Archivi categoria: Politica estera – Pakistan

6159.- Nave Duilio è stata mandata in una missione di guerra, non di pace. La favola è già finita


Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sanguinario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez”, sottolinea infatti Frattini l’irriducibile, “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40%. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Italia in guerra nel Mar Rosso – Perché la favola della missione difensiva è già finita

Di Fabrizio Micheli

Alta tensione con gli Houthi titolava a 6 colonne ieri Il Corriere in prima pagina; “La nave Duilio abbatte altri due droni nel Mar Rosso” e “i ribelli minacciano: l’Italia sta con i nemici”. Secondo Davide Frattini, “tutte le imbarcazioni che transitano al largo delle coste yemenite sono nel mirino del gruppo sciita” e “Così, nella volontà degli estremisti l’offensiva a Gaza contro Hamas diventa globale”; notare i termini: quello di Gaza non solo non è un massacro e, tantomeno, un genocidio, ma non è manco una guerra vera e propria. E’ un’offensiva: l’offensiva dei moderati ai quali si contrappongono gli estremisti che, ovviamente, non sono altro che un proxy di forze ancora più oscure perché chi mai, nel pieno possesso delle sue facoltà, deciderebbe di sua sponte di provare a ostacolare l’arrivo in Israele delle armi che usano per sterminare i bambini palestinesi? Queste forze oscure, ovviamente, in primo luogo sono l’Iran che, da dietro le quinte, “muove le sue armate per procura”, un tassello importante della propaganda suprematista che non sta né in cielo, né in terra e non è che lo diciamo noi: lo dice pure il Corriere stesso; basta girare pagina. “La milizia non ha vincoli” si legge “ed è autonoma dall’Iran”: a sottolinearlo non è esattamente un pasdaran del nuovo ordine multipolare, ma l’ultra atlantista Guido Olimpo che, sebbene ricordi – giustamente – che “è innegabile l’importanza del vincolo bellico con i pasdaran”, ha comunque un raro sprazzo di lucidità e sottolinea come “è opinione condivisa che il vertice Houthi abbia autonomia di scelta”.
Una lucidità che, evidentemente, manca al buon Davide Frattini che rilancia, perché – oltre all’Iran – c’è un’altra forza oscura dietro ai pupazzi yemeniti, la più oscura di tutte le forze oscure: il plurimorto dittatore sangunario Vladimir Putin; “Il blocco di fatto dei traffici verso il canale di Suez” sottolinea infatti Frattini l’irriducibile “ha rilanciato i trasporti via terra lungo le ferrovie russe” che, essendo la Russia un sanguinario regime autarchico, ovviamente, sono “monopolio di proprietà dello Stato”. Ed ecco così che il cerchio si chiude e quegli estremisti degli Houthi, alla fine, commettono un crimine in prima persona e ne sostengono un altro indirettamente perché “Ogni vagone che passa sopra quei binari va a finanziare l’invasione dell’Ucraina”: come si fa a non prendere orgogliosamente parte a questo ennesimo capitolo della lunga guerra del Bene occidentale contro il Male del resto del mondo?
La notizia dell’aumento del traffico merci sui binari russi dall’inizio della crisi del Mar Rosso, riportata da Frattini, arriverà dal Financial Times: i vari operatori, scrive la testata britannica, avrebbero in effetti parlato di aumenti dal 30 al 40. Ma c’è un piccolo dettaglio che a Frattini, evidentemente, è sfuggito: “I volumi mensili sulla rotta” riporta infatti il Financial Times “sono diminuiti dopo l’invasione e rappresentano ancora meno della quantità trasportata da una singola grande nave portacontainer moderna”; un altro capitolo della lunga saga dell’odio viscerale dei giornalisti di colonia Italia verso i numeri e la logica matematica. Secondo Frattini, la Russia spingerebbe verso un’escalation potenzialmente devastante per spostare il traffico di mezza nave container: quando si dice il giornalismo basato sui dati; la guerra del bene contro il male comunque, continua Frattini, potrebbe essere solo all’inizio perché “L’asse della resistenza, come si autodefinisce, adesso spera che il mese più sacro per i musulmani” e, cioè, il periodo di Ramadan iniziato domenica scorsa “spinga ad aprire altri fronti contro Israele”. Pensate, addirittura, che vorrebbero incitare “proteste violente a Gerusalemme e in Cisgiordania”: cosa c’avranno mai da protestare lo sanno solo loro e i loro cattivi maestri di Teheran e Mosca… Per fortuna che ci sono gli USA: guidati da spirito di sacrificio, infatti, “Gli americani continuano a negoziare un’intesa per la liberazione”, da un lato, di “un centinaio di ostaggi” sequestrati senza motivo dai crudeli “terroristi” e, dall’altro, di “detenuti palestinesi” ai quali, invece, vengono garantiti tutti i diritti e che, quasi quasi, stanno meglio in carcere che nei loro villaggetti di selvaggi, tant’è che ora nelle carceri israeliane ci vogliamo mandare anche i palestinesi residenti in Italia.

Anan Yaeesh

E’ l’incredibile caso di Anan YaeeshIl terrorista palestinese vezzeggiato da sinistra e 5scome titolano i paladini del garantismo del Giornanale – un garantismo che vale solo per la razza ariana e per i redditi da 100 mila euro in su; sulla testa di Yaeesh, infatti, incombe una richiesta di estradizione da parte del regime fondato sull’apartheid di Tel Aviv, che il procuratore ha deciso di fare sua: Yaeesh sarebbe accusato di aver collaborato con le Brigate Tulkarem in attività che avrebbero “finalità terroristiche” che, per gli israeliani, significa qualsiasi cosa che uno fa per resistere alla pulizia etnica. L’articolo 3 della CEDU, ovviamente, impedirebbe di consegnare una persona a un paese che pratica la tortura, ma siccome Israele è una l’unica democrazia del Medio Oriente, lì la tortura la chiamano metodi avanzati di interrogatorio e alla propaganda suprematista a sostegno del genocidio tanto basta. Tornando all’articolo di Frattini, bisogna concedergli che anche lui, a un certo punto, ammette che “La situazione per la popolazione di Gaza continua ad essere disastrosa”; peccato la colpa sia tutta di Hamas che non solo, con il suo pogrom ingiustificato del 7 ottobre, ha scatenato l’offensiva dei pacifici israeliani, ma ora ostacola anche l’arrivo degli aiuti a 2 stelle Michelin: grazie anche al supporto della sempre generosissima Unione Europea, infatti, è stato stabilito un corridoio marittimo che da Cipro sfocia direttamente in un nuovo molo in costruzione al nord di Gaza ed è qui che sbarcheranno gli aiuti della “World Central Kitchen, l’organizzazione creata dallo chef ispano – americano José Andrés”: volevano il pane; gli abbiamo dato la cucina molecolare (e si lamentano pure). In questo contesto, scrive il Giornanale, “essere sullalavagna nera delle milizie finanziate dall’Iran costituisce un motivo di orgoglio”.
Alcuni, infatti, si limitano a parlare di autodifesa della nostra Caio Duilio, ma – ovviamente – in ballo qui c’è molto di più: lo rivendica con orgoglio l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, già capo di stato maggiore della marina militare: “Finiamola di parlare di autodifesa” avrebbe affermato al Giornanale; “qui difendiamo gli interessi europei e nazionali” e per difenderli adeguatamente, le regole d’ingaggio, che prevedono una missione meramente difensiva, cominciano già a stare strette. “Le informazioni della Caio Duilio” sottolinea, infatti, Rinaldo Frignani sempre sul Corriere della Serva “comprendono la posizione di chi lancia e manovra i droni” e – indovina indovinello – “vengono comunicate agli alleati, come gli USA, che potrebbero usarle”; così, en passant, come se nulla fosse, Frignani ammette candidamente che la nostra Aspides non è ancora iniziata e già la favoletta della missione difensiva non regge più: la nostra presenza nel Mar Rosso è, a tutti gli effetti, parte della missione offensivadei padroni a stelle e strisce, che continua ad allargarsi.
All’alba di martedì, infatti, Ansar Allah avrebbe preso di mira il cargo americano Pinocchiocon una serie di missili: nel gioco delle tre carte che le portacontainer legate a Israele stanno cercando di fare dall’inizio delle operazioni di Ansar Allah per dissimulare i loro legami con il genocidio, la nave risultava battere bandiera liberiana e legata alla compagnia USA Oaktree Capital Management, ma c’era qualcosa che aveva insospettito l’intelligence yemenita; la nave infatti, riporta Al Akhbar, “portava sopra il logo della compagnia israeliana Zim, e tra i vecchi nomi dell’imbarcazione risultavano nomi come Zim San Francisco. Ad aumentare i sospetti – poi – il fatto che la nave, che era partita domenica dal porto di Gedda in direzione del canale di Suez, non avesse menzionato nelle sue dichiarazioni la destinazione finale”. “Le navi americane e britanniche dirette verso i porti della Palestina occupata” continua Al Akhbar “falsificano deliberatamente sistematicamente i loro dati nel tentativo di attraversare il Mar Rosso”. La reazione USA è stata feroce: oltre 20 raid aerei in cinque aree diverse e non tutte con chiari obiettivi militari, come l’attacco nel Governatorato di Saada che, sempre secondo Al Akhbar, sarebbe giustificato soltanto dal fatto che “è la roccaforte del leader di Ansar AllahAbdul Malik Al Houthi”. L’efficacia di questi attacchi rimane comunque piuttosto dubbia, ed ecco così che gli USA stanno cercando un’alternativa: secondo Al Akhbar, infatti, “Gli Stati Uniti hanno fornito imbarcazioni militari al Consiglio di Transizione Meridionale affiliato agli Emirati, nel tentativo di coinvolgerlo in una guerra per procura”; si tratta dell’organizzazione politica secessionista yemenita guidata dall’ex governatore di Aden, Aidarus al-Zoubaidi che, nata nel 2017 per rivendicare la separazione dello Yemen del Sud dal resto della nazione, è sostenuta da Abu Dhabi. “Aidarus al-Zoubaidi che, in precedenza, aveva espresso la volontà di normalizzare le relazioni con l’entità israeliana” scrive Al Akhbar “è apparso a bordo di una delle barche americane in una parata navale, e insieme a lui c’erano numerosi comandanti militari fedeli agli Emirati Arabi Uniti”: secondo Al Akhbar avrebbero ricevuto l’incarico dagli USA di accompagnare le navi legate a Israele mentre si avvicinano al porto di Aden e allo stretto di Bab el-Mandeb. A emettere un appello ad affiancare le forze USA e britanniche contro Ansar Allah sarebbe stato anche Abu Zara’a Al-Muharrami, comandante delle Forze dei giganti – le milizie fedeli ad Abu Dhabi – e vicepresidente del Consiglio di Transizione, una macchinazione che, però, avrebbe fatto infuriare la popolazione locale: contro l’appello, infatti, “Gli studiosi e i predicatori di Aden” riporta Al Akhbar “hanno emesso una fatwa, che riconosce che esiste una disputa con chi è al governo a Sanaa” e cioè, appunto, Ansar Allah, “ma che non è assolutamente consentito schierarsi dalla parte di Israele e dell’America”; “Questa fatwa” continua Al Akhbar “indica che esiste un diffuso rifiuto tra le milizie di transizione di qualsiasi escalation contro Sana’a, e che le opzioni di Washington per mobilitare queste fazioni sono diventate così più limitate”.

