurdi del Rojava che hanno liberato gran parte la Siria dallo Stato Islamico/Daesh.

Il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani ha detto al Corriere della Sera che «Noi abbiamo sottoscritto la dichiarazione politica sulla sicurezza nel Mar Rosso — che è la più importante, e che la Francia ad esempio non ha firmato —, ma non abbiamo sottoscritto quella sugli interventi armati offensivi: una scelta da una parte obbligata, visto che ci vorrebbe prima un passaggio parlamentare, secondo la nostra Costituzione; dall’altro frutto di una convinzione politica, condivisa sia con il presidente del Consiglio, con il ministro Crosetto e con le nostre forze armate: c’è il rischio di un’escalation che vogliamo assolutamente evitare» e ha aggiunto: «Rispetto alla reazione militare di tre giorni fa siamo stati informati con molte ore di anticipo, visto che siamo alleati e che abbiamo una nave militare nelle stesse acque. Noi finora abbiamo dato soltanto il nostro sostegno politico, non militare, se con questa parola si intende l’uso offensivo della forza pianificato a fini deterrenti. Ho parlato io con Blinken quando Washington ha definito la dichiarazione che autorizza la forza di alcuni Stati e gli americani sono perfettamente consapevoli della nostra posizione. Noi siamo favorevoli a una missione europea allargata, più strutturata, abbiamo chiesto al commissario Borrell di mettere all’ordine del giorno proprio questo argomento. Una missione europea diversa da quella attuale, anche con regole di ingaggio diverse, cui parteciperebbe anche la Francia, è un obiettivo di breve periodo».

E l’a posizione dell’Alto commissario Ue Borrell  del 12 gennaio ribadiva che «L’Ue accoglie con favore l’adozione della risoluzione 2722 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 10 gennaio che condanna fermamente gli attacchi Houthi contro le navi del Mar Rosso. Sostenere la libertà di navigazione nel Mar Rosso è vitale per il libero flusso del commercio globale e per la sicurezza regionale. Come ricordato dalla risoluzione 2722 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati hanno il diritto di difendere le proprie navi da questi attacchi in conformità con il diritto internazionale. L’Ue fa eco al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e chiede che questi attacchi, che ostacolano il commercio globale e minano i diritti di navigazione così come la pace e la sicurezza regionale, cessino immediatamente. L’Ue sollecita la moderazione da parte degli Houthi per evitare un’ulteriore escalation nel Mar Rosso e nella regione più ampia. In questo contesto, l’Ue ricorda l’obbligo di tutti gli Stati di rispettare l’embargo sulle armi previsto dalla risoluzione 2216 (2015) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’Ue continuerà a contribuire alla stabilità regionale».

Ma l’ambasciatore dell’ Cina all’ONU, Zhang Jun,  ha sottolineato che «L’aggressione militare americana ed britannica  contro lo Yemen è fallita» e ha fatto notare agli occidentali che «Il Consiglio di Sicurezza non ha mai permesso a nessun Paese di usare la forza contro lo Yemen».

Una tesi in qualche modo avallata dal segretario generale dell’Onu António Guterres ha esortato i Paesi a «Evitare un’escalation della situazione nel Mar Rosso».

Guterres ha sottolineato che «La risoluzione 2722 deve essere pienamente rispettata nella sua interezza» e ha ribadito che , «Gli attacchi contro le spedizioni internazionali nell’area del Mar Rosso non sono accettabili poiché mettono in pericolo la sicurezza delle catene di approvvigionamento globali e hanno un impatto negativo sulla situazione economica e umanitaria in tutto il mondo. Tutti gli Stati membri che difendono le proprie navi dagli attacchi devono farlo in conformità con il diritto internazionale, come previsto dalla Risoluzione».  Bombardare un Paese più di 70 volte non sembrerebbe proprio “conforme”.

Guterres ha infatti concluso invitando tutte le parti coinvolte a «Non aggravare ulteriormente la situazione nell’interesse della pace e della stabilità nel Mar Rosso e nella regione più ampia» e sottolineando «La necessità di evitare atti che potrebbero peggiorare ulteriormente la situazione nello stesso Yemen. Chiedo che venga compiuto ogni sforzo per garantire che lo Yemen persegua un percorso verso la pace e che il lavoro intrapreso finora per porre fine al conflitto nello Yemen non vada perso».

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6143.- Perché rilancio dell’immagine di Putin passa anche dal Medio Oriente multipolare

Da Formiche.net. L’analisi di Emanuele Rossi del 17/12/2023 aiuta a rispondere ai quesiti posti dal lungo colloquio telefonico fra Putin e Netanyahu di una settimana fa. Le leadership del Golfo stanno cercando di allinearsi con il sentimento pubblico di condanna degli eccessi di Israele. Queste leadership già fanno sentire la loro voce di soggetti di un mondo sempre più multipolare e, mentre si muovono accortamente, preservano allo stesso tempo sia i rapporti con la Russia sia i pilastri chiave delle loro strategie nazionali, che richiedono strette relazioni con gli Stati Uniti e con l’Europa.

