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6148.- Washington è disposta a scatenare una guerra nucleare, ma se i bersagli sono in Europa.

L’avvertimento di Putin di una risposta nucleare alla entrata diretta in guerra della NATO a fianco dell’Ucraina è esplicito.

Di Sabino Paciolla, 6 Marzo 2024

Di seguito segnalo all’attenzione e alla riflessione dei lettori di questo blog l’articolo scritto da Melkulangara Bhadrakumar un diplomatico indiano con esperienza trentennale, di cui la metà passata in paesi come la Russia. L’articolo è pubblicato sul blog di Bhadrakumar. Visitate il sito e valutate liberamente le varie opzioni offerte e le eventuali richieste. Ecco l’articolo nella mia traduzione. 

Valdimir Putin, presidente della Russia
Valdimir Putin, presidente della Russia

Lo spettro dell’Armageddon è stato evocato abbastanza spesso durante i due anni di guerra in Ucraina, tanto che il riferimento ad esso nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato giovedì dal presidente russo Vladimir Putin ha avuto un suono familiare. Qui si annida il rischio di un’errata valutazione da parte del pubblico occidentale, secondo cui Putin avrebbe solo “gridato al lupo”.

Tre cose devono essere notate all’inizio. In primo luogo, Putin è stato esplicito e diretto. Sta avvisando in anticipo che è obbligato a rispondere con la capacità nucleare se la statualità russa è minacciata. Rifuggendo da allusioni o da oscuri accenni, Putin ha fatto una dichiarazione cupa e di portata epocale.

In secondo luogo, Putin si è rivolto all’Assemblea Federale di fronte alla crème de la crème dell’élite russa e ha fatto capire all’intera nazione che il Paese potrebbe essere spinto a una guerra nucleare per la sua autoconservazione.

In terzo luogo, si sta delineando un contesto specifico determinato da statisti occidentali avventati e impetuosi che cercano disperatamente di evitare un’imminente sconfitta nella guerra, che hanno iniziato in prima istanza, con l’intenzione dichiarata di distruggere l’economia russa, creare instabilità sociale e politica che avrebbe portato a un cambio di regime al Cremlino.

In realtà, la prognosi del Segretario degli Stati Uniti Lloyd Austin, pronunciata giovedì durante un’udienza del Congresso a Washington, secondo cui “la NATO si troverà a combattere con la Russia” in caso di sconfitta dell’Ucraina, è la manifestazione di una situazione difficile che l’Amministrazione Biden si trova ad affrontare dopo aver condotto l’Europa sull’orlo di un’abissale sconfitta in Ucraina, generando gravi incertezze sulla sua ripresa economica e sulla deindustrializzazione a causa del contraccolpo delle sanzioni contro la Russia.

In parole povere, Austin voleva dire che se l’Ucraina perde, la NATO dovrà andare contro la Russia, perché altrimenti la credibilità futura del sistema di alleanze occidentali sarà in pericolo. È un appello all’Europa affinché si mobiliti per una guerra continentale.

Anche le dichiarazioni del Presidente francese Emmanuel Macron di lunedì della scorsa settimana sono state un’articolazione di questa stessa mentalità, quando ha scatenato una tempesta accennando alla possibilità di inviare truppe di terra in aiuto di Kiev.

Citando Macron, “Oggi non c’è consenso sull’invio ufficiale di truppe di terra, ma… nulla è escluso. Faremo tutto il necessario per garantire che la Russia non possa vincere questa guerra. La sconfitta della Russia è indispensabile per la sicurezza e la stabilità dell’Europa”.

Macron ha parlato dopo un vertice di 20 Paesi europei a Parigi, dove un “documento riservato” in discussione aveva lasciato intendere “che alcuni Stati membri della NATO e dell’UE stavano considerando l’invio di truppe in Ucraina su base bilaterale”, secondo il primo ministro slovacco Robert Fico.

Fico ha detto che il documento “fa venire i brividi”, in quanto implicava che “alcuni Stati membri della NATO e dell’UE stanno considerando di inviare truppe in Ucraina su base bilaterale”.

La rivelazione di Fico non sarebbe stata una sorpresa per Mosca, che ha ora reso di dominio pubblico la trascrizione di una conversazione confidenziale tra due generali tedeschi, avvenuta il 19 febbraio scorso, in cui si discuteva dello scenario di un potenziale attacco al ponte di Crimea con missili Taurus e di un possibile dispiegamento di truppe da parte di Berlino in Ucraina, a dispetto di tutte le smentite pubbliche del Cancelliere Olaf Scholz.

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha definito la trascrizione “una rivelazione sconvolgente”. È interessante notare che la trascrizione rivela che i militari americani e britannici sono già dispiegati in Ucraina – cosa che Mosca sostiene da mesi – e anche altri dettagli.

Questo è il momento della verità per la Russia. Dopo aver imparato a convivere con il costante aggiornamento degli armamenti occidentali forniti all’Ucraina, che ora includono missili Patriot e jet da combattimento F-16, dopo aver segnalato invano che qualsiasi attacco alla Crimea o qualsiasi attacco al territorio russo sarebbe stato considerato una linea rossa; dopo aver evitato con delicatezza la partecipazione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna alle operazioni per riportare la guerra in territorio russo – la bellicosa dichiarazione di Macron della scorsa settimana è stata la proverbiale ultima goccia per il Cremlino. Essa prevede l’invio di truppe occidentali per combattere e uccidere i soldati russi e conquistare territori per conto di Kiev.

Nel discorso di giovedì, quasi interamente dedicato a una road map estremamente ambiziosa e lungimirante per affrontare le questioni sociali ed economiche nell’ambito della nuova normalità che la Russia ha raggiunto anche in condizioni di sanzioni occidentali, Putin ha lanciato un avvertimento all’intero Occidente mettendo sul tavolo le armi nucleari.

Putin ha sottolineato che qualsiasi (ulteriore) superamento delle regole di base non scritte sarà inaccettabile: finché gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO forniranno assistenza militare all’Ucraina ma non attaccheranno il suolo russo e non si impegneranno direttamente in combattimenti, la Russia si limiterà a usare armi convenzionali.

In sostanza, l’essenza delle osservazioni di Putin sta nel rifiuto di accettare un destino esistenziale per la Russia organizzato dall’Occidente. Il ragionamento che sta alla base non è difficile da comprendere. In parole povere, la Russia non permetterà alcun tentativo da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati di rimodellare la situazione sul campo, intervenendo in prima linea con personale militare della NATO supportato da armamenti avanzati e capacità satellitari.

Putin ha messo la palla nel campo occidentale per decidere se la NATO rischierà un confronto nucleare, che ovviamente non è una scelta della Russia.

Il contesto in cui si sta svolgendo tutto questo è stato inquadrato in modo pittoresco dal leader di un Paese della NATO, il primo ministro ungherese Viktor Orban, che nel fine settimana, rivolgendosi a un forum di diplomatici di alto livello ad Antalya, sulla Riviera turca, ha sottolineato che “gli europei, insieme agli ucraini, stanno perdendo la guerra e non hanno idea di come trovare una via d’uscita da questa situazione”.

Orban ha dichiarato: “Noi europei siamo ora in una posizione difficile”, aggiungendo che i Paesi europei hanno preso il conflitto in Ucraina “come una loro guerra” e si sono resi conto tardivamente che il tempo non è dalla parte dell’Ucraina. “Il tempo è dalla parte della Russia. Per questo è necessario fermare immediatamente le ostilità”.

“Se pensate che questa sia la vostra guerra, ma il nemico è più forte di voi e ha dei vantaggi sul campo di battaglia, in questo caso siete nel campo dei perdenti e non sarà facile trovare una via d’uscita da questa situazione. Ora, noi europei, insieme agli ucraini, stiamo perdendo la guerra e non abbiamo idea di come trovare una via d’uscita da questa situazione, una via d’uscita da questo conflitto. È un problema molto serio”, ha detto Orban.

Questo è il nocciolo della questione. In queste circostanze, il punto cruciale è che sarà una speciosità catastrofica da parte della leadership e dell’opinione pubblica occidentale non cogliere la piena portata del severo avvertimento di Putin, secondo cui Mosca intende ciò che ha detto, ossia che considererà qualsiasi dispiegamento di forze occidentali in Ucraina da parte dei Paesi della NATO come un atto di guerra.

Certo, se la Russia dovesse rischiare una sconfitta militare in Ucraina per mano delle forze NATO in fase di dispiegamento, e le regioni del Donbass e della Novorossiya rischiassero di essere nuovamente sottomesse, ciò minaccerebbe la stabilità e l’integrità dello Stato russo – e metterebbe in discussione la legittimità della stessa leadership del Cremlino – e la questione dell’uso delle armi nucleari potrebbe diventare più aperta.

Per ribadire il concetto, Putin ha passato in rassegna l’inventario russo che rafforza la sua superiorità nucleare odierna, che gli Stati Uniti non possono assolutamente eguagliare. E ha ulteriormente de-classificato alcune informazioni top-secret: “Gli sforzi per sviluppare diversi altri nuovi sistemi d’arma continuano, e ci aspettiamo di sentire ancora di più sui risultati ottenuti dai nostri ricercatori e produttori di armi”.

Melkulangara Bhadrakumar

6120.- In Ucraina è l’ora delle brutte notizie

La Federazione Russa possiede risorse umane e materiali immense che la NATO non è in grado di vincere, nemmeno armando gli ucraini con i datati F-16 e con i delicati carri M-1 USA. L’ennesima ritirata USA dall’Ucraina non segnerà una sconfitta: anche questa volta. Questa guerra costruita da Washington durante dieci anni ha realizzato ben altri obiettivi e soddisfatto precisi interessi.

Da Pagine Esteri, di Marco Santopadre, 7 Dic 2023 

In Ucraina è l’ora delle brutte notizie

«Dobbiamo essere preparati anche alle cattive notizie». L’avviso è arrivato nei giorni scorsi dal segretario generale della Nato nel corso di un’intervista alla tv tedesca ARD. Jens Stoltenberg ha ribadito che «dobbiamo stare al fianco dell’Ucraina sia nei momenti buoni sia in quelli cattivi» spiegando che «più sosteniamo l’Ucraina, più velocemente questa guerra finirà», ma le quotazioni di Kiev nel conflitto in corso contro la Russia stanno rapidamente crollando.

“Putin può vincere”
Solo due giorni prima, il settimanale “The Economist” scriveva che «per la prima volta da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina sembra che abbia la possibilità di vincere. Il presidente russo ha preparato il suo Paese alla guerra e rafforzato il suo potere. Si è procurato forniture militari all’estero e sta aizzando il sud del mondo contro gli Stati Uniti. Fondamentalmente, sta minando la convinzione in Occidente che l’Ucraina possa emergere dalla guerra come una fiorente democrazia europea».