Hicham Safieddine

Fortunatamente però, dopo tante delusioni, per gli occidentali a sostegno del genocidio è arrivata anche una buona notizia; l’ha annunciata su Telegram Nasr El-Din Amer, il vice presidente dell’agenzia dei media di Ansar Allah: “La prima vittoria ottenuta da America e Gran Bretagna” ha annunciato “è la rimozione delle spunte blu dagli account Twitter dei leader statali di Sana’a. Per quanto riguarda invece le forze armate yemenite, dai razzi, ai droni a tutte le capacità militari, non sono state scalfite. Si scopre che l’America è una forza da non sottovalutare, fratelli”. Quella di bullizzare i colonialisti e gli aspiranti tali, in Yemen, effettivamente, è una vecchia tradizione: come ricorda su Middle East Eye lo storico canadese di origini libanesi Hicham Safieddine, nonostante i britannici abbiano mantenuto il controllo della città costiera di Aden per oltre 125 anni, non sono mai riusciti ad “espandere il loro dominio nell’entroterra” fino a quando “Nel 1963, il Fronte di Liberazione Nazionale (FNL) lanciò una lotta armata con il sostegno rurale della regione montuosa di Radfan. Gli inglesi designarono l’FNL come un’organizzazione terroristica e risposero bruciando villaggi e altri atti di violenza collettiva. Le campagne punitive britanniche, tuttavia, fecero ben poco per smorzare la resistenza yemenita”; “Le forze radicali della resistenza dello Yemen del Sud” continua Safieddine “adottarono un’ideologia marxista – leninista che prevedeva un futuro socialista per uno Yemen liberato. La loro posizione intransigente nei confronti dell’occupazione britannica portò a una vittoria spettacolare nel 1967. E i tentativi britannici di negoziare un ruolo economico o militare nello Yemen post indipendenza, simile a quello francese in Algeria, furono di breve durata e in gran parte infruttuosi, con gli inglesi che alla fine furono costretti a pagare oltre 15 milioni di dollari come indennità. Questo” sottolinea Safieddine “ha lasciato un ricordo doloroso tra i funzionari britannici che perdura ancora oggi”. A differenza di altre lotte di liberazione nazionale che hanno conquistato fama e riconoscimento internazionale – da quella algerina a quella cubana – la vicenda yemenita è stata sistematicamente snobbata dal pubblico occidentale, ma per alcuni storici, sottolinea Safieddine, “Lo Yemen è stato il Vietnam della Gran Bretagna”, una storia gloriosa che continua a ispirare Ansar Allah: in un recente discorso televisivo, riporta Safeiddine, “Abdel-Malik al-Houthi ha messo in guardia il Regno Unito da qualsiasi illusione nutrisse di ricolonizzare lo Yemen. Tali illusioni, ha detto, “sono i segni di una malattia mentale la cui cura è nelle nostre mani: missili balistici che bruciano le navi in mare”. Anche a questo giro, la tendenza è stata subito quella di minimizzare e descrivere un gruppo di terroristi scappati di casa che attentano, con la loro barbarie, il giardino ordinato salvo poi, nella provincia dell’impero, dedicare titoloni a 6 colonne all’eroismo e alla professionalità dei nostri uomini per aver tirato giù un drone da ricognizione con un cannoncino.
La verità, però, potrebbe essere un po’ meno confortevole: “Quanti marinai USA ci sono adesso nel Mar Rosso?” ha chiesto la giornalista Norah O’Donnell al vice ammiraglio Brad Cooper durante una puntata del celebre programma televisivo statunitense 60 minutes; “Ne abbiamo circa 7.000 in questo momento. Si tratta di un impegno imponente”. “Quando è stata l’ultima volta che la Marina americana ha operato a questo ritmo per un paio di mesi?” ha chiesto ancora la giornalista; “Credo dovremmo tornare alla Seconda Guerra Mondiale” ha risposto il vice ammiraglio, “quando ci sono state navi impegnate direttamente nei combattimento. E quando dico impegnate in combattimento, intendo che ci sparano e noi rispondiamo al fuoco”. Il vice ammiraglio Cooper ricorda anche come “Gli Houthi sono la prima entità nella storia a utilizzare missili balistici antinave per colpire delle navi. Nessuno li ha mai usati prima contro navi commerciali, e tantomeno contro navi della marina americana”; come sottolinea il vice ammiraglio, parliamo di missili che viaggiano a circa 3 mila miglia orarie e, dal momento dell’avvistamento, il capitano di una nave ha dai 9 ai 15 secondi per decidere il da farsi e visto che è sempre meglio aver paura che prenderle, la tendenza a reagire sempre con il massimo della forza è inaggirabile. Risultato – sottolinea il servizio di 60 minutes -: “La marina ha lanciato circa 100 dei suoi missili terra – aria Standard, che possono costare fino a 4 milioni di dollari ciascuno”; l’unica via di uscita sostenibile, quindi, è questi benedetti missili balistici riuscire a colpirli con attacchi aerei in territorio yemenita prima che partano. Ed ecco allora che l’intelligence che forniamo, anche con la missione difensiva degli alleati europei, diventa fondamentale e la trasforma automaticamente in qualcosa che non è difensivo per niente e che potrebbe, a breve, dover affrontare uno scenario ben più complesso di quello attuale.

Maritime Security Belt

Lunedì scorso, nel Golfo di Oman, è iniziata un’esercitazione marittima congiunta di Iran, Russia e Cina; si chiama Maritime Security Belt ed è arrivata alla sua quinta edizione, un traguardo che hanno deciso di festeggiare alla grande: nella prima edizione, infatti, la Cina aveva partecipato con una sola nave; la seconda l’aveva saltata tout court e alle successive due si era presentata, di nuovo, sempre con una sola imbarcazione. Quest’anno, invece, non si raddoppia: si triplica e, ad affiancare il solito cacciatorpediniere, ci saranno anche una fregata e una nave di rifornimento che, insieme, costituiscono la 45esima task force di scorta. La 45esima task force era stazionata nel Golfo di Aden sin dall’ottobre scorso e, da allora, ha portato a termine ben 43 missioni durante le quali ha garantito il transito di 72 navi; ora quel compito è stato affidato alla 46esima task force che ha effettuato la sua prima missione appena 3 giorni fa: ed ecco così che la presenza cinese nell’area raddoppia. A ottobre la Cina aveva già condotto un’esercitazione congiunta con la marina pakistana, “la più grande di sempre tra i due paesi” aveva sottolineato il South China Morning Post e dove erano state coinvolte altre 6 imbarcazioni del dragone, comprese una fregata, due cacciatorpedinieri e una nave di rifornimento: anche a questo giro i pakistani sono nuovamente coinvolti, ma solo come osservatori al fianco di kazaki, indiani e sudafricani, lo stesso ruolo ricoperto anche dall’Oman e dall’Azerbaijan.


La prospettiva della grande guerra globale per il controllo del mare nell’era del declino della pax americana si fa sempre più minacciosa: magari se l’Italia, ogni tanto, avesse un piccolo moto se non proprio di orgoglio, perlomeno di opportunismo, e approfittasse del caos che ci circonda per farsi un attimino licazzisua invece che fare sempre da cavalier servente della potenza in declino del momento, non sarebbe proprio malissimo, diciamo; perché gli italiani tornino a fare un po’ anche i loro interessi, serve che prima imparino a riconoscerli e, per riconoscerli, serve un media che, invece che da ripetitore dei dictat atlantisti, dia voce agli interessi concreti del 99%. 

6188.- La Nato con 90.000 uomini ai confini russi, altri 60 attacchi in Yemen. Dove vogliono arrivare?

Dopo i morti in Ucraina, contiamo ancora quelli di Gaza e, ora, quelli yemeniti. Ultime notizie dai Media: Israele ha attaccato la Cisgiordania, invaso Betlemme; il Pakistan ha bombardato l’Iran; la Cina fiuta l’occasione e vola su Taiwan. Tensione alle stelle! A Gaza si muore di fame, di bombe. Non fa più notizia e dagli Usa giunge niente più di una nuova proposta per il dopo guerra. Si è già pericolosamente allargato il conflitto in Medio Oriente, dopo l’attacco anglo-americano allo Yemen, dopo l’attacco del Pakistan all’Iran. Quanto ancora reggeranno gli Ayatollah con le sole minacce? Nuovo raid dell’US Navy nello Yemen, contro l’esercito “ribelle” degli Houthi (ribelli a chi?). Gli Fa-18 delle portaerei hanno colpito 14 rampe di lancio degli Houthi, con i missili pronti al lancio. Quel “pronti” immaginario vuol giustificare la violazione del diritto internazionale?

Il generale Christopher Cavoli (foto Ansa)

Il generale Christopher Cavoli ha detto: “A Steadfast Defender partecipano più di 90mila soldati provenienti dagli alleati e dalla Svezia. L’alleanza dimostrerà la sua capacità di trasferire truppe dal Nord America, in uno scenario di risposta a una minaccia militare”. Bravo Cavoli, ma i marines avranno con se un arma individuale, cerotti e gallette. Tutto l’armamento pesante, gli Abrams, la logistica sono e li troveranno in Germania e in Polonia e, allora, di chi è la minaccia? Ecco il perché, la giustificazione dell’ipotesi millantata sulla grande offensiva di Mosca di quest’anno, contro Kiev e Kharkiv. L’esercitazione Nato “Steadfast Defender 2024” anti-Russia, ai confini della Russia, dalla Germania, alla Polonia, al Baltico. Una dimostrazione di potenza a ridosso del corridoio di Suwalki, lo stretto passaggio terrestre polacco-lituano tra la Bielorussia e Kaliningrad, uno dei punti più deboli e di probabile collisione per l’alleanza, stando ai documenti top-secret dei tedeschi citati dalla Bild-Zeitung, la prima testata europea per diffusione. Durerà 4 mesi, fino a maggio. Ci saranno svedesi, tedeschi, americani piovuti dall’America, Ci siamo anche noi nella mega esercitazione Nato, ma si tace, come è silenzio sul milione di tedeschi in strada, da giorni, alla fame, come si tace sulle decine di migliaia di israeliani scesi in strada a Tel Aviv chiedendo le dimissioni di Netanyahu e del suo governo. Non si parla delle dimostrazioni contro la guerra a Washington D.C., a Tokio. Sono tanti gli ebrei ai vertici degli USA, per esempio, Antony John Blinken, ma non si parla degli ebrei di Boston che cantano “Cessate il fuoco” e “Non in mio nome.” L’informazione delle democrazie è stata comprata facilmente. Tanto poco vale? Intanto, sul fronte ucraino, intercettati numerosi droni russi diretti verso Odessa, mentre Mosca denuncia, a sua volta, l’attività dei droni di Kiev nelle regioni della capitale e l’attacco a un deposito di petrolio a San Pietroburgo, incendiato.

