Archivi categoria: Politica estera – India

6138.- Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Il Nuovo Piano Mattei rappresenta la base delle interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico, interconnessioni che fin d’ora non sono limitate agli aspetti economici. É questa la via per costruire una politica europea capace di accogliere anche la Federazione Russa.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 24/02/2024 

Dalla Via della Seta al Quad, Terzi traccia la nuova strategia italiana

Nell’intervento del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata al Raisina Dialogue, l’importante conferenza indiana sulla politica internazionale, si delineano gli interessi dell’Italia nel grande dossier delle interconnessioni tra Mediterraneo allargato e Indo Pacifico. Connettività, sicurezza e visioni comuni

Dall’impegno italiano lungo le rotte indo-mediterranee martellate dalle armi iraniane degli Houthi, all’impegno italiano nell’Indo Pacifico che passa anche dal passaggio di consegne Meloni-Kishida alla guida del G7, fino alle rinnovate relazioni con l’India: il senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata, presidente della Commissione Politiche europee ed ex ministro degli Esteri, descrive il quadro ampio della politica estera italiana, invitato nella capitale indiana per il ruolo alla camera alta italiana nonché come presiedente del Gruppo di amicizia parlamentare Italia-India. La cornice è quella del Raisina Dialogue, la grande conferenza sulla politica internazionale organizzata a New Delhi, dove Terzi ha avuto anche un incontro riservato con l’ospite dell’evento, il ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar, una serie di iniziative laterali e particolare attenzione da parte dei media locali — segno anche di un’attenzione riservata all’Italia.

“È chiaro che la comunità euro-atlantica si aspetta di interagire sempre di più con la dimensione indo-pacifica e di esserne percepita come parte integrante, soprattutto quando si tratta di coalizioni di sicurezza, crescita economica, scienza e tecnologia, Stato di diritto e diritti umani”, spiega Terzi intervenuto anche durante il panel “The Europe Files” del Raisina e toccando alcuni dei temi che hanno caratterizzato tutti l’evento indiano: le interconnessioni tra MedAtlantic e IndoMed, tra le regioni del Mediterraneo e degli oceani Indiano, Pacifico e Atlantico.

Iniziative specifiche che già coinvolgono alcuni membri europei e la Nato sono chiari esempi di certi impegni. Tra questi, l’istituzione di un gruppo di lavoro intraparlamentare sul Quad negli Stati Uniti, che per Terzi dimostra come l’integrazione della dimensione della sicurezza tra la regione euro-atlantica e quella indo-pacifica è un dato di fatto. Una volontà concreta espressa anche nella ministeriale del G7 organizzata durante l’altra grande conferenza di questa settimana, quella sulla sicurezza di Monaco di Baviera.

Congiunzioni che intersecano settori articolati, dal commercio all’energia, dagli scambi culturali alla connettività infrastrutturale (fisica e digitale): settori dove il controllo geopolitico, politico internazionale e securitario, sta crescendo. “Il mercato globale sta cambiando radicalmente. Oltre alle esigenze di salvaguardia della libertà di commercio, è sempre più vitale garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, attraverso le rotte e i corridoi marittimi”, spiega Terzi, aggiungendo che “è in questo contesto che l’Italia si è ritirata dall’iniziativa cinese della Via della Seta e dal MoU firmato da un precedente governo italiano. Questa decisione è stata presa per rispettare pienamente le politiche commerciali dell’Ue e gli impegni assunti con il mercato unico”.

Ricordando la recente Conferenza Italia-Africa, durante la quale è stato presentato l’approccio che il Paese intende prioritarie verso il continente usando come ponte il Piano Mattei, il senatore ricorda che “l’Italia sta compiendo notevoli sforzi per contribuire alla ridefinizione delle politiche europee in aree critiche. Non solo per quanto riguarda la crescita economica, ma anche la dimensione cibernetica, l’intelligenza artificiale e la migrazione attraverso approcci concreti e realistici”.

Il tema della difesa e della sicurezza, per anni forse trascurato, è tornato al centro del dibattito e delle agende politiche, fa notare l’ex ministro italiano delineando come parte dell’apprezzamento internazionale al governo Meloni (che Terzi sostiene) derivi anche dalla rassicurazione data dall’Italia sul sostegno all’Ucraina. Rassicurazione che nelle prossime ore potrebbe prendere maggiore concretezza con la prima riunione tra leader del G7 che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni dovrebbe presiedere da Kyiv. Una posizione solida quella italiana, che collima con impegni arrivati anche dal bacino indo-pacifico, come testimoniano i nuovi aiuti all’Ucraina varati da Tokyo nei giorni scorsi, per esempio.

Sollecitato con una domanda sulle questioni comuni che riguardano l’Ue, oltre al tema securitario e politico dell’immigrazione, Terzi ha citato il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (Imec) che fa da simbolo delle interconnessioni in corso nell’Indo Mediterraneo, le quali seguono anche la necessità di costruire nuove catene del valore e di approvvigionamento. L’Italia è parte del progetto, lanciato dal vertice G20 di New Delhi lo scorso settembre, che è a sua volta uno dei grandi punti di contatto Roma-India. “La partnership strategica tra Italia e India firmata dai primi ministri Narendra Modi e Meloni lo scorso marzo è da considerarsi un vero e proprio punto di svolta sia per le nostre relazioni bilaterali che per le relazioni strategiche con l’India”, sottolinea Terzi.

Non a caso, Imec e le sue opportunità saranno al centro del “The India Forum” che si terrà a Roma il prossimo giugno, dove la connettività internazionale sarà tra i grandi temi anche del G7 a guida italiana.

”Ma mi piace pensare che tra Italia e India non ci sarà solo una vicinanza in termini economici, ma anche in termini sociali e culturali”, dice Terzi elevando il livello del ragionamento e ricordando l’ispirazione indiana che ha mosso capolavori del design come la lampada ‘Ashoka’ di Ettore Sottsass, creazione “omaggio ad Ashoka il Grande che, come noto, è un esempio di non violenza, di diritti e doveri reciproci e di pace. Ashoka ha lasciato anche un dono importante, un regalo e un messaggio: l’Ashoka Chakra, oggi ben visibile al centro della bandiera dell’India. Ettore Sottsass sembra aver saputo cogliere alcune radici profonde della cultura indiana. Per questo motivo, credo che la sua esperienza rappresenti un armonico scambio culturale: un’ispirazione per tutti noi”.

6119.- Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Da Formiche.net, di Ferruccio Michelin, 11/02/2024 – 

Così gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza nell’Indo Pacifico

Il Pentagono racconta come procede la Indo-Pacific Strategy a due anni dal lancio, tra cooperazione nel Quad, impegni storici con Giappone, Australia e Corea del Sud, la centralità dell’India e nuove attività con Filippine e Asean

Nel biennio successivo alla pubblicazione della Indo-Pacific Strategy  da parte dell’amministrazione Biden-Harris, il Pentagono ha lavorato come non mai con alleati e partner per promuovere una visione condivisa di una regione libera e aperta. “Le nazioni dell’Indo Pacifico stanno contribuendo a definire la natura stessa dell’ordine internazionale, e gli alleati e i partner degli Stati Uniti in tutto il mondo hanno un interesse nei suoi risultati”, afferma la strategia in un passaggio che è guida per comprendere l’impegno americano nella regione (e non solo: anche quello europeo descritto nell’ultima edizione di “Indo Pacific Salad” nasce e procede secondo certi cardini).

Il Pentagono ha prodotto un “Fact-Sweet”, ossia una scheda informativa per fare il punto delle attività a due anni dal lancio della strategia (lo avevo fatto anche nel 2023, dopo il primo anno). La scheda è prodotta dal dipartimento della Difesa del Paese che sta celebrando l’anniversario, dunque tutto è meno che un’informazione scevra da narrazioni e interessi, tuttavia è molto interessante analizzare i contenuti trattati, i toni usati, la priorità. Il punto chiave è questo: !”Il nostro approccio si ispira e si allinea a quello dei nostri amici più stretti”.

Il primo dei punti salienti analizzati riguarda il vertice che ha dato vita ai “Camp David Principles”, l’accordo con cui i leader di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud si sono impegnati ad approfondire la cooperazione trilaterale di difesa (e guardano a successivi segmenti di sviluppo). L’incontro è stato un momento fondamentale del 2023, perché Tokyo e Seul, i principali partner indo-pacifici statunitensi, non erano in rapporti amichevoli e il vertice a tre di Camp David potrebbe aver rivoluzionato la storia (per esempio, si apre un meccanismo di condivisione dei dati di allerta missilistica in tempo reale sulla Corea del Nord).

Poi il rilievo viene spostato sul Quad – il sistema di comunicazione strategica tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone. Per il Pentagono, sta fornendo una maggiore trasparenza marittima attraverso il Partenariato Indo-Pacifico per la Consapevolezza del Dominio Marittimo (Ipmda) potenziando le capacità dei partner di monitorare le loro acque. Nel  corso dell’anno, probabilmente dopo le elezioni Usa2024, ci sarà un nuovo vertice tra i quattro leader, perché l’intesa è ormai istituzionalizzata e in rapida fase di implementazione.