Lo stesso Volodymyr Zelensky, che pure insiste sul fatto che il conflitto potrà terminare solo con la riconquista ucraina di tutti i territori sottratti dai russi, ha dovuto ammettere che la controffensiva estiva «non è riuscita a produrre i risultati desiderati a causa della persistente carenza di armi e forze di terra». Una dichiarazione che ha fatto arrabbiare il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko. In un’intervista l’ex pugile ha accusato il presidente di dare un’immagine euforica della guerra, e ha sottolineato: «La gente si chiede perché non fossimo meglio preparati per questa guerra. Perché Zelensky ha negato fino alla fine che si sarebbe arrivati ad un conflitto (…) Troppe informazioni non corrispondevano alla realtà».

Tutti contro Zelensky
Più la situazione dal punto di vista militare si fa difficile, più a Kiev aumentano le tensioni e le divisioni all’interno dell’establishment, anche in vista di elezioni presidenziali che prima o poi Zelensky, dopo averle sospese, dovrà indire. Il moltiplicarsi delle critiche e degli attacchi espliciti nei confronti del presidente è evidente.

Le polemiche sono esplose quando l’SBU, i servizi di sicurezza di Kiev, hanno impedito al leader del partito “Solidarietà Europea” Petro Poroshenko di lasciare l’Ucraina, nonostante l’esponente politico di opposizione avesse già ottenuto tutte le autorizzazioni. Il motivo è che intendeva incontrare il premier ungherese Viktor Orban, colpevole di aver posto il veto all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e di essere troppo vicino a Mosca. L’ex presidente ucraino avrebbe dovuto partecipare anche al vertice dell’IDU – l’organizzazione che riunisce i partiti di centrodestra occidentali – ed incontrare a Washington i dirigenti repubblicani e democratici; probabilmente Zelensky ha temuto che il miliardario gli rubasse la scena ed ha deciso di bloccarlo, dando però un segnale di debolezza.

Ivanna Klympush-Tsintsadze, che è stata la vice di Petro Poroshenko, ha denunciato la «involuzione autoritaria» in atto nel paese. Klitschko afferma che «Zelensky sta pagando gli errori che ha commesso» e di temere che «ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo». Al notiziario svizzero “20 minuten” il sindaco della capitale ha spiegato di sostenere il capo di stato maggiore Valery Zaluzhny, da tempo in contrasto con le alte sfere del governo, perché non avrebbe paura di dire le cose come stanno rispetto all’andamento della guerra. Secondo “Ukrayinska Pravda”, l’ex attore starebbe intanto comunicando con i comandanti militari fedeli tagliando fuori Zaluzhny, nel tentativo di isolarlo.

Vitali Klitschko e Petro Poroshenko

L’Ucraina ora gioca in difesa
Dal fronte continuano ad arrivare brutte notizie per Zelensky. Le forze russe starebbero continuando ad avanzare, seppur molto lentamente, in alcuni punti del Donbass, con l’obiettivo di conquistare Avdiivka e spingersi fino a Lyman e Kupyansk, per poi occupare Sloviansk e Kramatorsk.
Mosca sta già intensificando gli attacchi contro le infrastrutture energetiche ucraine; la possibilità che milioni di persone passino un nuovo inverno al buio e al freddo, e che calino quindi ulteriormente il morale e la fiducia degli ucraini, è molto concreta e preoccupa non poco Kiev.

Intanto Putin ha ricominciato ad ammassare uomini e mezzi nelle regioni di confine ed ha firmato venerdì scorso un decreto che punta ad aumentare gli effettivi del proprio esercito, tramite arruolamenti più o meno volontari, di 170 mila unità, in maniera da avere più forze a disposizione in vista dello “scongelamento” dei combattimenti in primavera. Probabilmente Mosca non ha fatto ricorso ad un’ulteriore mobilitazione dei riservisti per non aumentare lo scontento nella società russa, dove le opinioni critiche nei confronti dell’avventura militare di Putin in Ucraina sembrano aumentare, almeno stando ad alcuni sondaggi.

Per ora la strategia di Mosca sembra essere quella di reggere un minuto più di Kiev e di non forzare quindi troppo la mano dal punto di vista militare, continuando nel frattempo a premere sull’Ucraina nell’attesa che le difficoltà crescenti spingano Zelensky – o chi lo sostituirà – a negoziare un cessate il fuoco che congelerebbe una situazione favorevole alla Federazione Russa.

Le lamentele e le proteste dei militari ucraini si fanno sempre più forti, e ora le famiglie di molti coscritti bloccati al fronte anche da 650 giorni chiedono una più ampia turnazione tra gli uomini e le donne mobilitate, l’abolizione del servizio militare a tempo indeterminato e l’abbassamento dell’età per essere richiamati.

Per evitare che le forze russe, dopo il disgelo, sfondino le linee di un esercito ucraino sempre più debilitato, Zelensky avrebbe scelto di dare la priorità al rafforzamento e alla fortificazione delle proprie posizioni, copiando di fatto la strategia utilizzata da Mosca per bloccare la controffensiva estiva di Kiev. In attesa delle decisioni dei politici dei due opposti schieramenti, quella in corso potrebbe diventare una logorante guerra di trincea.

Soldato ucraino ferito

Il sostegno USA vacilla
Altre brutte notizie stanno arrivando a Kiev dai paesi che finora l’hanno sostenuta (se non aizzata) finanziariamente e militarmente contro la Russia e che ora sembrano tirare i remi in barca, alle prese con reali problemi di budget o interessati a congelare lo scontro con Mosca.

La responsabile del bilancio della Casa Bianca, Shalanda Young, ha suonato l’allarme: i fondi stanziati dagli Stati Uniti a sostegno dell’Ucraina potrebbero esaurirsi nel giro di poche settimane a causa della mancata approvazione di nuovi stanziamenti da parte del Congresso americano, bloccato dai Repubblicani di Trump. Young ha rivolto un accorato appello ai congressisti affinché approvino presto un nuovo pacchetto di aiuti finanziari a Kiev, perché altrimenti «l’interruzione del flusso di armi ed equipaggiamenti statunitensi metterà in ginocchio l’Ucraina sul campo di battaglia, mettendo a rischio i successi ottenuti e aumentando la probabilità di vittorie militari russe».

L’esponente dell’amministrazione Biden ha chiarito che gli ultimi stanziamenti «in materia di sicurezza sono già diventati più ridotti e le consegne di aiuti sono diventate più limitate». In cambio dello sblocco dei 106 miliardi di dollari chiesti da Biden per Ucraina e Israele, alcuni senatori repubblicani pretendono l’approvazione di nuove restrizioni all’immigrazione e al diritto di asilo.

La situazione è così incerta che nei giorni scorsi Zelensky ha inviato a Washington il capo del suo staff, Andriy Yermak, il ministro della Difesa e il presidente del parlamento per incontrare personalmente deputati e senatori recalcitranti. L’esito negativo dei colloqui avrebbe però convinto il presidente a rinunciare al previsto video-appello ai legislatori statunitensi. La notte scorsa al Senato i repubblicani (e il democratico di sinistra Bernie Sanders) hanno bloccato l’approvazione di una legge straordinaria che avrebbe stanziato circa 106 miliardi di dollari, di cui 61 di aiuti all’Ucraina e 10 a Israele.

L’UE è divisa
Il problema è che ora anche i rubinetti europei potrebbero chiudersi o comunque farsi più avari. I forti disaccordi tra i paesi dell’Unione Europea potrebbero ritardare o bloccare del tutto il pacchetto di assistenza finanziaria da 50 miliardi promesso da Bruxelles. Nonostante l’impegno dei dirigenti comunitari, poi, la recente decisione della Corte Costituzionale tedesca di limitare l’indebitamento pubblico del paese starebbero complicando il raggiungimento di un accordo con i partner. A bloccare esplicitamente gli aiuti a Kiev c’è il premier ungherese Viktor Orbán, seguito dal nuovo primo ministro slovacco Robert Fico che ha anche sospeso le spedizioni di armi all’Ucraina. Nel frattempo il presidente della Bulgaria, Rumen Radev, ha posto il veto alla fornitura di veicoli blindati all’Ucraina, chiedendo al parlamento di rivedere la legge di ratifica dell’accordo raggiunto con Kiev.

Questo mentre la rivista statunitense “Forbes” ammette che i carri armati “M-1 Abrams” forniti all’Ucraina da Washington non sono adeguati a operare nei terreni fangosi, che rappresentano la normalità sul fronte orientale ucraino durante i mesi invernali e primaverili, a causa dei delicati filtri che impediscono alla turbina del motore di intasarsi. Se non vengono puliti almeno ogni 12 ore, i filtri degli Abramssono soggetti a gravi danni che possono essere riparati solo in strutture specializzate situate in Polonia. Pagine Esteri

6113.- Ucraina nella NATO: “Un sogno remoto”

Aspettando Donald Trump. Poi, subito la Federazione Russa nella NATO.

Mosca annuncia il ritiro delle prime truppe mentre proseguono le mediazioni. Putin vede Scholz e avverte: “Mai la Nato ai nostri confini”.

la NATO ora lo ammette: “situazione critica, prepariamoci al peggio”

Da L’Indipendente, di Giorgia Audiello, 4 dicembre 2023

In un’intervista concessa sabato all’emittente televisiva tedesca Ard e ripresa dall’agenzia di stampa russa Tass, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha ammesso che l’Ucraina si trova in una «situazione critica» e che in futuro bisognerà essere «preparati anche alle cattive notizie» per quanto riguarda la situazione di Kiev sul campo di battaglia. Tuttavia, Stoltenberg ha sottolineato che le guerre si sviluppano in fasi e bisogna essere pronti a «sostenere l’Ucraina sia nei momenti buoni che in quelli cattivi». Il segretario dell’Alleanza ha anche spiegato che serve aumentare la produzione di munizioni e che «i paesi della NATO non sono stati in grado di soddisfarne la crescente domanda». Ha comunque rifiutato di consigliare a Kiev cosa dovrebbe fare: «Lascerò che siano gli ucraini e i comandanti militari a prendere queste difficili decisioni operative», ha detto Stoltenberg. Al contempo, in Ucraina la situazione politica è sempre più instabile, in quanto le opposizioni stanno intensificando le pressioni e le critiche verso il presidente Volodymyr Zelensky che vede sempre più a rischio il suo ruolo istituzionale soprattutto a causa del fallimento della cosiddetta “controffensiva”. È in atto, dunque, una lotta per il potere, considerato anche che sono vicine le elezioni, previste per il marzo 2024 e che, a causa dell’insuccesso sul campo, Zelensky è diventato facile bersaglio dell’establishment politico, ingaggiando anche una battaglia in tal senso con il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valery Zaluzhny. Inoltre, il tentativo di reprimere il dissenso da parte del presidente non fa altro che inasprire la situazione, tanto che Ivanna Klympush-Tsintsadze, vicepresidente durante gli anni di Poroshenko al potere, ha parlato di «involuzione autoritaria» e aspre critiche sono arrivate anche dallo stesso ex presidente Petro Poroshenko e dall’attuale sindaco di Kiev, Vitali Klitschko.

