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6108.- Il vero significato del riconoscimento di uno “Stato palestinese”

Questa guerra ha un senso soltanto se accettiamo che entrambi i contendenti vogliano e soltanto vogliano, ciascuno la distruzione dell’altro e se consideriamo quali interessi gravitino in Medio Oriente, sopratutto per la sua stabilità e sicurezza, da parte della Cina, dell’India, della Turchia e non dimentichiamo l’energia.  A voi l’analisi di Drieu Godefridi sul piano giuridico e su quello politico.

Perché Belgio, Norvegia, Spagna e tutti dovrebbero astenersi dal riconoscere uno “Stato palestinese” proprio ora

Da Gatestone Institute, di Drieu Godefridi, 3 dicembre 2023. Nostra traduzione libera

Nel caso di uno “Stato palestinese”, non esiste alcun territorio sul quale anche i palestinesi siano d’accordo. Infatti, lo statuto di Hamas – designato come organizzazione terroristica da molti paesi in Occidente, e che regna incontrastato nella Striscia di Gaza dal 2007, quando espulse con la forza l’Autorità Palestinese, in parte gettando i suoi membri da edifici di 15 piani — chiede la “liberazione” di “ogni centimetro della Palestina” attraverso la jihad.

L’Autorità Palestinese rivendica anche tutto il territorio, compreso tutto Israele (vedi anche qui, qui, qui e qui).

  • Il possibile riconoscimento di uno “Stato palestinese” da parte del Belgio non ha senso dal punto di vista del diritto internazionale. In realtà, ciò non è tanto il risultato del desiderio di aiutare i palestinesi – la cui vita non ne trarrà alcun miglioramento – quanto piuttosto di un’ostilità feroce e sempre più palese nei confronti dello Stato di Israele e, molto probabilmente, anche degli ebrei.
  • Riconoscere uno Stato palestinese senza autorità, senza richieste territoriali realistiche e senza una leadership accettabile – e con un desiderio esplicito e a lungo termine di militarizzare e distruggere il suo vicino Israele.

Nella foto: terroristi di Hamas con il loro bambino apprendista durante una manifestazione a Gaza City il 24 maggio 2021. (Foto di Mahmud Hams/AFP tramite Getty Images)

Nei corridoi del potere si vocifera che il Belgio, come la Norvegia e la Spagna, si stia preparando a riconoscere uno “Stato palestinese”. Vediamo perché questa mossa sembra discutibile, sia sul piano giuridico che su quello politico.

Le prime condizioni per il riconoscimento di uno Stato sono il territorio e l’autorità statale. Il diritto internazionale definisce uno Stato sovrano come un’unità territoriale stabilita, all’interno della quale le sue leggi si applicano a una popolazione permanente, e che è costituita da istituzioni attraverso le quali esercita autorità e potere effettivo.

L’Autorità Palestinese rivendica inoltre l’intero territorio, compreso tutto Israele. Il territorio dello “Stato Palestinese” non è quindi conteso ai margini; è contestato nella sostanza. Al momento nessuno, e certamente non gli stessi palestinesi, può dire quali siano, anche approssimativamente, i confini del territorio che rivendicano, a parte l’intero territorio apertamente desiderato di Israele.

Inoltre, l’Autorità Palestinese conta sul “Piano in dieci punti” dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina del 1974 (noto anche come “piano a fasi”) per la “liberazione globale” di tutta la terra che si estende “dal fiume [Giordano] al [ Mar Mediterraneo]” – un eufemismo per l’eliminazione di Israele. Il piano prevede che l’OLP utilizzi qualunque territorio gli venga offerto come base operativa per ottenere il resto.

Né esiste alcuna autorità statale costituita. O meglio, sono due. A Gaza, Hamas governa dal 2007. Nelle aree popolate da palestinesi della Giudea e della Samaria, domina l’Autorità Palestinese. Queste due autorità non si riconoscono, tanto da entrare in guerra. Tra il 2007 e il 2008, centinaia di quadri e attivisti sono stati uccisi negli scontri tra Hamas e l’Autorità Palestinese nella Striscia di Gaza. Si stima che circa 600 prigionieri politici di Hamas siano detenuti nelle carceri dell’Autorità Palestinese.

Qual è allora questa enigmatica “autorità” che dovrebbe essere riconosciuta? L’Autorità Palestinese, che non ha legittimità, non ha rappresentanti a Gaza ed è odiata da un gran numero della sua stessa popolazione? Oppure Hamas, che governa la Striscia di Gaza dal 2007, è un’organizzazione terroristica e ha appena perpetrato il peggior atto di omicidio di massa contro gli ebrei dai tempi della Shoah?

Il Belgio si rende conto che riconoscere qualsiasi tipo di “autorità” in queste condizioni equivale a riconoscere un’organizzazione terroristica o l’Autorità Palestinese, la cui autorità a Gaza è un puro mito, o un miscuglio delle due che non ha alcuna rilevanza sul terreno?

Nel rigoroso diritto internazionale non ha senso riconoscere uno “Stato palestinese” che non esiste in nessuna delle sue componenti fondamentali. Come si può giustificare il riconoscimento di un mito come quello dello Stato palestinese, rifiutando allo stesso tempo di riconoscere uno “Stato di Taiwan” democratico, che è perfettamente costituito e lo è da decenni? Va benissimo pretendere di essere regolati dal diritto internazionale, ma è ancora meglio essere coerenti nel rispettarne le categorie.