Joe Biden ha un motivo di più per comprare altre armi per Kiev e, sorridendo agli arabi, replica dalla Casa Bianca, a Netanyahu: “Sicurezza Israele non può esserci senza Stato palestinese. “Biden crede in soluzione due Stati”. Ma dai? Per quanto riesca ancora a recitare, Biden è quello che, ponendo il veto al cessate il fuoco nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha firmato il massacro di migliaia di bambini palestinesi. Biden sta fornendo a Netanyahu quantità enormi di missili, bombe, munizioni e denaro. A Gaza non c’è più un metro quadrato dove i bambini possano rifugiarsi. Ma se Gaza, il Libano, la Cisgiordania sono o possono essere obiettivi di Israele, che ne sarà della Siria che ha offerto un porto del Mediterraneo alla Russia? Quanta gente dovrà morire, da qui a novembre, prima che Trump spodesti il sicario?

Per la sicurezza di Israele si discute e, intanto, si ammazza.

Dal Sole24ore:

“Non c’è alcun modo’’ di risolvere la questione di sicurezza di Israele e della regione ’’senza la creazione di uno Stato palestinese’’. Lo ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller nel corso di una conferenza stampa. ’’Non c’è modo di risolvere le sfide a lungo termine per garantire una sicurezza duratura e non c’è modo di risolvere le sfide a breve termine di ricostruire Gaza, stabilire una governance a Gaza e garantire sicurezza a Gaza senza la creazione di uno Stato palestinese’’, ha detto Miller. La sua è una risposta al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che oggi ha detto di respingere l’idea di uno Stato palestinese e di condividere solo un accordo che consenta a Israele di ottenere il controllo della sicurezza sull’intera Striscia di Gaza “.

Il commento di John Kirby alle dichiarazioni di Benjamin Netanyahu che ha detto di aver comunicato agli Usa di essere contrario allo Stato palestinese.

I palestinesi hanno il diritto di riposare in pace in uno stato indipendente

Ancora dal Sole24ore:

“Niente cambia nella posizione del presidente Biden che la soluzione dei due Stati è la soluzione migliore nell’interesse non solo degli israeliani ma anche dei palestinesi”. Così John Kirby risponde, durante un briefing con i giornalisti a bordo di Air Force One, a “E’ nel miglior interesse per la regione e non smetteremo di lavorare verso questo obiettivo”, ha aggiunto il portavoce del consiglio di Sicurezza della Casa Bianca, sottolineando i punti di vista diversi con Netanyahu. “Noi crediamo che i palestinesi abbiano il diritto di vivere in uno stato indipendente in pace” ha detto ancora sottolineando che il focus rimane che “Israele abbia quello di cui ha bisogno per difendersi da Hamas”. “Ma ci sarà una Gaza del dopo conflitto, non ci sarà una nuova occupazione di Gaza – ha concluso – siamo stati chiari su questo, vogliamo una governance che rappresenti le aspirazioni del popolo palestinese”.

6187.- L’Iran colpisce in Iraq e Pakistan. È guerra non dichiarata

La guerra larga di Joe Biden, Rishi Sunah e Benjamin Netanyahu.

L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra Iran e Usa. L’Iran colpisce nel Kurdistan iracheno, ma anche in Siria e Pakistan.

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Gianandrea Gaiani, 18_01_2024Erbil dopo il bombardamento iraniano (La Presse)

L’Iran risponde con le armi a lungo raggio ad attacchi e attentati compiuti nelle ultime settimane sul suo territorio e contro esponenti delle milizie alleate di Teheran in Libano, Iraq, Siria e Yemen. 

L’Iraq è tornato ad essere il campo di battaglia nel confronto tra l’Iran e l’asse Usa-Israele. Il 16 gennaio missili balistici iraniani hanno distrutto nel Kurdistan iracheno un obiettivo definito il “quartier generale del Mossad” a Erbil che sembra essere la casa del ricco uomo d’affari curdo Peshraw Dizayee, rimasto ucciso a quanto sembra con diversi membri della sua famiglia. Dizayee era vicino al governo curdo, possedeva aziende attive nel settore immobiliare e petrolifero ed era considerato da Teheran vicino al Mossad anche se le autorità curde lo hanno seccamente smentito.  Altri missili balistici iraniani hanno colpito anche la casa di un alto funzionario dell’intelligence curda e un centro della stessa organizzazione.

Un comunicato dei Guardiani della Rivoluzione iraniani (Irgc) ha rivendicato l’azione, sostenendo di aver attaccato anche le basi dello Stato Islamico nel nord della Siria e descrivendo l’attacco come «una risposta ai recenti atti malvagi del regime sionista nel martirizzare i comandanti dell’Irgc e della resistenza. Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche ha identificato i luoghi di raccolta dei comandanti e i principali elementi legati alle recenti operazioni terroristiche, in particolare l’Isis, nei territori occupati della Siria e li ha distrutti sparando un certo numero di missili balistici” hanno riportato i media iraniani.

Un evidente riferimento all’assassinio in Siria del generale iraniano Razi Mousavi, e in seguito alle uccisioni attuate sempre dagli israeliani in Libano del numero due di Hamas Saleh al-Arouri e del comandante di Hezbollah Wissam al-Tawil ma anche all’incursione statunitense nel quartier generale delle milizie filo-iraniane a Baghdad di inizio gennaio.

Lo Stato Islamico è indicato come autore dell’attentato a Kerman del 3 gennaio scorso, costato la vita a oltre 90 persone durante le celebrazioni per il quarto anniversario dell’uccisione, a Baghdad, del generale Qasem Soleimani: il 4 gennaio un comunicato dello Stato Islamico ha rivendicato su Telegram la paternità dell’attentato attribuito a due suoi attentatori suicidi, ma Teheran ha sempre definito gli attentatori dell’IS come gli esecutori della strage per conto dei mandanti israeliani e statunitensi.

In Siria milizie irachene sciite filo iraniane hanno invece attaccato con razzi la base americana presso il giacimento petrolifero Conoco, già in precedenza colpita. Un comunicato di rivendicazione dichiara che l’attacco è stato condotto «in risposta ai recenti eventi di violenza perpetrati dall’entità sionista nella Striscia di Gaza».

La presenza militare statunitense in Siria non ha alcuna giustificazione giuridica poiché il governo di Damasco non ha mai invitato le truppe americane che considera “invasori” e nessuna risoluzione dell’ONU ha mai autorizzati gli USA a violare il territorio siriano dove meno di 2 mila militari presidiano alcune basi, sostengono le milizie curdo-arabe delle Siryan Democratic Forces contro lo Stato Islamico ma soprattutto impediscono al governo di Bashar Assad di riprendere il controllo dei pozzi petroliferi delle regioni orientali. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanaani, ha dichiarato che gli attacchi sono stati condotti «con l’obiettivo di difendere l’autonomia, la sovranità e la sicurezza dell’Iran». 

Il governo di Baghdad, che nei giorni scorsi aveva duramente condannato il raid di un drone statunitense sul quartier generale delle Forze di Mobilitazione Popolare sciite che ha provocato tre morti, ha condannato gli attacchi iraniani denunciando “l’attacco alla sua sovranità” e rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. «L’Iran rispetta l’integrità territoriale degli altri Paesi, ma il diritto a difendere la sua sicurezza non può essere limitato», ha risposto il ministro della Difesa, di Teheran, il generale Mohammadreza Ashtiani. «Reagiremo verso qualsiasi area che minacci l’Iran», ha dichiarato Ashtiani, precisando che la reazione dell’Iran sarà «proporzionata, decisa e dura».

Paradossalmente la stessa risposta che aveva fornito Washington alle proteste di Baghdad per la violazione della sua sovranità. L’Iraq quindi sembra tornare a costituire il campo di battaglia di un confronto militarmente sempre più aspro tra Usa e Iran anche se il Dipartimento di Stato, pur condannando il bombardamento missilistico di Erbil, ha fatto sapere che nessuna struttura americana è stata presa di mira.

Lo stesso 16 gennaio missili iraniani hanno colpito anche due basi utilizzate dalle milizie jihadiste sunnite di Jaish al-Adl, situate nel Baluchistan pakistano. In passato il gruppo jihadista (definito terrorista dagli Usa e dall’Iran) aveva rivendicato diversi attacchi nel sud-est dell’Iran nel nome dell’indipendenza del Baluchistan. L’attacco alla milizia, che l’Iran ritiene sia sostenuta da Israele, ha provocato dure proteste da Islamabad che ha minacciato “gravi conseguenze”.

Dallo Yemen le milizie Houthi hanno promesso “risposta inevitabili” agli attacchi aerei e missilistici statunitensi e britannici nello Yemen. I miliziani hanno colpito con un missile un mercantile americano in transito senza provocare vittime o gravi danni, definendo tutte le navi commerciali e militari statunitensi e britanniche “obiettivi legittimi e ostili” e aggiungendo che «le operazioni militari per impedire la navigazione israeliana nel Mar Arabo e nel Mar Rosso, continueranno fino a quando non cesserà l’aggressione e non sarà tolto l’assedio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza».

Benché i fronti del conflitto in Medio Oriente si moltiplichino (da Gaza al Libano, dall’Iraq al Mar Rosso, dal Pakistan alla Siria…) l’impressione è che tutti i protagonisti intendano mostrare i muscoli e capacità di deterrenza ma non abbiano interesse a trasformare scaramucce e rappresaglie in guerra aperte.

A raffreddare i rischi di guerra tra Iran e Usa contribuiscono anche anonimi funzionari dell’intelligence Usa citati dal New York Times che hanno assicurato l’assenza di “prove dirette” che dimostrino la compartecipazione di Teheran dietro agli attacchi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso: «Lo scopo dei responsabili iraniani è trovare un modo per colpire Israele e gli Stati Uniti senza scatenare il tipo di guerra che l’Iran vuole evitare». Tuttavia «non esistono prove dirette che colleghino gli alti dirigenti iraniani, né il comandante della forza d’élite dei pasdaran al-Quds né il leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei ai recenti attacchi Houthi alle navi nel Mar Rosso».

La crisi nello Stretto di Bab el-Mandeb sta avendo un forte impattosull’economia globale e colpisce soprattutto quella israeliana (-85% il traffico di merci nel porto israeliano di Eliat, sul Mar Rosso) e dell’Europa Mediterranea (Italia in testa) riducendo i transiti dal Canale di Suez da dove passa il 12% del commercio marittimo globale. Questa situazione rischia di generare un aumento dell’inflazione, come avvisava già venerdì scorso JP Morgan. Oltre a far lievitare il prezzo del petrolio e del gas naturale si stanno impennando le tariffe di spedizione dei container sulle principali rotte commerciali, ma soprattutto tra l’Asia e l’Europa.