Il ruolo indiano è prioritario non solo nel Quad. Washington e New Delhi stanno accelerando l’integrazione tra i settori industriali della difesa di entrambi i paesi e il dialogo sulle nuove tecnologie iCET, e gli Stati Uniti stanno sostenendo la modernizzazione della difesa dell’India, anche attraverso la coproduzione di motori per jet da combattimento e veicoli corazzati (obiettivo: rompere la profonda dipendenza indiana dalle armi russe, permettere al Subcontinente di avere una dimensione militare-strategica propria moderna per sostenere il confronto con la Cina).

Da qui, restando su un altro dei lati del Quad, l’Unbreakable Alliance tra gli Stati Uniti e l’Australia viene raccontata come “più forte che mai” e in effetti sta realizzando una serie di iniziative chiave di postura strategica, tra cui l’aumento delle rotazioni di bombardieri e caccia statunitensi e di mezzi navali dell’esercito statunitense, la cooperazione ampliata tra le forze marittime e terrestri, la cooperazione potenziata nello spazio e nella logistica, e il proseguimento degli aggiornamenti delle basi chiave. Ovviamente, non può essere tralasciato l’Aukus (che potrebbe anche essere ampliato).

Ultimo lato, quello nipponico: l’alleanza con Tokyo rimane la pietra angolare della pace e della stabilità nell’Indo Pacifico e gli sforzi degli ultimi due anni si sono concentrati sull’aumento del coordinamento dell’alleanza, sul potenziamento della capacità dell’alleanza di dissuadere e, se necessario, rispondere alle minacce, e sull’ottimizzazione della postura delle forze statunitensi in Giappone basata su concetti operativi migliorati e nuove capacità.

Poi viene dato spazio alle Filippine, con cui gli Stati Uniti nel 2023 hanno compiuto significativi progressi per aumentare l’interoperabilità, accelerare lo sviluppo delle capacità e investire in infrastrutture condivise, tra cui in quattro nuovi siti che rientrano nel’Accordo di Cooperazione per la Difesa Potenziata e attraverso oltre 100 milioni di dollari di nuovi investimenti. Davanti al bullismo geopolitico cinese, Washington ha rilanciato l’accordo di cooperazione sulla difesa con Manila.

Infine, l’attività complessa con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (Asean), un insieme di Paesi molto connesso con la Cina (sia sul piano economico sia culturale) con cui Washington lavora più profondamente che mai, anche attraverso programmi di capacity-building e corsi di formazione guidati dal Pentagono. L’Asean è strategicamente fondamentale, perché sono quei Paesi che pressano per evitare che la regione indo-pacifica diventi soltanto un terreno di scontro tra potenze.

6201.- PIANO MATTEI, AFRICA E INDO PACIFICO

Il Piano Mattei è per l’Occidente soltanto il primo scalino da salire, ma si deve essere forti e uniti, gli italiani per primi. Quanto ci penalizza la guerra alla Federazione Russa?

Da Formiche.net, a cura di Emanuele Rossi, 31 gennaio 2024

I Paesi dell’Indo-Pacifico hanno seguito attentamente gli sviluppi della Conferenza Italia-Africa, che Roma ha ospitato domenica 28 gennaio e lunedì 29. Il cosiddetto “Piano Mattei”, quale programma guida per una serie di progetti italiani nel continente africano, suscita notevole interesse nella regione in quanto l’Africa rappresenta un crocevia politico, diplomatico, economico e culturale-demografico a cui le nazioni indo-pacifiche guardano da tempo.

Narrazione, interesse, attenzione In questo ultimo anno, mi sono trovato in molte occasioni in cui ho potuto constatare direttamente – attraverso conversazioni, eventi, studi – come l’interesse indo-pacifico per l’Africa si abbini anche all’iniziativa italiana. Aspetto già positivo: la narrazione messa in piedi da Roma ha funzionato quanto meno nell’attrarre extra-attenzioni internazionali. Ora la sfida è di implementare questo storytelling con progetti concreti, anche se è plausibile pensare che i risultati arrivino rapidamente. Ma questa è una percezione più chiara al di fuori dell’Italia, dove si è portati a ragionamenti di carattere strategico (dunque a lungo termine). Lo è per esempio nell’Indo Pacifico.

L’importanza dei partner Sarà importante per l’Italia comprendere quali potrebbero essere eventuali partner per strutturare cooperazioni negli ambienti terzi africani. Territori dove tutte le potenze hanno rivolto la loro attenzione. L’Africa, ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente dell’Institu Montaigne, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.

Qui Pechino Ho cercato le razioni cinesi al Piano Mattei, ma non ci sono (per ora) cose di livello. La Cina è interessante perché ha attualmente un ruolo importante, essendo il primo partner commerciale dell’Africa, anche grazie agli investimenti economici e politici. Pechino muove anche una sua narrazione, che vuole rappresentare il proprio modello di cooperazione come il più efficace e funzionale, mentre critica le attività occidentali (macchiate da post-colonialismo, dice). Bisogna fare i conti con questo substrato culturale e (dis)informativo che si sta creando, spinto anche dalla Russia, dall’Iran e da altri Paesi competitor.

Like-minded… Ma ci sono anche altri attori dell’Indo Pacifico, come India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Taiwan, Indonesia e Vietnam, che mostrano un crescente interesse per l’Africa, sviluppando progetti e strategie specifiche. Molti di questi sono indicati sovente come “like-minded”, ossia vedono il mondo con le stesse lenti dell’Italia e dell’Occidente. Sono democrazie, sono aperti al libero mercato, sono meno interessati a rivoluzionare l’ordine mondiale di quanto non sia la Cina. Inciso a proposito di questo dal saggio pubblicato su Foreign Affairs dal direttore della CIA William Burns: “La Cina rimane l’unico rivale degli Stati Uniti [che ha] sia l’intento di rimodellare l’ordine internazionale sia il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per farlo”. Chiuso l’inciso.

…significa buoni partner? Una considerazione che mi ha fatto un parlamentare italiano che segue con estrema attenzione la politica internazionale: “Siamo sicuri che effettivamente quei Paesi like-minded poi intendano la proiezione africana come la intendiamo noi? Siamo sicuri che le direttrici di una cooperazione con loro seguano esattamente i nostri interessi? Che tipo di compromessi siamo disposti ad accettare?”.

Aspettiamo e vedremo Sebbene molti di quei Paesi indicati siano sinceramente interessati a comprendere la strategia italiana in Africa – aspettandosi anche input sui principi, cardini e sviluppi futuri del Piano Mattei (magari anche inviti) – attualmente ottenere informazioni dettagliate da loro su cosa ne pensino è complesso (quanto comprensibile). La sfida principale del Piano Mattei, come mi spiegava Arturo Varvelli (Ecfr), è trasformarlo in un paradigma trainante per i progetti europei, inquadrandolo in qualche modo al contesto più ampio del Global Gateway e renderlo ancora più appetibile agli occhi esterni. La forza finanziaria e politico-diplomatica europea supera notevolmente quella di un singolo Paese come l’Italia, ma l’idea strategica italiana può contribuire in qualche modo a direzionarla, ed è per questo che il progetto diventa attraente – e chiaramente sfidante.

E dunque? Ho pensato che, visto la sovrapposizione di interessi, potesse diventare utile fare un recap rapido (certamente non esaustivo, sicuramente basico e poco analitico) di quali sono obiettivi, attività e visioni di alcuni dei grandi attori dell’Indo Pacifico in Africa. E di farlo tramite studi di valore.

DIARIO DALL’INDO MEDITERRANEO
 . Tra gli appunti, parlando di Africa, ci finisce l’intervista fatta da Giulia Pompili del Foglio al primo ministro dell’eSwaitini, a Roma anche lui per la Conferenza. Russell Dlamini è il premier dell’unico stato africano che riconosce Taiwan: “La nostra politica è non avere nemici”, dice.

. A proposito di interviste, anche quella di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, al presidente della Somalia, ospite di un evento organizzato nella sede di Fondazione Med-Or è interessantissima in ottica indo-mediterranea. “Nel gioco del Mar Rosso serve un accordo tra Cina e Occidente per garantire la stabilità”, propone Hassan Sheikh Mohammud.

. Rispondendo alle notizie uscite su un “enorme deposito” di armi cinesi nei tunnel di Hamas, il portavoce del ministero della Difesa di Pechino ha detto: “La Cina ha sempre adottato un atteggiamento prudente e responsabile nelle esportazioni di armi”. La notizia è qui, ma vi ricordate di quando l’analista militare Zhang Bin, spiegava come la tecnologia dei missili balistici antinave (ASBM) cinesi abbia raggiunto lo Yemen attraverso l’Iran? Ne avevamo parlato in IPS201223.

. Seul e Riad insieme per un jet di Sesta generazione? Girano voci che alti funzionari dell’Agenzia per lo sviluppo della difesa (Add) e del ministero della Difesa sudcoreani abbiano visitato l’Arabia Saudita per incontri teoricamente top secret di qualche giorno fa. Non è chiaro per ora quanto queste voci siano credibili e concrete, vero che la sfera militare fa parte delle relazioni tra i due Paesi, vero altrettanto che gira disinformazioni; inoltre è possibile che sauditi e sudcoreani parlino di armi ma non di quel genere di armi. Riad e Seul sono comunque interessati a un caccia di ultima generazione (entrambi hanno buttato gli occhi sul Gcap, sebbene con letture diverse).
 