Perché rilancio dell’immagine di Putin passa anche dal Medio Oriente multipolare

“Ci sono chiare indicazioni di un’ascesa dell’asse Cina-Iran-Russia nella regione, che sarà una sfida non solo per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma anche per l’Europa”, spiega Riboua (Hudson Inst.). Per questo il viaggio a Riad e Abu Dhabi è un passaggio strategico per Putin

Quando tre giorni fa ha parlato per la prima volta pubblicamente con la stampa dall’inizio dell’invasione ucraina, Vladimir Putin ha ribadito i suoi obiettivi massimalisti sull’Ucraina (che “non sono cambiati”) e sostenuto che i Paesi occidentali non potranno “spingerci al secondo o terzo posto e ignorando i nostri interessi”. Se la chiacchierata con i giornalisti di fine anno è servita a ricordare agli interlocutori internazionali che lui, come cantano i Simple Minds è “Alive and kicking”, e se il siparietto con il suo alias AI serve a dimostrare che sia il presidente che la Russia sono al passo con i temi del momento, c’è stato un altro passaggio recente in cui Putin ha potuto mostrare di esserci e di essere sul pezzo: la visita in Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Riad e Abu Dhabi sono state due tappe fondamentali. Perché Putin non si muove facilmente lontano da Mosca, lasciata finora solo per ambienti iper sicuri come lo spazio amico ex-sovietico, o il vertice sulla Belt and Road Initiative di Pechino — dove il richiamo cinese è stato ed è una necessità esistenziale. Perché col viaggio nel Golfo, Putin comunica al mondo occidentale che c’è un’altra parte di Pianeta, quel Global South che osserva con estrema attenzione le dinamiche internazionali, che non è interessata a tenere lui isolato; non è interessata a rompere con la Russia; non è interessata a vicende come il mandato di arresto per crimini di guerra (sui bambini ucraini) emesso contro di lui dalla Corte penale internazionale — perché non ne condivide i principi (considerati troppo occidentocentrici). E infine perché dimostra ai russi che a livello internazionale non è un paria, ma vi viene considerato solo da coloro che sono da considerare nemici della Russia – e non è poco in vista di una nuova rielezione per renderlo eterno nella storia della Federazione.

Ancora di più: partecipando a incontri con sauditi ed , Putin dimostra di poter parlare con interlocutori di Paesi in via di forte-sviluppo, che spinti dalle capacità economiche stanno mettendo in piedi processi di transizione profonda, crescita delle consapevolezze socio-tecnologiche, aumento della presenza e influenza sulle dinamiche della Comunità internazionale. Paesi che sono dimostrazione di come il concetto di multi-allineamento secondo cui perseguono le proprie agende di politica estera potrebbe anche trasformarsi (presto?) in multi-polarità. E in definitiva, Putin sta dicendo al mondo che nonostante le migliaia di morti subite, nonostante l’economia in sofferenza, nonostante l’anacronistico atto di violenza che ha seminato sangue in Ucraina e nonostante la risposta compatta occidentale, la Russia può ancora essere uno di quelli poli.

Non da meno, al ritorno a Mosca ha potuto ospitare Ebrahim Raisi, presidente della Repubblica islamica di Iran e centro regionale di attrazione ideologica, sociale, culturale e geopolitica. E questo è servito per sottolineare con – da polo della multipolarità globale – Putin e la sua Russia sono in grado di dialogare con tutti i lati del contesto. Sauditi (dove il principe ereditario Mohammed bin Salman lo ha definito “caro amico”), emiratini (con il presidente Mohammed bin Zayed che lo ha chiamato “caro ospite”), iraniani (ringraziati per il loro “supporto”).

Il fulcrum mediorientale

Fin dai suoi interventi in Siria e Libia, il Medio Oriente ha occupato un posto strategico nella grande visione della Russia di Putin, fa notare Zineb Riboua, Program Manager al Center for Peace and Security in the Middle East dell’Hudson Institute. “In effetti, Putin non solo ha beneficiato della sua relazione con l’Iran, dato che i droni Shahed di fabbricazione iraniana hanno dato all’esercito russo un vantaggio nella guerra contro l’Ucraina, ma il suo costante impegno con il Medio Oriente, soprattutto con i Paesi del Golfo, lo aiuta a non lasciare che siano gli Stati Uniti a dettare le posizioni da assumere”, spiega a Formiche.net.