5389.- La SCO sta diventando sempre di più un polo d’attrazione politico-economico alternativo alle potenze occidentali

Washington è lanciato alla conquista della Russia attraverso l’Ucraina e l’Asia Centrale, mentre l’Asia va rafforzando un diverso assetto politico-economico; ma in Ucraina Washington persegue anche il tracollo economico della Ue. Questo determinerebbe probabilmente una recessione mondiale che favorirebbe la finanza USA e minerebbe anche la crescita dei due giganti asiatici.

Se guardiamo anche all’Artico e alla conseguente perdita di valore del Mediterraneo, siamo sicuri che le nostre élites e i nostri governi siano adeguati e che il nostro leader sia Joe Biden e non Vladimir Putin, oppure, quale disegno sta seguendo Washington?

Il vertice della SCO a Samarcanda tra intese, divergenze e riflessi sull’Europa

Da Analisi Difesa, 20 settembre 2022, di Gianandrea Gaiani

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Nata nel 2001 come organizzazione multinazionale per la sicurezza, la SCO sta diventando sempre di più un polo d’attrazione politico-economico alternativo alle potenze occidentali anche se gli stati che la compongono hanno al loro interno confronti e dissidi non indifferenti.

Oltre a India e Pakistan, acerrimi rivali dalla loro costituzione come stati indipendenti, non si possono dimenticare le tensioni tra Cina e India (almeno in parte in via di risoluzione sul fronte caldo dell’Himalaya) o i recenti scontri di confine tra Tagikistan e Kirghizistan.

L’eccezione della Turchia

La SCO assume quindi un valore crescente sul fronte della cooperazione geopolitica ed economica e non a caso la Turchia rivendica l’obiettivo di aderivi anche se è difficile non notare che è l’unico stato membro della NATO a partecipare al summit di Samarcanda e sarà presto l’unico a far parte di entrambe le organizzazioni.

Un “dettaglio” non irrilevante tenuto conto che Ankara non applica sanzioni alla Russia, vende (non regala) armi all’Ucraina ed entrerà in un’organizzazione per la sicurezza con Cina, Russia e Iran dopo aver acquistato batterie da difesa aerea a lungo raggio S-400 in Russia: il tutto senza che nessuno ne chieda l’uscita dalla NATO.

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A conferma che più della potenza economica (il PIL turco vale un terzo di quello italiano), sovranità, politica estera, di difesa ed energetica autonome e incentrate sugli interessi nazionali dipendono soprattutto dallo spessore e dalla determinazione dei governanti.

Considerazione che trova conferma anche nel “caso” dell’Ungheria, stato membro di NATO e UE (dal peso economico, demografico e militare certo inferiore alla Turchia) il cui governo continua ad acquistare gas, petrolio e persino centrali nucleari da Mosca non applicando sanzioni ma accogliendo oltre mezzo milione di profughi ucraini senza però fornire armi a Kiev. Una manifestazione di piena sovranità nazionale che innervosisce molti in Europa e oltre Atlantico.

Un nuovo palcoscenico per il protagonismo di Ankara

Ankara del resto evidenzia l’autonomia della sua postura puntando anche sul ruolo di mediazione ricoperto nell’attuale crisi ucraina che costituisce “la risposta all’Occidente e soprattutto all’America” come ha detto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan di rientro da Samarcanda insieme ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu (nella foto sotto).

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L’ultimo successo negoziale nel conflitto rivendicato da Ankara, dopo l’accordo sul grano, è rappresentato dalla mediazione a uno scambio di 200 prigionieri di guerra, ha rivelato il presidente turco durante un’intervista all’emittente americana PBS in cui ha anche dichiarato che il presidente russo Vladimir Putin vuole porre fine al conflitto “il prima possibile”.

Erdogan ha sottolineato che si tratta di uno sviluppo importante, un passo in avanti notevole. Ho parlato a lungo con Putin e ho capito che vuole porre fine a questo conflitto il prima possibile. Ho ancora il desiderio di portare allo stesso tavolo Putin e Zelensky, ho voglia di ascoltarli entrambi. Non ci sono riuscito, ma non ho perso la speranza di riuscirci”, ha detto alla tv americana.

La posizione turca, tesa a far terminare al più presto il conflitto in Ucraina, è condivisa anche dall’India (il premier indiano, Narendra Modi, ha detto che “oggi non è il tempo di fare la guerra”) e soprattutto dalla Cina, come è emerso nel colloquio tra Vladimir Putin e Xi Jimping in cui il presidente russo ha ammesso “le preoccupazioni” cinesi pur confermando gli impegni militari assunti con “l’operazione speciale” in Ucraina.

Si rafforza la cooperazione militare russo-cinese

Divergenze enfatizzate in Occidente dove è stato rilevato che la Cina non è disposta a fornire aiuti militari a Mosca e del resto il presidente statunitense Joe Biden, in un’intervista a 60 Minutes, ha detto chiaramente che “non ci sono finora indicazioni” che la Cina abbia inviato armi o aiutato i russi in Ucraina.

Nei giorni scorsi sono stati peraltro rilevati diversi voli di cargo militari cinesi Xian Y-20 (nella foto sotto) all’aeroporto Ssheremetyevo di Mosca ma la natura dei carichi trasportati non è stata rivelata anche se non sono emerse indiscrezioni circa richieste russe a Pechino per armi o munizioni.

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Anzi, meglio ricordare che la Russia continua a esportare molta tecnologia in Cina e che le forze armate di Pechino, oltre ad essere clienti di Mosca, hanno sviluppato molti sistemi d’arma, piattaforme, motori e altre componenti partendo da prodotti russi.

Dopo il summit di Samarcanda i vertici del Consiglio di sicurezza russo e del Politburo del Comitato centrale del Partito comunista cinese si sono incontrati per rafforzare la cooperazione militare e di sicurezza potenziando le esercitazioni congiunte e l’attenzione agli scenari più critici.

Il summit di Nanping, nella provincia cinese del Fujian (forse non a caso di fr8nte a Taiwan) ha visto le delegazioni guidate dal segretario del Consiglio di sicurezza russo, Nikolai Patrushev e dal Direttore dell’Ufficio della commissione centrale degli affari esteri,  Yang Jiechi, concordare “un’ulteriore cooperazione tra i vertici militari” con l’obiettivo di mantenere “alto il livello di cooperazione tecnico-militare” si legge in una nota.

Il Consiglio di sicurezza russo ha definito una priorità incondizionata lo sviluppo di “un partenariato strategico con la Cina” basato “su una profonda fiducia reciproca”.

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Anche tenendo conto del pieno sostegno di Mosca alla politica di “una sola Cina” con cui Pechino preme su Taiwan, appare forzato trarre dal confronto tra Putin e XI a Samarcanda la conclusione che sia in atto un progressivo isolamento di Mosca anche in Asia, tenuto conto che il dibattito sulla guerra in Ucraina tra le nazioni aderenti alla SCO va probabilmente interpretato in un’ottica pragmatica alla luce dei diversi interessi in gioco.

L’obiettivo strategico di russi e cinesi resta quello di arginare il sistema unipolare statunitense (che ha inglobato anche un’Europa incapace di assumere il ruolo di soggetto geopolitico) puntando a contrastare la penetrazione occidentale anche con rafforzate intese militari e a potenziare la cooperazione finanziaria e commerciale su modelli basati sulle valute dei paesi della SCO per rafforzare la “de-dollarizzazione” dell’economia globale.

Nuovi equilibri e interessi diversi

Ciò detto non c’è dubbio che la guerra stia determinando nuovi equilibri anche tra Russia e Cina, le principali potenze della SCO.

L’impegno bellico sta sbilanciando la Russia indebolendone impegno e attenzione in Asia Centrale (parte delle truppe schierate in Tagikistan sono state dislocate in Ucraina) anche se Putin ha confermato che in Ucraina “stiamo combattendo solo con una parte delle forze armate”.

Un contesto che sembra favorire l’apertura di nuovi focolai di tensione nell’ex URSS: dagli scontri di confine tra tagiki e kirghizi a quelli tra armeni e azeri fino alle pressioni degli ambienti nazionalisti georgiani per un’azione militare tesa a prendere il controllo dell’Ossezia del Nord protetta dai russi. Segnali inequivocabili di turbolenze che cercano di approfittare dell’impegno russo in Ucraina.

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La Cina conferma la volontà di penetrare non solo economicamente ma anche politicamente e militarmente nelle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale garantendo la sicurezza da “interventi esterni” (cioè russi) del Kazakhistan, lo stato ex sovietico distintosi più di ogni altro nel mostrare freddezza per l’intervento militare russo contro Kiev al punto da non riconoscere le repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk guidate dai secessionisti ucraini.

Di fatto Pechino sostiene la Russia contro gli Stati Uniti e i loro alleati, percepiti come una minaccia anche dai cinesi, ma questo non significa che le due potenze non abbiano anche interessi divergenti che investono pure la guerra in atto in Ucraina e soprattutto il suo prolungamento con le relative conseguenze macro-economiche.

Se la guerra si protrae l’unica a uscirne sicuramente sconfitta sarà l’Europa, che a causa della crisi energetica rischia tra pochi mesi di non essere più la principale potenza economica mondiale e di vedere drammaticamente depotenziato il suo ruolo di potenza industriale.

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Per i competitor che pagano tutti l’energia molto meno dell’Europa, potrebbero aprirsi spiragli importanti per acquisire nuove quote sui mercati globali ma Cina e India hanno rilevanti interscambi commerciali e investimenti in Europa e rischiano danni non irrilevanti anche tenendo conto che il tracollo economico della Ue determinerebbe con ogni probabilità una recessione mondiale che minerebbe anche la crescita dei due giganti asiatici.

Per questo Nuova Delhi e Pechino premono su Putin per fermare le ostilità, elemento che ingigantisce ulteriormente il ruolo della Turchia, anche se alle aperture di Mosca per un possibile negoziato per ora Kiev non sembra voler rispondere positivamente, puntando forse a ottenere nuovi successi militari.

Del resto il 20 settembre il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha dovuto ammettere che al momento non si vede alcuna prospettiva per risolvere politicamente e diplomaticamente la guerra.

La scommessa del Cremlino

La Russia, al contrario dei suoi partner asiatici, potrebbe avere interesse a proseguire la guerra non solo perché è consapevole che l’Europa non può sopravvivere economicamente senza le ampie forniture di gas russo ma anche perché valuta probabilmente che la crisi energetica farà traballare questo inverno molti governi europei con conseguenze che potrebbero minare la capacità e la volontà di continuare a sostenere con le armi l’Ucraina e la stabilità interna della NATO, con possibili fratture tra gli Stati Uniti e i loro alleati da questa parte dell’Atlantico.