A proposito di Africa, la cui costa orientale è considerata parte dell’Indo Mediterraneo (per lo meno nelle visioni indiane, sposate anche in parte dalla lettura geostrategica delle dinamiche in corso), val la pena fare un passo indietro sulla visita – a metà gennaio – del capo della diplomazia cinese, Wang Yi, in quattro Paesi del continente. Nella foto è in Tunisia, ma è stato anche in Egitto, Togo e Burkina Faso (che fa parte della triade golpista anti-occidentale che ha annunciato di voler uscire dall’associazione Ecowas in questi giorni).

E val la pena ricordare che dal 1991 a oggi, il primo viaggio all’estero del ministro degli Esteri cinese è sempre dedicato, ogni anno, all’Africa. Nel 2024 ci sarà anche il Forum sulla Cooperazione Cina-Africa (quello precedente c’era stato nel 2021 a Dakar, in Senegal, e aveva adottato piani per 2022-2024). Wang sta organizzando l’evento e le partecipazioni. Ne ho parlato sul canale Telegram “Indo Pacific Diary”, che curo più o meno quotidianamente da un paio di anni. Qui invece c’è la lettura del viaggio da parte della stampa egiziana e tunisina.
COSA ALTRO LEGGERE
 
Dicevamo che per rendere tutto più funzionale, questa settimana ho pensato di mettere qualche link ad analisi e studi su ruolo e visioni dei big indo-pacifici in Africa. Questa sezione di approfondimento diventa dunque “Cosa altro leggere”. 

CINA
China in Africa, Council on Foreign Relations; China in Sub-Saharan Africa: Reaching far beyond natural resources,Atlantic Council; An allied strategy for China, Atlantic Council; China-Africa relations, Chatham House: The response to debt distress in Africa and the role of China, Chatham House; Grandi ambizioni, risultati limitati: l’ordine globale secondo la Cina, Ecfr; Il risveglio degli Europei dal sogno della Cina, Ecfr; Valori occidentali, economia cinese? La frammentazione globale, Ecfr.

GIAPPONE
Japan in Africa, strategia pubblica del governo di Tokyo; What Japan and Africa can add to Tokyo International Conference on African Development, East Asia Forum; Japan to boost ties with Africa, with eyes on ChinaJapan TimesJapan’s valuable footprint in Africa, Gis; The Japan-Africa dialogue, Atlantic Council.

INDIA
Africa-India Cooperation Sets Benchmark for Partnership. Africa Center For Strategic Studies; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Atlantic Council; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Brookings Institution; India’s geopolitical rise in context: Regional implications, Orf; India eyes Africa in its quest for superpower status, Institute For Security Studies; India is driving change by working together with AfricaAsia Nikkei.

COREA DEL SUD
South Korea’s Engagement with Africa, Springer (libro); Seoul trains its sights on African relations, African Business; Korea and Africa rally additional finance and technology […], African Development Bank Group; The African Continental Free Trade Area: Opportunities and Challenges, Brookings Institution; South Korea’s Role in Africa’s Development: A New Approach, Orf.

AUSTRALIA
Strengthening Australia’s relationships in Africa through education, Aspi; A strategy for Australia’s engagement with Africa, analisi del gruppo di lavoro del dipartimento Affari Esteri e Commercio Estero del governo australiano; Rethinking Australia’s Approach to Africa, Australian Institute For International Affairs; Australia to achieve membership of an African development, DevPolicy Blog; Australia, New Zealand and the African Union, South Africa Institute For International Affairs.

INDONESIA, VIETNAM, TAIWAN
Indonesia Seeks to Deepen Africa RelationsVoice Of AmericaIndonesia’s Jokowi deepens Global South ties in Africa tour, Asia Nikkei; What Can Africa Learn From the Progress Made by Vietnam?, Tony Blair Institute; Vietnam treasures traditional ties with African countriesVientam PlusTaiwan and Africa: a comprehensive overview of diplomatic recognition and derecognition of the RoC, Ceias; Taiwan’s Africa outreach irks China, Orf.

6182.- Israele è l’avamposto dell’Occidente nel Mediterraneo Orientale.

C’è l’Iran al centro della politica americana nel Medio Oriente e alle spalle le due grandi potenze asiatiche, Cina e India, due per ora, che si fanno strada fra i Paesi arabi per sboccare in Mediterraneo. In Mar Rosso, gli Houthi godono dell’appoggio dell’Iran e sono contro Israele, contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Hanno di fronte l’Arabia Saudita. Ci troviamo in un momento decisivo senza uno stratega e, sul genocidio di Netanyahu, i governi arabi chiedono aiuto alla Cina.

Israele è il numero uno del Mediterraneo Orientale, l’avamposto dell’Occidente, è il “cavallo” per noi europei; ma Netanyahu guarda al suo orto, non guarda lontano, semina morte, odio e la sua guerra chiama l’antisemitismo e la vendetta. Combatte Hamas, stuzzica gli Hezbollah, ma, senza di essi, il suo potere vacillerebbe. Se così è, gli Stati Uniti devono porre un freno a Netanyahu. Gli Accordi di Abramo erano la strada giusta. Ma è l’Arabia Saudita il “re” per noi, per Israele, per il Medio Oriente e il 20–21 maggio Donald Trump incontrerà il re Salman e altri ufficiali sauditi a Riyadh. Dio voglia Donald, che tu sia il presidente e che “re” Mohammad bin Salman veda lontano. Se proseguirà la normalizzazione tra Iran e Arabia Saudita, se ha le carte per ridefinire le dinamiche regionali in Medio Oriente, nel viaggio di Trump c’è molto di più di una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita: Anche la fine della guerra e la stabilità nel Mar Rosso e, perché no? in Libia. E non dimentichiamo che, nel 2018, proprio Trump, da presidente Usa, aveva ritirato unilateralmente gli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, contro il parere dell’Ue. Affermò che avrebbe negoziato un accordo più forte. Per Israele è importante che questo avvenga. La nostra domanda è, ora: “Saranno Riyadh e Teheran a ridefinire le dinamiche del Medio Oriente?”

Israele deve dialogare con tutto il mondo arabo, ma anche l’Europa deve far sentire il suo peso. Può farlo? e, sopratutto, può farlo con la Germania alla fame, la Francia di Macron in crisi politica, una guerra in Mar Rosso e un’altra con la Russia? Non può farlo e non può contare sul sostegno degli Stati Uniti per l’economia, che hanno privata scientemente del gas e dei mercati russi. Non può contare su Biden per un cessate il fuoco in Ucraina e a Gaza, ma il Mediterraneo ha bisogno di pace, non di Netanyahu, non di Biden e nemmeno di Erdoĝan: Pace!

Fonte Immagine: AP Photo/Vahid Salemi

L’America chiede a Netanyahu una conversione sulla via di Riad

Da Huffpost, di Janiki Cingoli, 16 Gennaio 2024

La missione di Blinken rilancia lo Stato palestinese, per coinvolgere gli arabi nella ricostruzione di Gaza. Il governo di destra si ribellerebbe alla soluzione a due Stati. Ma per Bibi è il costo politico per ottenere il premio della normalizzazione saudita che insegue da anni e del fronte unico contro l’Iran. E per la sua sopravvivenza politica, che oggi appare compromessa.

La missione che Antony Blinken, segretario di Stato americano, ha effettuato in Medio Oriente a inizio gennaio, la quarta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, è stata giudicata con scetticismo dalla maggior parte degli analisti internazionali. Tuttavia, David Ignatius, editorialista principe del Washington Post, dà una interpretazione differente. Egli sottolinea come l’esponente statunitense abbia rovesciato l’abituale itinerario delle sue missioni, che iniziava da Israele per poi continuare nelle maggiori capitali arabe.

6020.- Vi spiego come e perché la Cina manovra con l’Iran contro Israele. Parla Pelanda

Algeria

Mosse e obiettivi della Cina in direzione anti Israele. Conversazione con Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica.

Da Startmag, di Marco Orioles, 26 Ottobre 2023

Se si vuole capire qualcosa della crisi in Medio Oriente sarà bene prestare attenzione alle mosse della Cina. Come Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi spiega in questa intervista a Start Magazine, Pechino ha avuto un ruolo nell’innescare il conflitto tra Israele e Hamas, perché puntava “al colpo grosso, ossia sabotare quella Via del Cotone che collegherà India, Penisola Arabica e Israele e che è stata varata sotto l’egida degli Usa all’ultimo G20. Un progetto che la Cina è già riuscita a rallentare”.

Chi riconosce e sostiene oggi il diritto di Israele a difendersi? Non l’Onu, a quanto pare.

Il sostegno dell’Onu è del tutto irrilevante. Quel che conta è che Israele gode dell’appoggio di tutte le democrazie e, sebbene in modo non dichiarato, dei Paesi arabi sunniti. Quello che manca è invece un accordo sul come Israele dovrebbe difendersi: l’interesse di tutti è evitare l’escalation.

Gli americani sono molto impegnati su questo fronte.

Sì e anche gli europei, sebbene con una certa dose di ambiguità e con maggiori differenziazioni al loro interno. Si registra anzi una convergenza al livello del G7 allargato, che include l’India, nel contrastare le manovre dell’Iran.

Solo dell’Iran?