Un altro problema è quello dei “profughi palestinesi”. Si stima che siano due milioni i “rifugiati palestinesi” riconosciuti come tali dalle Nazioni Unite che vivono attualmente in Cisgiordania e Gaza. La questione dei rifugiati è una delle più delicate nel conflitto arabo-israeliano. Cinque milioni di arabi palestinesi attualmente registrati come “rifugiati palestinesi” – due milioni in Cisgiordania e Gaza, più due milioni in Giordania e un altro milione in Siria e Libano – chiedono di “tornare” a quella che ritengono essere la loro storica patria.

Se questi cinque milioni di palestinesi si aggiungessero ai circa due milioni di arabi palestinesi che sono già cittadini di Israele, ci sarebbe un enorme cambiamento demografico, come sottolinea Einat Wilf. Gli ebrei di Israele verrebbero probabilmente relegati allo status di minoranza. Questo è il motivo per cui gli israeliani hanno sempre rifiutato il preteso “diritto al ritorno” dei palestinesi. Eppure i palestinesi insistono sul fatto che questo è un requisito fondamentale di qualsiasi accordo di pace.

Riconoscere uno “Stato palestinese” significa mettere fine al mito dei rifugiati che già vivono in questi territori. Non puoi essere un rifugiato dalla Palestina e vivere in uno Stato palestinese allo stesso tempo. Se Gaza e la Cisgiordania diventassero “Palestina”, allora i milioni di palestinesi che vivono lì cesseranno di essere rifugiati. Fingere di riconoscere uno “Stato palestinese” pur mantenendo il mito dei rifugiati tradisce la natura intrinsecamente politica e ostile di questo riconoscimento di un fantomatico “Stato palestinese”.
​Del resto, secondo molti commentatori, uno Stato palestinese esiste già: si chiama Giordania.

Il che ci porta al nocciolo della questione: il possibile riconoscimento di uno “Stato palestinese” da parte del Belgio non ha senso dal punto di vista del diritto internazionale. Ha senso piuttosto per soddisfare un’ostilità feroce, sempre più palese, nei confronti dello Stato di Israele e anche degli ebrei.

Belgio, Norvegia e Spagna farebbero bene a ritornare in sé. Riconoscere uno Stato palestinese senza autorità, senza richieste territoriali realistiche e senza una leadership accettabile – e con un desiderio esplicito e a lungo termine di militarizzare e distruggere il suo vicino Israele – subito dopo un pogrom jihadista contro gli ebrei -, non aumenterà la felicità. di una qualsiasi delle parti coinvolte o, del resto, di chiunque altro.

Drieu Godefridi è giurista (Università Saint-Louis, Università di Lovanio), filosofo (Università Saint-Louis, Università di Lovanio) e dottore di ricerca in teoria giuridica (Parigi IV-Sorbonne). È un imprenditore, amministratore delegato di un gruppo europeo di istruzione privata e direttore di PAN Medias Group. È autore di Il Reich verde (2020).

5654.-Armi in Ucraina, cosa ne pensano gli europei (l’Italia sorprende)

La speranza degli europei consapevoli è la fine del mandato di Biden. Usa e Nato non tengono in conto gli avvertimenti di Putin perché giocano col culo degli europei e in Europa. Così, hanno deciso di addestrare i piloti ucraini per gli F-16. Cosa ne pensano i cittadini? Il sondaggio

di Redazione Nicola Porro, 25 Maggio 2023

armi ucraina italiani

Continua a far dibattere l’invio a Kiev di aiuti militari sempre più ingenti, arrivati fino al via libera degli Stati Uniti per le forniture di caccia F-16 all’Ucraina. Nonostante tutto, ha precisato Biden, i jet non verranno forniti immediatamente, anche se Washington ha già dato il proprio lasciapassare per l’inizio dell’addestramento delle truppe ucraine. Tra i Paesi in questione, anche l’Italia ha dato la propria disponibilità per addestrare i piloti della resistenza.

Armi in Ucraina, cosa dicono gli europei?

Eppure, nonostante la ferma posizione a sostegno di Zelensky dell’Alleanza atlantica, decisamente più polarizzate sono le opinioni della popolazione europea. Come riportato dall’ultimo sondaggio di Termometro Politico, infatti, il 27 per cento dei cittadini Ue vorrebbe interrompere immediatamente gli aiuti militari all’Ucraina. E ancora, la percentuale si innalza al 31 per cento se si parla dell’Italia. Un valore, quindi, che è sopra alla media rispetto agli Stati del Vecchio Continente.

Il BelPaese, per di più, è tra quelli che offre il giudizio più negativo nei confronti di Volodymyr Zelensky. Più pessimisti degli italiani, vi sono solo i tedeschi e gli austriaci. Come si denota dal sondaggio, che rileva il grado di fiducia al leader di Kiev in una scala da 1 a 10, Roma si posiziona al di sotto della metà (4,5), davanti ad Austria (4,0) e Germania (addirittura 3,3). A capo della classifica, come si può immaginare, c’è la Polonia, che si attesta ad un valore che sfiora l’8.

I più contrari all’invio delle armi in Ucraina. Greci e polacchi agli antipodi

Sono i greci, invece, i più contrari all’invio di armi all’Ucraina: ben il 58 per cento della popolazione è contraria a nuove forniture, un dato seguito da quelli di Germania e Italia, rispettivamente al 39 e 31 per cento. “Il sì alle armi tout court – riporta Termometro Politico – arriva al 57 per cento in Polonia, ma scende al 31 per cento in Spagna e Francia, al 29 per cento in Germania ed al 22 per cento in Italia, fino a un minimo del 18 per cento in Grecia”.