L’insieme delle dichiarazioni di Stoltenberg e dei principali esponenti dell’opposizione ucraina lasciano intendere la volontà, se non di sostituire, quantomeno di ridimensionare il ruolo di Zelensky, spingendolo eventualmente anche ad eventuali trattative col Cremlino e diventato scomodo da diverso tempo anche per gli “alleati” occidentali a causa degli scarsi risultati sul campo che hanno prolungato indefinitamente il conflitto. Il sindaco di Kiev, Klitschko, in un’intervista al notiziario svizzero 20 Minuten, ha accusato il presidente di aver commesso diversi errori, chiedendo onestà riguardo alla reale situazione dell’Ucraina sul campo: «Zelensky sta pagando per gli errori che ha commesso», ha affermato Klitschko. «Naturalmente possiamo mentire al nostro popolo e ai nostri partner, ma non si può farlo per sempre», ha aggiunto, offrendo allo stesso tempo un chiaro appoggio al capo di stato maggiore ucraino, il generale Valery Zaluzhny. Proprio con quest’ultimo, Zelensky ha intrattenuto recentemente un aspro confronto, in quanto il generale ha ammesso in un’intervista all’Economist che i combattimenti sono arrivati ad una fase di stallo. Il presidente ucraino ha reagito rimproverando al generale di non essere capace di scegliere i titoli e lo ha ammonito di stare lontano dalla politica. I detrattori di Zelensky, però, sostengono il generale, che è uno dei principali concorrenti nella lotta di potere che si sta svolgendo nelle stanze di comando di Kiev. Con riferimento all’intervista del capo di Stato maggiore, Klitschko ha asserito che «ha detto la verità. A volte le persone non vogliono sentire la verità. Ha spiegato e giustificato qual è la situazione attuale».

Tensioni si sono verificate anche con l’ex presidente Poroshenko al quale è stato impedito di lasciare l’Ucraina, in quanto aveva intenzione di incontrare il primo ministro ungherese Viktor Orban, secondo quanto riferito dai servizi di sicurezza di Kiev, la SBU, che hanno respinto alla frontiera l’ex capo politico. Orban è mal visto da Kiev a causa della sua vicinanza con la Russia e perché “esprime sistematicamente una posizione anti-ucraina”, secondo quanto dichiarato dalla SBU. Inoltre, l’intelligence ucraina sostiene che l’incontro sarebbe stato utilizzato da Mosca “nelle sue operazioni informative e psicologiche”. Il tutto non ha fatto altro che intensificare le accuse di autoritarismo nei confronti di Zelensky: «Ad un certo punto non saremo più diversi dalla Russia, dove tutto dipende dal capriccio di un uomo», ha dichiarato il sindaco di Kiev.

Per quanto riguarda gli sviluppi sul campo, Stoltenberg ha detto che non ci sono stati progressi significativi negli ultimi mesi e ha rifiutato di anticipare una prospettiva su ciò che potrebbe accadere una volta cessato il conflitto. Tuttavia, il ministero della Difesa russo – che comunica quotidianamente i risultati dal fronte – ha reso noto che le forze russe hanno migliorato le posizioni sia lungo la linea del fronte nell’area di Donetsk, che nell’area di Kupyansk (nell’oblast di Charkiv): la scorsa settimana, il gruppo tattico russo meridionale ha continuato a migliorare le sue posizioni in prima linea nell’area di Donetsk, dove ha conquistato l’insediamento di Artyomovskoye. In direzione di Kupyansk, invece, le unità del Gruppo tattico occidentale russo hanno migliorato le loro posizioni vicino alla località di Sinkovka nella regione di Kharkov e hanno respinto 18 attacchi nemici. Il ministero della Difesa ha anche riferito che le forze ucraine hanno tentato senza successo di sbarcare sulla riva sinistra del fiume Dnepr vicino a Kherson e che, durante l’operazione, le truppe di Kiev hanno perso fino a 450 militari e 62 unità di equipaggiamento. Inoltre, l’esercito russo pare vicino alla conquista della città strategicamente significativa di Avdiivka (a Donetsk), che l’Ucraina detiene dal 2014.

Anche per via dell’andamento del conflitto sul campo, secondo le ultime indiscrezioni starebbero aumentando le pressioni su Zelensky affinché avvii dei colloqui di pace con Mosca, mentre il sostegno occidentale all’Ucraina appare sempre più incerto anche a causa della situazione in Medio Oriente. Lo stesso presidente ucraino ha ammesso che il tentativo dell’Ucraina di forzare la ritirata russa non ha ottenuto i risultati desiderati e alla domanda se si senta sotto pressione per avviare negoziati di pace ha risposto «non ancora», aggiungendo però che «certe voci vengono sempre ascoltate». Anche le dichiarazioni di Stoltenberg circa la «situazione critica» di Kiev potrebbero essere lette come il tentativo di predisporre il terreno per delle trattative di pace, preparando in tal senso sia l’amministrazione ucraina che l’opinione pubblica occidentale.

[di Giorgia Audiello]

Putin ha detto: “Noi non vogliamo la guerra, ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente.

Il commento di Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo di ISPI

C’è una prima, possibile svolta nella crisi al confine ucraino: Mosca ha annunciato l’inizio del ritiro delle truppe dopo la “conclusione delle esercitazioni militari”. Lo ha detto il portavoce del ministero della Difesa russo spiegando che le unità si stanno spostando nelle loro postazioni militari permanenti. Se confermata, la smobilitazione – che era “già pianificata” e “non dipende dall’isteria occidentale”, ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov – costituirebbe un chiaro segnale di de-escalation nella peggior crisi militare tra Russia e Nato dai tempi della Guerra fredda. “Il 15 febbraio è il giorno del fallimento della propaganda di guerra dell’Occidente. Annientati senza sparare un colpo”, ha scritto la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova in riferimento alla speculazione statunitense di un possibile attacco il 16 febbraio. Intanto il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha incontrato a Mosca il presidente Vladimir Putin: “Non vogliamo una guerra – ha detto Putin – ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente”. Scholz, da parte sua, ha sottolineato come la sicurezza dell’Europa non possa “essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Intanto i deputati della Duma – il ramo basso del Parlamento russo – hanno approvato un appello affinché Mosca riconosca le autoproclamate repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, nel Donbass ucraino, dove la Russia è accusata da tempo di sostenere i separatisti. La Russia controlla già la penisola di Crimea che ha occupato illegalmente nel 2014 e sostiene le forze separatiste che hanno preso il controllo di parti dell’Ucraina orientale, in un conflitto che ha causato più di 14.000 vittime.

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov suggerisce al presidente Putin di continuare a percorrere il dialogo diplomatico.

Mosca verso il ritiro?

Non è ancora chiaro quante unità siano coinvolte nel ritiro e quale impatto avrà la decisione di Mosca sul numero complessivo di truppe che circondano l’Ucraina. Secondo i dati in circolazione, sono circa 130mila le unità russe schierate lungo frontiera comune. “Unità dei distretti militari meridionali e occidentali, che hanno completato i loro compiti, hanno già iniziato a caricare i mezzi di trasporto ferroviari e terrestri e oggi inizieranno a rientrare alle proprie basi – ha dichiarato in una nota il maggiore generale Igor’ Evgen’evič Konašenkov capo del Dipartimento dell’informazione e delle comunicazioni esterne del Ministero della Difesa nonché portavoce ufficiale dello stesso – mentre le misure per l’addestramento al combattimento si avvicinano alla conclusione, le truppe, come sempre avviene, effettueranno marce combinate alle proprie basi permanenti”. La decisione di Mosca di ritirare le truppe dalla frontiera potrebbe essere legata alle risposte ricevute da Washington riguardo alle richieste di sicurezza avanzate dal Cremlino. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha infatti dichiarato che gli Usa e la Nato hanno dato una risposta “positiva” ad “alcune delle iniziative” russe “sulla sicurezza” che erano state “respinte per lungo tempo”: “L’Occidente alla fine ha risposto, quando si è reso conto che stiamo discutendo seriamente la necessità di cambiamenti radicali nel campo della sicurezza – ha spiegato – La sua risposta è stata positiva ad alcune delle iniziative che aveva respinto per lungo tempo”.

Nato: un sogno remoto?

A contribuire ad un allentamento delle tensioni avevano contribuito ieri le dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che – in una conferenza stampa congiunta con il cancelliere tedesco Olaf Scholz – aveva affermato che l’ingresso di Kiev nella Nato “potrebbe essere solo un sogno remoto”. Sebbene abbia sottolineato che l’Ucraina è ancora desiderosa di aderire all’alleanza militare, Zelensky ha anche riconosciuto che la decisione non spetta a Kiev. Scholz aveva rincarato la dose, aggiungendo che Mosca “sta facendo pressione su un tema che non è in alcun modo in agenda”. Messaggi chiaramente indirizzati alla controparte che – a sua volta – ha pubblicato un video inconsueto in cui il ministro degli Esteri Lavrov suggerisce al presidente Putin di continuare a percorrere il dialogo diplomatico. “Credo che le nostre possibilità siano tutt’altro che esaurite”, dice Lavrov nel video, riferendosi ai negoziati della Russia con l’Occidente. “Proporrei di continuarli e intensificarli”. Il video si conclude con Putin che risponde: “Bene”. 

Nessuno vuole la guerra?

Al termine dell’incontro con Scholz, il presidente russo Putin ha detto: “Noi non vogliamo la guerra, ma non accetteremo mai l’allargamento della Nato fino ai nostri confini, è una minaccia che noi percepiamo chiaramente. Le risposte dell’Alleanza sulla sicurezza non soddisfano le nostre richieste” ha aggiunto, ma ci sono dei “ragionamenti” su cui la Russia “è pronta a lavorare”. Scholz, da parte sua, ha sottolineato come la sicurezza dell’Europa non possa essere costruita contro la Russia ma in cooperazione con la Russia”. Sulla possibile adesione dell’Ucraina alla Nato, Scholz ha commentato: “Sono stato chiaro che su alcune posizioni non ci sono possibilità di negoziare”. Quanto al riconoscimento da parte di Mosca delle repubbliche separatiste filo-russe del Donbass, dove il presidente russo ha detto essere in corso “un genocidio”, il cancelliere tedesco ha parlato di una “catastrofe politica” e una “violazione degli accordi di Minsk”. Scholz ha anche approfittato per lanciare una frecciatina nei confronti di Putin. Quella dell’espansione della Nato ad est “non è una questione immediata e non sarà affrontata mentre saremo al governo” ha detto, aggiungendo: “Ma non so quanto il presidente intenda restare ancora”.