No, perché l’Iran gode del sostegno, per quanto non aperto, della Cina. È anche per questo che Israele dovrà distruggere Hamas, sempre che glielo consentano. Si tratta ora di fare in modo che Israele possa centrare il suo obiettivo senza mettere in difficoltà i Paesi arabi le cui opinioni pubbliche sono in rivolta.

Perché Israele dovrebbe distruggere Hamas?

Perché deve ristabilire la sua capacità di dissuasione, così platealmente violata lo scorso 7 ottobre. Il problema è il modo in cui gli sarà consentito di farlo, visto che il ricorso tradizionale alla forza bruta le viene continuamente contestato. In teoria Israele dovrebbe annientare anche l’Iran, ma questo gli americani non glielo consentono. Gli alleati non hanno alcun problema se Israele attacca la Siria o il Libano, ma con l’Iran sarebbe tutto un altro ordine di problemi.

E i Paesi arabi quanto contano nel calcolo di Israele?

Israele deve fare attenzione ora a non danneggiare il processo di normalizzazione delle relazioni con il mondo arabo, che era arrivato all’ultimo miglio. Anche questo rappresenta un vincolo per lo Stato ebraico. Israele ha tutto l’interesse a non essere demonizzata dal mondo arabo. Ecco perché lo Stato maggiore israeliano ha ora il compito di studiare un modo chirurgico per eliminare Hamas, evitando bagni di sangue. Anche l’Europa del resto vuole che Israele sia selettiva nelle sue operazioni contro Hamas.

Chi sta prevalendo per ora? Israele o i suoi nemici?

Se c’è un vincitore in questa crisi, questa è la Cina, che riservatamente ha dato il via libera all’Iran per scatenare l’inferno.

Ma perché lo avrebbe fatto?

L’obiettivo di Pechino era quello di incunearsi in Medio Oriente proponendosi come interlocutore nei processi di pacificazione. Ma la Cina puntava anche al colpo grosso, ossia sabotare quella Via del Cotone che collegherà India, Penisola Arabica e Israele e che è stata varata sotto l’egida degli Usa all’ultimo G20. Un progetto che la Cina è già riuscita a rallentare. È anche per questo motivo che Israele, che considera quel corridoio come rientrante nel suo interesse nazionale, terrà ora la briglia alla sua aviazione. Ma la Cina aveva anche un altro obiettivo.

Quale?

Nel sostenere i piani dell’Iran, riuscendo peraltro a celare abilmente il suo ruolo, la Cina si è voluta anche imporre come potenza mondiale e come interlocutore degli Stati Uniti.

Ma la Cina ufficialmente non sposa la non interferenza negli affari degli altri Paesi?

La Cina interferisce in tutti i modi possibili e immaginabili. E lo fa in una maniera molto più sofisticata della Russia. Si tratta di un attore strategico molto intelligente, il cui principale interesse è che ci siano tanti luoghi di conflitto nel mondo, in modo tale da disperdere l’attenzione e la forza degli Usa affinché questi ultimi non si concentrino sullo scacchiere asiatico e dunque sulla Cina stessa.

5976.- Israele-Gaza: il mondo si divide

Israele-Gaza: il mondo si divide

di Redazione Pagine esteri, 11 Ottobre 2023

Pagine Esteri, 11 ottobre 2023 – Se dopo l’operazione militare a sorpresadel movimento palestinese Hamas contro Israele i governi dei paesi aderenti o vicini alla Nato hanno espresso totale sostegno a Israele, nel resto del mondo le reazioni sono state in genere più equilibrate se non schierate dalla parte del popolo sottoposto a occupazione dall’ormai lontano 194


Il ministro degli Esteri cinese ha fatto sapere ieri che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale» ma il governo cinese non ha esplicitamente condannato il sanguinoso blitz di Hamas in territorio israeliano, irritando non poco Washington, Bruxelles e Tel Aviv. La portavoce della diplomazia di Pechino ha comunque aggiunto di augurarsi di vedere presto un rapido cessate il fuoco».

Da parte sua la Federazione Russa ha condannato lunedì la violenza contro ebrei e palestinesi, ma ha criticato gli Stati Uniti per quello che definisce il loro approccio distruttivo che ha ignorato la necessità di uno Stato palestinese indipendente. Il Cremlino ha chiesto il ritorno alla pace e si è detto “estremamente preoccupato” per il fatto che la violenza possa degenerare in un conflitto più ampio in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha condannato la violenza, ma ha detto che l’Occidente sarebbe miope se credesse di poter semplicemente condannare gli attacchi contro Israele e poi sperare in una vittoria israeliana senza risolvere la causa dell’instabilità, cioè l’occupazione della Palestina.


Le relazioni diplomatiche del Sudafrica con Israele sono tese, perché il governo dell’African National Congress lo definisce uno “stato di apartheid”. L’ANC afferma che Tel Aviv tratta i palestinesi nello stesso modo in cui il governo dell’apartheidopprimeva i neri sudafricani, «segregandoli e impoverendoli» per il solo fatto di essere palestinesi. Il governo sudafricano ha ribadito la sua solidarietà incondizionata alla causa palestinese.

Tra i Brics si distingue l’India che ha adottato una posizione simile a quella dei paesi del blocco euro-atlantico. «Il popolo indiano è con fermezza al fianco di Israele in questo momento difficile» ha scritto su X il primo ministro Narendra Modi dopo un colloquio telefonico con l’omologo israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Indonesia è «profondamente preoccupata dall’escalation del conflitto tra Palestina e Israele» e chiede «l’immediata cessazione della violenza per evitare ulteriori perdite umane» recita un comunicato pubblicato dal ministero degli Esteri di Giacarta. Secondo l’Indonesia, storicamente sostenitrice della causa palestinese, «devono essere risolte le radici del conflitto, in particolare l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele, in accordo con i termini stabiliti dalle Nazioni Unite».

Simile la posizione espressa dal governo della Malesia che ha esortato tutte le parti coinvolte a esercitare la moderazione e ad adoperarsi per la distensione ribadendo comunque il sostegno al diritto del popolo palestinese di vivere all’interno di uno stato indipendente. «I palestinesi sono stati soggetti alla prolungata occupazione illegale, al blocco e alle sofferenze, alla profanazione di Al Aqsa, così come alla politica di esproprio da parte di Israele in quanto occupante» ricorda una nota del ministero degli Esteri di Kuala Lumpur che definisce quella di Israele «un’amministrazione dell’apartheid».

Moqtada al-Sadr

Rispetto al passato alcuni paesi arabi hanno espresso giudizi relativamente equidistanti, per lo meno quelli che negli anni scorsi sono stati protagonisti dei cosiddetti “Accordi di Abramo” mediati dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti con Israele. È il caso di Emirati Arabi, Bahrein e Marocco. Il Marocco ha condannato «gli attacchi contro i civili ovunque accadano» mentre gli Emirati hanno espresso «sincere condoglianze a tutte le vittime della crisi». Gli Emirati però hanno anche chiesto alla Siria di non intervenire nel conflitto tra Israele e i movimenti palestinesi e di non consentire attacchi dal territorio siriano.

Egitto e Giordania, che riconoscono Israele rispettivamente dal 1978 e dal 1994, hanno denunciato i gravi rischi di una possibile escalation militare. Il ministro degli Esteri di Amman ha però ricordato «gli attacchi e le violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania». Il governo di Amman ha poi negato che gli Stati Uniti stiano utilizzando delle basi militari del paese per rifornire Israele di armi, accusa diffusa da alcuni media mediorientali.

L’Arabia Saudita, protagonista di un relativo processo di normalizzazione con Israele che però procede molto lentamente, ha chiesto l’immediata sospensione dell’escalation tra israeliani e palestinesi, la protezione dei civili e la moderazione, e ha invitato la comunità internazionale ad attivare un processo di pace credibile che porti a una soluzione a due Stati in Medio Oriente. Il Ministero degli Esteri di Riad ha ricordato i suoi «ripetuti avvertimenti sul pericolo che la situazione esploda a causa dell’occupazione e della privazione dei suoi diritti legittimi inflitta al popolo palestinese». Secondo molti analisti uno degli obiettivi dell’azione di Hamas di sabato scorso era proprio quella di far saltare l’avvicinamento tra Riad e Tel Aviv.

Anche il Qatar – che sostiene la Fratellanza Musulmana, corrente dell’Islam politico alla quale aderisce Hamas – ha indicato nelle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi le cause della recente crisi.
Invece il presidente turco Erdogan ha espresso una posizione più equidistante. «Chiediamo a Israele di fermare i suoi bombardamenti sul territorio palestinese e ai palestinesi di fermare le loro aggressioni contro gli insediamenti civili israeliani» ha detto Erdogan in un discorso televisivo, aggiungendo che «anche la guerra ha i suoi modi e la sua morale». La Turchia è l’altra capofila internazionale dei Fratelli Musulmani e sostiene Hamas economicamente e politicamente, ma teme che la crisi attuale causi la rottura delle sue buone relazioni (economiche e militari) con Israele. Ankara e Tel Aviv hanno in cantiere la realizzazione di un gasdotto che consenta il passaggio via Turchia del gas estratto nel grande giacimento israeliano denominato “Leviatano”.