Altro dato interessante del sondaggio riguarda i partiti europei da cui provengono le maggiori ostilità nei confronti dell’Ucraina, e sono coloro che votano per le formazioni più radicali. Sia di destra, che di sinistra. Risulta contrario, infatti, la metà di chi vota per i partiti che fanno parte del gruppo Identità e Democrazia (il gruppo di Lega e Rassemblement National) al Parlamento di Strasburgo. E ancora, “a pensarla allo stesso modo anche il 48% dei sostenitori delle formazioni di sinistra estrema, ma solo il 23 per cento di quelle che fanno parte del gruppo Conservatori e Riformisti, cui sono collegati Fratelli d’Italia e il partito al potere in Polonia”, ribadisce Termometro Politico. La percentuale poi scende costantemente dai liberali fino al Partito Popolare Europeo, da un massimo del 21 ad un minimo del 17 per cento.

Sono i polacchi ad avere maggiore stima del presidente ucraino

in una scala da 0 a 10 prende 7,9. A distanza i belgi, con 6, e poi spagnoli e francesi con 5,8 e 5,6.

Hanno un’opinione peggiore i greci, 5,1, gli italiani, con 4,5 gli austriaci, con 4. Sono però i tedeschi a dare il voto più basso, solo 3,3.

Sinistra e destra radicale maggiormente contrari all’invio di armi

In tutti i Paesi tranne la Grecia la maggioranza è per continuare la consegna di armamenti all’Ucraina. 31% a livello europeo vorrebbe che allo stesso tempo si facessero negoziati per giungere alla fine del conflitto anche a costo di cedere territori ucraini, 24%. Il sì alle armi con negoziati a 360 gradi è più gradito dagli spagnoli, 35%, dai belgi e dagli italiani, tra cui arriva al 29%.

La percentuale dei contrari all’invio di armi va dal 48% dei sostenitori delle formazioni di sinistra radicale, ma solo il 23% di quelle che fanno parte del gruppo Conservatori e Riformisti, cui sono collegati Fratelli d’Italia e il partito al potere in Polonia. Scende al 21% tra i liberali, al 20% tra chi vota i partiti del PPE, al 18% tra i socialdemocratici e al 17% tra i Verdi.

La grande maggioranza, però, ha paura di un’escalation e che il conflitto possa diventare guerra mondiale. Ad essere spaventati dalla prospettiva sono il 76%, percentuale che sale all’88% in Spagna, all’80% in Germania e al 77% in Italia, ma scende al 63% in Polonia.

5434.- Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice di Monteforte.

Non solo gasdotti e non solo oleodotti, anche le reti e i sistemi informativi che vedete richiedono misure di prevenzione dagli atti terroristici e dai danneggiamenti dei cavi a causa della pesca a strascico e ancoraggio nelle zone vietate

Nel Potere Marittimo la sommatoria funzionale delle componenti è, come sempre, maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. La capacità di protezione delle infrastrutture sottomarine strategiche nel Mediterraneo che garantiscono il trasporto delle informazioni e l’approvvigionamento energetico italiano è una di queste componenti. L’Italia ha recepito la direttiva europea Network and Information Security, Nis, per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e la Guardia Costiera e la Terna SpA hanno implementato un protocollo di collaborazione. Il controllo del Canale di Sicilia e la cooperazione con le marine della costa africana e di tutto il Mediterraneo si pongono fra i cardini del sistema difesa Italia e rappresentano un invito ulteriore a ricercare la comunanza fra i Paesi rivieraschi attraverso il mare. Il futuro dell’Italia “è” nel Mediterraneo.

Da Formiche.net, di Gaia Ravazzolo | 09/10/2022 – 

Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice

Le Forze armate tornano a guardare al dominio marittimo e alla sua sicurezza, anche in risposta alla crescente vulnerabilità delle infrastrutture strategiche sottomarine preposte a provvedere all’approvvigionamento energetico. Per proteggere tali infrastrutture “bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido” secondo l’ammiraglio Sanfelice di Monteforte

L’attenzione delle Forze armate sta tornando sulla dimensione marittima e sottomarina. Dopo il danneggiamento del Nord Stream è stato lanciato un allarme globale sulla vulnerabilità delle reti energetiche subacquee, accolto anche dal nostro Paese. Proprio la scorsa settimana infatti l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, ha parlato di un piano lanciato in accordo con il ministro Lorenzo Guerini per aumentare le misure di tutela a protezione delle infrastrutture strategiche nel Mediterraneo che garantiscono l’approvvigionamento energetico italiano, a partire dal Canale di Sicilia. Impegno ribadito anche nei dibattiti del Trans-regional seapower symposium di Venezia. Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici.

Il nostro Paese riconosce il Mediterraneo allargato quale principale area di riferimento strategico. Quale ritiene dovrebbero essere le priorità nazionali per permettere all’Italia di assumere un ruolo da protagonista nella regione? 