Per Riboua, “visitando gli Emirati e l’Arabia Saudita, il presidente russo ha segnalato che non è stato completamente isolato e che si sta avvicinando agli alleati statunitensi nella regione, dimostrando che, pur non avendo ottenuto la vittoria in Europa orientale, è riuscito comunque ad espandere drasticamente la sua impronta”. Per l’esperta del think tank americano, “è molto probabile, visti i rapporti della Russia con l’Iran, che Putin veda un’opportunità nella guerra Hamas-Israele, nel senso che terrà gli Stati Uniti distratti”.

Mentre la guerra a Gaza continua e il Mar Rosso si destabilizza per colpa degli Houthi, e mentre gli americani sono impegnati in una complessa attività di gestione diplomatica e militare della crisi regionale in corso, Russia, Iran e Cina organizzano, per i prossimi mesi, esercitazioni congiunte nella regione del Golfo come se il contesto fosse stabile, controllato, equilibrato. Non partecipano, se non per interesse diretto (che spesso è anche quello di complicare la destabilizzazione a detrimento dell’attività occidentale), alla gestione della situazione. “Anche se l’equilibrio di potere non si è completamente spostato – fa notare Riboua – ci sono chiare indicazioni di un’ascesa dell’asse Cina-Iran-Russia nella regione, che sarà una sfida non solo per gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma anche per l’Europa”.

Durante la visita saudi-emiratina, Putin ha cercato di evidenziare la sua argomentazione secondo cui l’Occidente sta tenendo due pesi e due misure, fornendo armi per l’offensiva ad alta intensità di vittime civili di Israele nella Striscia di Gaza, mentre accusa la Russia di crimini di guerra in Ucraina. Da parte loro, i leader sauditi ed emiratini hanno calcolato che ricevere Putin, che è un critico vocale dell’egemonia globale degli Stati Uniti, potrebbe aiutare a gestire il sentimento pubblico nel Golfo e nel più ampio mondo musulmano che chiede a gran voce un cessate il fuoco a Gaza.

Le leadership del Golfo stanno cercando di allinearsi con il sentimento pubblico preservando allo stesso tempo i pilastri chiave delle loro strategie nazionali, che richiedono strette relazioni con gli Stati Uniti e con l’Europa – non certo con la Russia. Ma accogliendo sontuosamente Putin, bin Salman e bin Zayed hanno anche segnalato a Washington e Bruxelles che hanno amici alternativi di grande potenza e non sono più in fase di sussidarietà. Putin sfrutta il contesto per un rilancio pubblico, e passa da una porta non ceto secondaria.

6122.- Gli houthi e il rompicapo degli Stati Uniti nel Mar Rosso

Per Washington, la stabilizzazione del Medio Oriente è la condizione per frenare l’avanzata della Cina, ma il sostegno a Netanyahu sembra portare a risultati opposti. Sempre per Washington, usare la forza contro gli Houthi significherebbe un innalzamento della tensione verso Teheran.

Da Affari Internazionali, di Eleonora Ardemagni, 7 Dicembre 2023

Perché gli Usa devono re-inserire gli Houthi nella lista dei terroristi

Gli attacchi marittimi degli houthi dallo Yemen, iniziati nel 2016 e intensificatisi con la guerra Israele-Hamas, sono diventati un problema di sicurezza globale. Un problema, però, che rischia di danneggiare innanzitutto gli obiettivi degli Stati Uniti: stabilizzazione mediorientale e contenimento della Cina. Il Mar Rosso, che congiunge l’Oceano Indiano al Mediterraneo, è decisivo per gli equilibri energetici e commerciali mondiali: tutte le potenze –tranne l’Iran, che sostiene e arma gli houthi- hanno dunque interesse alla stabilità del quadrante.

Eppure solo gli Stati Uniti –che nel Mar Rosso hanno rafforzato la presenza militare già prima del 7 ottobre – rischiano qui il logoramento strategico: la deterrenza di Washington si è finora rivelata insufficiente. Infatti, gli houthi continuano a lanciare attacchi “in solidarietà a Gaza” verso il territorio d’Israele e contro obiettivi commerciali e militari in navigazione. E nessuna risposta militare USA è seguita, neppure quando navi militari statunitensi si sono trovate nel mezzo, intercettando i droni lanciati dallo Yemen.

Attacchi e sequestri

Gli attacchi sono in crescita per numero e complessità. Secondo il Comando Centrale USA (Centcom), gli houthi hanno sferrato il 3 dicembre scorso quattro attacchi contro navi commerciali, nelle acque internazionali del Mar Rosso, stavolta a un passo dal Bab el-Mandeb. Il cacciatorpediniere USS Carney che pattugliava l’area ha risposto alle richieste di soccorso delle navi abbattendo tre droni: “non è chiaro” se essi fossero indirizzati contro la nave USA . L’attacco multiplo è durato ore e ha coinvolto quattordici paesi considerando proprietà delle imbarcazioni, merce trasportata e bandiera. Gli houthi hanno rivendicato l’attacco “contro due navi israeliane”, ma solo una di esse avrebbe un legame con un cittadino israeliano.