Sostegno incondizionato ad Hamas è giunto immediatamente dal governo dell’Iran. Secondo la guida suprema della Rivoluzione iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, di fronte all’attacco sferrato dal movimento di resistenza islamica palestinese il 7 ottobre Israele ha subito un «fallimento irreparabile» dal punto di vista militare e di intelligence. L’ayatollah ha quindi elogiato la «gioventù palestinese che ha ordito un’operazione di tale intelligenza» smentendo le accuse circolate nei giorni scorsi a proposito di un coinvolgimento dell’Iran. «Quando la crudeltà e il crimine passano il segno e la rapacità giunge al parossismo, bisogna attendersi la tempesta» ha commentato il leader iraniano.

Ieri il presidente della Repubblica dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha espresso «la piena solidarietà con il popolo e il governo della Palestina» al leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (che in realtà è il principale rivale del movimento Hamas), denunciando «le gravissime violazioni commesse dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania». «Questi sviluppi ricordano a tutti che una pace giusta e completa, come opzione strategica, potrà essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano con Gerusalemme come capitale, in conformità con il diritto internazionale» ha sottolineato il capo di stato algerino. Nei giorni scorsi il presidente della camera alta del parlamento di Algeri ha condannato fermamente i «vergognosi attacchi dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese» nella Striscia di Gaza definendola «una scena di vergognosa umiliazione internazionale di fronte alla crescente arroganza coloniale». Il presidente del parlamento ha denunciato «la continua ipocrisia internazionale che applica doppi standard nei suoi rapporti con la giusta causa palestinese, attraverso la procrastinazione intenzionale, palesi pregiudizi e la vergognosa giustificazione dello spargimento di sangue da parte israeliana e dei suoi crimini contro l’umanità».
Anche il ministero degli Esteri algerino ha preso una netta posizione a sostegno di Hamas e rivendicando il diritto dei palestinesi a combattere contro «l’occupazione sionista».

Una posizione simile è stata espressa dal regime tunisino. La Tunisia intende sostenere il popolo palestinese sia sul piano diplomatico che su quello sanitario, ha detto il presidente Kais Saied dopo una riunione con alcuni ministri. Intanto il sindacato Unione Generale dei Lavoratori sta organizzando una grande manifestazione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese.

Le operazioni militari intraprese dal popolo palestinese sono il risultato naturale di decenni di «oppressione sistemica» da parte «dell’autorità di occupazione sionista», ha dichiarato il portavoce ufficiale del governo dell’Iraq. Nella dichiarazione si mettono in guardia le autorità israeliane dall’evitare una continua escalation nei Territori palestinesi occupati, che potrebbe compromettere la stabilità della regione.
Da parte sua il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha condannato i leader arabi per il loro continuo fallimento nel sostenere adeguatamente il popolo palestinese. In una conferenza stampa nella quale ha annunciato un grande raduno a Baghdad in solidarietà con la Palestina, al-Sadr ha detto «siamo pronti a fornire cibo e acqua a Gaza attraverso l’Egitto, la Siria o altrove” e ha invitato gli stati arabi a garantire la fornitura di energia elettrica e acqua all’enorme prigione a cielo aperto bombardata incessantemente dall’aviazione israeliana. Il leader sciita iracheno ha anche denunciato il doppio standard della comunità internazionale: «Tutti i paesi si sono affrettati a sostenere l’Ucraina. Perché non fare lo stesso per Gaza?».

Gustavo Petro

Passando all’America Latina, scontata la incondizionata solidarietà espressa ai palestinesi da parte dei governi di Cuba e del Venezuela.

Commentando una dichiarazione del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant che annunciava un “assedio completo” contro gli “animali” di Gaza il Presidente della Colombia Gustavo Petro ha detto: «Questo è ciò che i nazisti hanno detto degli ebrei».
Petro ha pubblicato dozzine di commenti sui social media sugli eventi da sabato, provocando uno scambio aspro con l’ambasciatore israeliano a Bogotà, Gali Dagan, che ha esortato la Colombia a condannare un «attacco terroristico contro civili innocenti». Nella sua risposta, Petro ha affermato che «il terrorismo consiste nell’uccidere bambini innocenti, sia in Colombia che in Palestina», esortando le due parti a negoziare la pace.

Sostanzialmente equidistante la posizione del governo brasiliano. Il Brasile non risparmierà alcuno sforzo per prevenire l’escalation in Medio Oriente, anche mediante il proprio ruolo di presidente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha scritto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, che si dice «scioccato dagli attacchi terroristici compiuti contro i civili in Israele». Il leader brasiliano invita la comunità internazionale a lavorare per una ripresa immediata di negoziati che portino a una soluzione del conflitto e che garantisca l’esistenza di uno Stato palestinese economicamente vitale, che coesista pacificamente con Israele entro confini sicuri per entrambe le parti.

Simile la posizione del presidente di centrosinistra del Cile Gabriel Boric che ha scritto: «Condanniamo senza riserve i brutali attacchi, omicidi e rapimenti da parte di Hamas. Niente può giustificarli o relativizzarli». Boric ha poi sottolineato che condanna anche «gli attacchi indiscriminati contro i civili condotti dall’esercito israeliano a Gaza e l’occupazione illegale del territorio palestinese».

«Il Messico è favorevole a una soluzione globale e definitiva al conflitto, con la premessa di due Stati, che affronti le legittime preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza e consenta il consolidamento di uno Stato palestinese politicamente ed economicamente vitale» ha ricordato il governo di Città del Messico. «Il Messico condanna inequivocabilmente gli attacchi insensati avvenuti contro il popolo di Israele il 7 ottobre da parte di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi a Gaza» ha dichiarato il Ministero degli Esteri.
Israele ha però espresso lunedì la sua “insoddisfazione” per le dichiarazioni del presidente Andrés Manuel López Obrador, definite poco incisive.

I cinque aspiranti alla presidenza dell’Argentina hanno dedicato al conflitto in Medio Oriente del secondo e ultimo confronto televisivo, tenuto domenica sera. «In primo luogo, la mia solidarietà con Israele e il suo pieno diritto a difendere il territorio dai terroristi» ha detto il candidato dell’estrema destra liberista Javier Milei, favorito al primo turno del 22 ottobre, Milei ha da sempre indicato Israele come punto di riferimento della sua politica estera. Solidarietà «con il popolo di Israele, in questo momento triste dell’attacco terroristico di Hamas» è stata espressa anche dalla conservatrice Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza nel governo dell’ex presidente Mauricio Macri. La candidata della sinistra, Myriam Bregman, parla del dolore per «le vittime civili, registrate in un conflitto che ha alla base la politica dello Stato di Israele, di occupazione e apartheid contro il popolo palestinese». Il ministro dell’Economia Sergio Massa, candidato del centrosinistra, ha espresso «solidarietà con tutte le vittime di un attacco terroristico brutale che oggi mette a lutto il mondo». Pagine Esteri

5901.- Navigare nel progetto Imec. L’imperativo strategico dell’Italia secondo Soliman

Il Nuovo Piano Mattei e il corridoio Imec sono una grande occasione per portare l’Italia al centro della nuova geoeconomia globale. Stiamo uniti!

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi | 12/09/2023 – 

Navigare nel progetto Imec. L’imperativo strategico dell’Italia secondo Soliman

Per Soliman, director al Middle East Institute (Mei), il corridoio Imec è una grande occasione per portare l’Italia al centro della nuova geoeconomia globale. L’imperativo strategico e le sfide all’orizzonte. Da “Indo Pacific Salad”, la newsletter a cura di Emanuele Rossi

Il Corridoio Marittimo Internazionale Eurasiatico (Imec) è destinato a diventare una svolta nel panorama globale, rappresentando un progetto “monumentale” (aggettivo usato da Joe Biden mentre lo presentava al G20) di infrastruttura e connettività volto a migliorare l’integrazione transcontinentale tra Asia, Golfo Arabico ed Europa.

Spesso indicato come il “rimland eurasiatico” o come “Indo Mediterraneo” (in continuità occidentale con l’Indo Pacifico) cerca di sfruttare la potenza dei flussi commerciali, tecnologici ed energetici per stimolare lo sviluppo economico su una scala senza precedenti. “Nel suo nucleo, rappresenta una visione della connettività che potrebbe rivaleggiare con le rotte marittime esistenti, ridefinendo le dinamiche del commercio globale”, ha spiegato Mohammed Soliman, director al Middle East Institute e uno dei primi strateghi a discutere del corridoio Imec, già nel 2020. Questo ambizioso progetto mira a creare una rete ininterrotta che colleghi regioni dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Europa.

L’attuazione di un progetto di tale portata su più continenti presenta una pletora di sfide. Innanzitutto, l’Imec deve confrontarsi con le rotte marittime esistenti, che da tempo rappresentano la linfa vitale del commercio globale. Superare il dominio consolidato di queste rotte — come quella per Suez — richiederà sforzi e risorse significative. Le tensioni geopolitiche in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale rappresentano un ulteriore ostacolo — a due giorni dal lancio ufficiale, ci sono già le difficoltà poste dalla Turchia, per esempio,2 che pianifica un proprio corridoio passante per l’Iraq noto come “Development Road Project”. La gestione di complessi problemi logistici e di trasporto su terreni vasti e diversi complica ulteriormente l’impresa. “Le controversie regionali, che covano da decenni, devono essere gestite con attenzione per garantire il successo del progetto”, aggiunge Soliman.