La massima priorità, affinché il Paese conservi il proprio livello di benessere, è la salvaguardia del commercio internazionale marittimo. Insieme al commercio ci sono le infrastrutture marittime quali oleodotti, gasdotti, cavi sottomarini legati alla connettività ecc. Il desiderio italiano è di voler giocare un ruolo da protagonisti in quest’area e per farlo c’è un solo modo: adottare la strategia del “fratello maggiore”. Dunque, essere benevoli verso tutti e favorire le sinergie nella regione, come si fece una quindicina di anni fa favorendo lo scambio di informazioni virtuali per tutta l’area del Mediterraneo, organizzato proprio dalla Marina militare italiana. Ne è un esempio il caso dell’Algeria, che abbiamo supportato per anni e che ora ci sostiene a sua volta attraverso le forniture energetiche. Parallelamente a questo, vi sono le riunioni periodiche a carattere biennale del Trans-regional seapower symposium proprio per conoscere e riunire insieme i capi delle Marine militari dell’area, per cercare di instaurare nuove collaborazioni e sinergie, in un’ottica di scambio reciproco.

La centralità del Mediterraneo è un elemento strategico non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa e la Nato. Ci sarà bisogno di implementare sinergie con gli alleati. L’Italia può ambire a una posizione di leadership di queste probabili iniziative future, e come?

Nell’ambito europeo l’Italia è già una potenza in questo senso. Mentre nella cornice Nato occupiamo una posizione più defilata. Questo perché disponiamo di un livello di forze nelle tre dimensioni – terrestre, aerea, marittima – che è considerato dai nostri alleati inferiore rispetto a quello che potremmo esprimere, non in senso qualitativo ma quantitativo. Quindi, nell’Alleanza Atlantica siamo ancora un po’ “al traino” degli altri. Mentre in Europa possiamo influenzare in modo più significativo la politica comunitaria. Ciò nonostante, vi è da fare una precisazione. Ultimamente con questa nuova attenzione al dominio marittimo prevale un sentimento di giusto orgoglio nazionale e il conseguente desiderio di avere una posizione preminente rispetto agli altri. Tuttavia, ad oggi quello che dovrebbe prevalere è il sentimento e la voglia di sopravvivenza economica, e non solo fisica.

Al recente simposio di Venezia, il capo di Stato maggiore della Marina, Enrico Credendino, ha parlato della necessità di un approccio olistico per garantire la sicurezza delle vie marittime. C’è necessità di superare una sorta di sea-blindness che colpisce il sistema Italia. Che ruolo dovranno avere le forze navali nazionali in questo senso?

Il ruolo delle forze navali nazionali è da una parte quello di prevenire le crisi e sedarle, e dall’altra proteggere sia il commercio sia le infrastrutture strategiche. Questo fa parte di un approccio olistico perché le Forze armate, e in particolare le Forze della Marina militare, non sono più occupate solo nel portare avanti battaglie navali ma sono impegnate a creare una situazione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile.

Quali sono gli strumenti a disposizione del nostro Paese e della Marina militare per provvedere alla protezione di cavi e pipeline in modo da continuare a garantire la connettività e l’approvvigionamento energetico?

Sono 1.500 km di cavi sottomarini che saranno sorvegliati dalla Guardia Costiera e da Terna SpA

In primo luogo è necessaria una sorveglianza particolare nelle zone di passaggio di tali infrastrutture critiche, che dovrà inevitabilmente essere ampliata e ingrandita nella sua portata. Per adesso stiamo puntando alle infrastrutture subacquee più vicine e quindi si dovrà pensare e provvedere un po’ a tutte quelle infrastrutture che esistono nell’area. In secondo luogo bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido. Siccome non è possibile prevenire le minacce in modo completo al 100%, si dovranno creare delle capacità di intervento rapido per fermare eventuali conseguenze e ripercussioni dovute a sabotaggi o guasti.

Di fronte alla crescente rilevanza della dimensione marittima e sottomarina, è importante puntare sull’innovazione. Che ruolo può giocare in questa dimensione la componente unmanned?

Le Marine dispongono e impiegano la componente unmanned ormai da vent’anni, non è qualcosa di nuovo. Tuttavia, solo nell’ultimo periodo si sta ampliando ed espandendo sempre di più. Innanzitutto, la componente unmanned è stata usata, e viene usata ancora oggi, per la “guerra di mine”. Così da sminare le aree di mare che sono state minate in passato. Poi vi sono degli altri sistemi subacquei, di più recente introduzione al servizio, quali i sommergibili, che possono lanciare dei droni a guida remota e non solo. In questo quadro bisogna però considerare anche i sistemi che possono agire ed essere sopra la superficie, dal momento che finalmente si stanno sviluppando i droni lanciabili e recuperabili dal mare. Dunque, la componente unmanned per la Marina non è certamente una novità, ma ricopre un ruolo molto rilevante. D’altronde è molto più pratico mandare un mezzo unmanned a sorvegliare le aree che ospitano infrastrutture critiche, piuttosto che dispiegare un elicottero con quattro persone a bordo.

4775.- La Turchia in Mediterraneo e nella NATO.

