Archivio mensile:febbraio 2019

2236.- SCANDALO NELLE FORZE ARMATE TEDESCHE, SPECCHIO DEL PAESE E DEI SUOI PROBLEMI

La storia insegna che le frange estremiste non sono né di destra né di sinistra e comodano, invece, e spesso sono pilotate dal potere. Si parla da mesi di un piano eversivo potenzialmente mortale per la democrazia tedesca e per tutta l’Unione Europea. Gli elementi a capo di questa estrema destra tedesca sono rimasti nell’ombra, le prove della macchinazione sono sparite e, allora, mi chiedo: a chi fanno capo e quale il loro vero obbiettivo? Per converso, mi chiedo anche: Possiamo parlare veramente di democrazia in Europa? È vero o no che la BCE, che detta il ritmo dell’economia, quindi, della politica degli stati membri è una banca centrale privata; che la Commissione è obbediente ai poteri finanziari globalisti? In che rapporto con i valori e gli stati sociali dei popoli europei si pone la politica di austerità? La destra estremista, tutti gli estremismi, non hanno spazio nel sentire di noi cittadini, ma la crisi politico-sociale che attraversa l’Unione ben può sfociare in un conflitto civile se non si trovano la forza e gli uomini capaci di imprimere una svolta alla governance finanziaria, di nominare una costituente che rimetta al centro del sistema i cittadini; che garantisca di poter manifestare per i propri diritti senza dover scendere nelle strade ed essere mutilati o, peggio, uccisi. La violenza della repressione contro i Gilet Jaunes dice di no. Vedremo quale sarà la risposta il 26 maggio. Mario Donnini

L’articolo di Andrea Gaspardo, del 25/02/2019, per DifesaOnline  :

“Con il procedere del tempo, la crisi politico-sociale che sta interessando la Germania ha cominciato ad evolversi in qualcosa di molto pericoloso per la sicurezza e la stabilità dell’intera Europa. Uno dei fantasmi che disturbano il sonno dei decisori politici, sia Tedeschi che Europei in generale, è quello del ritorno al potere di quella destra estremista che, storicamente, aveva trovato terreno fertile di crescita proprio in Germania negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso con l’avvento al potere del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP) guidato da Adolf Hitler.

Negli ultimi anni, l’estrema destra tedesca ha fatto nuovamente parlare di sé, e non solamente per i successi elettorali ottenuti sia a livello locale che federale dal partito AfD (Alternative für Deutschland – Alternativa per la Germania), ma anche per una serie di preoccupanti scandali riguardanti l’infiltrazione all’interno dell’istituzione che, più di ogni altra, dovrebbe rappresentare il baluardo della democrazia tedesca: la “Bundeswehr”, le “Forze Armate Federali”.

In verità, la Bundeswehr non è nuova a scandali di questo tipo; già nel corso della Guerra Fredda, l’istituzione militare si trovò sotto pesante scrutinio a causa della scoperta di reti clandestine legate al mondo della sinistra eversiva facente capo alle “Cellule Revoluzionarie” (Revolutionäre Zellen) oppure alla “Frazione dell’Armata Rossa” (Rote Armee Fraktion). Oggi, apparentemente, il pericolo viene da una direzione diversa.

Come anticipato dal magazine tedesco “Focus” nel novembre 2018 (v.link), a conclusione di un’inchiesta durata oltre due anni, la polizia ed i servizi segreti tedeschi sono “apparentemente riusciti” (il condizionale in questo caso è d’obbligo) a sventare un complotto neo-nazista all’interno delle forze armate che aveva il suo “epicentro” addirittura all’interno del “KSK Kommando Spezialkräfte” (il Comando delle Forze Speciali). Secondo l’investigazione della polizia, non meno di 200 membri del KSK (il 18% dell’intera unità!) sarebbero direttamente implicati in un piano eversivo chiamato in codice “Giorno X” che, anticipando un collasso politico-sociale del sistema paese, prevederebbe una sorta di “resa dei conti” interna durante la quale i commandos avrebbero dovuto individuare, sequestrare e giustiziare sulla pubblica piazza una lista di “nemici del popolo”, tra cui: l’ex-presidente Joachim Gauck, il leader del partito “Die Linke”, Dietmar Bartsch, il ministro degli esteri Heiko Maas, la vice-presidente del Bundestag, Claudia Roth (Partito dei Verdi) e molti altri politici, giornalisti ed attivisti dei diritti umani. Tuttavia, nonostante l’arresto e la confessione di alcuni “pesci piccoli”, è probabile che ben difficilmente le autorità potranno procedere contro la “truppa” perché, allertati da una spia presente all’interno del MAD (Militärischer Abschirmdienst), il Servizio di Controspionaggio Militare, sembra che i commandos siano riusciti a far sparire le prove più compromettenti a loro carico. Pare che il “simpatizzante neo-nazista” infiltrato nel MAD sia poi stato preso, ma non é sicuro che, ad oggi, sia intenzionato a collaborare.