Nonostante queste sfide, l’Imec promette molto bene. I benefici economici derivanti dall’aumento del commercio e della connettività sono innegabili. “L’Imec non dovrebbe essere vista come rivale dell’Iniziativa Belt and Road (Bri) della Cina, ma piuttosto come una piattaforma che offre ai Paesi più opzioni per le loro strategie economiche e geopolitiche”, spiega il direttore del Mei.

L’Italia, con i suoi legami storici con l’Asia occidentale, si trova a un crocevia di opportunità nel progetto Imec. Tradizionalmente, spiega l’esperto statunitense, l’Italia ha mantenuto relazioni positive in questa regione, ma ha faticato a elevare la sua influenza per adeguarla al suo potenziale. “L’adesione all’Imec è una mossa fondamentale nella strategia italiana di rafforzamento dei legami con il Golfo e l’India. Partecipando, Roma segnala il proprio impegno ad espandere la propria impronta geopolitica ed economica sia a livello regionale che in Asia”.

La partecipazione dell’Italia all’Imec rappresenta anche una svolta rispetto alla precedente associazione con la Bri. Non è così? “L’uscita dalla Bri consente a Roma di impegnarsi in progetti infrastrutturali alternativi e in iniziative economiche più in linea con i suoi interessi strategici. Questa diversificazione dei partenariati non solo riduce la dipendenza dell’Italia da un’unica iniziativa, ma apre anche nuove vie di collaborazione”, risponde Soliman.

Ciò che emerge è che “Roma ha il potenziale per sfruttare la sua partecipazione all’Imec per migliorare la sua posizione regionale e globale, promuovere la crescita economica e contribuire allo sviluppo di questo significativo corridoio transcontinentale”. Le sfide sono formidabili, ma le potenziali ricompense sono altrettanto sostanziali, rendendo il coinvolgimento dell’Italia nell’Imec un imperativo strategico.

Questa analisi è parte di “Indo Pacific Salad”, la newsletter curata da Emanuele Rossi che si occupa di Indo Pacifico. Per accedere ai suoi contenuti esclusivi, basta iscriversi attraverso l’home page di Formiche.net

5893.- L’India si lega al Mediterraneo allargato. L’Italia è nel progetto

Un salto avanti rispetto alla Nuova Via della Seta e un risultato grande per il presidente Meloni. Collegare India-Middle Eas—Europe con l’Economic Corridor (Imec) significa guardare al futuro perché non è un semplice progetto per le comunicazioni stradali e ferroviarie. Certo, dal punto di vista politico, è più semplice pensare a collegare l’India con il Golfo che non il Golfo con l’Europa. L’Imec si propone con grande impatto e non esageriamo vedendovi una proposta di ridisegnare i rapporti fra i paesi dell’Occidente. L’Italia è parte di un’alleanza militare in chiave anti russa e di una Unione europea molto conforme agli interessi statunitensi e, di quando in quando, ai nostri. Ecco che chi vuole che il Mediterraneo allargato torni essere un crocevia, non solo di questo corridoio, deve avere una proposta per la rifondazione dell’Ue e crederci, per poterci confrontare, uniti, in una situazione paritaria con il Global South.

Da Formiche.net, articolo di Emanuele Rossi | 10/09/2023 – 

L’India si lega al Mediterraneo allargato. L’Italia è nel progetto

L’annuncio dell’Imec – l’infrastruttura che collegherà India, Medio Oriente ed Europa – è un colpo di scena geopolitico che (per quanto atteso) trasforma gli equilibri della connettività globale. L’Italia, come spiega Meloni dal G20, è parte del progetto. “L’accordo rappresenta il primo tentativo concreto di contrastare le strategie infrastrutturali cinesi”, spiega Rizzi (Ecfr) e per l’Italia si aprono due grandi opportunità 

Durante la riunione del G20, è stato presentato un ambizioso piano infrastrutturale per collegare l’India al Medio Oriente e all’Europa. Questo progetto trasformativo mira a stimolare la crescita economica e migliorare la cooperazione politica tra le nazioni partecipanti. Viene definito India-Middle Eas—Europe Economic Corridor, acronimo internazionale: Imec. In realtà il corridoio è doppio, biforcato in una porzione orientale che connette India e Golfo, e una settentrionale che collega il Golfo all’Europa.

Se ne sentirà parlare molto, perché è di fatto un’alternativa alla Belt & Road Intiative (Bri) e dunque ha una connotazione geopolitica concorrente con la Cina.

“Questa è un’impresa monumentale”, ha sottolineato il presidente statunitense Joe Biden, che ha presentato l’opera in una sessione laterale al vertice alla presenza dei rappresentanti di Emirati Arabi Uniti (ideatori e motori del progetto: “Senza di te credo che non saremmo mai stati qui”, ha detto Biden al leader emiratino Mohammed bin Zayed), Arabia Saudita, India, Unione Europea, Francia, Germania e Italia. La “grandissima importanza” di cui Biden ha parlato assume un valore speciale per Roma.

Spazio per l’Italia

Il governo di Giorgia Meloni sta formalizzando l’uscita dalla Bri, pur mantenendo in piedi il partenariato strategico con la Cina — a cui si agganciano le relazioni sino-italiane. Avere la possibilità di essere già dentro Imec è un elemento positivo per Roma, che ha una connotazione geostrategica naturalmente centrale nel Mediteranneo (che di Imen è il punto arrivo finale e gancio verso il resto d’Europa).

Fu grave danno la cessione della BREDA TRENI all’ITACHI. ndr

In questo progetto l’Italia può “svolgere un ruolo decisivo, grazie anche alla forza della sue aziende, nei settori marittimo e ferroviario”, ha detto Meloni – e in effetti, realtà come Fincantieri o Ferrovie sono all’avanguardia nel settore, ma anche altre società possono portare exprtise di primissimo livello. Il corridoio proposto promette infatti di facilitare il commercio, agevolare il trasporto delle risorse energetiche, securatizzare le supply chain, creare cavi connessioni energetiche innovative, rafforzare la connettività digitale. Obiettivi che si prefissa anche la Bri, che è stata lanciata 10 anni fa ed è in fase di bilanci (non sempre positivi).

“L’accordo rappresenta il primo tentativo concreto di contrastare le strategie infrastrutturali cinesi e di dare sostanza a quella Partnerhsip for Global Infrastructure and Investments (Pgii) che dopo il suo lancio un anno fa era rimasta sostanzialmente sulla carta”, spiega Alberto Rizzi, esperto dì Geoeconomia dell’Ecfr. 

La Pgii è uno sforzo collaborativo del G7 per finanziare progetti infrastrutturali nei paesi in via di sviluppo basati sui principi di fiducia del Blue Dot Network (Bdt), progetto congiunto tra Usa, Giappone e Australia che punta su investimenti per infrastrutture di alta qualità.  Biden ha già accolto con favore l’intenzione italiana di entrare nel comitato direttivo del Bdt. Il meccanismo ha l’intenzione di promuovere standard elevati negli investimenti infrastrutturali pubblico-privato in tutto il mondo. L’idea di fondo è spingere nuovi modelli rispetto a quelli cinesi che hanno mostrato debolezze dal punto di vista di efficienza e affidabilità (anche a livello politico, con molti Paesi che entrati in partnership sulla Bri si sono trovati stretti nelle cosiddette trappole del debito).

Per Rizzi, “rafforzare i collegamenti con l’India risulta fondamentale sia in ottica diplomatica, avvicinando Delhi a Bruxelles e Washington, sia economica, unendo il continente europeo al membro G20 con il più alto tasso di crescita”. Qual è il termine della sfida? “Se l’asse marittimo appare di semplice realizzazione, diverso è il discorso per quello ferroviario: le connessioni tra monarchie del Golfo sono già oggi in ritardo rispetto alla tabella di marcia e servirà un deciso cambio di passo”.

Tutto ciò apre due grandi opportunità per l’Italia: “Da un lato le sue aziende possono giocare un ruolo chiave nello sviluppo delle infrastrutture dei Paesi di transito e dall’altro la posizione permette di trasformare la penisola in una componente fondamentale del corridoio”, spiega Rizzi. “Un’ambizione che però si può realizzare solo completando l’interoperabilità tra porti e ferrovie, ad oggi ancora piuttosto limitata, specialmente al Sud”.

Tempi e costi del progetto 

Il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha illustrato come questa rete si allinei alla visione dell’amministrazione Biden su investimenti estesi e di un’efficace leadership americana in collaborazione con altre nazioni. L’americano prevede che l’infrastruttura promuoverà lo sviluppo economico, favorirà l’unità tra le nazioni del Medio Oriente e trasformerà la regione in un polo economico, allontanandosi dalle sfide, dai conflitti e dalle crisi storiche. Chiaramente, nessuno degli attori ai tavoli è stato esplicito, per prima la Casa Bianca, ma è evidente l’offerta alternativa alle mire geopolitiche cinesi che Imec rappresenti anche nella narrazione strategica che l’accompagna.

Amos Hochstein, uno dei più nevralgici consiglieri del presidente Biden con il compito di coordinatore l’Infrastruttura globale e la sicurezza energetica, ha fornito una tempistica approssimativa: Imec sarà avviato de facto il prossimo anno. Nei prossimi 60 giorni, i gruppi di lavoro svilupperanno un piano completo e stabiliranno le tempistiche più dettagliatamente, spiegano le fonti: la fase iniziale si concentrerà sull’individuazione delle aree che necessitano di investimenti e sulla connessione dell’infrastruttura fisica tra i Paesi. La previsione è che i piani possano essere messi in atto nell’arco dell’anno successivo, seguiti dalla sicurezza dei finanziamenti e dall’avvio della costruzione.

Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha accolto con favore l’iniziativa, sottolineando il suo potenziale per aumentare il commercio reciproco e la fiducia. Von der Leyen ha descritto l’iniziativa come un “ponte verde e digitale tra continenti e civiltà”, evidenziando anche l’inclusione di cavi per la trasmissione di elettricità e dati. Inoltre, ha presentato un “Corridoio Transafricano” che collega il porto angolano di Lobito a zone senza sbocco sulla costa nella Repubblica Democratica del Congo e alle regioni minerarie di rame dello Zambia. 

Queste iniziative, così come il Global Gateway europeo, sono modelli e proposte di cooperazione tra il Nord e il Sud del Mondo. Anche per questo, tenendo a mente l’idea del Piano Mattei e il tema del prossimo G7 (che sarà proprio quel contatto col Global South, su cui anche il G20 indiano ha avuto un focus), per l’Italia assumono altissimo valore. Ancora di più se si considerano che l’Inda è tra gli attori protagonisti: per Roma, che in primavera ha innalzato i rapporti con New Delhi a livello di strategic partnership, l’India è già sponda di progetti di connessione (un esempio il Blue Raman, progetto di connessione Sparkle-Google per connettere tramite cavi sottomarini l’Europa e il Subcontinente).

Oltre che digitalmente, il corridoio ferroviario e marittimo Imec promette di collegare fisicamente vaste regioni del mondo, promuovendo anche il commercio di prodotti energetici come l’idrogeno. I dettagli sul costo e sul finanziamento del progetto rimangono non divulgati, ma il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, ha menzionato una cifra di 20 miliardi di dollari durante l’annuncio. Non è chiaro se questa cifra rappresenti l’impegno esclusivo dell’Arabia Saudita.

5788.- Occidente contro tutti: effetto-boomerang della linea Biden

Cari Neocon,

la scelta di puntare sul partito democratico e sul candidato Joe Biden, già lesso, ha determinato la fine del primato dell’Occidente. Ormai la Cina è già avanti. Se vincesse Donald Trump dovrebbe battersi in ritirata, a meno di un abbraccio Trump -Putin. Per ora, arrivederci a Johannesburg. 

L’iper-atlantismo di USA, Nato, G7 e UE che ha generato la linea di scontro frontale con la Russia, sta coalizzando tutti i Paesi emergenti almeno in una opposizione chiara ai disegni dei Paesi occidentali. E la Cina emerge sempre più come il Paese catalizzatore.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, 17.07.2023. Di Eugenio CapozziI presidenti cinese e russo - Xi e Putin - nel vertice del marzo scorso

Fino a poco tempo fa gli entusiasti cantori della linea di scontro frontale con la Russia tenuta dall’amministrazione Biden, dalla Nato, dal G7, dall’Ue rispetto alla crisi ucraina continuavano a storcere la bocca beffardamente, con aria di superiorità e di commiserazione, davanti a osservatori meno entusiasti e più preoccupati di loro. Preoccupati perché indicavano come questa linea (sostegno militare senza riserve e senza nessun compromesso all’Ucraina, sanzioni durissime a Mosca) non soltanto non guadagnasse alcuna adesione da parte di paesi non alleati, ma al contrario stesse allontanando sempre più dall’Occidente molti paesi del “Sud globale” – compresi alcuni di rilevante peso precedentemente vicini, come India, Sudafrica, Brasile e altri latinoamericani – e stesse sempre più rafforzando la posizione di potenza della Cina. Non solo, il processo vedeva formarsi intorno all’organizzazione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) un embrione di coalizione multinazionale potenzialmente alternativa e ostile rispetto alle democrazie liberali di mercato di area Nato e G7.

Quei baldanzosi osservatori ultra-atlantisti sostenevano che l’impressione di un isolamento occidentale era sbagliata, frutto della propaganda russa e di una valutazione distorta della situazione. In realtà, secondo loro, l’appoggio cinese a Mosca era solo di facciata, perché Pechino avava bisogno assoluto dei mercati occidentali e presto avrebbe costretto Putin a più miti consigli; l’India si sarebbe presto o tardi aggregata alle posizioni occidentali allentando i legami con la Russia per non favorire la Cina, sua rivale geopolitica principale; i Brics avrebbero continuato a essere un nano politico, internamente minati da divisioni invalicabili.

Ora, indubbiamente non siamo ancora alla nascita di qualcosa di simile al Patto di Varsavia, e nemmeno al Fronte dei Paesi non allineati. E la nuova guerra fredda nata con la bipolarizzazione tra Stati Uniti e Cina rimane a un livello strisciante, tra picchi di tensione (su Taiwan e l’Indo-Pacifico) e consultazioni diplomatiche, aspirazioni al decoupling e persistente interdipendenza economica e tecnologica. Tuttavia, a ormai quasi un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, i segnali del consolidamento di una situazione che potremmo definire di “Occidente contro resto del mondo” sono sempre più numerosi, evidenti e correlati, e non si individua pressoché alcun indicatore in direzione inversa.

Soltanto nelle ultime settimane se ne sono accumulati molti, su cui, come ormai avviene regolarmente dall’inizio della guerra, il sistema mediatico occidentale, tranne limitate eccezioni tarato ormai su una propaganda a reti unificate, ha fatto calare un imbarazzato silenzio. Ne elenchiamo qui di seguito alcuni. A fine giugno il primo ministro indiano Narendra Modi, incontrando il presidente Joe Biden a Washington, pur stipulando importanti accordi di collaborazione con gli Stati Uniti in campo tecnologico e militare, si è rifiutato ancora una volta (come aveva fatto in occasione della riunione del forum Quad, che unisce Washington, Nuova Dehli, Australia e Giappone) di condannare l’invasione russa o di aderire alle sanzioni contro Putin. I Paesi aderenti alla Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) in preparazione al vertice tra l’organizzazione e i leader dell’Ue che si terrà oggi e domani (17 e 18 luglio) a Bruxelles hanno respinto la bozza preparatoria inviata dagli europei, chiesto di espungere dalla stessa qualunque presa di posizione unilaterale sulla guerra e posto con decisione il veto all’invito all’incontro del presidente ucraino Volodymir Zelensky.

In vista dell’importante vertice dei Brics che si terrà a Johannesburg dal 22 al 24 agosto, il governo sudafricano guidato da Cyril Ramaphosa, pur aderendo alla convenzione Onu sul tribunale internazionale contro i crimini di guerra, si è rifiutato di dare corso al mandato di arresto pendente contro Wladimir Putin, se questi deciderà di essere presente alla conferenza. Intanto, negli ultimi mesi le richieste di adesione all’organizzazione, sempre più caratterizzata da un profilo apertamente politico di sfida alle politiche occidentali, si sono moltiplicate: aspirano a far parte del forum ben 20 paesi del Medio Oriente, dell’Africa, del Maghreb, del Sudamerica, tra cui Argentina, Indonesia, Nigeria, Etiopia, Iran, e soprattutto Arabia Saudita: Paese tradizionalmente vicino all’Occidente, che dopo gli “Accordi di Abramo” siglati sotto la guida di Trump con Israele, nel marzo scorso ha firmato un’intesa con l’Iran, precedentemente suo nemico numero uno, con la mediazione della Cina.

Infine – notizia degli ultimi giorni – Pechino ha annunciato che alle prossime esercitazioni militari che il suo esercito terrà nel Mar del Giappone (dall’intento esplicitamente intimidatorio contro possibili tentativi di freno da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, Giappone in primis, di frenare le sue ambizioni egemoniche sulle coste del Pacifico) parteciperanno anche truppe russe. In questo modo si dà seguito concreto e, per gli americani, assai preoccupante a quella “alleanza senza fine” finora non smentita in nessuna sede, nonostante le aspettative di molti osservatori occidentali.

Il tutto in un quadro caratterizzato dall’ormai evidente fallimento totale delle sanzioni anti-russe, che hanno prodotto una vera e propria esplosione delle esportazioni di greggio da parte di Mosca verso Cina, India e paesi latinoamericani, con relativo aggiramento totale dei divieti attraverso triangolazioni da parte di altre nazioni. Insomma, non esiste ancora una “cortina di ferro” tra Occidente e “Sud globale” al seguito di Pechino, con annessione del “satellite” russo, ma sicuramente siamo già di fronte a un vero e proprio “muro di gomma”, sul quale vanno ormai regolarmente a rimbalzare i tentativi degli Stati Uniti, dei loro alleati, dell’Unione europea di attrarre il resto del mondo nella loro orbita e di indirizzarne le scelte politiche ed economiche.

E proprio la strategia aggressiva varata dall’Occidente contro la Russia dal febbraio 2022 ha ottenuto un clamoroso effetto boomerang, fornendo una grande spinta all’aggregazione e collaborazione tra tutti i paesi che non intendono conformarsi all’egemonia occidentale. È nato “un mondo contro”, come lo ha denominato uno studioso di geopolitica non certamente anti-occidentale come Dario Fabbri nel pregevole numero monografico recentemente dedicato al fenomeno dalla sua rivista Domino. Uno schieramento ancora in gran parte virtuale, ma già solidamente esistente nella mente, nei pensieri, nei sentimenti di coloro che ne sono attratti: animati da un latente, e oggi risorgente, spirito di rivincita anticolonialista, sostenuto dalla convinzione di avere il tempo, i numeri, le forze dalla propria parte.