Uno scenario anticipato da Putin il 17 giugno scorso nel discorso tenuto al Forum economico di San Pietroburgo in cui azzardò la previsione di un’Europa che aveva rinunciato alla sua sovranità mettendola nelle mani degli USA e che avrebbe subito a breve crisi energetica, economica e disordini sociali tali da far cadere élites e governi.

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La valutazione strategica di Mosca sembrerebbe quindi puntare sul fatto che l’inverno accentuerà le frizioni tra Stati Uniti e alleati europei, favorite e ingigantite peraltro dalla notizia che gli USA non aumenteranno la produzione energetica per rifornire l’Europa, a corto di gas e che da fine anno rinuncerà ad acquisire petrolio russo, iniziativa che prevedibilmente farò salire alle stelle anche le quotazioni del greggio.

Sul questo fronte non mancano poi già da ora le frizioni interne all’Europa e che colpiscono in modo particolare l’Italia dopo la notizia che la Francia sospenderà le forniture elettriche alla Penisola (che coprono il 5 per cento del nostro fabbisogno), iniziativa che potrebbero presto assumere anche Svizzera e Slovenia.

La Russia sembra quindi avere tutto l’interesse a prendere tempo sui fronti ucraini e non a caso Putin a Samarcanda, dichiarando che “l’operazione militare speciale continuerà”, ha aggiunto che Mosca “non ha fretta di raggiungere i suoi obiettivi, che rimangono inalterati”.

@GianandreaGaian

Foto:  SCO, Presidenza della Federazione Russa e Telegram

5080.- La Turchia lancia una nuova offensiva militare nel Nord dell’Iraq

Mentre gli occhi del mondo guardano all’Ucraina; mentre Washington trama contro Europa e Russia, la Cina si installa nelle Isole Salomone e controlla il Pacifico e il Kurdistan iracheno è di nuovo sotto attacco da parte dei turchi. E, se i turchi sono parte della NATO, sta nascendo un asse Cina – Islam e Erdogan vuole esserne parte. Biden fa acqua da tutte le parti e l’Unione europea non conta nulla! Draghi, da casa, con l’influenza, butta soldi sull’Ucraina, ma Zelensky, al Fondo Monetario Internazionale ha detto che per sostenere l’Ucraina dobbiamo dargli 7 miliardi al mese.

By Joshua Askew  with AP  •  18/04/2022

Turkish Defense Minister Hulusi Akar, fright wearing a face mask to protect against coronavirus, visits Turkish troops at the border with Iraq, in Hakkari province, Turkey.

Il ministro della Difesa turco Hulusi Akar, appare spaventato con una maschera per proteggersi dal coronavirus, visita le truppe turche al confine con l’Iraq, nella provincia di Hakkari, in Turchia. – Copyright AP/Ministero della Difesa Turco

La Turchia ha lanciato una nuova offensiva terrestre e aerea contro i militanti curdi in Iraq, ha annunciato lunedì il ministro della Difesa turco.
Aerei da guerra, artiglieria e truppe turche hanno attaccato obiettivi appartenenti al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel nord dell’Iraq, dai campi ai depositi di munizioni.

L’operazione militare – denominata “Operazione Claw Lock” – faceva parte di una lunga campagna turca in Iraq e Siria contro i militanti del PKK e le YPG curde siriane, che Ankara considera gruppi terroristici.
Jet e artiglieria hanno colpito rifugi, bunker, grotte, tunnel, depositi di munizioni e quartier generali del PKK, ha affermato il ministro della Difesa turco Hulusi Akar in un video pubblicato lunedì sul sito web del ministero.

I commando turchi – con il supporto di elicotteri e droni – hanno poi attraversato l’area via terra o sono stati trasportati in aereo da elicotteri.

“La nostra operazione sta proseguendo con successo come previsto”, ha affermato l’agenzia di stampa statale Anadolu, citando Akar. “Gli obiettivi identificati nella prima fase sono stati raggiunti”.
Non sono state fornite informazioni sulle vittime o sul numero di truppe e aerei da guerra che hanno partecipato all’azione.

La Turchia ha condotto numerose operazioni aeree e di terra transfrontaliere contro il PKK negli ultimi decenni, con l’ultima offensiva avvenuta nelle regioni di Metina, Zap e Avashin-Basyan.

La Turchia afferma che le basi del PKK nel nord dell’Iraq sono utilizzate per inscenare attacchi sul suolo turco e ha lanciato l’operazione lunedì a seguito di una valutazione secondo cui il PKK stava pianificando un attacco su larga scala, ha aggiunto il ministero.

Il PKK, che è stato anche designato organizzazione terroristica da Stati Uniti e Unione Europea, ha preso le armi contro lo Stato turco nel 1984. Più di 40.000 persone sono state uccise nel conflitto, che in passato si è concentrato principalmente nel sud-est della Turchia “Siamo determinati a salvare la nostra nobile nazione dalla sfortuna del terrore che ha afflitto il nostro paese per 40 anni”, ha detto Akar. “

La nostra lotta continuerà fino a quando l’ultimo terrorista non sarà neutralizzato”. Non ci sono state dichiarazioni immediate da parte del gruppo curdo.

4430.- Terza telefonata Draghi-Putin in tre mesi. Al centro Afghanistan e G20

Putin guarda diritto e Draghi vede lontano. La Russia è, comunque, Occidente e l’Afghanistan è sempre sulla Via della Seta. Draghi e Putin sono d’accordo sul ruolo dell’Onu per l’emergenza afghana e proprio sotto le bandiere dell’Onu, Xi potrebbe inviarvi i propri soldati, senza coinvolgere direttamente la Cina: lo impedirebbero le esperienze russe e americane. Per una somma di circostanze, l’Italia e la Russia sono in Mediterraneo e in Asia Centrale. Si gioca su più tavoli.

Di Federica De Vincentis | 19/10/2021 – Formiche net-Esteri

Terza telefonata Draghi-Putin in tre mesi. Al centro Afghanistan e G20

Dopo quelli di agosto e settembre, nuovo colloquio tra i due leader. Mancano pochi giorni al vertice di Roma: il presidente russo ha annunciato che parteciperà in videoconferenza. Ecco i temi in cima all’agenda

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha avuto stamattina una conversazione telefonica con il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin. Al centro dei colloqui vi sono stati gli ultimi sviluppi della crisi afghana, i lavori preparatori del prossimo vertice G20 e le relazioni bilaterali. Ne dà notizia Palazzo Chigi.

Il Cremlino ha comunicato che il presidente Putin “ha apprezzato molto il lavoro svolto dalla presidenza italiana del G20 e ha
annunciato la sua disponibilità a partecipare in videoconferenza al vertice” dei leader previsto a Roma il 30-31 ottobre.

È la terza telefonata tra i due leader in soli tre mesi. La prima è del 19 agosto scorso, a quattro giorni dalla caduta di Kabul nelle mani dei Talebani. Al centro sempre l’Afghanistan, con la volontà italiana di organizzare una riunione G20 ad hoc, tenutasi la scorsa settimana. In quell’occasione Mosca ha inviato un viceministro. Pesa, come osservato su Formiche.net, il fatto che la Russia, come la Cina, ha avviato un percorso (indipendente) di contatto diretto con i Talebani.

La seconda telefonata è datata 22 settembre. In cima all’agenda ancora l’Afghanistan e la preparazione del vertice G20 di fine ottobre. Il comunicato del Cremlino spiegava che i due leader “hanno sottolineato l’importanza di stabilire un dialogo intra-afghano che tenga conto degli interessi di tutti i gruppi della popolazione”. “Particolare attenzione è stata data al tema della ricostruzione post-conflitto in Afghanistan, anche in relazione alle attività del G20, che l’Italia presiede quest’anno”, proseguiva il comunicato. “In questo contesto, sono stati discussi i problemi del prossimo vertice del G20”. La nota di Mosca spiegava che il presidente russo ha parlato delle recenti riunioni dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva e dell’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (che coinvolge otto Paesi tra cui Russia, Cina, India e Iran).

Il G20 si riunirà il 30 e 31 ottobre a Roma sotto la presidenza italiana

I rappresentanti dei Paesi fondatori del Trattato di Shangai, diventati sei nel 2001 con l’inclusione dell’Uzbekistan, dando vita così al Gruppo dei Sei, impegnato per i buoni rapporti tra stati confinanti e per una cooperazione amichevole. Il rilancio dell’economia italiana passa attraverso l’Asia Centrale e la cooperazione con il gruppo. C’è pane per il G20.

Russia, Cina sono entrambe membri del gruppo dei sei e, insieme al Pakistan, intendono prestare assistenza umanitaria ed economica urgente all’Afghanistan e hanno espresso un interesse comune a garantire la sicurezza contro il terrorismo e il fondamentalismo. Mentre si va riscrivendo la Geopolitica, l’Italia gioca su due tavoli.

4327.- La CIA ha usato e userà l’ISIS per interferire in Afghanistan.

Ricordate le foto del fu’ senatore John McCain alla Casa Bianca con Al-Qaeda ? Bonazzi ce le ripropone. ISIS e Al-Qaeda/Al-Nusra, costituivano la “Legione Straniera” della Casa Bianca. Dietro ai recenti attentati terroristici in Afghanistan vi sono ampi retroscena …

Scritto il  pubblicato in geopolitica e opinioni

For this photo we thanks alghad.com

Dietro ai recenti attentati terroristici in Afghanistan vi sono ampi retroscena che oggi andremo a riepilogare. Nel corso degli anni, diversi rapporti dell’Afghan Analyst Network (AAN) sullo Stato Islamico nella provincia del Khorāsān mostrano che questo inizialmente era composto da islamisti provenienti dal Pakistan. Un rapporto del 2016 spiega che i combattenti dell’ISIS del Khorāsān, erano estremisti pakistani stabilitisi nei distretti sudorientali di Nangarhar, una provincia dell’Afghanistan e sulle montagne dello Spin Ghar, sul lato pakistano della Linea Durand. Prima di unirsi all’ISIS, questi militanti operavano in maggioranza nella sigla Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) e quasi tutti giunsero a Nangarhar dal 2010. Il governo del Pakistan sostiene che il TTP sia sostenuto dal RAW, l’agenzia di intelligence esterna dell’India, che spera di usarli contro il Pakistan. Sembra inoltre che anche il governo “democratico occidentalista” afghano, prima della sua fuga corteggiasse questi estremisti.