La capacità che hanno dimostrato gli elementi dell’estrema destra tedesca di infiltrarsi all’interno dei corpi militari d’élite e dei servizi segreti dello stato tedesco e lo strabismo sinora dimostrato dalla politica e dall’opinione pubblica, non solo in Germania, ma anche nell’intera Europa nella corretta valutazione di un piano eversivo potenzialmente mortale per la democrazia non depongono a favore dello “stato di salute” delle istituzioni e dei mass-media del nostro continente.”

Foto: Bundeswehr

2235.- Perché non mi convince la Conte-nomics su privatizzazioni, Iva e non solo. Il commento di Stefano Feltri (Fatto Quotidiano)

Restiamo sulla manovra bis. La lingua batte dove il dente duole.

Ecco come il vicedirettore del Fatto Quotidiano, Stefano Feltri, giornalista esperto di economia e finanza, ha analizzato l’intervista del premier Giuseppe Conte al Sole 24 Ore

Da quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tolto al ministero del Tesoro il negoziato con l’Ue, Palazzo Chigi è diventata la sede della politica economica. Per questo l’intervista di Conte al giornale della Confindustria, Il Sole 24 Ore, va letta con più attenzione delle dichiarazioni del ministro del Tesoro Giovanni Tria.

La Conte-nomics è un po’ difficile da conciliare coi numeri reali di crescita del 2019 (forse +0,2 invece che l’1 per cento previsto dal governo). Ma comunque il premier manda alcuni messaggi chiari. Primo: la manovra correttiva di primavera non è esclusa come dicono Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ma è “prematuro parlarne”. Di sicuro non contemplerà una patrimoniale, dice il premier, che considera sufficienti i tagli automatici da 2 miliardi alla spesa inseriti nella legge di Bilancio che scattano in caso di sforamento dei parametri (peccato che tagliare la spesa in recessione significa ridurre il Pil e quindi rendere debito e deficit più pesanti).

Tutti gli investitori che hanno letto l’intervista di Conte cercavano risposte a una domanda semplice: come diavolo farà il governo a rispettare gli impegni presi per il 2019 e a sopravvivere a una legge di Bilancio 2020 che pare insuperabile? Le risposte arrivano a metà.

Conte evoca ancora una volta l’intervento della Cassa depositi e prestiti per un “piano di privatizzazioni nel settore immobiliare”. Ma nessuno ha mai creduto che la Cdp possa vendere 18 miliardi di euro di immobili pubblici, a tanto ammontano le privatizzazioni che il governo ha messo a bilancio per il 2019. Ed è assai difficile che l’obiettivo si raggiunga se nel frattempo si statalizzano altri pezzi di economia, come Alitalia o, chissà, la rete telefonica aumentando la partecipazione della Cdp in Telecom.

Ma è sul capitolo fisco che ci sono le sorprese maggiori: Conte spiega che gli aumenti automatici dell’Iva da 23 miliardi già previsti per il 2020 non scatteranno perché il governo troverà risorse da fonti alternative. Ne indica una sola: “La revisione complessiva del sistema delle tax expenditures”. Negli ultimi 25 anni tutti i governi hanno promesso di rivedere detrazioni e deduzioni, ma di solito per finanziare tagli di altre tasse. Conte invece dice che lì si troveranno 23 miliardi per evitare l’Iva. Tradotto: i contribuenti italiani non pagheranno 23 miliardi di imposte sui consumi ma pagheranno comunque 23 miliardi di tasse in più, perché a questo equivale tagliare le agevolazioni.