Ci sarebbero molti elementi per interrogarsi serimanete sugli esiti dell’”iper-atlantismo” a base di anabolizzanti incessantemente spacciato da tutto l’establishment occidentale da 15 mesi. Ma sospettiamo che ancora una volta ciò non avverrà, e che si continuerà con le parole d’ordine ideologiche ad oltranza, fino a quando la realtà busserà alla porta con colpi talmente forti da sfondarla.

5715.- Un’altra avventura di Biden: Biden accoglie Modi e punta all’asse Usa-India contro Cina e Russia

La difficile scommessa di Biden sull’India: Modi tra Usa e Cina

Il leader indiano Narendra Modi dichiara che il suo paese è «totalmente pronto» a sostenere gli sforzi nella direzione della pace sia nell’Indo-Pacifico che in Ucraina. Non c’è motivo di non credere al proposito di Modi, ma sostenere gli sforzi nella direzione della pace e proprio nell’Indo-Pacifico e in Ucraina non significa schierarsi in armi contro la Cina e contro la Federazione russa. Questa iniziativa della Casa Bianca segue il nulla di fatto di Blinken a Pechino. Vuole sparigliare le carte, allentando la tensione e assume il significato di un mandato per Modi. L’India si offre come mediatore. Ma qual’e’è la pace possibile per Biden?

Anzitutto, il peso geopolitico ed economico sia della Cina che dell’India è andato aumentando con livelli di crescita e di sviluppo elevati che ne hanno fatto delle grandi potenze, la prima a livello globale e l’altra a livello regionale. Non dubitiamo del peso economico dell’India e anche politico, ma nemmeno dimentichiamo che si parla di un popolo composto da  quattro etnie principali e almeno 400 gruppi tribali di varia origine. Cina e India tendono a fasi alterne a sviluppare fra loro la cooperazione, infatti, vengono a trovarsi spesso in competizione.

Dal punto di vista economico, entrambe queste potenze dipendono dalle importazioni di energia. Qui, la Cina è una potenza nucleare, l’India, con l’accordo sul nucleare civile con gli Stati Uniti, è in condizioni di poter sviluppare una partnership anche politica con la Cina nell’emisfero australe.

Dal punto di vista militare, l’India ha di fronte due potenze nucleari, il Pakistan e la Cina e l’alleanza con gli Stati Uniti bilancia questo gap, almeno nel campo civile. Da parte USA, la finanza potrebbe trarne vantaggio, per esempio, cedendo un numero importante di F-35, più di 100, cioè a dire, modernizzando la forza aerea dell’India, quarta nel mondo, ma superata e le sue portaerei e cedendo anche tecnologia per il progetto AMCA indiano di 5a generazione.

Per inquadrare il peso politico dell’India, è importante notare che la prima portaerei realizzata in India si è avvalsa dell’italiana Fincantieri per la progettazione della nave, l’apparato motore è su 4 turbine a gas General Electric LM2500+ da 22 Megawatt, americane, parte delle attrezzature aeronautiche è russa, come sono russi i suoi Mig-29k, i radar, i sensori e i sistemi d’arma (missili Barak 8 MR-SAM) provengono principalmente da Israele, ma anche dalla Russia e dall’Italia. L’altra portaerei le fu ceduta dalla Federazione russa.

Per concludere, tutto lo scacchiere asiatico è in evoluzione. Le situazioni in conflitto sono importanti, perciò, bisognerà attendere per capire come si muoveranno le relazioni tra l’India, la Cina, la Russia e gli Stati Uniti. Dall’avvicinamento degli Stati Uniti, l’India ha soltanto da guadagnare. Per il momento, saranno gli USA a pagare il tentativo di sganciare l’India dalla Russia e contenere l’ascesa della Cina con quella della potenza indiana.

Modi dichiara che il suo paese è «totalmente pronto» a sostenere gli sforzi nella direzione della pace sia nell’Indo-Pacifico che in Ucraina 

Biden ricevendo il primo ministro indiano Narendra Modi alla Casa Bianca ha affermato: «Le sfide e le opportunità che il mondo deve affrontare in questo secolo richiedono che l’India e gli Stati Uniti lavorino e guidino insieme».

Biden: «Le sfide e le opportunità che il mondo deve affrontare in questo secolo richiedono che l’India e gli Stati Uniti lavorino e guidino insieme», ha affermato Biden, incassando la risposta convinta di Modi. «I due Paesi si impegnano a lavorare insieme per il bene globale e per la pace, la stabilità e la prosperità globali. La nostra forte partnership strategica è una chiara prova del potere della democrazia», ha detto il leader hindu, celebrando l’incontro con Biden come «l’apertura di un nuovo capitolo» nella relazioni bilaterali.

Biden ha evocato anche il tema dei diritti, insistendo che la libertà di stampa e il pluralismo religioso sono tra i «principi democratici fondamentali» sia per gli Stati Uniti che per l’India «anche se hanno affrontato sfide nel corso della storia di ciascuna delle nostre nazioni».

La difficile scommessa di Biden sull’India: Modi tra Usa e Cina

Lorenzo Vita, da Il Riformista, 23 Giugno 2023

Il primo ministro indiano Narendra Modi è stato accolto a Washington nella maniera più calorosa possibile. Ricevimento alla Casa Bianca, cene, incontri di altissimo livello. Un continuo tappeto rosso che conferma una sfida che da tempo caratterizza la politica estera degli Stati Uniti: riuscire a strappare il gigante asiatico dalla sua tradizionale politica di non allineamento per spostarne il baricentro verso il blocco “occidentale”.

Partita difficile, su cui gli analisti si dividono tra chi la ritiene un azzardo o una missione impossibile e chi, in maniera più ottimistica, la considera un obiettivo fondamentale e raggiungibile anche nel breve termine. Joe Biden, come del resto i suoi predecessori, rientra in questo secondo blocco. E nonostante gli ostacoli sul cammino dell’allineamento tra Nuova Delhi e Washington, il presidente Usa cerca di portare avanti la sua agenda indiana per raggiungere due distinti obiettivi: sganciare il Paese asiatico dai rapporti con la Russia e provare a sfruttare l’ascesa della potenza indiana in chiave di contenimento cinese.

Sul fronte dei rapporti con Mosca, la sfida appare difficile, perché si gioca nei campi dell’industria militare e dell’energia. Sotto il primo aspetto, gli Stati Uniti sono da tempo impegnati affinché l’India diversifichi le forniture belliche. Con accordi sulla tecnologia e con deroghe ad alcune sanzioni internazionali, Washington ha cercato di sostenere l’industria militare indiana, e l’incontro tra Modi e Biden è servito anche per blindare la partnership con gli Usa in questo settore. Tuttavia, come dimostrano gli ultimi dati dello Stockholm International Peace Research Institute, il 45 per cento delle importazioni indiane nel settore delle armi è ancora di origine russa. E questo nonostante si assista da almeno cinque anni a un calo di questa quota di mercato che un tempo superava il 60 per cento. Anche sul lato energetico, la questione appare complessa e costituisce uno dei grandi motivi per cui l’India, pur condannando l’invasione dell’Ucraina, ha evitato di intraprendere la strada dell’intransigenza verso il Cremlino.

In questi ultimi giorni, parlando del tema del conflitto e della posizione riguardo una possibile via d’uscita, Modi ha detto in modo sibillino: “Non siamo neutrali. Siamo dalla parte della pace”. Parole che confermano la linea diplomatica indiana, tendenzialmente poco incline a schierarsi in modo netto anche a scapito di un raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Del resto, dall’inizio della guerra in Ucraina Nuova Delhi non ha fatto che cementare gli scambi energetici con Mosca e li ha anche ampliati, complici proprio le sanzioni da parte dei clienti europei. I numeri del 2023 hanno evidenziato il continuo aumento delle importazioni di petrolio russo in India sia nel corso dell’anno che rispetto al 2022, e alcune aziende sono state accusate di raffinare e rivendere l’oro nero di Mosca nel mondo, di fatto andando a diminuire l’efficacia delle sanzioni internazionali.

Diverso il discorso per quello che riguarda il rapporto tra Cina e India. L’interesse di Modi, in questa fase, è certamente quello di sfruttare il sostegno statunitense per ergersi a potenza dell’Indo-Pacifico frenando l’ascesa di Pechino. Gli interessi di Washington e Nuova Delhi sembrano dunque convergere, e lo dimostra anche l’adesione dell’India all’alleanza Quad promossa dagli Usa, che unisce i due Paesi insieme ad Australia e Giappone. Anche in questo, alcuni analisti ritengono però che sia eccessivamente pretenzioso sperare che Modi volti completamente alle spalle a Pechino scommettendo sull’alleanza con gli Stati Uniti.

I rapporti con Xi Jinping non sono certo amichevoli, e le dispute di confine unite alla sfida per la supremazia del continente e in alcuni specifici settori certificano la concorrenza tra l’Elefante e il Dragone. Tuttavia, alcuni osservatori segnalano un problema: è difficile limitare la politica di un Paese come l’India nella scelta di campo tra Cina e Usa.