Dal 19 novembre scorso, gli houthi hanno sequestrato il cargo “Galaxy  Leader”, di proprietà di un uomo d’affari israeliano: la nave è ora trattenuta al porto di Hodeida (città controllata dagli houthi) insieme ai venticinque uomini dell’equipaggio. Nel 2022, gli houthi sequestrarono per quattro mesi una nave cargo degli Emirati Arabi Uniti, “Rawabi” sempre nel Mar Rosso meridionale, con undici uomini d’equipaggio. La nave, partita dall’isola yemenita di Socotra e diretta in Arabia Saudita, trasportava secondo Abu Dhabi un ospedale da campo.

Houthi: insorti e pirati, non proxy

Dopo l’avvio dell’offensiva di Israele contro Hamas, gli houthi hanno aperto il fronte del Mar Rosso: missili e droni verso Israele, più attacchi marittimi ´a tutto campo`. Così, il movimento-milizia sciita zaidita del nord dello Yemen persegue due obiettivi: cavalcare il sentimento pro-palestinese degli yemeniti e rafforzarsi come attore regionale filo-iraniano. Quando si analizzano le scelte degli houthi, il peso decisionale dell’Iran non va tuttavia sopravvalutato. Nel Mar Rosso come in Yemen, gli houthi non ricevono ordini dalle Guardie della Rivoluzione Islamica dell’Iran.

Essi non sono attori proxy ma hanno una storia politica locale e autonoma che però si intreccia, per ideologia e convenienza reciproca, sempre di più con quella dei pasdaran.

Certo, gli houthi possono attaccare navi e lanciare missili grazie alle armi ricevute illegalmente da Teheran, nonché all’addestramento degli Hezbollah libanesi. Il gruppo potrebbe persino considerare di mandare miliziani a combattere all’estero se ciò fosse utile al raggiungimento dei suoi obiettivi territoriali in Yemen. Per il movimento-milizia, il conflitto a Gaza è solo una ´finestra di opportunità` da cogliere per elevare la portata della minaccia dallo Yemen, consolidando così ´pubblico` interno e regionale: la propaganda seguita al sequestro della “Galaxy Leader”, tra video e visite guidate, lo dimostra.



GALAXY LEADER photo

La Galaxy leader è un portaveicoli di proprietà di un uomo d’affari israeliano che batte bandiera delle Bahamas.

Statunitensi e sauditi dissonanti sugli houthi?

Tra le coste dello Yemen e il Mar Rosso, gli Stati Uniti si giocano ora una parte consistente dell’influenza regionale. Washington deve infatti riaffermare la propria forza e rassicurare gli alleati del Golfo, ma senza far saltare –in caso di ritorsione contro gli houthi- la tregua in Yemen. L’ipotesi di re-designare Ansar Allah (il movimento politico degli houthi) come organizzazione terrorista è tornata sul tavolo della Casa Bianca e complicherebbe i negoziati. L’ennesima task forcenavale a guida USA rischierebbe di non fare la differenza senza un mandato incisivo. Difficile che ciò avvenga, visto che gli Stati Uniti hanno finora evitato di confermare che alcuni dei droni e missili houthi avessero come bersaglio proprio le navi militari USA. Fatto che porterebbe Washington a una ritorsione, alzando indirettamente la tensione con l’Iran.

Da mesi, gli houthi e l’Arabia Saudita intrattengono colloqui bilaterali per il cessate il fuoco in Yemen. A parte uno scontro al confine, nessun attacco dallo Yemen ha colpito territorio o obiettivi sauditi dopo il 7 ottobre. Ma Riyadh sa di essere a rischio e non vuole interrompere il negoziato con gli houthi. Quando Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono stati colpiti, direttamente o indirettamente, dall’Iran (gli attacchi alle petroliere e a Saudi Aramco nel 2019) e dagli houthi (gli attacchi ad Abu Dhabi nel 2022), hanno poi sempre negoziato, anche perché non vi è stata una risposta militare americana.