Già realizzare questo sarebbe doloroso e complicato. Ma Conte deve anche dare qualche segnale alla Lega: magari non la flat tax, ma una revisione delle aliquote Irpef da cinque a tre (vecchio progetto berlusconiano mai realizzato). Dove si trovano le risorse? Mistero.

E il Tav? “Ora comincerà il confronto interno” al governo. Quello che tutti avevano capito dovesse invece chiudersi con l’analisi costi-benefici. Di decisioni, per ora, non si parla.

L’articolo di Start in versione integrale si legge su Il Fattoquotidiano.

2234.- Giovanni Tria: “Saccomanni fu ricattato dalla Germania sulle banche”

IlFattoQuotidiano.La dichiarazione:

“Il ministro delle Finanze tedesco disse che se l’Italia non avesse accettato il bail-in, si sarebbe diffusa la voce che il sistema bancario era prossimo al fallimento”

Il ministro dell’economia e delle finanze Giovanni Tria e il presidente dell’ABI Patuelli concordano entrambi sul fatto che il “bail-in vada abrogato. Ma, ha aggiunto il ministro, rispondendo alle domande della Commissione Finanze del Senato: «Non vedo la possibilità che in tempi brevi possa essere abolito o che ci sia una convergenza tale che vi si possa arrivare, almeno per ora e non so se in futuro». Significa che  poiché Giuseppe Conte ha tolto al ministero del Tesoro il negoziato con l’Ue, Palazzo Chigi è diventata la sede della politica economica. Per questo dovrà essere Conte a chiedere alla Commissione di abolire il bail-in e non il ministro del Tesoro Giovanni Tria. Pensate a come siamo governati.

La Germania avrebbe ricattato l’Italia sul sistema bancario. È questa l’accusa di Giovanni Tria in Commissione Finanze in Senato. Quando è stato introdotto il bail-inm ha spiegato, “era ministro Saccomanni che fu praticamente ricattato dal ministro delle finanze tedesco” che avrebbe detto che “se l’Italia non avesse accettato, si sarebbe diffusa la notizia che l’Italia non accettava perché aveva il sistema bancario prossimo al fallimento e questo avrebbe significato il fallimento del sistema bancario”. Il ministro a cui si riferisce è Wolfgang Schäuble. Il ministro dell’Economia italiano ha riferito sugli esiti dell’Ecofin in Commissione Finanze del Senato aggiungendo di condividere “l’opinione di Patuelli”. Il presidente dell’Abi ha definito la norma europea sul bail-in desueta che va abrogata.

“Condivido il fatto che dovrebbe essere abolito”, ha spiegato Tria sottolineando però che “non prevedo che in tempi brevi possa essere abolito o che ci sia una convergenza tale che si possa arrivare, almeno per ora e non so se in futuro, all’abolizione” del bail in. “Credo – ha proseguito il ministro dell’Economia – che quando è stato introdotto in Italia fossero quasi tutti contrari, anche la Banca d’Italia in modo discreto si oppose”.

Tria ha anche parlato del decreto sui rimborsi ai risparmiatori “azzerati”: se fosse rimasta la formulazione presentata dal governo “sarebbero già nella fase in cui vengono pagati”, le modifiche approvate dal parlamento “hanno provocato qualche ritardo”

Rivediamo insieme che cos’è il Bail-in

Il bail in è stato introdotto in Italia nel 2016, per recepire la direttiva europea BRRD («Bank Recovery and Resolution Directive») e prevede che, in caso di crisi bancaria imminente e se non ci sono soluzioni private alternative, la Banca d’Italia possa attivare misure per attuare un salvataggio interno. Ovvero, a sostenere i costi delle misure di salvataggio saranno in primo luogo gli azionisti, che potranno vedere azzerato il valore dei loro titoli per assorbire le perdite, poi gli obbligazionisti, poi i correntisti della banca stessa (la gerarchia prevede che chi investe in strumenti finanziari più rischiosi sostenga prima degli altri le perdite). Lo Stato interverrà solo in casi estremi e solo nel caso in cui venga messo in pericolo il pubblico interesse, ma non più con finanziamenti a fondo perduto. Con il bail-out invece, la risoluzione di una crisi bancaria era a carico del sistema, quindi di tutti i contribuenti. Ogni Paese chiese eccezioni al «bail-in» per evitare che i salvataggi delle banche in crisi ricadessero su obbligazionisti e depositanti: I casi di Spagna e Portogallo e gli aiuti concessi in Olanda e Germania. Solo l’Italia ha sperimentato la «risoluzione» con Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara.