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5975.- Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina.

Così anche Vienna. E Budapest vieta le manifestazioni pro organizzazioni terroristiche, mentre gli arabi si schierano con gli arabi. La battaglia di Israele e dell’Occidente non è e non deve essere contro i palestinesi, contro gli arabi, ma contro Hamas e tutto ciò che gli ha portato consensi e risorse, altrimenti, così, si fomentano le divisioni, si invita all’emulazione e si fa il gioco di Hamas, di Netanyahu, di Khomeyni e di chissà chi altro, Biden, per esempio. Impossibile che questo messaggio non detti la linea politica nelle cancellerie europee. Sembra quasi che i nostri governi siano stati imbarcati dalla portaerei USS Ford, che mirino a colpire l’Iran, quindi, a destabilizzare il Medio Oriente, anziché a dare impulso alla politica dei due stati, complementari fra loro, indicata dall’ONU. La via fra la Cina e l’Europa sarebbe impedita e, infatti, Pechino ha preso le distanze da Tel Aviv dichiarando di opporsi ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale.

La Repubblica dell’Algeria e della Tunisia hanno espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina

Proseguendo l’Italia in questa prospettiva, verrebbe meno il Nuovo Piano Mattei, mentre la politica ondivaga di Erdoğan si affermerebbe.

Da Pagine Esteri, l’articolo di Marco Santopadre, 13 Ott 2023.

Parigi, Berlino e Londra: vietato manifestare per la Palestina

Pagine Esteri, 13 ottobre 2023 – Manifestare a sostegno dei diritti del popolo palestinese sta incredibilmente diventando un atto che in alcuni paesi europei può essere considerato un reato.
I governi di Francia, Germania e Regno Unito, in particolare, hanno varato in queste ore delle misure dirette a impedire le manifestazioni pubbliche di solidarietà con la causa palestinese e a colpire addirittura la libera espressione di opinioni critiche nei confronti di Israele.

Scontri a Parigi, vietata ogni manifestazione per la Palestina 
La Francia è il paese che ha imposto finora il divieto più draconiano. Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, ha proibito ogni genere di manifestazione contro l’assedio e i bombardamenti israeliani che, mentre scriviamo, hanno già causato la morte di 1600 persone nella Striscia di Gaza. Darmanin ha comunicato la misura ai prefetti di tutto il Paese attraverso un telegramma, nel quale sono contenute le “rigide consegne” da applicare.

Le associazioni di solidarietà, i partiti di sinistra e le comunità palestinesi e arabe hanno però deciso di infrangere il divieto e scendere comunque in piazza. A Parigi ieri alcune migliaia di persone si sono radunate in Place de la République, ma sono state attaccate dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa che hanno tentato, senza successo, di disperdere i presenti usando manganelli, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Nella capitale francese la polizia ha effettuato dieci fermi. Manifestazioni più piccole si sono tenute ieri anche a Tolosa, Nimes, Bordeaux, Nantes e altre località.
Già lunedì scorso gli agenti avevano caricato e disperso circa 150 persone che si erano radunate in piazza a Lione per protestare contro l’occupazione della Palestina.

Il governo francese non sembra volersi limitare a impedire le manifestazioni pacifiche, violando uno dei principi basilari della sua stessa costituzione. Darmanin ha annunciato infatti che il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), una formazione di sinistra radicale, è oggetto di un’indagine in quanto accusato di “favoreggiamento del terrorismo” a causa di una dichiarazione diffusa dalla sua segreteria in cui si esprime solidarietà alla resistenza palestinese. Anche la France Insoumise, il principale movimento d’opposizione di sinistra del paese, è oggetto di un tentativo di linciaggio politico e mediatico perché i suoi principali esponenti, pur condannando l’azione di Hamas e l’uccisione di numerosi civili israeliani, si rifiutano di definire “terroristica” l’organizzazione palestinese.
Inoltre il Ministero degli Interni ha annunciato l’apertura di un iter che dovrebbe portare allo scioglimento e alla chiusura di alcune associazioni e organizzazioni che accusa di apologia dell’antisemitismo o del terrorismo, citando in particolare la sigla “Palestine Vaincrà”, legato alla sinistra palestinese, già oggetto di provvedimenti persecutori negli anni scorsi.
Come se non bastasse il ministro ha affermato che i cittadini stranieri autori di eventuali reati legati alla propaganda filopalestinese «devono vedersi sistematicamente revocato il permesso di soggiorno ed essere espulsi».

La Germania contro Hamas, ma non solo
Apparentemente, il governo tedesco – formato da socialdemocratici, verdi e liberali – sembra per ora voler proibire esclusivamente le manifestazioni affini al movimento islamista palestinese Hamas, ma l’applicazione di questa misura viene già applicata in maniera relativamente indiscriminata.
La polizia di Berlino ha infatti già vietato due manifestazioni previste mercoledì a sostegno dei diritti del popolo palestinese nella capitale perché «avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico».
Comunque mercoledì a Berlino sono scese in piazza alcune migliaia di persone contro la quale si è scagliata la polizia mobilitata in forze, che ha realizzato 140 fermi e ha denunciato 13 persone per diversi reati. I manifestanti si sono radunati soprattutto nel quartiere di Neukoelln che, insieme a quello di Kreuzberg, ospita una notevole comunità araba e turca.

Anche in Germania, come in Francia, l’esecutivo intende sciogliere alcune associazioni e organizzazioni propalestinesi. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz, nel corso di un intervento al Bundestag, ha annunciato l’intenzione di sciogliere l’associazione Samidoun, accusata di aver festeggiato a Berlino l’attacco di Hamas contro Israele. In realtà la “rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi” Samidoun è stata fondata nel 2011 da alcuni membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), un partito della sinistra marxista palestinese che è inserito nelle liste nere dell’Unione Europea ma le cui attività finora non erano state bandite in Germania.
Scholz ha aggiunto che chiunque bruci le bandiere di Israele commette un reato e verrà punito.

Kissinger: la Germania ha sbagliato ad accettare troppi immigrati

Così, Kissinger, soffiando sul fuoco. ndr


Sulla vicenda interviene dagli Stati Uniti l’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, che in un’intervista concessa all’emittente televisiva “Welt Tv”, commentando le manifestazioni filopalestinesi verificatesi nei giorni scorsi in numerose grandi città europee, ha affermato che la Germania ha compiuto un «grave errore» accogliendo per anni un numero eccessivo di migranti appartenenti a «culture, fedi religiose e idee» troppo diverse rispetto a quelle del paese e dell’UE nel suo complesso. La «accoglienza eccessiva», ha affermato il centenario ex segretario di Stato, nato in Germania ma fuggito negli USA nel 1938 per sottrarsi al nazismo, a sua avviso «ha creato un gruppo di pressione in ogni Paese” che ha praticato per anni politiche migratorie poco caute.

Anche in Austria, la polizia di Vienna ha vietato una manifestazione pro-palestinese, motivando la decisione con lo slogan “Dal fiume al mare” usato per pubblicizzare la protesta, ritenuto un appello alla violenza. «Fondamentalmente è questo: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, uno slogan dell’Olp adottato da Hamas» ha spiegato il capo della polizia della capitale austriaca, Gerhard Puerstl.

«L’Ungheria non consentirà alcuna manifestazione a sostegno delle “organizzazioni terroristiche”» ha dichiarato oggi alla radio pubblica ungherese il primo ministro Viktor Orban (stretto alleato del governo israeliano), aggiungendo che tutti i cittadini ungheresi dovrebbero sentirsi al sicuro, indipendentemente dalla loro fede o origine.

Londra: anche sventolare la bandiera palestinese potrebbe essere vietato
Anche il governo conservatore del Regno Unito ha impresso un giro di vite alla libertà di espressione e manifestazione. Nei giorni scorsi si sono già svolte alcune manifestazioni a favore della Palestina sia a Londra sia in altre città ma il ministro dell’Interno Suella Braverman ha esortato la polizia ad essere inflessibile nei confronti di comportamenti e slogan ritenuti inaccettabili e a valutare se sventolare la bandiera palestinese possa essere considerato un reato assimilabile all’esaltazione del terrorismo.

Braverman ha inviato una lettera ai capi della polizia britannica per sottolineare che «non sono solo i simboli e i canti espliciti pro-Hamas a destare preoccupazione», ed ha invitato le forze di sicurezza a valutare se i canti o i simboli esposti possano essere intesi come «espressione di un atteggiamento violento». Quattro persone sono già state arrestate nel corso di una manifestazione organizzata a Manchester. – Pagine Esteri

5941.- Verso il tramonto di Zelensky

La vittoria elettorale dell’ex premier filorusso Robert Fico in Slovacchia limiterà il supporto all’Ucraina: “Basta armi a Kiev”..

Robert Fico © ANSA/EPA

Il partito Smer-Sd di Fico ha ottenuto il 22,9% dei consensi, quindi, ben 42 dei 150 seggi del parlamento monocamerale di Bratislava.

La redazione di Affarinternazionali commenta così la vittoria elettorale dell’ex premier filorusso Robert Fico in Slovacchia. Contrariamente alle previsioni iniziali, i socialdemocratici del partito Smer di Robert Fico hanno vinto le elezioni parlamentari. Dopo lo spoglio di quasi il 99% dei distretti elettorali il partito d’opposizione Smer ha ottenuto il 23,3% dei voti. In questo podcast, Matteo Bonomi analizza le implicazioni di questo voto, importante per gli equilibri europei: “La maggior parte del supporto che poteva dare la Slovacchia all’Ucraina è già stato dato. Da qui a venire si tratterà di un supporto limitato. La vera sfida sarà quella di collocare la Slovacchia all’interno di una difficile stagione di riforme nell’Unione europea”.

Fico si riprende la Slovacchia, ‘basta armi a Kiev’ 

Svolta in Slovacchia dove l’ex premier filorusso Robert Fico ha vinto le elezioni legislative anticipate e si è ripreso il Paese con due parole d’ordine: stop all’invio di armi all’Ucraina e stop ai migranti.