Nel Mar Rosso la via è stretta e altri attori globali, magari asiatici, potrebbero inserirsi nella partita diplomatica. Oltre ai comunicati del G7 e dell’Unione Europea”, la risoluzione approvata il 1 dicembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha “condannato nei termini più  forti” gli attacchi marittimi degli houthi e il sequestro della “Galaxy Leader”, è stata ancora più significativa, perché una rara dimostrazione di concordia. La Cina, che importa petrolio soprattutto attraverso Hormuz ma necessita del Mar Rosso per l’export, avrebbe interesse a cercare la de-escalation lungo le rotte commerciali. Un’altra spina nel fianco degli Stati Uniti, interessati alla stabilità marittima e, al contempo, a preservare ciò che resta dell’influenza in Medio Oriente.

foto di copertina EPA/YAHYA ARHAB

6112.- L’aiuto della Turchia per aggirare le sanzioni a Putin. I sospetti di triangolazioni dall’Italia

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Dal Corriere della Sera, di Federico Fubini

Un esame incrociato dei dati degli scambi verso la Russia suggerisce che su questa rotta hanno luogo triangolazioni massicce volte ad aggirare le sanzioni

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Sono venti i Paesi attraverso i quali la Russia riesce ad aggirare le sanzioni imposte dai governi democratici dall’inizio della guerra . Fra questi la Turchia, la Cina e gli Emirati Arabi Uniti, oltre a varie repubbliche ex sovietiche che dall’inizio sono state al centro dei sospetti: la lista include Kazakistan, Kirghizistan, Armenia e persino la Georgia, dove la Russia ha sferrato un’aggressione militare nel 2008 e, all’inizio del conflitto in febbraio, decine di migliaia di persone sono scese in piazza a sostegno dell’Ucraina.

Si tratta di una realtà che molte imprese italiane probabilmente conoscono già: un’occhiata ai flussi commerciali rivela indizi evidenti che, nel giro di pochi mesi, soprattutto la Turchia è progressivamente diventata una piattaforma attraverso la quale numerosi esportatori del «made in Italy» continuano a rifornire la Russia su larghissima scala, anche quando la pratica sarebbe illegale. 

Ma andiamo con ordine. casi internazionali di aggiramento delle sanzioni attraverso quei venti Paesi sarebbero centinaia. Saranno al centro di un rapporto in uscita tra non molto da parte del gruppo di esperti guidato dall’ex ambasciatore americano a Mosca Michael McFaul e da Andriy Yermak, il capo dell’ufficio politico del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Osservatori informati prevedono che il gruppo Yermak-McFaul suggerirà ai governi occidentali di chiudere le falle, minacciando sanzioni «secondarie» sui Paesi che aiutano la Russia attraverso una rete di triangolazioni commerciali.

Non sarà semplice, viste le dimensioni sistemiche di alcune delle nazioni coinvolte. Di certo un esame incrociato dei dati degli scambi dall’Italia alla Turchia e dalla Turchia verso la Russia suggerisce che su questa rotta hanno luogo triangolazioni massicce volte ad aggirare le sanzioni. Difficile spiegare altrimenti le vistose stranezze degli ultimi mesi. In primo luogo, la Turchia è il Paese verso il quale a giugno scorso l’Italia registra di gran lunga il maggiore aumento dell’export: più 87% su base annuale, fino a 1,4 miliardi di euro di vendite in un solo mese; si tratta di un aumento di 500 milioni al mese rispetto a febbraio e di un caso unico in oltre dieci anni di vendite alla Turchia rimaste sempre nettamente sotto al miliardo al mese (secondo l’ufficio statistico Istat). Tanto più sorprendente è questo boom perché nell’ultimo anno la lira turca ha quasi dimezzato il proprio valore sull’euro, rendendo l’import dall’Italia molto più costoso per le imprese locali. 

Ma la spiegazione è probabilmente nei dati sull’export di Turkstat, l’ufficio statistico di Ankara. Fra febbraio e giugno di quest’anno l’export turco verso la Russia è esploso, con una crescita di circa 400 milioni di dollari al mese. Fra gli oltre venti principali partner commerciali della Turchia, la Russia è la destinazione cresciuta di più sia dall’inizio della guerra (più 68% di vendite turche) che nell’ultimo anno (più 46%). Persino altri Paesi che rifiutano le sanzioni contro Mosca come la Cina, il Vietnam o la Malesia ora esportano meno verso un’economia russa in profonda recessione. Invece i flussi di beni e servizi dalla Turchia alla Russia non sono mai stati così forti, così come non sono mai stati così forti i flussi dall’Italia alla Turchia stessa. Anche le dimensioni dell’aumento negli scambi sono simili, fra 300 e 400 milioni di dollari al mese in più.

Si tratta di indizi, non di prove. Ma se davvero le imprese italiane stanno usando la Turchia come piattaforma per aggirare le sanzioni e aprirsi illegalmente il mercato russo, la questione sarà impossibile da ignorare per l’attuale governo di Roma. E anche per il prossimo.

Le imprese italiane, dalla cantieristica navale alla moda, hanno sempre tratto profitto dal mercato russo e viceversa. In fondo, la Regia Marina combatté i primi due anni di guerra con la nafta importata dall’Unione Sovietica. L’esploratore più veloce russo, il Tawkent fu realizzato in Italia, dal cantiere Odero Terni Orlando di Livorno e furono gli ingegneri russi a risolvere i problemi di cavitazione degli incrociatori classe Capitani romani, invertendo il senso delle eliche.