La frontiera mediorientale della NATO è la Turchia e, quanto a numeri, vanta il secondo esercito dell’Alleanza. La politica turca segue un suo percorso. Lo abbiamo visto con i curdi, alleati tanto fedeli quanto traditi, quando i cacciabombardieri di Ankara seguivano a distanza di dieci minuti gli Hercules americani che sganciavano rifornimenti e contro l’ISIS, in Siria, quando, in nome di una fascia di sicurezza da frapporre ai guerriglieri, diventati terroristi, esercito e aviazione turchi hanno fatto strage di quel popolo meraviglioso. Qui, giova ricordare che la Turchia è un paese NATO e che, durante le operazioni contro i curdi (che non hanno mai avuto un’aviazione) il suo spazio aereo, a ridosso del confine siriano, era protetto dalle batterie di missili antiaerei italiani del Reggimento Custoza.
Al tempo, lo stato maggiore dell’Esercito turco, per non coinvolgere i suoi reparti regolari assegnati alla NATO, ha armato e diretto le operazioni di un esercito parallelo di mercenari in quel teatro, dove operano americani, russi e iraniani, insieme a varie fazioni locali, governative, ribelli, curde, terroristiche. Alcune migliaia di quei mercenari sono, poi, state trasferite e impiegate in Libia. Questo attivismo politico-guerresco mostra la figura intraprendente di Erdogan e una Turchia che opera da grande potenza. La vera potenza della Turchia sta nella sua funzione di baluardo contro la Russia e nella signoria esercitata sugli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli in forza della Convenzione di Montreux (1936). Poco ha importato l’uscita della Turchia dal programma F-35 dopo l’acquisto del sistema contraereo russo S-400. Quel rapporto con Mosca era compatibile con lo sviluppo della Nuova Via della Seta in Asia Centrale (Kazakistan) e ci lascia una visione della Turchia, una volta alleato, un’altra avamposto e un’altra ancora concorrente, in particolare nella competizione per le fonti energetiche in Mediterraneo.
Qui, sono chiamati in causa l’Egitto, Israele, la Grecia, il Regno Unito e, naturalmente, l’Italia, ma vorrei dire l’ENI. Per esempio, Atene ha accusato Ankara di aver violato il diritto internazionale conducendo attività di esplorazione del gas nelle sue acque territoriali. In particolare, i giacimenti di gas scoperti, anche dall’ENI, offrono diverse opportunità economiche e politiche per lo sviluppo regionale e la cooperazione tra paesi. Quelli all’interno della Zee egiziana superano il fabbisogno di tutti i paesi all’intorno e consentiranno l’esportazione.
Ecco che l’Italia se vorrà fare da ponte energetico tra le due sponde del Mediterraneo dovrà fare i conti con la Turchia ed avere una politica estera adeguata, particolarmente riguardo alla definizione delle ZEE. Sommando l’importanza della Turchia dal punto di vista energetico e economico con quello militare, viene all’attenzione l’accordo stipulato in novembre dalla Türk Deniz Kuvvetleri (Marina militare turca) e, più in generale, dalla Difesa turca con la Spagna, che sulla Turchia ha una sua posizione autonoma dall’Unione europea. Una banca e 600 imprese spagnole di rilievo operano in Turchia. Non solo la Türk Deniz Kuvvetleri ha costruito interamente presso il cantiere Sedef di Istanbul, con la collaborazione della Spagna, la nave d’assalto anfibio della Marina turca Anadolu, derivata dal Juan Carlos I. È una portaerei leggera tuttofare, di 27.000 tonn., con una manciata di aeroplani, un’altra di elicotteri e 4 mezzi da sbarco, che potrà essere dotata di droni. Quanto basta per giocare d’azzardo, ma, con il supporto della Spagna, il presidente turco ha in programma la costruzione di una vera portaerei, più grande del Cavour, e, sempre la Spagna, fornirà il reparto volo, cedendo i suoi AV-8. Perché più grande del Cavour ? E perché le politiche della Spagna e dell’Italia marciano su binari diversi?
Abbiamo toccato diversi temi della competizione in atto in Mediterraneo e, se la tentazione potrebbe essere di tenere la Turchia fuori dell’Unione europea e di estrometterla dalla NATO, questa non è sicuramente la via da seguire. Pubblichiamo, perciò, un’analisi della politica di Recep Tayyip Erdogan, di Giuseppe Cucchi che è stata pubblicata da Analisi Difesa il 15 luglio 2020.
L’analisi è tuttora valida, dal che possiamo trarne alcune considerazioni: la prima è che Washington ha sufficienti strumenti per sopportare e contenere le iniziative del presidente turco in Medio Oriente, nel Caucaso, in Siria e in Libia, la seconda che, al momento, l’Unione europea ha la possibilità economica di sostenere un modus vivendi con il governo turco e la terza, che ci riguarda, che la politica estera italiana non soddisfa la centralità geopolitica della penisola perché non è stata in grado di tutelare i nostri interessi in Libia, a Cipro e, più in generale, in Mediterraneo. Se aggiungiamo il contenzioso sulle ZEE, suscitato da Ankara nei confronti della Grecia e dell’Egitto, tutto ciò pone una seria ipoteca sia sull’ambizione di costituire una zona di libero scambio fra i Paesi della costa Nord e della costa Sud del Mediterraneo sia sul confine Sud allargato perseguito da Bruxelles. Se, infine, ci poniamo il problema dello sviluppo dell’Africa Bianca e del Sahel, alla luce della complementarità fra Africa e Europa, ecco, allora, che il piccolo dittatore Erdogan appare molto più grande di quanto non possa sembrare. Anche se il bilancio della difesa turco ha toccato il 2,5%, a dicembre, l’inflazione ha superato il 36%. Potremmo dire che, economicamente, la Turchia non sia all’altezza delle sfide del suo presidente, ma questo ci ricorda un altra storia, tutta italiana.

Cacciare la Turchia dalla NATO? 

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Cacciare la Turchia dalla NATO è indubbiamente una tentazione che si fa di giorno in giorno più incalzante, alimentata dal modo in cui il Paese anatolico, e soprattutto il suo “uomo forte” procedono sulla scena della politica internazionale, del tutto indifferenti al danno o al fastidio che alcuni dei loro atti possono provocare a quelli che – almeno in teoria – sono ancora formalmente loro alleati a tutti gli effetti.