Come sia stato possibile per Wolfgang Schäuble ricattare un ministro come Fabrizio Saccomanni, senza che potesse difendersi, resta a mio avviso, un caso buio.

Il Ministro dell’Economia e delle Finanze del Governo Letta, Fabrizio Saccomanni, attualmente, presidente del consiglio di amministrazione di UNICREDIT

Altre cariche attualmente ricoperte

Vice Presidente, membro del Consiglio di Amministrazione, del Comitato di Presidenza e del Comitato Esecutivo – ABI – Associazione Bancaria Italiana – Italia

Membro del Comitato degli Operatori di Mercato e degli investitori di Consob – Italia

Membro del Consiglio Direttivo – Assonime – Italia
Membro del Comitato Direttivo del Consiglio per le Relazioni tra Italia e Stati Uniti – Italia

Presidente del Comitato tecnico per la Vigilanza Unica Europea – ABI – Italia
Membro del Consiglio di Amministrazione – Institute of International Finance – Stati Uniti
Membro del Consiglio di Amministrazione – ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale – Italia
Membro – Comitato Scientifico Centro Studi Confindustria – Italia
Membro – Comitato per la Corporate Governance – Italia
Membro del Consiglio Direttivo – Istituto Luigi Einaudi – Italia
Membro del Collegio di indirizzo – Fondazione Bologna University Business School – Italia
Membro della Trilateral Commission – Gruppo Italiano
Membro – European Financial Services Round Table (EFR) – Belgio
Membro – EUROPEAN COUNCIL ON FOREIGN RELATIONS – Regno Unito

Senior Fellow, Scuola di Politica Economica Europea – UNIVERSITA’ L.U.I.S.S. (LIBERA UNIVERSITA’ INTERNAZIONALE DEGLI STUDI SOCIALI GUIDO CARLI) – Italia

Vice Presidente del Consiglio Direttivo – ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI – Italia

Membro – SOCIETA’ ITALIANA DEGLI ECONOMISTI – Italia

Presidente del Consiglio di Amministrazione – Associazione Orchestra Filarmonica della Scala – Italia
Membro del Consiglio di Amministrazione e Vice Presidente – Fondazione Felice Gianani – Italia

CARICHE PRECEDENTEMENTE RICOPERTE

Ministro dell’Economia e delle Finanze – MINISTERO ECONOMIA E FINANZE – Italia
Membro del Direttorio e Direttore Generale – BANCA D’ITALIA – Italia
Membro del Consiglio Generale – Aspen Institute Italia
Visiting Professor, Scuola degli Affari Internazionali di Parigi – SCIENCESPO – Francia

Visiting Professor in Practice dell’Istituto Europeo – LONDON SCHOOL OF ECONOMICS – Regno Unito

Membro del Consiglio dei Governatori – MECCANISMO EUROPEO DI STABILITA’ – Lussemburgo

Presidente e Membro del Direttorio Integrato – IVASS – Italia

Membro del Consiglio Direttivo – IIT – ISTITUTO ITALIANO TECNOLOGIA Italia

Membro del Consiglio di Amministrazione – BIS (BANCA DEI REGOLAMENTI INTERNAZIONALI) – Svizzera

Membro del Gruppo di Lavoro per la creazione del Meccanismo Unico di Vigilanza e Supplente del Governatore nel Consiglio Direttivo – BANCA CENTRALE EUROPEA – Germania

Vice Presidente – Risk Management e Membro del Comitato Esecutivo – BANCA EUROPEA PER LA RICOSTRUZIONE E LO SVILUPPO (EBRD) – Regno Unito

Presidente del Tavolo di Lavoro per la Ricostruzione Economica del Patto di Stabilità per il Sud-Est Europa – UNIONE EUROPEA – Europa