6004.- Assalto a Israele, pesa il fallimento della politica estera Biden

La politica estera di Biden ha minato la tessitura degli “Accordi di Abramo” che isolavano Iran, Hezbollah e Hamas. E lo scontro con Putin ha messo in imbarazzo Israele, che con Mosca ha rapporti economici e politici. Un effetto domino di disastri, che polarizza l’odio anti-ebraico per la gioia dei fondamentalisti.

«Noi israeliani, ora più uniti che mai»

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Patricia Gooding Williams, 21_10_2023

La visita del presidente statunitense Joe Biden in Israele è stata giudicata dalla maggior parte degli osservatori come un gesto forte e inequivocabile di solidarietà con lo Stato ebraico – unitamente al dispiegamento di unità della flotta davanti alle coste del Mediterraneo orientale – nel momento delicatissimo che quest’ultimo sta attraversando dopo il terribile eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre entro i suoi confini, e nei giorni della difficile rappresaglia contro i fondamentalisti nella striscia di Gaza. Ed è stata parimenti interpretata da molti come un tentativo di evitare una escalation di violenza nella regione, cercando di moderare la reazione israeliana e di lasciare aperti margini di dialogo e negoziato con il mondo arabo.

Ma essa dovrebbe essere in realtà letta a buon diritto innanzitutto come un tentativo di porre almeno parzialmente rimedio a una catena di eventi negativi per gli interessi statunitensi e occidentali innescati proprio dalla fallimentare strategia di politica estera portata avanti dalla stessa amministrazione Biden.

Quest’ultima, infatti, a partire dal 2021 ha demolito sistematicamente, con esiti disastrosi, alcune linee fondamentali della politica internazionale promossa dal predecessore di Biden, Donald Trump. In primo luogo, ha minato la paziente tessitura che Trump aveva compiuto con gli “Accordi di Abramo” (siglati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein) per riavvicinare lo Stato ebraico ai paesi più influenti dell’islam sunnita, e soprattutto all’Arabia Saudita, e favorire così una stabilizzazione complessiva dell’area, isolando gli agenti disgreganti ed estremisti come l’Iran, Hezbollah e lo stesso Hamas.

Fin dalla campagna elettorale, e poi una volta in carica, Biden ha tenuto invece un atteggiamento apertamente ostile al regime del principe Mohammed Bin Salman, giustificandolo con l’uccisione del giornalista dissidente saudita Jamal Kashoggi, di cui Salman era sospettato di essere responsabile. E, all’inverso, egli ha avviato una politica di dialogo con il regime degli ayatollah iraniani, cercando di riavviare il processo negoziale sul nucleare di Teheran, che Trump aveva fermato nel 2018 revocando il trattato che era stato negoziato nel 2015 ad opera dell’amministrazione Obama.

Un rovesciamento che ha rafforzato gli iraniani, dando ad essi maggiori margini di manovra sullo scacchiere mediorientale (usati da questi ultimi per rafforzare i propri legami con Cina e Russia), e indebolendo decisamente Israele. E che è culminato nello sblocco di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani congelati negli Stati Uniti, proprio pochi giorni prima del massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz israeliani, verosimilmente incoraggiato, se non finanziato proprio da Teheran: con un effetto boomerang clamoroso sulla credibilità americana.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden aveva operato attivamente contro gli interessi vitali propri e dell’Occidente intero anche sul fronte ucraino, alimentando sempre più la tensione con la Russia, rifiutandosi di cercare una soluzione negoziale condivisa alla frattura apertasi nel 2014 e, dopo l’invasione russa del febbraio 2022, sostenendo Kiev a senso unico, trattando Putin come un nemico e isolandolo totalmente dall’Occidente: con il risultato di rinsaldare i rapporti tra Mosca e Pechino, di fare il gioco della Cina – sua principale antagonista globale – sul piano geopolitico e di coagulare un composito fronte anti-occidentale che ha attratto anche paesi precedentemente alleati o amichevoli.

Per quanto riguarda specificamente gli equilibri mediorientali, lo scontro frontale con Putin ha messo fortemente in imbarazzo Israele, che con Mosca intrattiene consolidati rapporti economici e politici e ha interesse a una gestione congiunta con i russi delle aree di crisi tra Siria e Libano. Ha determinato un riavvicinamento dell’Arabia Saudita alla Russia, con una politica coordinata dei prezzi del petrolio, e persino all’Iran, suo antagonista per eccellenza. Ha rilegittimato il regime siriano di Bashar al-Assad, “feudo” di Mosca in Medio Oriente, riammesso nella Lega Araba proprio con il beneplacido dei sauditi. E, soprattutto, ha interrotto il percorso verso il completamento degli accordi di Abramo, con la sperata normalizzazione dei rapporti diplomatici tra israeliani e sauditi.