Sono ormai parecchi anni che le cose procedono in questo modo e che l’Alleanza è sottoposta da Ankara a continue provocazioni e ricatti. Per non parlare poi di quelli che, pur senza interessare direttamente il Patto Atlantico, feriscono tuttavia o il suo pilastro europeo o quello di oltre Oceano.

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Così gli Stati Uniti si sono visti negare in più occasioni l’uso di basi che pure in alcuni momenti sarebbero risultate preziose. Un rifiuto, tra l’altro, che in alcuni casi si è anche chiaramente configurato come un sostegno indiretto fornito da Erdogan a regimi o movimenti islamici estremisti.

Così l’Unione Europea è stata e rimane costantemente sottoposta al ricatto dei profughi-migranti che ha avuto il torto di accettare la prima volta invece di sigillare ermeticamente le proprie frontiere e mandare al diavolo chi proponeva il baratto. Ed in materia di ricatti si sa che chi cede una volta…..

Così l’intero Occidente ha dovuto accettare prima che Ankara si crogiolasse con l’ISIS in una apparente neutralità che in molte occasioni sconfinava in aperta complicità, poi che essa attaccasse, oltretutto servendosi per buona parte di milizie irregolari legate all’estremismo islamico, quei curdi che erano stati i nostri migliori alleati nel crogiolo medio orientale.

Turchi Afrin

Così una serie di decisioni unilaterali di Ankara ha portato il disordine nelle acque mediterranee, cambiato le carte sul tavolo in Libia, ridato fiato ad una “Fratellanza Musulmana” che si sperava ridotta agli estremi e, ultimamente, restituito alla condizione di moschea la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, nonostante ciò potesse suonare come uno schiaffo deliberatamente inflitto all’intero ecumene cattolico ed ortodosso.

Quanto all’Alleanza Atlantica poi, essa è stata direttamente ferita dalla decisione di Erdogan di acquistare armamenti controaerei e reattori nucleari in Russia, una decisione su cui il Presidente turco non ha più acconsentito a ritornare nonostante gli sia costata il blocco della prevista fornitura statunitense di aerei F-35.

Ce ne è abbastanza per iniziare a considerare la Turchia non più come un fedele alleato, come essa era vista ai tempi di quel controllo militare sul paese di fronte a cui le nostre democrazie storcevano il naso incapaci di rendersi conto della sua funzione di estrema garanzia, bensì come un pericolo immanente, un costante elemento di destabilizzazione per tutta quella area mediterranea che per la NATO è di estremo interesse?

Certamente sì, e sarebbe a questo punto anche il caso di chiederci che cosa ci stia a fare un membro di questo genere in seno ad una Alleanza che dovrebbe essere il faro della sicurezza, della stabilità e della democrazia in tutta l’area Nord Atlantica.

Oltretutto lo status di membro della Turchia potrebbe permetterle , in un domani che si spera resti ipotetico, di paralizzare qualsiasi eventuale azione dell’Alleanza che risulti  non di suo gradimento .
Non sembra comunque che l’urgenza del problema di che cosa fare di questo alleato a dir poco scomodo sia sentita come tale dai vertici della NATO che sino ad oggi, probabilmente procedendo su una linea condivisa con il “Grande Fratello” americano, si sono rifiutati di iniziare qualsiasi discussione anche informale al riguardo.

ESL a Afrin EPA

A chi poneva dall’esterno la domanda sono state cosi opposte costantemente le medesime due obiezioni. La prima, di carattere formale, consiste nel fatto che il Trattato del Nord Atlantico, pur prevedendo esplicitamente il caso e la procedura per il ritiro volontario di un membro dall’Alleanza, non si esprime invece sull’eventualità che esso venga invitato, o costretto, ad andarsene dalla volontà congiunta di tutti gli altri associati.

Quello che non viene mai indicato è però come un altro articolo sancisca come basterebbe la richiesta di un solo partner per aprire la via ad una eventuale revisione che consenta di rimediare alla mancanza.
La seconda obiezione, di carattere storico/pratico questa volta, è centrata poi sul modo in cui, anche nei momenti più delicati della sua e della loro storia, la NATO non abbia mai considerato provvedimenti tanto drastici nei riguardi dei propri membri.

Al massimo essa si è limitata ad applicare nei loro confronti quella specie di “periodo di quarantena” non dichiarato che nella pratica, anche se non formalmente, li escludeva dalle maggiori decisioni.
Si trattò di un provvedimento che venne a suo tempo utilizzato verso la “Grecia dei Colonnelli”, verso il “Portogallo della rivoluzione dei garofani ” ed anche nei riguardi dell’Italia, per lo meno nel 1976 allorché sembrava che il PCI di Berlinguer potesse diventare maggioritario nel nostro paese.

Anche qui vi è comunque qualcosa che non viene detto esplicitamente. La quarantena dei reprobi di turno fu resa infatti possibile da una silente approvazione del provvedimento da parte degli interessati che trovarono più conveniente tacere e continuare a rimanere membri piuttosto che finire col rischiare di mettere in discussione la loro appartenenza alla Alleanza, con tutto ciò che da tale condizione derivava.

Haka e Erdogan

Non sembra che in questo momento tale sia il caso nè della Turchia ne’ del Presidente Erdogan che ne è l’espressione pubblica di vertice.  Basta far mente locale alla feroce arroganza con cui egli ha definito “intromissione negli affari interni turchi ” le civili proteste di buona parte del mondo nei riguardi della trasformazione in moschea di Santa Sofia per rendersi infatti conto di come Ankara reagirebbe nel vedersi silenziosamente esclusa dai giochi maggiori della Alleanza.