Membro del Comitato dell’Euro e Presidente del Sottocomitato Finanza del Comitato per l’Euro – MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE – Italia

BANCA D’ITALIA – Italia
 Direttore Centrale degli Affari Internazionali
 Capo del Servizio Rapporti con l’Estero
 Capo della Direzione Internazionale e del Servizio Studi
 Ufficio Vigilanza Bancaria e Finanziaria
Presidente del Comitato per la Politica del Cambio – ISTITUTO MONETARIO EUROPEO – Germania

FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE – Stati Uniti
 Assistente del Direttore Esecutivo per l’Italia

2233.- Venti anni di Euro: Italia non competitiva. Di Barbara Weisz

Italia poco competitiva nell’Eurozona: senza svalutazione monetaria, deve insistere sulle riforme strutturali per generare ricchezza.

Diciamolo: sono numeri impressionanti quelli presentati dal report del Center for European Policy (CEP) di Friburgo sui primi 20 anni di Euro, ovvero sull’impattoche la moneta unica ha avuto per le tasche dei cittadini dei diversi paesi. Ebbene, mediamente un tedesco ha guadagnato 23mila euro, un italiano ne ha persi 73mila, maglia nera per PIL pro-capite fra i big dell’Euro.

Secondo gli analisti, «l’Italia non ha ancora trovato il modo di diventare competitiva all’interno dell’Eurozona». Ai tempi della Lira, il Governo usava la svalutazione della moneta per guadagnare competitività, ma con l’Euro questa leva non è utilizzabile: l’unico modo per affrontare la politica economica è quello delle riforme strutturali.

=> Gli errori della crisi e il futuro dell’Euro

Non è una strada facile. Guardando alla classifica, sul podio troviamo soltanto Germania e Olanda. Al terzo posto ci sarebbe la Grecia (che ha aderito due anni dopo), avvantaggiatasi però solo nei primi anni di ingresso. Per il solo 2017 la classifica è infatti analoga ma anche la Grecia risulta in perdita.

L’esempio della Spagna (sotto, il grafico) dimostra però come le riformepossano invertire la tendenza. Nonostante un saldo negativo, il trend potrebbe invertirsi nel giro di pochi anni proseguendo nella strada intrapresa.

Attenzione: i risultati non dimostrano in termini assoluti che senza l’Euro l’Italia, o altri paesi, avrebbero avuto un vantaggio. Lo scenario è astratto e non significa che l’introduzione della moneta unica sia stato un errore. Gli analisti hanno infatti stilato la classifica attraverso una simulazione, ipotizzando uno scenario alternativo (senza Euro) costruito prendendo come riferimento paesi che non hanno adottato la moneta unica e che negli anni precedenti presentavano un andamento simile, modellando poi un algoritmo ponderato in base a una serie di fattori specifici.00:00/00:0100:00SharePlaylistLin

Per misurare effettivamente cosa sarebbe successo ai singoli paesi se non ci fosse stata l’Eurozona, ammesso che sia possibile, ci vorrebbero calcoli ben più complessi.

E’ però interessante l’analisi sul fronte della valutazione delle politiche economiche, e delle scelte fatte sia dai diversi paesi quando sono entrati nell’euro sia, successivamente, dall’Europa.

Ma quali sono i vantaggi che l’euro ha portato all’Italia?  Li dice Simone Cosimi.

Il primo gennaio 1999 undici Paesi varavano l’Euro, moneta unica basata sulle regole del Trattato di Maastrich. La valuta concreta (banconote e monete) sarebbe arrivata tre anni dopo, il primo gennaio 2002, quando il denaro contante venne introdotto in 12 degli allora 15 Stati dell’Unione Europea (oggi gli aderenti all’Ue sono 28 con la Gran Bretagna in uscita, i Paesi che usano l’Euro sono saliti a 19).

Fra il 2007 e il 2015 l’Eurozona si sarebbe allargata a 19 Paesi mentre l’Euro è utilizzato anche in altri Stati o territori: Andorra, Monaco, San Marino e Città del Vaticano, dove è moneta ufficiale, ma anche in Guadalupe, Martinica e Saint-Barthelemy nei Caraibi, a Mayotte e Reunion nell’Oceano Indiano, e alle Azzorre, Canarie, Madeira, Kosovo e Montenegro.