Dopo lo spoglio dei voti nella notte che ha clamorosamente smentito i primi dati degli exit poll e confermato invece le previsioni della vigilia, Bratislava si è svegliata stamattina molto più vicina all’Ungheria sovranista di Viktor Orban che a Bruxelles. Fico lunedì riceverà l’incarico di formare un esecutivo attraverso negoziati con almeno due altri partiti e che lo stesso ex premier prevede possano durare “due settimane”. L’assegnazione dell’incarico è stato preannunciato dalla presidente slovacca Zuzana Caputova dopo che i risultati delle elezioni di sabato hanno attribuito a Direzione-Socialdemocrazia (Smer-Sd) di Fico il 22,9% dei consensi e quindi ben 42 dei 150 seggi del parlamento monocamerale di Bratislava.

Secondo è arrivato il partito liberale filo-Ue e pro-Occidente Slovacchia progressista (Ps) di Michal Simecka (18% e 32 deputati), che però non ha perso le speranze di formare una propria maggioranza coinvolgendo anche lui due dei sette partiti entrati in parlamento. Nelle sue prime dichiarazioni dopo il voto, il post-comunista Fico ha ribadito che il suo governo sarà “pronto ad aiutare l’Ucraina a livello umanitario e con la ricostruzione, ma non con gli armamenti”, anche perché la Slovacchia “ha problemi maggiori che non l’Ucraina”. Del resto già in campagna elettorale, senza nascondere le proprie simpatie per il presidente russo Vladimir Putin, Fico aveva sostenuto apertamente l’invasione dell’Ucraina “fascista” e promesso, oltre che di fermare gli aiuti militari a Kiev, anche di impedirne l’adesione alla Nato. “Altri morti sono inutili”, ha detto oggi, aggiungendo: “Meglio 10 anni di trattative di pace che lasciare altri 10 anni la gente a uccidersi” per poi “constatare che siamo rimasti dove siamo oggi”.

Insomma un’inversione a U per un Paese che condivide il confine orientale con l’Ucraina ed è stato uno dei suoi più forti sostenitori sin dall’inizio del conflitto, profilandosi come la prima nazione ad inviare missili di difesa aerea e jet da combattimento all’inizio di quest’anno e come uno dei maggiori donatori europei di Kiev in proporzione alle dimensioni della sua economia. Anche se Fico oggi ha assicurato che “la politica estera slovacca non cambierà”, gli analisti prevedono invece una svolta radicale che avvicinerà il Paese a quello di Orban. Non a caso il leader ungherese ha subito esultato su X: “Indovina chi è tornato! Congratulazioni a Robert Fico per la sua indiscutibile vittoria alle elezioni parlamentari slovacche. È sempre bello lavorare insieme a un patriota. Non vedo l’ora!”. Pur assicurando che “ovviamente siamo membri dell’Ue”, Fico ha ricordato che “questo non significa che non posso criticare le cose dell’Ue che non mi piacciono”. Ad esempio, “useremo anche la forza per proteggere il nostro Paese dai migranti”, ha assicurato, avvertendo che “non saranno belle immagini”. Ma prima di realizzare i suoi disegni, Fico dovrà trovare almeno due alleati che, come ha lasciato intendere, potrebbero essere soprattutto il Partito nazionale slovacco (SnS, 5,6% e 10 seggi), formazione di destra nazionalista e populista con cui ha già governato due volte; ma anche il Partito Voce-Socialdemocrazia (Hlas-Sd, 14,7% e 27 seggi) del suo arci rivale Peter Pellegrini, pacifista sull’Ucraina però filo-europeo. Pellegrini ha annunciato stamane di non avere preferenze su alcuna coalizione. Secondo indiscrezioni propenderebbe però per il Movimento dei cristiani democratici (Kdh, 6,8% e 12 seggi) su cui Simecka punta per attrarre anche l’Hlas e impedire a Fico di governare.

Fico: “La Slovacchia ha problemi piu’ importanti dell’Ucraina”. “Dopo la vittoria alle elezioni, cercheremo di organizzare colloqui di pace

01 ottobre 2023, da internazionale.it

Per capire il significato di questo risultato basta fare caso a chi si è complimentato per primo con Fico: Viktor Orbán, il capo del governo ungherese che finora è rimasto isolato nella sua vicinanza a Putin. Su X, il vecchio Twitter, Orbán ha scritto: “Guarda un po’ chi è tornato! Congratulazioni a Robert Fico per la sua bella vittoria alle elezioni slovacche. Sono felice di lavorare con un patriota”.

In effetti Orbán ha buoni motivi per rallegrarsi, perché se Fico riuscirà a formare un governo – non è ancora sicuro, considerando che può contare solo su un quarto dei voti – il leader ungherese si sentirà meno solo in occasione dei prossimi appuntamenti europei. È probabile che entrambi contesteranno il sostegno all’Ucraina e i progetti d’integrazione dell’Unione europea, e le decisioni che necessitano di un ampio consenso.

Usa, l’accordo che evita lo shutdown ha fatto saltare i fondi all’Ucraina. Biden: “Mi aspetto che il sostegno a Kiev continui”

Usa, l’accordo che evita lo shutdown fa saltare i fondi all’Ucraina. Biden: “Mi aspetto che il sostegno a Kiev continui”

Dagli USA, un compromesso che indebolisce il sostegno all’Ucraina

Stop agli aiuti all’Ucraina, almeno per i prossimi 45 giorni: è il prezzo pagato dal presidente Biden per l’accordo raggiunto poco prima della mezzanotte di sabato 30 settembre: è stato così sventato, in extremis, il rischio di uno shutdown federale che, dal primo ottobre, avrebbe privato di servizi decine di milioni di cittadini e dello stipendio milioni di dipendenti pubblici.

Insieme alla vittoria nelle elezioni in Slovacchia dell’ex premier populista Robert Fico, contrario all’invio di armi a Kyiv, il compromesso a Washington fra democratici e repubblicani potrebbe essere un segnale di indebolimento del sostegno dell’Occidente all’Ucraina. Ma il presidente Usa rassicura: “Mi aspetto che il sostegno all’Ucraina continui”; e auspica che l’appoggio a Kyiv “vada avanti”, nonostante quanto previsto dalla legge da lui appena firmata – lo stop riguarda nuovi aiuti, non quelli già autorizzati, ed è temporaneo -.

Joe Biden aggiunge: “Non possiamo assolutamente smettere di aiutare l’Ucraina contro la brutalità della Russia… Non la abbandoneremo… Kyiv e i nostri alleati europei possono contare su di noi”. Ma è fuor di dubbio che i repubblicani, di qui alle elezioni, saranno più restii ad autorizzare spese per l’Ucraina, che molti degli aspiranti alla nomination non considerano un “interesse vitale” degli Stati Uniti.

L’accordo in extremis

Nella notte tra sabato e domenica, Biden ha firmato e tradotto in legge l’accordo varato da Camera e Senato, quando lo shutdown sembrava ormai inevitabile e dipendenti e cittadini erano già stati avvertiti dell’impatto della ‘serrata’’. Le agenzie federali destinate a una provvisoria chiusura, come parchi e musei, avevano già notificato ai loro dipendenti di stare a casa. Militari, forze dell’ordine e personale addetto a servizi essenziali avrebbero invece dovuto lavorare senza retribuzione, almeno fin quando il funzionamento della pubblica amministrazione non fosse stato di nuovo garantito.

Alla Camera, la misura è passata con 91 voti contrari (su 445), 90 repubblicani e un democratico, Mike Quigley, che spiega di aver detto ‘no’ per l’Ucraina: il compromesso “è una vittoria per Putin e per chi simpatizza per Putin ovunque nel Mondo”.

Ma il leader dei senatori democratici Chuck Schumer ha commentato: “Gli americani possono tirare un sospiro di sollievo… Dopo avere provato a tenere in ostaggio l’Amministrazione, i repubblicani del Maga – i ‘trumpiani’, ndr – non hanno ottenuto nulla”. Ma la distanza fra le parti resta notevole, in vista in un accordo definitivo.

Al Senato, i contrari sono stati solo nove (su 100), tutti repubblicani. L’intesa ‘last minute’ allarga, però, la frattura nel gruppo repubblicano alla Camera, dove i ‘trumpiani’, contrari al compromesso, mettono in discussione la leadership dello speaker Kevin McCarthy, la cui elezione, all’inizio dell’anno, era stata molto sofferta. Dal gennaio 2021, McCarthy oscilla tra la linea ‘trumpiana’ e quella dell’ala più moderata del suo partito.

L’accordo proroga fino al 15 novembre il tempo a disposizione per trovare un accordo duraturo sul finanziamento della spesa pubblica e chiude, per il momento, settimane di negoziati inconcludenti: il sì è venuto prima dalla Camera, dove i repubblicani sono maggioranza, e poi dal Senato, dove prevalgono i democratici.

McCarthy, che fino a venerdì pareva deciso, o rassegnato, ad andare allo shutdown, ha cambiato idea in una mattina che la stampa Usa definisce “caotica” e ha avallato la ‘pecetta’ sui conti dello Stato. L’intesa autorizza un aumento dei fondi per aiuti in caso di disastri nazionali e lascia inalterati gli altri livelli della spesa pubblica.

Poche ore prima, un’altra proposta di compromesso presentata da McCarthy s’era infranta contro l’opposizione dell’estrema destra del suo partito, contraria a gonfiare la spesa pubblica, nonostante essa sia cresciuta proprio sotto la presidenza di Donald Trump, portando il debito Usa a livelli senza precedenti (oltre 32 mila miliardi di dollari).

Rapporti di forza, impeachment e processi

Nei giorni scorsi, i rapporti di forza in Congresso fra democratici e repubblicani sono divenuti più precari per la morte della senatrice democratica della California Dianne Feinstein, oltre 90 anni e, da tempo, molto malata.

Al suo posto, il governatore della California Gavin Newsom intende nominare, fino a che non si svolgano elezioni suppletive, Laphonza Butler, una nera attualmente a capo della Emily’s List, un’organizzazione nazionale che aiuta le donne a raggiungere posizioni di rilievo in politica. Butler è attiva nella politica californiana da circa 15 anni, ha guidato il più grande sindacato dello Stato ed è stata consigliere della vice-presidente Kamala Harris.

La nomina di Butler puntella la maggioranza democratica al Senato, estremamente esigua: senza Feinstein, ci sono 47 senatori democratici, tre indipendenti che votano con i democratici e 49 repubblicani.

E se lo shutdown è stato temporaneamente sventato, i contenziosi nel Congresso tra repubblicani e democratici restano numerosi ed aspri, specie dopo l’avvio, alla Camera, di audizioni per decidere se lanciare o meno una procedura di impeachment contro il presidente Biden: i repubblicani mirano a “provare le responsabilità” del presidente, che avrebbe favorito gli affari del figlio Hunter in Cina e in Ucraina, e convincere l’opinione pubblica e, in particolare, i senatori, cui spetta pronunciarsi sull’impeachment ser la Camera mette sotto accusa il presidente.