Cosa fare allora? E per quanto continuare a sopportare un rosario di eventi e di forzature collegate l’una all’altra che ricorda molto tanto nel modo, quanto negli effetti, quanto infine nell’impatto sulla opinione pubblica occidentale quello che fu il comportamento delle grandi dittature europee negli anni Trenta del secolo scorso?

Certo, perdere la Turchia significherebbe lasciare quasi sguarnito il fianco sud-est della nostra Alleanza e ciò potrebbe rivelarsi poco prudente, almeno sino a quando rimarranno aperti con la Russia i vari contenziosi in atto.

Vi è però da considerare come, se non agiamo noi tempestivamente, domani potrebbe essere proprio la Turchia a decidere di andarsene.
Leopard turco in Siria al-Bab TWITTER

Basterebbe che il suo Presidente valutasse l’uscita dalla Alleanza come una mossa capace di rendergli parte di quel sostegno popolare che la caduta dell’economia sta facendogli perdere. E magari ad una mossa del genere potrebbe anche essere associata una politica di maggiore e più muscolosa presenza in tutta quella “dorsale verde” Islamica che attraversa il sud est dei Balcani.

Se ciò dovesse avvenire il vantaggio della iniziativa sarebbe tutto dalla sua  parte e noi saremmo ridotti ad una difensiva che, oltretutto, il numero troppo alto dei membri ed i troppi interessi parziali da salvaguardare della Alleanza renderebbero particolarmente difficoltosa .

Vogliamo che ciò accada? Pensiamoci bene ed evitiamo soprattutto di rifugiarci come al solito in una non decisione. Come diceva Andreotti, che in politica internazionale aveva le idee molto chiare, vi sono infatti momenti storici in cui ciò che viene gabellato come una non decisione consiste in realtà in una decisione ben precisa!

4496.- Il coordinamento dei programmi navali è il primo passo concreto sulla via di una difesa comune europea.

Ancora senza un nome i nuovi incrociatori lanciamissili italiani da 10 mila e più tonnellate.

Urge una costituzione per l’Europa.

La creazione di una politica estera e di difesa comune europea risponde al progressivo deterioramento dello scenario geopolitico e procede per gradi, anche e se vogliamo, a tentoni. Per l’Italia, è il colosso cantieristico Fincantieri a compiere passi significativi, come questo che avvicina i programmi navali di Roma, Parigi e Madrid. Ricordiamo anche l’accordo che ha rafforzato la partnership fra Parigi e Atene e il disegno tedesco di europeizzare la Force de Frappe e il seggio francese all’ONU.

I punti di forza di questa marina europea potrebbero essere la nuova portaerei nucleare francese, che manderà in pensione la Charles De Gaulle e i nuovi incrociatori lanciamissili della Marina Militare. Allo stesso progetto, non corrisponderà lo stesso armamento, restando ciascuna marina arbitra delle proprie scelte riguardo ai sistemi di scoperta e di combattimento, almeno per ora. Riguardo alle portaerei, dobbiamo notare come le tre unità italiane differiscano totalmente una dall’altra: un 13mila, già C 551, un 27 mila, CVH 550 e un 40 mila, L9890; quindi, auspichiamo, sommessamente, un altrettanto coordinamento nei programmi navali nazionali.

Creare una politica estera e di difesa comune europea sembra anche essere fra gli obiettivi del presidente del Consiglio Mario Draghi.
Gli stati europei non sono in grado di garantire la sicurezza separatamente: serve una responsabilità piena dell’Ue in materia di politica estera e di difesa. Ribadiamo che parlare di politica estera, difesa e sicurezza europee significa porsi il problema istituzionale della mancanza di sovranità e di una costituzione per l’Europa.

Mario Donnini

Le corvette di Naval Group per la Grecia

Fincantieri, l’accordo con la spagnola Navantia irriterà la Francia?

Fincantieri Navantia

di Chiara Rossi, Start Magazine

Fincantieri stringe intesa con la spagnola Navantia per una collaborazione allargata in campo navale e marittimo. E la Francia? Fatti e approfondimenti

Fincantieri vira sul consolidamento della cantieristica navale europea con Navantia.

Ieri il colosso cantieristico italiano ha raggiunto con il gruppo navale spagnolo un accordo per un Memorandum of Understanding (MoU) per rafforzare la loro relazione e valutare una collaborazione allargata in campo navale e marittimo.

“Prima di un esercito comune, l’Europa si doterà di una marina. O almeno degli stessi mezzi costruiti da tre Paesi leader nella cantieristica militare. È l’accordo che Fincantieri ha siglato con Navantia ad aver accelerato il grande risiko e adesso Roma, Parigi e Madrid sono più vicine” ha commentato il Secolo XIX.

In realtà non così vicina con la Francia.

Come ha ricostruito Tom Kington oggi su DefenseNews, “se le sinergie sono essenziali per evitare sovrapposizioni in Europa, Italia e Francia vantano un track record di cooperazione dopo aver co-progettato insieme le loro fregate Horizon e Fremm prima di costituire la joint venture Naviris tra Fincantieri e Naval Group che ora sta lavorando sull’Epc (European patrol corvette). Detto questo, finora le due aziende hanno gareggiato per vendere le loro fregate Fremm”.

E proprio dell’attivismo di Fincantieri in materia di export si borbotta parecchio Oltralpe.