Sembra corretto citare i 14 paesi africani dell’area CEFA, ai quali la Banca di Francia trattiene il 50% delle riserve valutarie, a titolo di garanzia per la convertibilità del loro CEFA in euro. Ndr.

L’introduzione della moneta unica ha conosciuto negli anni numerose polemiche ed equamente diviso i cittadini di diversi Stati aderenti, in particolare gli italiani ai quali per esempio quel tasso di cambio di 1.936,27 lire non è mai andato giù. Eppure era legato a una storia più lunga, quella del Sistema monetario europeo, al tasso di cambio di fatto congelato fin dal 1997 e alla necessità di tutelare le esportazioni italiane. Entrare a mille lire per un euro, insomma, non sarebbe stato possibile né per le logiche di mercato che dal 1989 modellavano i rapporti di forza dell’Ecu, la moneta scritturale che per un decennio preparò la valuta unica, né per la tenuta internazionale della nostra bilancia commerciale.

Polemiche a parte, l’Euro ha portato benefici innegabili alla nostra economia. Il problema, semmai, è stata l’occasione in gran parte mancata nell’intercettare una crescita robusta e, questo va detto, un mercato comune europeo che a un certo punto ha rallentato la sua integrazione: dal debito pubblico alla produttività fino all’evasione fiscale, è l’Italia che ha bucato l’appuntamento con la moneta unica alla quale, anzi, si è aggrappata per evitare disastri peggiori.

=> Italia fuori dall’Euro: 10 segnali di crisi per il 2020

I vantaggi dell’Euro

  1. Ha abbattuto i tassi di interesse. Fra il 1992 e il 1996 lo spread fra Btp e Bund tedeschi è stato in media di 392 punti base. Fra 1997 e 2010, ultimo anno precrisi, di 44 punti. Una montagna di quattrini risparmiati sul debito pubblico, circa 150 miliardi di euro, considerando anche il calo del tasso di interesse reale, sceso dal 6,39% al 2,4%. Se uscissimo, quei tassi d’interesse schizzerebbero, dovremmo sospendere nuove emissioni di titoli pubblici o privati, le banche non avrebbero più accesso a mercato monetario né ai meccanismi di tutela previsti dalla Bce.
  2. Ha tagliato l’inflazione. Non è vero che l’Euro ha fatto salire i prezzi. Dalla sua introduzione abbiamo vissuto un’epoca di percezione del tutto sballata, legata al piccolo paniere di beni che acquistiamo più di frequente e spesso in contanti. Nei quali, dunque, abbiamo notato forti aumenti che tutto sommato si sono esauriti nel giro del primo anno. Dal punto di vista statistico, infatti, l’inflazione ha continuato il suo passo prima dell’introduzione dell’Euro così come dopo. Anzi, migliorando. La media storica dell’inflazione italiana è del 5,5%, dall’introduzione dell’Euro è scesa all’1,7%. Il 2% è anche l’obiettivo a cui la Banca centrale europea intende tenerla.
  3. Ha fatto fuori i tassi di cambio. Sono spariti i costi connessi alle operazioni in valuta. Un aiuto fortissimo al commercio europeo la cui crescita è stata stimata fra il 5 e il 10%. Acquisto e vendita di valuta sul mercato dei cambi, tutela dalle oscillazioni avverse, pagamenti in divisa estera con commissioni elevate, conti in altre valute: miliardi drisparmiati che hanno fatto dell’Euro la seconda valuta di riferimento al mondo dopo il dollaro.
  4. Trasparenza e concorrenza. La concorrenza, secondo le regole, è la chiave del risparmio per i cittadini. L’Euro consente più scelta e stabilità dei prezzi, più opportunità per imprese e mercati (spesso la responsabilità della mancata visibilità di questi vantaggi è dei governi, si pensi al caso Bolkestein): dagli scambi transfrontalieri agli investimenti, dalla ricerca dei prezzi migliori (anche online) per consumatori o imprese, anche i più critici si muovono ormai in un unico grande mercato con ancora troppi ostacoli ma che ormai diamo per scontato.
  5. Prestiti, competitività, no alla svalutazione. Sono molti altri i vantaggi della divisa unica. Dalla internazionalizzazione delle aziende alla riduzione dei rischi nel commercio coi Paesi extra-Ue fino alla semplicità di contrarre un prestito o un mutuo (nel 1997 il tasso effettivo globale medio per un mutuo era del 10,6%, oggi sono inferiori al 3%).