L’ex membro democratico del Congresso e veterana di guerra Maggiore Tulsi Gabbard

Nel tempo, l’NDS, cioè i servizi segreti afghani riuscirono a stringere accordi con il Tehrik-e-Taliban Pakistan, permettendo a questi islamisti di spostarsi liberamente nel Khorāsān usufruendo degli ospedali pubblici. In conversazioni confidenziali con l’Afghan Analyst Network, alcuni funzionari del precedente governo “democratico occidentale” confermarono che vi erano relazioni tra militanti del Tehrik-e-Taliban Pakistan e l’NDS. Anche gli ‘anziani’ tribali (carica politica tradizionale) e politici di Jalalabad dichiararono di tutelare gli islamisti TTP pachistani, come rappresaglia al sostegno fornito dal Pakistan ai talebani afghani che oggi hanno preso il potere nel paese. L’NDS afghana era ovviamente controllata dalla CIA, che negli anni ’90 aveva addestrato Amrullah Saleh, ex capo dell’intelligence dell’Alleanza del Nord anti-talebana. Dopo che nel 2001 gli Stati Uniti rovesciarono l’allora governo talebano, Saleh divenne capo dell’NDS. All’epoca gli Stati Uniti affermavano di combattere lo Stato Islamico in Iraq e Siria, ma era una menzogna, perché ISIS e Al-Qaeda/Al-Nusra, costituivano la loro “Legione Straniera” in Medio Oriente come denunciò anche dall’allora membro del Congresso e veterana di guerra signora Tulsi Gabbard.

Il fu’ senatore John McCain portò il sostegno della Casa Bianca ad Al-Qaeda e al futuro califfo Al-Baghdadi con l’obbiettivo di annettere Siria e Iraq al blocco occidentale, operazione fortunatamente fallita grazie all’intervento decisivo della Russia: fermo immagine CNN 

Dopo l’intervento decisivo della Russia in Siria, man mano che l’ISIS perdeva terreno, secondo molti rapporti comprovati, i membri di spicco dell’organizzazione vennero estratti da Iraq e Siria con elicotteri americani non contrassegnati e trasferiti a Nangarhar in Afghanistan dove si unirono ai militanti dell’ISIS-k. Esiste un lungo elenco di funzionari governativi di Iraq, Siria e Iran che accusarono gli Stati Uniti di sostenere l’ISIS, come anche il governo russo. Assieme a tali denunce vi sono quelle di vari media e dell’organizzazione libanese Hezbollah che combatte i terroristi in Siria al fianco dell’Esercito Regolare. Altri rapporti sono giunti anche da un gruppo militare riconosciuto dallo stato iracheno e dai Guardiani della Rivoluzione iraniani che combattono l’ISIS in Iraq e il cui comandante, generale Sardar Qasem Soleimanivenne assassinato dagli USA per ritorsione nel 2020. Infine, anche l’ex presidente afghano Hamid Karzai, definì il gruppo: “uno strumento degli Stati Uniti”.

L’Afghanistan sotto l’occidente

Le ex forze speciali NDS: foto Twitter

Facciamo ora un passo indietro, al periodo di occupazione occidentale dell’Afghanistan. Negli anni la CIA aveva sviluppato e formato altri estremisti per fermare l’avanzata dei talebani, l’NDS organizzandola in 4 battaglioni e la Khost Protection Force (KPF). Queste due formazioni erano nei fatti squadroni della morte controllati dalla CIA che li supportava con gli elicotteri. Nel 2018 la CIA era impegnata nel programma ANSOF (precedentemente Omega), per uccidere o catturare i leader talebani. A metà del 2019, la ONG Human Rights Watch denunciava: “le forze d’attacco afghane sostenute dalla CIA hanno commesso gravi abusi, alcuni dei quali equiparati a crimini di guerra. Queste forze hanno ucciso illegalmente civili in raid notturni, fatto sparire con la forza detenuti e attaccato strutture sanitarie. Le vittime civili di questi raid sono aumentate drammaticamente”.

Dopo la presa di Kabul da parte dei talebani, divenne chiaro che la CIA avrebbe perso il controllo di gran parte della sua principale fonte di finanziamento occulto basato sul traffico internazionale di droga dall’Afghanistan. Come sappiamo, durante la ritirata occidentale la CIA ha poi affidato alle forze NDS afghane la protezione dell’aeroporto internazionale garantendo loro che i circa 600 di loro presenti all’aeroporto, sarebbero stati evacuati. Alcuni membri di questa unità afghana, dapprima causarono un incidente sparando per errore a soldati tedeschi, un caso di “fuoco amico” che i media occidentali si affrettarono a insabbiare. Invece la CIA ha ha spostato nel Panjshir le unità dell’altro reparto, il KPF per creare una “Nuova Alleanza del Nord” con Amrullah Saleh e Ahmad Massoud. Un dato importante da sottolineare è che lungo la Valle del Panjshir passa l’unica strada degna di questo nome, che in futuro collegherà la Cina e l’Afghanistan attraverso il Corridoio di Wakhan nel progetto Nuova Via Della Seta:una coincidenza?

La vittoria talebana

Nei giorni scorsi,  un attentatore suicida dell’ISIS ha attaccato l’aeroporto di Kabul dove molte persone attendevano di essere evacuate dall’Afghanistan. Nell’esplosione e nelle fasi successive rimasero uccisi oltre 150 civili, 28 militari talebani e 13 soldati statunitensi. Come abbiamo appreso dai telegiornali, l’attacco terroristico ero stato ampiamente preannunciato, è quindi difficile capire perché gli Stati Uniti, pur preavvisati, non abbiano intensificato le misure di sicurezza. Triste a dirsi, ma come accade spesso in circostanze simili, la maggior parte delle vittime non le causò l’attentatore, ma i militari presenti nell’aeroporto che reagirono istintivamente. In situazioni di grande pericolo capitano incidenti come quello avvenuto all’aeroporto di Kabul e in guerra sono tristemente famosi gli episodi di “fuoco amico”: è triste, ma capita anche questo.

Anche i medici legali, dopo aver visitato i corpi delle vittime, hanno confermato che la maggior parte delle vittime “aveva ferite da arma da fuoco sparati dall’alto”, quindi dalle torrette di guardia presidiate dai militari. Mentre molti media occidentali cercano d’insabbiare notizie come queste, va reso merito al New York Times che ha scritto: “ Per la prima volta, i funzionari del Pentagono hanno pubblicamente riconosciuto la possibilità che alcune persone uccise fuori dall’aeroporto giovedì possano essere state colpite da membri del servizio statunitense dopo l’attentato suicida”. Una nota di demerito va invece al Washington Postche s’è inventato: “Diversi uomini armati hanno poi aperto il fuoco su civili e militari. Una branca locale dello Stato Islamico ha rivendicato l’attentato”.

Ora il futuro dell’Afghanistan, dipende da come i talebani riusciranno a far rialzare un paese saccheggiato e senza risorse, se non quelle delle sue miniere. L’unica chance per i talebani sarà quella di non chiudersi al mondo, però dovranno schierarsi da uno dei due lati della scacchiera. Dal canto suo, con il ritorno al potere dei talebani, in Afghanistan la CIA agirà utilizzando gli squadroni della morte del KPF, per contrastare gli interessi di Cina e Russia, paesi che andranno a colmare il vuoto lasciato dall’occidente. Considerato che il mainstream occidentale definisce già gli islamisti del Panjshir “ribelli”, possiamo immaginare già da ora come ci verranno presentati i nuovi tagliagole.

Col. Luciano Bonazzi, Orizzonti Geopolitici

Le fonti dell’analisi sono inserite nel testo, altri articoli sull’Afghanistan QUI

4317.- Pakistan e non solo. Chi ride (e chi piange) nel risiko afgano

Di Francesco Bechis | 07/09/2021 – Formiche, Esteri

Pakistan e non solo. Chi ride (e chi piange) nel risiko afgano

Conversazione con Ahmad Rafat, giornalista esperto di Medio Oriente e già vicedirettore di Adnkronos International. Il Pakistan ha ormai le chiavi dell’Afghanistan, e all’Iran non piace neanche un po’. Gli Usa puntano sul Qatar e hanno inviato un messaggio ai sauditi. Panshir? Non riusciranno a piegarlo

A tre settimane dalla caduta di Kabul il risiko afgano inizia a prendere forma, a delineare vinti e vincitori. Dell’ultima schiera fa parte il Pakistan di Imran Khan, presente sul campo con il servizio segreto dell’Isi (Inter-services intelligence) e ora sospettato di coordinare l’offensiva talebana contro la resistenza nel Panshir. Per Ahmad Rafat, giornalista esperto di Medio Oriente e già vicedirettore di Adnkronos International, la partita per il destino dell’Afghanistan è ancora aperta.

Pakistan e talebani, legame indissolubile?

Da sempre l’Isi guarda le spalle ai talebani. Vent’anni fa fu determinante nella presa e nel mantenimento del potere a Kabul, lo state building non è il loro forte.

Qui però siamo un po’ oltre. Droni, elicotteri, armi.

Sì, c’è stato un salto di qualità, non erano mai intervenuti militarmente. Ho parlato con amici nella resistenza. Mi hanno spiegato che i talebani non sono in grado di utilizzare buona parte della tecnologia lasciata in eredità da Stati Uniti e forze Nato.

Sono stati i piloti pachistani a sferrare attacchi aerei sul Panshir.

Lieutenant General Faiz Hameed (3 stelle) Direttore-Generale dell’ Inter-Services Intelligence of Pakistan, ISI, dal 2019.

A questo serviva la visita a Kabul del direttore dell’Isi Faiz Hameed?

Una visita di controllo, a 24 ore dall’offensiva, per verificare l’addestramento e la logistica. Qualcuno non l’ha presa bene.

Chi?

Gli iraniani sono infuriati. Sono stati tra i primi a mostrarsi vicini ai talebani, non sopportano un coinvolgimento così diretto dei pakistani. Le parole di sostegno a Massoud pronunciate dal portavoce del ministero degli Esteri iraniano sono molto eloquenti.

Perché Teheran si interessa alle sorti del Panshir?

Due motivi. Il primo: nel Panshir ci sono uzbeki e afgani di cultura Tajik o persiana. Molti parlano l’iraniano, non è un dettaglio.

E il secondo?

La Repubblica islamica si era convinta che le aperture ai talebani le avrebbero dato un ruolo maggiore nella costruzione del nuovo Afghanistan con loro al potere. L’intervento coordinato dal Pakistan in Panshir racconta un’altra versione.

Cosa spinge il Pakistan a un azzardo simile?

Il Pakistan gioca con i talebani come l’Iran gioca con i curdi sciiti e iracheni, o con Hezbollah in Libano. I Taleb sono una pistola sul tavolo: se volete l’Afghanistan sotto controllo, diminuite la pressione contro di noi.

Molti soldati afghani hanno cercano rifugio in Pakistan dopo aver perso le postazioni militari di confine a causa dei talebani

Il Pakistan conta più della Cina in questo momento?

C’è un gioco per procure. Cina e Russia hanno trovato in Pakistan e Iran i due “agenti locali” per operare sul campo. In questa fase la prima fazione sta avendo la meglio. Non sarà facile spezzare il legame: i pakistani hanno bisogno dell’aiuto cinese contro l’India (quanto gli USA hanno bisogno dell’appoggio indiano contro la Cina. ndr).