Finora, i repubblicani non sono però riusciti a dimostrare che Biden abbia tratto qualsiasi vantaggio, politico o economico, dagli affari del figlio.

In vista dello shutdown, il Congresso stesso s’era messo in ‘modalità di crisi’. Molti repubblicani erano però preoccupati: una serrata dei servizi pubblici avrebbe rallentato l’economia e creato difficoltà alla vita di decine di milioni di cittadini, fra cui i sette milioni, specie donne e bambini, che beneficiano di programmi assistenziali; e avrebbe avuto un impatto elettorale negativo, perché la responsabilità dei problemi sarebbe ricaduta sull’opposizione..

Le vicende congressuali si intrecciano con la campagna elettorale e anche con le vicende giudiziarie di Donald Trump, che sarà oggi in aula a New York nel processo per i suoi beni ‘gonfiati’. Giorni fa, un suo co-imputato in Georgia per il tentativo di rovesciare l’esito del voto del 2020 nello Stato s’è dichiarato colpevole: è il primo a farlo fra i 19 a giudizio, con una mossa che indebolisce l’assetto difensivo del magnate ex presidente.

Trump ha detto: “Quand’ero presidente, Putin non invase l’Ucraina perché gli dissi di non farlo”

Domenica, parlando nello Iowa della guerra in Ucraina, Trump ha detto: “Quand’ero presidente, Putin non invase l’Ucraina perché gli dissi di non farlo”. Potenza della parola?, o ennesima balla?

5874.- Non si ferma un fiume. La Russia è e sarà sempre in Europa. Una panoramica su gas, sanzioni e sull’Italia.

Gas Russo Via Mare

Da Redazione Start Magazine: “L’Ue importa volumi record di gas naturale liquefatto dalla Russia.” Report Ft

L’Europa sta ancora importando un sacco di gas dalla Russia

Sotto forma di gnl. Al punto che la Spagna è diventata il secondo acquirente al mondo, dopo la Cina. Il motivo sono i contratti a lungo termine che ancora legano a Mosca

Una nave che trasporta gas naturale liquefatto

Una nave che trasporta gas naturale liquefatto(FOTO: BUGTO/GETTY IMAGES)

Da Wired.it

Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’Unione europea ha deciso di liberarsi dai combustibili fossili di Mosca, per tagliare un enorme flusso di denaro che sarebbe andato a finanziare le operazioni militari. Tuttavia, nei primi sette mesi dell’anno i paesi europei hanno importato il 40% in più di gas naturale liquefatto (gnl) rispetto allo stesso periodo del 2021, l’anno precedente all’aggressione su larga scala.

Secondo l’ultimo report di Global Witness, su dati della società di analisi delle materie prime Kpler, si tratta di circa 22 milioni di metri cubi di gnl, arrivato via nave in Unione europea dalla Russia tra gennaio e luglio 2023. A oggi, la Spagna è diventata il secondo più grande acquirente di gnl russo a livello mondiale, con il 18% del totale, seconda solo alla Cina, con il 20%, e il Belgio, con il 17% occupa il terzo posto.

Di fatto, nei primi sette mesi del 2023, i vari paesi dell’Unione europea hanno acquistato circa il 52% di tutti i 41,6 milioni di metri cubi di gas naturale liquefatto esportati dalla Russia, un aumento consistente rispetto al 49% e al 39% del 2022 e del 2021. Cifre che porteranno l’Unione a raggiungere il suo record personale di importazione di gnl dalla Russia entro la fine dell’anno, per un ammontare complessivo di circa 5,3 miliardi di euro, secondo le stime di Global Witness.

Oltre alla necessità europea di riempire le scorte di carburanti alternativi al gas da gasdotto, la cui fornitura dalla Russia (salvo il South Stream) è ormai completamente tagliata, uno dei motivi fondamentali dietro a questo aumento delle importazioni risiede nella forza dei contratti a lungo termine firmati tra i vari stati membri e Mosca, molto prima dell’invasione su larga scala. Per l’analista di Kpler Adam Bennett, intervistato da Business Insider, circa il 90% dei flussi di gnl russo dei prossimi dieci anni sono destinati a Belgio, Francia, Paesi Bassi e Spagna.

Pur trattandosi di volumi ancora nettamente inferiori rispetto alla quantità di gas importata in Europa tramite i gasdotti fino al 2021, pari a circa 140 miliardi di metri cubi all’anno, Bruxelles sta cercando delle scappatoie legali per tranciare i contratti a lungo termine senza pagare penali e impedendo alle società russe di prenotare le capacità infrastrutturali a loro già assegnate. Attualmente ci sono varie proposte sul tema, inserite all’interno della posizione negoziale degli stati membri sulle nuove regole del mercato del gas in Unione europea, ma ci vorranno ancora mesi prima che le negoziazioni con il Parlamento giungano a conclusione.

Le sanzioni si applicano ai gasdotti e per il GNL vengono aggirate. “L’Europa importa più gas liquefatto dalla Russia di prima della guerra”. Ma allora? L’Europa compra e comprerà gas russo.

L’Ue sta abbandonando il gas russo, nonostante l’aumento di importazioni di GNL. Così si dice, ma quest’anno l’Ue è destinata a importare volumi record di gas naturale liquefatto dalla Russia, nonostante l’obiettivo del blocco di liberarsi dai combustibili fossili russi entro il 2027. Scrive il Financial Times.

Una nave metaniera è ormeggiata in un terminale GNL nel nord della Germania.

Da Euronews, di Mared Gwyn Jones

Dopo le notizie secondo cui gli acquisti di gas naturale liquefatto (GNL) russo da parte dell’Ue sono aumentati del 40% rispetto ai livelli prebellici, la Commissione europea evidenzia come le importazioni di combustibili fossili dalla Russia siano diminuite drasticamente.

Anche se i volumi di GNL sono aumentati, si tratta di un livello relativamente basso e di una quota molto ridotta delle nostre importazioni energetiche complessive“. Questo è quanto ha dichiarato ai giornalisti un portavoce dell’esecutivo dell’Ue, precisando che l’Europa “si sta allontanando dal gas russo il più rapidamente possibile“.

Secondo i dati, nella prima metà di quest’anno, meno del 15% delle importazioni complessive di gas dell’Ue proveniva dalla Russia, rispetto al 45% del 2021.

Ma un rapporto di Global Witness ha rivelato che la quantità di gas naturale liquefatto importato nell’Ue dalla Russia tra gennaio e luglio di quest’anno è aumentata del 39,5% rispetto allo stesso periodo del 2021, prima dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina.

In questo contesto, la Commissione ha fornito cifre diverse e un portavoce ha specificato che lo studio di Global Witness, che utilizza i dati sulle spedizioni forniti dalla società di analisi delle materie prime Kpler, si basa su una metodologia diversa.

Secondo la Commissione europea, nei primi sei mesi di quest’anno sono entrati nell’Ue 10,8 miliardi di metri cubi (bcm) di GNL russo. Nel 2022 sono stati importati 19,3 miliardi di metri cubi, mentre nel 2021 la quantità si è attestata a 13,2 miliardi di metri cubi.

Anche se i dati suggeriscono che quest’anno arriverà più GNL dalla Russia rispetto al 2021, la Commissione ha assicurato che il GNL costituisce una quota molto esigua del mix energetico dell’Ue.

Tre Stati membri costieri – Belgio, Spagna e Francia – sono tra i primi cinque clienti globali della Russia per il GNL, ma i loro porti fungono da porta d’accesso per le forniture all’intero continente.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’Ue ha messo in atto piani per diversificare il proprio mix energetico investendo nelle energie rinnovabili e stringendo accordi di fornitura con altri Paesi. Ha stanziato 300 miliardi di euro di fondi per sostenere gli Stati membri.

Tuttavia, mentre l’Ue ha introdotto sanzioni su alcuni prodotti energetici, tra cui il carbone e il petrolio, non sono previste sanzioni sul GNL o sul gas russo.

La Commissione non ha confermato se l’Ue stia considerando di sanzionare le importazioni di GNL per evitare che gli acquisti aumentino ulteriormente.

Acquisti Ue di GNL russo cresciuti del 40% rispetto al 2021, secondo gli ultimi dati

La guerra di Vladimir Putin contro l'Ucraina è fondamentalmente sostenuta dalle vendite internazionali di combustibili fossili russi.

Da Euronews, di Jorge Liboreiro

L’Unione europea ha promesso di tagliare drasticamente le importazioni di gas da Mosca a causa dell’invasione dell’Ucraina, ma i dati mostrano che gli acquisti dell’Ue di gas naturale liquefatto (GNL) di produzione russa sono aumentati.

Secondo i nuovi risultati pubblicati da Global Witness, una ONG ambientalista, l’Unione europea ha acquistato 21,6 milioni di metri cubi (mcm) di GNL russo tra gennaio e luglio di quest’anno, un piccolo aumento rispetto allo stesso periodo del 2022, quando le importazioni hanno totalizzato i 21,3 mcm.

Ma se si misura il dato del 2023 rispetto allo stesso periodo del 2021, prima della decisione del Cremlino di muovere guerra all’Ucraina, si vede una crescita del 39,5%, una percentuale imbarazzante per un’Unione europea che ha condannato con forza l’invasione russa come il tentativo illegale, brutale e spietato di sottomettere l’indipendenza dell’Ucraina.

A complicare le cose, tra i cinque maggiori clienti del GNL russo nei primi sette mesi dell’anno si trovano tre Stati membri: la Cina è in testa con 8,7 milioni di metri cubi di acquisti, seguita da Spagna (7,5 milioni di metri cubi), Belgio (7,1 milioni di metri cubi), Giappone (7 milioni di metri cubi) e Francia (4,5 milioni di metri cubi).

In quanto Paesi costieri, Spagna, Belgio e Francia sono diventate destinazioni molto frequentate dalle navi trasportatrici di GNL, che devono scaricare le loro forniture in sofisticati terminali dove il liquido raffreddato viene ritrasformato in forma gassosa e inviato alle centrali elettriche.

Anche Paesi BassiGreciaPortogalloFinlandiaItalia e Svezia sono stati indicati da Global Witness come attuali consumatori di GNL russo. I numeri si basano sui dati di spedizione ottenuti da Kpler, una società di analisi.

Nel complesso, si stima che l’Ue abbia acquistato il 52% di tutte le esportazioni di GNL russo tra gennaio e luglio, una quota di mercato che supera il 49% del 2022 e il 39% del 2021.

L’acquisto di quest’anno è valso 5,29 miliardi di euro, secondo Global Witness: un importo che mette in discussione gli sforzi dell’Ue di indebolire il forziere di guerra del Cremlino, che è fondamentalmente sostenuto dalle vendite internazionali di combustibili fossili.