Fuga dall’Euro? Uscire porta svantaggi

12 Aprile 2017Ma il vantaggio maggiore l’Euro ce l’ha dato in credibilità, impedendoci svalutazioni selvagge che avevano compromesso la fiducia sulla vecchia lira (e che per certi versi avevano portato alla quotazione di 1.936,27 lire per euro) costringendoci a regole comuni che tuttavia ci hanno salvato la pelle in occasione di numerose crisi e shock interni e internazionali. Almeno, senza sarebbe andata molto peggio.

2232.- La confusione tra fascismo e cultura politica fascista


L’aggettivo fascista Da più parti si stigmatizza l’uso a sproposito dell’aggettivo fascista, appiccicato come un insulto o come un giudizio politico denigratorio alla forma dell’attuale governo. Non si potrebbe che essere d’accordo se il termine fascista spingesse ad accostamenti automatici con la storia passata ed evocasse sistemi (torture, omicidi politici, deportazioni, leggi razziali etc) ovviamente […]

L’aggettivo fascista

Da più parti si stigmatizza l’uso a sproposito dell’aggettivo fascista, appiccicato come un insulto o come un giudizio politico denigratorio alla forma dell’attuale governo. Non si potrebbe che essere d’accordo se il termine fascista spingesse ad accostamenti automatici con la storia passata ed evocasse sistemi (torture, omicidi politici, deportazioni, leggi razziali etc) ovviamente sconosciuti oggi e non previsti, almeno in Italia.
Se tuttavia si analizzano in profondità la cultura politica che anima i leader del Movimento 5 Stelle e della Lega, i comportamenti, le dichiarazioni, il rapporto con gli elettori e il presupposto agire “in nome del popolo”, considerandone soltanto una parte, ovvero quella forse pentita che li ha votati, allora il termine “fascista può essere utilizzato per l’analisi della cultura che anima e ispira, anche inconsapevolmente, la leadership attuale.

Beninteso, anche a scanso di querele, non mi riferisco alle persone, né ai simboli, ma appunto al modo di rapportarsi all’elettorato, alla formazione delle decisioni, allo schema propagandistico organizzativo utilizzato per attuarle o spiegarne la mancata attuazione.
Mentre si diradano le assicurazioni su reddito di cittadinanza, legge Fornero, controllo dell’immigrazione, si vendono al popolo condoni edilizi e fiscali e fantomatiche congiure dei mercati e al tempo stesso si approfitta della posizione di maggioranza (o meglio di patto post elettorale) per occupare spazi di potere, promuovere amici degli amici, per lo più con dubbie qualità professionali.
Il tutto ammantato di grottesco materiale buono per le caricature e le comiche finali di Crozza, come l’ormai virale controllo a “370 gradi”.

Basta rileggere Einaudi, Gramsci, Gobetti, Flaiano, Eco, e altri padri nobili della cultura liberista, cattolico popolare, socialista del Paese per chiedersi cosa ne rimanga nella forma di governo attuale e nel suo modo di procedere.

Un piccolo elenco fattuale di ciò a cui assistiamo:

  • ricerca del consenso con promesse elettorali non rispettate e non rispettabili.
  • violazione di trattati internazionali e del dettato costituzionale.
  • distruzione consapevole di finanze pubbliche e risparmio privato.
  • occupazione di spazi televisivi, manipolazione dell’opinione pubblica, ossessiva denuncia di complotti internazionali e di “nemici del popolo”.
  • criminalizzazione di categorie professionali e sociali considerate fastidiose e disfattiste, come giornalisti, magistrati, banchieri, intellettuali, stranieri immigrati, omosessuali. (Mancano i finanzieri ebrei, ma ci arriveremo).
  • tradimento dei patti fra alleati di governo e criminalizzazione dei dissidenti interni.
  • assolutismo della parola del capo, delegittimazione del rappresentante ufficiale (in questo caso l’inesistente premier Conte)
  • inesistente ruolo dei ministri economici piegati alla volontà dei leader.
  • non trasparenza delle forme organizzative di movimento e partito, essendo indiscussa la parola di uno (Salvini per la Lega) ed eterodiretta da un’oscura piattaforma online (la Casaleggio e C.) quella dell’altro (Di Maio).