Russia e Cina hanno interessi divergenti?

Fino a tre settimane fa convergevano su un solo obiettivo: cacciare l’America. Adesso è arrivato il momento della spartizione, tutta un’altra storia.

L’America si è ritirata ma non è scomparsa. Chi è oggi l’alleato più strategico di Washington nella regione?

Il Qatar, senza dubbio. Il via libera alla presa del potere da parte dei talebani, dopotutto, è stato anche uno schiaffo all’Arabia Saudita da parte di Biden. Al contrario della vecchia leva, i sauditi non hanno rapporti con questa generazione di talebani che si sono lanciati nelle braccia del Qatar. Gli Emirati hanno capito il monito, e infatti stanno normalizzando i rapporti con Doha.

Insomma, è politica.

Non solo. C’è una faglia etnico-religiosa che divide le fazioni. Da una parte i Fratelli musulmani, cioè Qatar e Turchia. Dall’altra la cultura waabita di sauditi e la parte laica degli egiziani.

La bomba afgana avrà ripercussioni sugli accordi di Abramo siglati da Trump?

No, quegli accordi si sono congelati da soli, e non sono previste ulteriori adesioni.

Biden li ha frenati?

Certo, ma non è stato l’unico. È cambiato l’altro player fondamentale, Israele: Bennet non è Netanyahu. Molto dipenderà dall’evoluzione dei rapporti fra Occidente e Iran. Gli accordi di Vienna sono congelati, a fine mese gli europei lanceranno un ultimatum a Teheran: o ferma l’escalation nucleare, o si va avanti con la risoluzione dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica, ndr).

Torniamo all’Afghanistan. Cosa aspettarsi dal governo talebano?

Difficile dirlo. Lo hanno annunciato per venerdì scorso, tre giorni dopo neanche l’ombra. Non è un ritardo casuale: ci sono serie divergenze in seno ai talebani. In vent’anni, come l’Afghanistan, anche loro sono cambiati. La nuova generazione vuole fare concessioni e qualche apertura, la vecchia guardia la restaurazione del vecchio regime.

La resistenza continuerà?

Come ho detto, gli afgani sono cambiati, non tutti vogliono cedere i diritti acquisiti. Venticinque anni fa non c’erano manifestazioni, oggi in strada c’è perfino qualche donna.

Ma il Panshir è caduto.

Una parte, si continuerà a combattere. Né inglesi né sovietici sono mai riusciti a conquistarlo tutto, e così i talebani. Sulle montagne ci sono anche i pashtun e gli uzbeki, annientare tutti i nuclei di resistenza non sarà un gioco da ragazzi.

4245.- Il vincitore starà fra Cina e Pakistan e gestirà il terrorismo, l’emigrazione, il contrabbando della droga.

Cosa resta dell’Afghanistan nella politica americana. Conversazione con Del Pero

Di Emanuele Rossi | Formiche, 17/08/2021 

Cosa resta dell’Afghanistan nella politica americana. Conversazione con Del Pero

La debacle afghana, i problemi dell’America. Analisi con Mario Del Pero (SciencesPo) sul ritorno dei Talebani visto da Washington: “È un’umiliazione, per gli Usa e chi li guida”

L’immagine dell’aereo cargo della US Air Force rincorso da dozzine di afghani (alcuni aggrappati a parti del carrello, con conseguenze tragiche) lungo la pista dell’aeroporto di Kabul è l’iconografia del ritorno dei Talebani, della caduta dell’Afghanistan nel baratro da cui venti anni di intervento militare occidentale l’aveva solo apparentemente tolto.

“È un’umiliazione, per gli Usa e chi li guida. Joe Biden ha seguito la linea di Donald Trump e sostanzialmente applicato gli accordi del febbraio 2020, ma di certo non si pensava a una debacle simile e alla necessità di evacuare in tempi così stretti”, commenta con Formiche.netMario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques di Parigi.

Non più di una settimana fa, le stime più pessimistiche parlavano di una finestra di 60-90 giorni prima che il Paese collassasse in mano al gruppo insorgente creato dal Mullah Omar nel 1994. Ma la situazione è precipitata senza controllo. “Li abbiamo preparati per il fallimento”, ha detto al New York Times David H. Petraeus, generale iconico che ha comandato le forze internazionali in Afghanistan dal 2010 fino a quando è stato nominato direttore della Cia l’anno successivo. La squadra del presidente Biden, secondo Petraeus, “non ha riconosciuto il rischio incorso dal rapido ritiro” dei droni di intelligence e da ricognizione e del supporto aereo ravvicinato, così come il ritiro di migliaia di contractor che hanno tenuto in volo l’aviazione afghana (tutto nel mezzo di una stagione di combattimenti particolarmente intensa). Il risultato, spiega il comandante americano, è stato che le forze afgane sul campo avrebbero “combattuto per alcuni giorni, e poi si sarebbero rese conto che non c’erano rinforzi”, e per questo “l’impatto psicologico è stato devastante”.

“L’immagine e la credibilità degli Usa e, anche, dell’amministrazione Biden ne escono fortemente danneggiati, su questo non c’è dubbio”, aggiunge Del Pero: “Ma la storia ci insegna che quello della credibilità è un feticcio, spesso invocato per giustificare interventi inutili o per prolungarli senza senso (e questa sarebbe, se ben interpretata, una delle fondamentali lezioni del Vietnam). Tutto dipenderà da come governeranno questi nuovi Talebani. Se l’Afghanistan dovesse diventare nuovamente una zona franca dove operano gruppi terroristici capaci di colpire l’Europa e gli Usa, allora Biden diverrebbe a tutti gli effetti colui che ha perso l’Afghanistan; se garantiscono un minimo di ordine e disciplina (che poi erano la premessa e l’auspicio dietro i negoziati e gli accordi dell’anno scorso, ndr), se insomma l’Afghanistan esce dai radar pubblici, politici e mediatici, allora anche questo fiasco sarà archiviato”.

È il dubbio delle cancellerie internazionali: i Talebani saranno in grado nei fatti di meritarsi il riconoscimento che cercano sganciandosi da Al Qaeda e combattendo contro l’IS nel Khorasan? L’assurdo sta nel fatto che a venti anni di distanza dall’intervento occidentale ci si ritrova davanti alla necessità di pensare a un qualche approccio pragmatico nei confronti del gruppo armato contro cui si era entrati in guerra.

“Quella — continua il docente dell’università francese — era una guerra per colpire Al Qaeda, rovesciare il regime che le aveva permesso di avere la sua base e le sue infrastrutture, modernizzare l’Afghanistan e, nel farlo, garantire l’estensione di alcuni fondamentali diritti civili e politici. Queste, in sintesi estrema, erano le variabili che convergevano nell’equazione che definiva le matrici dell’intervento. E però, come già in passato, sono scattati vari cortocircuiti: della strategia della modernizzazione (e degli assunti che vi sottostanno) e dell’interventismo umanitario. Ancora più acuti in un contesto così complicato come quello afghano. Di soldi ne sono stati investiti non pochi: chi ha provato a stimarli ha prodotto cifre da capogiro. E però i risultati non sono stati quelli attesi e da un certo momento in poi negli Usa tutta la narrazione politica, mediatica e pubblica si è concentrata sulla corruzione, il malgoverno, l’inefficienza militare”.

Quasi una mezza dozzina di funzionari statunitensi (in tutta l’amministrazione) dicono alla Reuters che c’è una crescente frustrazione e persino rabbia per il modo in cui Biden ha gestito l’evacuazione da Kabul. Spiegano che la sua Casa Bianca ha perso troppo tempo nei mesi precedenti la settimana scorsa. Quei funzionari dichiarano (in forma anonima) che i militari da settimane hanno comunicato alla Casa Bianca che erano pronti a fare di più per evacuare gli afgani, ma la decisione non è arrivata fino a quando non è stato troppo tardi.

“La frustrazione verso quanto accadeva in Afghanistan — spiega Del Pero — e la disillusione sulla possibilità, irrealistica e velleitaria, di modernizzarlo, democratizzarlo, occidentalizzarlo si è già intrecciata con il mutare delle condizioni che quell’intervento avevano provocato, giustificato e legittimato. Nel 2008 gli Usa e il loro sistema politico si trovano a fronteggiare diversi fronti di crisi: economica, di politica estera, di legittimità stessa delle istituzioni. È, se vogliamo uno slogan, una crisi della globalizzazione Usa-centrica che, tra le altre cose, è crisi (e, appunto, delegittimazione) di un interventismo globale nel quale centrale è l’hard power militare. Da allora in poi la questione è come disimpegnarsi, e anche la bizzarra surge di Obama (con annessa deadline: tu aumenti le truppe ma annunci una scadenza!) è funzionale a quello”.

“L’America First di Trump, che in fondo è anche quella del nazionalismo progressista di Biden, è anche la come home America: di mandare ragazzini del North Dakota a morire in Afghanistan non ne ha voglia più nessuno”, aggiunge il docente. Il ritiro è un imperativo politico-elettorale, insomma, come tanti sondaggi hanno mostrato. E su questo si spiega anche l’evidente continuità tra il secondo mandato di Barack Obama, Trump e ora Biden.

Anche la giustificazione etica ed ideale dell’intervento viene meno, ovvero viene meno il clima che la alimenta, giustifica e legittima? “La breve era della guerra umanitaria e dei diritti umani in fondo sta dentro l’arco tra Iraq-1 (1991) e Iraq-2 (2003), o al massimo possiamo spingerla fino alla Libia (2011)”, risponde Del Pero: “I doppi standard dell’interventismo umanitario, le sue mille opacità, l’idea stessa della guerra per la vita, l’unilateralismo statunitense, la notte della ragione del Patriot Act e di Guantanamo discreditano e delegittimano i codici e, se vogliamo chiamarla così, l’ideologia dei diritti umani e dell’interventismo umanitario (non aiuta che alcuni dei suoi principali cantori e teorici, a partire da Tony Blair con la sua associates finiscano poi per fare consulting per Kazakhistan, Azerbaijan etc)”.

La rotta dell’esercito afghano, con la vendita ai talebani delle armi individuali, si spiega solamente con la percezione dell’abbandono da parte delle truppe occidentali, dei loro aeromobili e dei contractor. Conosciamo il valore delle truppe americane e temiamo che questa fuga sia dovuta a una politica incerta e perdente in partenza. L’unico modo per salvare il salvabile sarebbe di portare in Occidente quanti più afghani fuggiaschi sia possibile. C’è un italiano a Kabul, ma cosa potrà fare dipende da Washington.

Chi è l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, l’italiano che sta gestendo i voli da Kabul

Di Luigi Romano | 17/08/2021 -Formiche

Chi è l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, l’italiano che sta gestendo i voli da Kabul
Secondo Sputnik l’aeroporto Karzai è stato dato in gestione ai turchi da 3 giorni.