Dall’inizio della guerra, l’Ue ha vietato le importazioni di carbone e di petrolio russo, ma ha risparmiato quelle di gas russo. Mentre i flussi di gasdotti sono stati drasticamente ridotti dai piani nazionali e dalle ritorsioni di Vladimir Putin, le cisterne di GNL russo sembrano essere accolte calorosamente nei porti europei.

L’acquisto di gas russo ha lo stesso impatto dell’acquisto di petrolio russo. Entrambi finanziano la guerra in Ucraina e ogni euro significa più spargimento di sangue. Da un lato i Paesi europei condannano la guerra e mettono soldi nelle tasche di Putin, dall’altro“, ha dichiarato Jonathan Noronha-Gantresponsabile delle campagne sui combustibili fossili di Global Witness.

I dati di Eurostat mostrano uno schema simile: nel primo trimestre del 2023, la Russia era il secondo fornitore di GNL dell’Ue, dietro solo agli Stati Uniti e davanti a Qatar, Algeria, Norvegia e Nigeria.

I dati di mercato analizzati da Bruegel, un think tank economico con sede a Bruxelles, non mostrano variazioni considerevoli nei flussi di GNL russo, nonostante le molteplici sanzioni e le crescenti prove di possibili crimini di guerra commessi in Ucraina: l’Ue ha acquistato 1,99 mcm di GNL russo nel marzo 2022, il primo mese dell’invasione, e 1,59 mcm nel luglio 2023, l’ultimo mese registrato.

La Commissione europea non ha risposto a una richiesta di commento.

Anche il Financial Times: “L’Europa importa più gas liquefatto dalla Russia di prima della guerra”. Ma allora le sanzioni?

Dal Financial Times, 2 settembre 2023, di Antonio Amorosi

L’Europa importa più gas liquefatto dalla Russia di prima della guerra

Vladimir Putin

L’Europa compra gas russo. Lo spiega il Financial Times. In Ucraina è solo una guerra tra gruppi dirigenti per appropriarsi di risorse essenziali?

Ungheria e Serbia sono pronte a considerare come atto di guerra l’eventuale chiusura del gasdotto South Stream 

C’è da chiedersi in che mani siamo visto che gli Stati dell’Unione Europea comprano ancora più gas dalla Russia di prima dell’inizio dell’ultima guerra in Ucraina. Hanno solo cambiato il tipo di gas importato. E’ calato il consumo di gas fossile ma è andato alle stelle il gas naturale liquefatto (GNL). Lo ha spiegato qualche giorno fa il prestigioso quotidiano inglese Financial Times: la Russia è ora il secondo fornitore di gas naturale liquefatto (GNL) in Europa, dietro solo a gli Stati Uniti. E la cosa più assurda è, dice il giornale britannico, che “complessivamente, le importazioni dell’UE del super refrigerato gas sono aumentati del 40% tra gennaio e luglio di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2021, prima dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia”.

Per concludere questa panoramica,

Così, apre su Limes Fabrizio Maronta:

Il bilancio di oltre un anno di sanzioni è paradossale. Le misure si moltiplicano ma la Russia le elude quasi tutte con la complicità di mezzo mondo, Occidente incluso. Le vie di aggiramento. Il nodo di gas e uranio. L’esproprio delle riserve rischia di colpire euro e dollaro.

E, dal punto di vista militare, la guerra va male per l’Ucraina, non va bene per la Russia né per l’Europa, forse, non è andata tanto male per il dollaro.

E l’Italia? L’Algeria conta sempre di più per le forniture di gas all’Italia

Algeri è diventata è il principale esportatore di gas per l’Italia. Nel 2022 ha coperto il 40% del fabbisogno nazionale, con circa 25 miliardi di metri cubi di gas

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni incontra il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune

L’Algeria è sempre più al centro nella strategia di approvvigionamento e diversificazione elettrica dell’Italia. A confermarlo, anche uno dei primi viaggi ufficiali della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in questi giorni in visita dal presidente algerino Abdelmadjid Tebboune. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il paese nordafricano è diventato il primo fornitore di gas naturale per l’Italia, scalzando la Russia dal ruolo che aveva occupato per decenni.

Con l’ex governo guidato da Mario Draghi, lo scorso luglio, l’Algeria ha cominciato a fornire all’Italia più gas di qualunque altro paese. Una partnership che ha rafforzato la posizione di Algeri come principale esportatore di gas africano verso l’Europa e ha dato il via a una più ampia cooperazione energetica con Roma, che sogna di diventare il vero centro energetico del mediterraneo, collegando Nord Africa ed Europa.

A dicembre 2022, in Italia, di tutto il gas importato nell’anno solo il 16% del totale proveniva dalla Russia. Una percentuale crollata rispetto a circa il 40% dell’anno precedente e che attualmente si aggira attorno al 3%, con l’obiettivo di tagliare definitivamente con i gasdotti russi tra il 2024 e il 2025, come riporta il Sole 24 ore.

Al contrario, l’Algeria è passata da una copertura di circa il 22%, all’attuale 40% del fabbisogno energetico di gas italiano, andando a ribaltare l’Italia come una clessidra e a rendere il sud l’ingresso privilegiato per i flussi di gas che una volta arrivavano da nord. In un anno, i flussi in arrivo dal gasdotto Transmed – che collega l’Algeria all’Italia, passando per la Tunisia e arrivando a Mazara del Vallo – sono aumentati del 113%, per un totale di circa 25 miliardi di metri cubi di gas arrivati in tutto il 2022.

Inoltre, in base agli accordi già siglati lo scorso anno, la quantità di gas in arrivo dall’Algeria continuerà ad aumentare di ulteriori 3 miliardi di metri cubi all’anno, ogni anno, almeno fino al 2025. Il grande stato del Nord Africa è quindi sempre più centrale nel futuro energetico dell’Italia e dell’Europa, in particolare se Roma riuscirà a ritagliarsi il ruolo di centro strategico di collegamento e gestione dei flussi di energia in arrivo attraverso il Mediterraneo.

Non solo gas. Aggiungiamo:

Da Wired, che l’incremento costante della produzione di energia solare in Europa meridionale è stato fondamentale per evitare blackout e carenze di elettricità durante le ondate di caldo che stanno attraversando il vecchio continente quest’estate. La crescita del fotovoltaico, ha fornito energia pulita e sostiene la decarbonizzazione del settore. Particolarmente in Spagna, dove l’energia prodotta dal fotovoltaico ha raggiunto il 24%.

Nei picchi di caldo estremo degli ultimi mesi, che probabilmente diventeranno la prossima normalità, la resa dei pannelli fotovoltaici diventa particolarmente efficiente grazie alla forza che assumono le radiazioni solari nelle ore più calde. Picchi che corrispondono a quelli della domanda di elettricità necessaria far funzionare ventilatori e condizionatori. In questo modo, la crescita del fotovoltaico ha compensato la richiesta di elettricità.

L’effetto benefico è stato particolarmente evidente in Spagna e Grecia, tra i due paesi che nell’ultimo anno hanno installato più pannelli solari in tutta l’Unione europea, per far fronte sia alla crisi energetica causata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che all’emergenza climatica innescata dai combustibili fossili.

Dopo aver aggiunto 4,5 gigawatt di capacità fotovoltaica nel 2022, lo scorso luglio la produzione di energia solare in Spagna è stata la più alta mai registrata in un mese, come riporta la compagnia energetica spagnola Red Electrica. Un picco che ha permesso all’energia solare di coprire il 24% del fabbisogno nazionale del mese, rispetto al 12% del 2022.

I vantaggi del fotovoltaico hanno interessato anche un paese meno virtuoso come l’Italia. Lo scorso 24 luglio, metà della domanda di elettricità in eccesso in Sicilia è infatti stata coperta dall’energia solare, la cui produzione sull’isola il mese scorso è raddoppiata rispetto a un anno fa. Stesso discorso anche per paesi meno assolati, come il Belgio, dove il solare ha coperto il 100% della domanda supplementare.

Nonostante questo successo, però, il fotovoltaico rappresenta ancora una piccolissima parte del mix energetico nella maggior parte dei paesi europei, dove eolico, gas, carbone e nucleare coprono ancora gran parte della domanda. Per questo, diversi gruppi industriali come Solar Power Europe hanno esortato i politici europei a investire di più e promuovere progetti che abbinino energia solare e accumulo energetico, così da rendere il fotovoltaico una fonte più stabile e sicura per il futuro.

Una nota negativa è rappresentata dagli esperimenti climatici autorizzati dal governo italiano e che hanno senz’altro, almeno, contribuito alle precipitazioni anomale che hanno danneggiato molti pannelli degli impianti fotovoltaici. Assicurarli ha un costo elevato: circa € 57 al mese.

5859.- Grande Orban! L’Ungheria entrerebbe in guerra se le sue forniture energetiche venissero attaccate.


Non solo la politica USA obbedisce ai propri interessi. Nonostante le minacce di Bruxelles, lo scorso ottobre, l’Ungheria chiese aiuto a Putin e Gazprom concesse all’Ungheria di dilazionare di tre anni i pagamenti del gas. Ora Orban minaccia la guerra nel caso di attentati terroristici contro il South Stream.

In guerra contro chi?

Orban Prendendo di mira la Germania, il primo ministro ha affermato che la sua nazione
non rimarrebbe passiva se i suoi interessi vitali fossero minacciati A differenza della Germania, l’Ungheria non rimarrebbe in silenzio se le sue rotte di approvvigionamento energetico venissero sabotate, ha detto il primo ministro Viktor Orban a Tucker Carlson in un’intervista
rilasciata mercoledì su X (ex Twitter). Parlando della distruzione del gasdotto russo- tedesco Nord Stream, Orban ha ricordato che Budapest aveva immediatamente bollato l’incidente come un attacco terroristico quando ebbe luogo lo scorso settembre. Tuttavia, la Germania e l’Europa occidentale continuano a rifuggire da questa descrizione, ha aggiunto.

Perdita di gas dal gasdotto Nord Stream 2 vicino a Borholm, Danimarca, il 27 settembre
2022 © Difesa danese / Anadolu Agency tramite Getty Images

“C’è un altro gasdotto… [che porta] il gas dalla Russia attraverso il corridoio meridionale (alla] Turchia, Bulgaria, Serbia, [e] Ungheria.
Insieme al presidente serbo (Aleksandar Vucic] abbiamo chiarito che se qualcuno vorrà fare la stessa cosa con il corridoio meridionale, come è stato fatto con quello settentrionale, lo considereremo un motivo di guerra, “, ha affermato Orban. “Probabilmente puoi farlo con i tedeschi, ma non puoi farlo con questa regione.” Carlson ha insistito sul fatto che era “molto ovvio” che l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden avesse distrutto i gasdotti Nord Stream, direttamente o tramite procura – un’affermazione che la Casa Bianca ha costantemente negato. Orban ha lasciato intendere di essere d’accordo con la valutazione di Carlson.