Insomma, un effetto domino di disastri autolesionistici quasi senza precedenti(completato dalla crescente destabilizzazione dell’Africa sub-sahariana, innescata da Cina e Russia), che ha creato il terreno ideale per quanti avevano interesse a riaccendere il conflitto arabo-israeliano. E che si è plasticamente materializzato nello scorso agosto quando, in occasione del vertice dei BRICS di Johannesburg, è stato annunciato l’ingresso congiunto nell’organizzazione, a partire dal 2024, di Arabia Saudita e Iran, insieme agli Emirati e all’Egitto.

Resasi conto tardivamente del piano inclinato pericolosissimo che aveva innescato, l’amministrazione Biden ha cominciato a cercare di porvi rimedio almeno in parte con un cambiamento della sua linea nei confronti di Riad, cominciata con la visita di Biden nell’estate del 2022 e culminata nell’agosto scorso con il coinvolgimento dell’Arabia Saudita, al G20 di Nuova Dehli, nel memorandum d’intesa per il corridoio infrastrutturale India-Medio Oriente-Europa chiamato “Via del Cotone”, per contrapporlo simbolicamente al progetto egemonico cinese di  “Nuova Via della Seta”.

Ma ormai la frittata era fatta, e il vaso di Pandora era scoperchiato. Il potenziale asse tra Israele e i paesi arabi sunniti voluto da Trump, che, una volta saldato, avrebbe potuto contare forse sulla benevola neutralità russa, era già su un binario morto. Ma l’attacco di Hamas e la inevitabile reazione israeliana, polarizzando di nuovo l’odio anti-ebraico nelle società islamiche, lo condanna oggi al rinvio sine die, se non al definitivo naufragio. Per la gioia di fondamentalisti, integralisti e regimi anti-occidentali di tutto il mondo. E con la conseguenza di spingere l’Europa e l’Occidente di nuovo in prima linea, oltre che sul fronte russo-ucraino, anche su quello dei conflitti mediorientali e di una più che probabile, anzi già iniziata, recrudescenza del terrorismo islamista, favorita dalla bomba a orologeria delle cospicue comunità di immigrati islamici “radicalizzati” ormai stabilitesi entro le loro mura.

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5912.- Libia: le inondazioni in Cirenaica aprono una partita geopolitica nel Mediterraneo

L’analista del International Crisis Group, Claudia Gazzini: “L’angolo interessante per quanto riguarda la geopolitica direi che è la questione turca. I turchi sono stati i primi a mandare la squadra di soccorso: già da un anno cercavano di consolidare i rapporti con la Cirenaica”

Tripoli, 18 Settembre 2023. Da Agenzia Nova – Riproduzione riservata

La corsa internazionale per fornire aiuti e per la ricostruzione dopo le devastanti inondazioni che hanno flagellato la Libia orientale potrebbe aprire una nuova partita geopolitica nel Mediterraneo. Paesi rivali come Turchia ed Egitto, Emirati Arabi Uniti e Qatar, Russia e Francia si sono affrettati a inviare navi, aerei, mezzi di trasporto, squadre di soccorso civili e militari a Derna, città di circa 100 mila abitanti praticamente spazzata via dalle inondazioni causate dal cedimento di due dighe.

L’Italia è intervenuta fin da subito inviando due navi da guerra anfibie classe San Giorgio cariche di aiuti, due elicotteri e tre voli C-130J. Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato 17 aerei, mentre l’Egitto ha mandato una delle sue due portaelicotteri classe Mistral, la più grande nave in dotazione alla sua Marina militare. Questi aiuti hanno certamente contribuito a salvare vite e, forse, se fossero stati inviati prima avrebbero potuto alleviare il pesantissimo bilancio di almeno 4 mila vittime accertate negli ospedali libici. Tuttavia, esiste anche il rischio che alcuni Paesi, come ad esempio la Russia, possano “approfittare” del disastro per aumentare la loro presenza in un quadrante strategico per il fianco sud dell’Alleanza atlantica. “Agenzia Nova” ne ha parlato con due esperti come Claudia Gazzini, analista senior dell’International Crisis Group (Icg), e Tarek Megerisi, senior policy fellow presso lo European Council on Foreign Relations (Ecfr).

“L’angolo interessante per quanto riguarda la geopolitica direi che è la questione turca. I turchi sono stati i primi a mandare la squadra di soccorso. Questo è un fattore rilevante. Già da un anno cercavano di consolidare i rapporti con la Cirenaica”, riferisce Gazzini, che in questi giorni sta visitando le aree colpite dalle devastanti inondazioni dopo il passaggio del ciclone sub-tropicale “Daniel” che secondo stime Onu (non confermate dalle autorità locali) ha causato almeno 11.300 morti e 10.100 dispersi. Vale la pena ricordare che dal febbraio 2022 la Libia è sostanzialmente divisa in due coalizioni politiche e militari rivali: da una parte il Governo di unità nazionale (Gun), con sede a Tripoli, del premier Abdulhamid Dabaiba, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato soprattutto dalla Turchia; dall’altra il Governo di stabilità nazionale (Gsn), di fatto un esecutivo parallelo basato in Cirenaica alleato del generale Khalifa Haftar, comandante in capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), appoggiato in primis dall’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi.