Sessantaquattro anni, in diplomazia dal 1985: Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, è Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan

In questi giorni complicati in Afghanistan, c’è un italiano a gestire il traffico all’aeroporto internazionale Hamid Karzai, scalo che serve la capitale Kabul. È Stefano Pontecorvo, 63 anni, diplomatico con grande esperienza nella regione, già ambasciatore d’Italia in Pakistan, da giugno 2020 Senior Civilian Representative della Nato in Afghanistan su nomina del segretario generale Jens Stoltenberg.

Nelle ultime ore il diplomatico ha condiviso un tweet di Guido Crosetto che recita: “Il primo modo per combattere l’integralismo talebano, oggi, è dare rifugio ed aiuti a chiunque rischia di essere perseguitato del nuovo regime ed a quelle che sarebbero le prime vittime: le donne che hanno creduto di poter essere libere di scegliere”.

Nato a Bangkok (Thailandia), 17 febbraio 1957, Stefano Pontecorvo è entrato nella carriera diplomatica nel 1985. Dal 2013 al 2015 ha lavorato in qualità di consigliere diplomatico del ministro della Difesa italiano, operando su questioni politico-militari della Nato, incluso l’Afghanistan. Tra i suoi precedenti incarichi figura quello di vice capo missione presso le ambasciate d’Italia a Londra e Mosca.

Ecco cosa diceva a Formiche.net un anno fa, appena nominato a Kabul: “L’Italia è considerato in Afghanistan un Paese amico da tutta la popolazione. Non perché siamo simpatici e belli, ma perché abbiamo raggiunto risultati impressionanti. Resolute Support ha diviso il Paese in quattro zone operative. All’Italia spetta la zona ovest di Herat, attualmente al comando del generale Enrico Barduani, dove si sono raggiunti risultati incredibili. L’impegno italiano ha consentito il miglioramento delle capacità delle forze afgane con una serie di azioni (compresi addestramento e mentoring su logistica, manutenzione e riparazione di veicoli armati) che hanno dato loro la sostenibilità della forza. Il 207esimo Corpo d’armata afgano, affidato in cura agli italiani, è ora in grado di esprimere una garanzia di sicurezza alla popolazione perché, vista l’azione italiana di trasferimento di competenze e capacità, è diventata una forza armata sostenibile, in grado cioè di funzionare quotidianamente nel tempo”.

4244.-Gli Stati Uniti hanno perso, la NATO ha perso, Noi abbiamo perso.

Mentre i piloti dei Globemaster fanno miracoli, mentre Biden tenta di auto-assolversi e Di Maio rilascia selfie a Porto Cesareo, si compie il destino delle famiglie e degli afghani che, per 20 anni, hanno prestato il loro lavoro con il contingente italiano, come interpreti, come impiegati o operai nelle nostre basi. 225 di loro erano già stati portati a Roma, altri 300, almeno e le loro famiglie erano in attesa che la burocrazia li scremasse una seconda volta: A loro, sì, agli ospiti di Lamorgese, invece, no. Ora, l’occupazione repentina delle città afghane da parte dei talebani impedisce loro di raggiungere l’aeroporto Karzai di Kabul, ma con quale piano d’imbarco e su quale aeroplano? L’appello del generale Giorgio Battisti a fare in fretta non è servito. Troppa burocrazia ha messo le pastoie al Comando Operativo Interforze e, comunque, ha rallentato l’evacuazione. Il silenzio dei media è stato mascherato da un aereo cisterna dell’Aeronautica Militare, rientrato ieri da Kabul con 70 passeggeri fra diplomatici, italiani e solo pochi (poi, il 18, altri 85 secondo Sputnik) afghani. E così è stato per i collaboratori degli altri contingenti alleati. Quando l’ultimo soldato americano avrà lasciato Kabul, quando la notte sarà scesa ancora una volta sull’Afghanistan e avremo un nuovo Emirato Islamico, li attende tutti un solo destino.

Pace ai nostri morti.

Quale futuro attende l’Afghanistan, dopo la precipitosa ritirata degli occidentali e la vittoria-lampo delle milizie dei talebani? L’aeroporto di Kabul rimarrà aperto finché non saranno evacuati i civili occidentali e una minoranza di afgani. I talebani promettono tolleranza e non ingerenza nei territori dei vicini (Cina e Russia), ma forse è solo propaganda. Il Pakistan, tramite i suoi servizi segreti, si aggiudica la maggior vittoria: ha assistito l’offensiva talebana, organizzandola e infiltrando le truppe governative. Ora mirerà al controllo del prossimo governo islamico afgano.

Talebani padroni dell’Afghanistan, un successo del Pakistan

di Gianandrea Gaiani, da La Nuova Bussola Quotidiana

Talebani nel palazzo presidenziale

“Hanno vinto, ora i talebani tutelino gli afghani”. L’ex presidente dell’Afghanistan spiega in un messaggio su Facebook di essere fuggito “per evitare un massacro” a cominciare dalla capitale Kabul. Ghani, sua moglie, il capo dello staff e il consigliere per la sicurezza nazionale sono arrivati a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan. Sul palazzo presidenziale sventola la bandiera talebana, bianca con la shahada, la scritta in arabo della testimonianza su Dio: “Testimonio che non c’è nessun dio, al di fuori di Dio e testimonio che Maometto è il profeta di Dio”.

L’Afghanistan tornerà al nome precedente all’arrivo degli americani nel 2001, Emirato Islamico dell’Afghanistan mentre i militari americani garantiranno il traffico aereo all’aeroporto di Kabul per facilitare le evacuazioni ma solo per qualche giorno, finchè il ponte aereo non sarà ultimsato. In una dichiarazione congiunta, il Pentagono e il Dipartimento di Stato hanno annunciato misure per garantire la sicurezza dello scalo afghano al fine di “consentire l’uscita sicura del personale statunitense e dei loro alleati dall’Afghanistan, in ambito civile e militare aereo. Nelle prossime 48 ore, avremo ampliato la nostra presenza di sicurezza a quasi 6.000 soldati, con una missione focalizzata esclusivamente sulla facilitazione di questi sforzi, e ci occuperemo del controllo del traffico aereo” all’aeroporto, afferma la nota.

Gli sviluppi futuri in Afghanistan dipenderanno però soprattutto dalle decisioni che verranno assunte in Pakistan, sponsor da sempre del movimento talebano e vero artefice politico e militare della “blitzkrieg” talebana che in una settimana ha travolto tutto l’Afghanistan. Mentre in Occidente c’è già chi guarda alla “svolta moderata” dei talebani a Kabul detto il portavoce dei talebani, Sohail Shaheen, in un’intervista alla CNN definisce “prematuro” dire chi saranno i nuovi membri dell’esecutivo, ma, ha aggiunto, ci saranno “figure note”. “Quando diciamo un governo islamico inclusivo afghano significa che anche altri afghani partecipano al governo”, ha affermato. Meglio però non farsi illusioni circa eventuali governi multipartitici inseriti in sistemi rappresentativi semi-democratici: i talebani hanno annunciato la proclamazione dell’Emirato, il che significa che ci sarà un capo del governo (l’emiro) e i suoi ministri. In tutte le città “liberate” dai talebani le autorità amministrative locali sono state destituite, le donne sono state cacciate dai posti di lavoro inclusi quelli pubblici e “invitate” e indossare il burqa.

La disponibilità dei talebani ad accettare che decine di migliaia di connazionali vengano evacuati dal ponte aereo americano e occidentale comporta due vantaggi: togliere di mezzo scomodi oppositori al regime della sharia e mostrare alla comunità internazionale un movimento talebano non più sanguinario. Aspetto indispensabile per far si che l’Emirato dell’Afghanistan ottenga di venire riconosciuto sul piano internazionale e per favorire i rapporti economici e commerciali. Russi e cinesi sono gli unici a non aver evacuato le ambasciate a Kabul ma non certo perché sono amici dei talebani. Mosca e Pechino si preparano da tempo al ritorno dei talebani a Kabul e hanno mantenuto rapporti nel tentativo di barattare una disponibilità agli scambi economici (la Cina ha alcune compagnie minerarie impegnate in Afghanistan) con l’impegno talebano a non soffiare sul fuoco del jihad nel Sinkiang cinese e nelle repubbliche asiatiche ex sovietiche (soprattutto Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan). Quanto ci sia da fidarsi della parola dei talebani, la cui ideologia islamica considera una virtù mentire agli infedeli, lo dirà solo il tempo ma già ora è ben chiaro chi sia il vero vincitore dell’ultimo capitolo della guerra afghana.

Il Pakistan già domenica, mentre i talebani prendevano pacificamente Kabul, ha convocato a Islamabad, una delegazione di alto livello di oppositori dei talebani. Lo ha annunciato il rappresentante speciale del Pakistan per l’Afghanistan, Mohammad Sadiq. “Ho appena ricevuto una delegazione di alto livello tra cui Ulusi Jirga Mir Rehman Rehmani, Salah-ud-din Rabbani, Mohammad Yunus Qanooni, Ustad Mohammad Karim Khalili, Ahmad Zia Massoud, Ahmad Wali Massoud, Abdul Latif Pedram e Khalid Noor” per discutere “questioni di reciproco interesse”. Il Pakistan intende porre sotto la sua diretta influenza il nuovo governo afghano dominato dai talebani offrendo garanzie anche agli oppositori tagiki e uzbeki che in passato hanno condotto una lunga e fiera guerra contro gli il regime degli “studenti coranici”.

Islamabad ha pianificato da tempo con i servizi segreti militari (Inter Services Intelligence – ISI) la guerra-lampo da scatenare nell’imminenza del completamento del ritiro delle forze americane e alleate, rinforzando con propri combattenti provenienti dai reparti d’élite e dalle milizie tribali della Tribal Area pakistana le milizie talebane. Con tali forze gli attacchi talebani hanno potuto svilupparsi su più fronti contemporaneamente, aumentando la percezione presso le truppe governative di una indiscussa superiorità del nemico. Il Pakistan avrebbe inoltre fornito ai talebani un’ampia copertura d’intelligence che sembra aver visto protagonisti numerosi agenti dell’ISI infiltrati nei comandi militari afghani e nei governi provinciali con l’obiettivo di indurre i reparti a cedere le armi o a non opporre resistenza.

Sul piano politico e strategico la vittoria lampo dei talebani porta consistenti vantaggi al Pakistan che controllando l’Afghanistan si pone da un lato come interlocutore di grande rilevanza con Cina e Russia e dall’altro ha stroncato l’iniziativa imbastita dal presidente Ashraf Ghani con l’India, interessata a sostenerne anche militarmente il governo per contenere i talebani alleati del rivale pakistano. Con la caduta di Kabul inoltre l’ISI si è preso la sua vendetta nei confronti degli Stati Uniti per il blitz ad Abbottabad del 2011 in cui venne ucciso Osama bin Laden, effettuato dalle forze speciali americane in territorio pakistano senza informare i servizi d’intelligence di Islamabad.