L’Ungheria non accetterà atti terroristici contro i gasdotti dalla Russia. La dipendenza politica di Viktor Orbán dal gas russo è considerata un freno per la strategia europea; ma questa strategia cosa ha di europeo?

L’Ungheria e la Serbia considereranno un attacco alla via di importazione del gas dalla Russia come un casus belli, ha detto Viktor Orban. Lo ha detto il capo del gabinetto ungherese in una conversazione con il giornalista americano Tucker Carlson. Secondo lui, Budapest e Belgrado reagiranno immediatamente se ciò che è successo al Nord Stream dovesse succedere al South Stream.

Scott Ritter –

5540.- Lavrov chiama, Bruxelles non sente.

L’articolo, correttamente, inquadra il successo elettorale sovranista nell’ambito della competizione fra Washington e Mosca in Ucraina. Da oggi, la Finlandia è un membro della Nato e, di fronte alla vittoria del sovranismo finlandese, ci domandiamo chi detta la politica estera dell’Unione europea? Guardando agli aspetti economico-sociali della Finlandia, invece, dobbiamo chiederci quale programma potrà portare avanti il nuovo governo finlandese. Concordo con l’analisi di Luigi Giuliano de Anna. Ancora una volta è il mercato della Russia che viene a mancare. Sovviene la dichiarazione del ministro Lavrov che commentiamo con associazioneeuropalibera: “La Russia considera l’Unione europea un’associazione ostile”.
Lavrov schiude una porta e sembra lanciare il sasso nello stagno per osservare i risultati. Attende di vedere se, i governi dei paesi membri Ue, ma, sopratutto, i popoli europei, oltre che convinti europeisti, si mostreranno veramente soci consapevoli del modello di questa anomalia istituzionale, cioè, di questa organizzazione voluta dagli USA. In realtà, in questa guerra, necessaria che fosse o non, ma architettata oltre Atlantico, il percorso antirusso seguito da Bruxelles è stato imposto da Washington in quanto leader dell’Occidente. Un leader poco democratico, come ci hanno mostrato le minacce e, poi, la distruzione dei gasdotti russo-tedeschi. Questo percorso si è dimostrato vantaggioso solo per gli Stati Uniti e contrario agli interessi e alle economie degli europei; quasi che l’obiettivo di Washington non sia affrontare la competizione con la Cina e con le potenze asiatiche, ma affermare il dominio americano all’interno dell’Occidente. Ci si domanda come e perché siano tollerati i distinguo dell’Ungheria; quanto dovremo aspettare per riscrivere il Trattato del Nord Atlantico in forma non soltanto difensiva. Ebbene, ora che questo dominio sembra esser stato confermato, politicamente e militarmente, sarà sufficiente a garantire la sopravvivenza di una leadership a guida americana? Pensiamo di no. Infatti, guardando proprio alla competizione con l’Asia e soppesandone le tabelle di marcia e i risultati, questo percorso è contrario agli interessi di tutto l’Occidente. Il tentativo di Lavrov, se prima non muterà lo stato dell’Unione, è destinato a fallire perché manca il soggetto politico sovrano, espressione democratica dei popoli europei, capace, in quanto tale, di esprimere una politica estera, non assolutamente indipendente, ma almeno coerente con gli interessi delle nazioni europee. La Russia è un paese europeo, troppo potente per essere dominato e potrebbe essere cooptato dalla Nato instaurando quel dialogo reciprocamente rispettoso auspicato da Lavrov. La Russia dovrà attendere.

Lavrov: “La Russia considera l’Unione europea un’associazione ostile”

“Se gli europei ad un certo punto abbandoneranno questo percorso antirusso e faranno una scelta a favore di un dialogo reciprocamente rispettoso con la Russia, prenderemo in considerazione le loro proposte”

Da Agenzia Nova, 4 Aprile 2023

Lavrov

La Russia considera l’Unione europea un’associazione ostile. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, in un’intervista al quotidiano “Argumenty i Fakty”. “L’Unione europea ha ‘perso’ la Russia per colpa sua. Dopotutto, sono i Paesi membri dell’Ue e i leader dell’Unione stessa che dichiarano apertamente la necessità di portare la Russia, come dicono loro, ad una sconfitta strategica”, ha detto il ministro. “Pompano il regime criminale di Kiev con armi e munizioni, inviano istruttori e mercenari in Ucraina. Per questi motivi, consideriamo l’Ue come un’associazione ostile”, ha proseguito Lavrov.

Il ministro ha spiegato che la Russia prenderà decisioni sul futuro del dialogo con l’Unione Europea sulla base degli interessi registrati nel nuovo concetto di politica estera del Paese. “Se gli europei ad un certo punto abbandoneranno questo percorso antirusso e faranno una scelta a favore di un dialogo reciprocamente rispettoso con la Russia, prenderemo in considerazione le loro proposte e prenderemo decisioni basate sui nostri interessi nazionali, come approvato dal presidente russo Vladimir Putin nel nuovo concetto di politica estera della Federazione Russa”, ha sottolineato il diplomatico. Infine, Lavrov ha aggiunto che la geografia dei suoi viaggi all’estero è cambiata, un fatto che riflette le “priorità russe sulla scena internazionale”.

5525.- Crepe nell’UE! caccia Mig 29 dalla Slovacchia all’Ucraina. L’Ungheria respinge il mandato di arresto della Corte penale internazionale per Putin

Mikoyan-Gurevich MiG-29UBS (9-51) biposto – Slovakia – Air Force. È operativo dal 1982.

Notiamo che si tratta dell’avvenuta cessione all’Ucraina da parte dell’aeronautica slovena di 4 Mig-29, cui seguiranno tutti gli altri 9 esemplari in attività. L’UE risarcirà la Slovacchia con 213 milioni di dollari per aver fornito i MiG-29 all’Ucraina e la Polonia e la Repubblica Ceca si faranno carico della difesa aerea slovacca fino al 2024. Almeno per ora, non si parla più dei caccia F-16 all’Ucraina e, logicamente, del personale NATO necessario per mantenerli operativi.

Cracks in The EU! Mig Fighters from Slovakia to Ukraine. Hungary Rejects ICC Arrest Warrant for Putin

Ma la notizia è che l’Ungheria dice che non arresterà Putin. La Corte penale internazionale si è dimostrata vassallo di Washington, al pari di FMI e Banca Mondiale e ha perso una buona occasione per tacere. Fanno riflettere il successo strategico e militare degli Stati Uniti nei confronti di Putin e queste manifestazioni puerili di dominio della pubblica opinione, utili soltanto a respingere qualunque approccio di Putin verso la pace. L’Ucraina è stata invasa da Putin, ma la guerra sarà di lungo periodo perché Biden così vuole.

Crepe nell’UE!

Da Gospa news, di Carlo Domenico Cristofori, 23 Marzo 2023, traduzione automatica.

I contrasti all’interno dell’Unione Europea di fronte al conflitto in Ucraina cominciano a diventare sempre più estremi. Il ministro della Difesa slovacco Jaro Nad ha annunciato che “i primi quattro caccia Mig-29 dalla Slovacchia” sono stati inviati in sicurezza alle forze armate dell’Ucraina”.

In totale, la Slovacchia ha dichiarato che donerà 13 aerei di fabbricazione sovietica. “Nelle prossime settimane, il resto degli aerei verrà consegnato”, ha detto la portavoce del ministero della Difesa Martina Kakascikova.

Questo rappresenta un altro passo verso l’inasprimento del conflitto tra i paesi della NATO e la Russia che ha più volte detto che risponderà aumentando a sua volta la sua potenza di fuoco.

Passi verso l’escalation e non verso la pace

Il piano europeo per dare 2 miliardi di euro di munizioni all’Ucraina è stato approvato dal Consiglio Affari Esteri in corso a Bruxelles.
L’alto rappresentante Josep Borrell ha parlato di “una decisione storica”.

Ma solo diciotto paesi (su 27) hanno già aderito al piano dell’Agenzia europea per la difesa (EDA) per l’approvvigionamento congiunto di munizioni per aiutare l’Ucraina e ricostituire le scorte nazionali. Il progetto apre la strada per procedere su due strade: una procedura accelerata di due anni per i proiettili di artiglieria da 155 mm e un progetto di sette anni per l’acquisto di più tipi di munizioni.

Un altro passo verso la guerra nucleare: munizioni all’uranio impoverito del Regno Unito a Kiev “come bombe sporche”. “La Russia sarà costretta a reagire”, ha detto Putin

Il giorno prima è arrivato dal Regno Unito l’inquietante annuncio sulla spedizione di munizioni all’uranio impoverito a Kiev insieme ai carri armati Challenger 2, suscitando l’indignazione dei pacifisti di tutto il mondo per il loro potenziale cancerogeno.

È sempre più evidente come Stati Uniti e Regno Unito, che europei non sono o tali non si sentono, spingano verso la guerra nucleare in Europa e l’Italia, con le sue 120 basi USA, più le 20 segrete, i biolaboratori ICGWB livello P4, le testate nucleari B-61 e i 13.000 soldati americani sul suo territorio è il primo obiettivo delle 1.588 testate schierate e operative delle Forze missilistiche strategiche della Federazione Russa, RVSN RF (sono 4.477 su 6.000 quelle ammodernate e utilizzabili).

L’Ungheria dice che non arresterà Putin

L’Ungheria è uno dei Paesi dell’Unione Europea che non ha mai interrotto i rapporti con Mosca aumentando i contratti per le forniture energetiche di petrolio e gas prende una netta posizione a favore del Cremlino, giustificandola con normative nazionali.

Mentre il governo ungherese deve ancora prendere una posizione ufficiale sul mandato per crimini di guerra della Corte penale internazionale contro il presidente russo Vladimir Putin, giovedì il capo dello staff del primo ministro ha dichiarato che la costituzione del paese non ne consentirebbe l’applicazione.

“Possiamo fare riferimento alla legge ungherese e sulla base di essa non possiamo arrestare il presidente russo… poiché lo statuto della Corte penale internazionale non è stato promulgato in Ungheria”, ha dichiarato il capo dello staff del primo ministro Viktor Orban, Gergely Gulyas, rivolgendosi ai giornalisti durante una conferenza stampa a Budapest.

“Queste decisioni non sono le più fortunate in quanto portano le cose verso un’ulteriore escalation e non verso la pace”, ha detto Gulyas in riferimento al mandato della Corte penale internazionale, qualificandolo come la sua “opinione personale e soggettiva”.