Dopo il disastro, sia le autorità rivali di Tripoli che quelle di Bengasi hanno avviato un coordinamento – al livello informale – per ricevere gli aiuti internazionali che, sul terreno, vengono organizzati logisticamente dalle forze di Haftar. Non a caso, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia, Abdoulaye Bathily, ha “ribadito l’urgenza che la Libia disponga di istituzioni unificate e legittime per rispondere efficacemente a tutte le sfide che la nazione deve affrontare”, sollecitando “sforzi rapidi, coordinati e uniti” per soccorrere la popolazione colpita da un disastro destinato ad avere ripercussioni in Libia per decenni. Tuttavia, il rischio che le autorità di Tripoli e di Bengasi possano sfruttare la situazione di emergenza per mantenere lo status quo, rimanendo al potere e procrastinando “sine die” le elezioni, è molto alto.

“Che gli egiziani e gli emiratini mandino gli aiuti non stupisce, perché hanno interesse a salvaguardare Haftar”, aggiunge Gazzini. Intanto, il generale libico ha ricevuto ieri a Bengasi il viceministro della Difesa russo, Yunus-bek Bamatgireyevich Yevkurov, ufficialmente per colloqui sulle ripercussioni delle inondazioni. Esprimendo la “piena solidarietà” di Mosca “al popolo libico e alla leadership libica di fronte alla crisi”, riferisce il quotidiano libico “Al Wasat”, Yevkurov ha “confermato la disponibilità della Russia a fornire tutto il sostegno necessario alle città e alle regioni colpite”. La Federazione Russa ha inviato nei giorni scorsi tre aerei carichi di aiuti umanitari nelle zone colpite dal disastro. Non solo.

Una squadra di soccorso russa ha allestito un ospedale da campo mobile a Derna e altre strutture ricettive nelle città colpite per fornire assistenza medica alla popolazione. Secondo la stampa Usa, dopo la morte di Evgenij Prigozin e lo smantellamento “de facto” del gruppo Wagner, alleato dell’Enl, le attività dei mercenari russi sarebbero controllate direttamente da Mosca. “Che i russi poi appunto siano arrivati adesso, una settimana dopo il disastro, non stupisce. Ciò che stupisce è che comunque le vecchie divisioni geopolitiche, le rivalità, si siano così appianate tanto appunto da poter avere i turchi sul campo. Se poi i russi ne approfitteranno per consolidare la loro presenza, questo non posso saperlo”, aggiunge Gazzini.

Secondo l’analista libico Megerisi, la vera partita geopolitica nella Libia orientale si giocherà nella ricostruzione delle aree devastate dal ciclone. “Le prime squadre internazionali di ricerca e soccorso sul campo sono arrivate dalla Turchia, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto, tre nazioni che hanno ucciso molti libici durante la loro competizione geopolitica per il Paese, ma che ora lavorano fianco a fianco per salvare i libici”, sottolinea l’analista. “Per Haftar e il governo orientale è un momento di normalizzazione dei rapporti affinché altri paesi lavorino con loro e attraverso di loro. Ma man mano che la cartolarizzazione del disastro da parte di Haftar prende piede, i paesi presenti sul posto diventeranno sempre più selezionati”, aggiunge l’esperto libico di Ecfr.

Nel frattempo, un gruppo di ingegneri delle Forze armate egiziane si recherà nella città libica di Derna per ispezionare le due dighe il cui crollo ha causato il disastro e per condurre uno studio per ripristinarle. “Molti commentatori egiziani dicono che gli aiuti militari dell’Egitto non dovrebbero tornare a casa, nel senso che dovrebbero restare, trincerarsi ed esercitare una maggiore influenza, ma penso che sarà difficile da fare a lungo termine”, afferma Megerisi.

“Sia l’Egitto che la Russia”, prosegue l’analista di Ecfr, “hanno una vasta rete di intelligence e risorse militari in tutta la Libia orientale, con la Russia che ha messo le mani sul Sirte. I cittadini di Derna hanno paura che i militari sfruttino la situazione per saccheggiare ciò che resta della loro città e costruire qualcosa di mostruoso sulle macerie, qualcosa che potrebbe benissimo vedere una presenza russa, emiratina ed egiziana normalizzata e radicata, una presenza che Haftar a sua volta utilizzerebbe per rafforzare il suo potere sulla scena politica libica”, conclude l’esperto.