“Nonostante la joint venture Naviris con Naval Group, Fincantieri è uno dei più agguerriti competitor di Naval Group[il gruppo cantieristico francese] in paesi fino ad ora piuttosto favorevoli alla Francia”, ha puntualizzato oggi la Tribune. “Il gruppo italiano è molto aggressivo sui mercati esteri. E senza scrupoli”, ha aggiunto il quotidiano francese.

La firma del MoU avverrà oggi allo stand Navantia alla fiera Feindef — Fiera Internazionale sulla Difesa e Sicurezza di Madrid — tra il direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri Giuseppe Giordo e il presidente di Navantia Ricardo Domínguez.

Tutti i dettagli.

l’intesa tra Fincantieri e Navantia

In particolare, nell’ambito dell’intesa tra Fincantieri e Navantia si valuteranno le opportunità legate alla Marina italiana e a quella spagnola. Tra queste, i progetti congiunti e la partecipazione allo sviluppo dei prossimi cacciatorpediniere e di altre piattaforme navali che faranno parte della futura Forza di Difesa Europea.

La strategia del gruppo di Trieste

“Siamo da tempo convinti che per tenere testa alle sfide globali del futuro abbiamo bisogno di una robusta e durevole cooperazione a livello europeo negli ambiti della difesa e della sicurezza. Solo così il nostro continente potrà giocare un ruolo sempre più importante e questo accordo va in tale direzione. Siamo quindi molto soddisfatti di dare concretezza ad un disegno non più rimandabile e di costruire un percorso di collaborazione basato su programmi importanti delle due Marine” ha commentato l’ad di Fincantieri, Giuseppe Bono.

Il commento del Sole 24 ore

“La rotta è stabilmente puntata sul consolidamento della cantieristica a livello europeo che ha già prodotto un primo fronte di collaborazione tra i due gruppi, insieme con i francesi di Naval Group, nell’ambito del programma European Patrol Corvette (Epc), spina dorsale della flotta futura del Vecchio Continente”, ha scritto oggi il Sole 24 Ore.

La collaborazione sulle corvette europee

Navantia e Fincantieri stanno già collaborando infatti sul programma European Patrol Corvette (Epc), ad oggi la più importante iniziativa navale nell’ambito del progetto europeo Permanent Structured Cooperation (Pesco), insieme con la francese Naval Group.

Con l’obiettivo di progettare e sviluppare una nuova classe di navi da guerra, il Consiglio europeo ha adottato il programma Epc il 12 novembre 2019.

All’Italia (come coordinatore) e Francia si sono aggiunte Grecia e Spagna.

Lo scorso febbraio Naviris, la joint venture al 50% tra Fincantieri e Naval Group che ha in capo lo sviluppo di programmi di cooperazione, e Navantia hanno firmato un Memorandum of Understanding (MoU) inteso ad ampliare la cooperazione industriale per il programma Epc.

A che punto è il programma EPC

Come ha riportato oggi DefenseNews, “con il Portogallo presente come osservatore e la Danimarca che si dice sia interessata, il programma Epc potrebbe ancora aggiungere partner, mentre le tre nazioni principali sono attualmente in procinto di acquistare 20 navi, di cui sei per la Francia, sei per la Spagna e otto per l’Italia”.

Il costo del programma

Una fonte industriale ha riferito a Defense News che ogni nave dovrebbe costare circa 250-300 milioni di euro, “portando il programma Corvette a un valore di 5-6 miliardi di euro. Anche prima che la Grecia confermi un ordine e che eventuali nuovi membri si iscrivono”.

E la Germania?

Dunque sul risiko dei cantieri navali europei, c’è l’alleanza a tre tra Francia, Italia e Spagna, “anche se manca ancora la quarta gamba” sottolinea il Secolo XIX. Dove si colloca infatti la Germania, al di fuori del progetto Epc?

“Berlino rimane solo con un piede dentro, grazie all’accorso sulla costruzione di sommergibili raggiunto con Fincantieri” nota il Secolo XIX. “Ma ora proprio l’accordo con gli spagnoli potrebbe accelerare un’intesa più profonda: un anno e mezzo fa era circolata l’ipotesi di un accordo industriale con Tkms, la controllata di Thyssenkrupp che costruisce sottomarini e unità militari di superficie. E ora in Europa c’è chi scommette che quell’intesa possa essere più vicina” conclude il quotidiano.

Come saranno le nuove corvette europee

Tratto da un articolo di Stefano Pioppi per Formiche net. | 21/10/2021 

La Difesa corre sul mare. Come saranno le nuove corvette europee

“La strada scelta è per una piattaforma comune su base condivisa, che può essere personalizzata in base alle esigenze degli Stati membri. Il dislocamento complessivo non sarà superiore alle tremila tonnellate. Ciò, spiega la nota della Marina, “consentirà alla nave di operare anche da porti minori”. Di più: “La lunghezza della nave, da munire di motori diesel e/o elettrici, non supererà i 110 metri”. Si sono già delineate due versioni di corvetta: “Italia e Grecia hanno concordato sulla tipologia Full combat multipurpose”, vista l’esigenza “di avere un pattugliatore da impiegare nell’ambito del Mediterraneo allargato, con focus specifico sul Mediterraneo centrale e orientale, per compiti prevalentemente di presenza e sorveglianza, dotato di una varietà di sistemi volti a garantire un’adeguata capacità di autodifesa”. Invece, “Spagna e Francia sono interessate alla Long range multipurpose”, per una nave “con autonomia estesa per poter svolgere attività nei territori d’oltremare””.