Linguaggio ai limiti della volgarità, riassumibile in slogan e affermazioni che hanno il solo scopo di alimentare consenso, sobillare sentimenti e nervi scoperti della popolazione, dirottare su altri obbiettivi il conto dei fallimenti e delle promesse non mantenute. È la logica del “me ne frego”, del “non arretreremo di un millimetro”, della ricerca del capro espiatorio.
A questo si sommano banalità e indifferenza della maggioranza, il carburante dell’assolutismo di cui parlava Hannah Arendt.

Di Massimo Nava, Remocontro

2231.- La Francia ci riprova: Al Sarraj ed Haftar assieme a Parigi

da Occhi della Guerra, premio

Anche il campo di El Feel cade nelle mani di Haftar. “Il campo continua a funzionare”.

Ovviamente tutto questo non può non avere implicazioni interne ed internazionali. Per quel che riguarda l’Italia, gli occhi sono subito puntati sul fatto che, come detto, El Feel è un campo dove opera l’Eni. Nelle vicinanze si trova la città di Marzuq, raggiunta nei giorni scorsi da alcuni bombardamenti operati dall’aviazione di Haftar.

Non appena nella serata di giovedì iniziano a diffondersi le notizie circa la presa dell’Lna, l’esercito comandato da Haftar, dei campi di El Feel non sono poche le preoccupazioni. Si temono scontri e quindi possibili stop alla produzione o danneggiamenti delle strutture. In realtà poi, in seguito ad alcuni riscontri e dopo alcuni comunicati dell’Lna, si parla dell’occupazione del campo da parte dell’autoproclamato esercito libico arrivata senza sparare un colpo.

Sempre nella serata di giovedì, al canale libico Channel218 un ingegnere intervistato telefonicamente conferma che la situazione è tranquilla e sotto controllo. Anche su Agenzia Nova si apprende che la produzione continua ed anzi “non si è mai arrestata, confermandosi al ritmo di settantamila barili al giorno”. Dunque ad El Feel l’estrazione del greggio prosegue e questa è, per l’Eni e per l’Italia, la più importante delle notizie. Ma per quanto concerne l’intero contesto libico, la conquista di El Feel da parte di Haftar non è un elemento di secondaria importanza. 

Smentite e conferme, il solito giro di notizie che viaggia lungo il filo di certezze che ben presto diventano dubbi e poi di nuovo certezze: alla fine però, anche la conquista del campo di El Feel da parte delle forze di Haftar dovrebbe essere realtà, pur se è d’obbligo mantenere il condizionale. Il generale della Cirenaica con i suoi uomini sarebbe avanzato fin dentro il campo petrolifero gestito da una joint venture composta dalla libica Noc e dall’italiana Eni


Al Sarraj ed Haftar assieme a Parigi

Gli equilibri sono saltati e questo già da giorni è ben ravvisabile: come detto la settimana scorsa, è nota la circostanza secondo cui Khalifa Haftar in prospettiva è l’unico a poter militarmente unificare la Libia, il problema per l’Italia soprattutto è capire in che modo il generale della Cirenaica muove i passi verso Tripoli. Se sotto il profilo militare, con l’aiuto di Francia ed Egitto, oppure politico. E soltanto in quest’ultimo caso entra in gioco l’Italia, attiva dal vertice di Palermo in poi grazie alla politica di inclusione che porta al dialogo con la parte occidentale ed orientale della Libia. Ma con la conquista manu militari del Fezzan da parte di Haftar, tutte le carte adesso si rimescolano. 

Probabile il vertice a Parigi tra Al Sarraj ed Haftar

Da giorni si vocifera circa un possibile incontro tra i due principali protagonisti della vicenda: il premier riconosciuto dall’Onu, Fayez Al Sarraj, e per l’appunto Khalifa Haftar. Questa volta però il meeting non dovrebbe essere in Italia, bensì a Parigi. Proprio come nello scorso mese di maggio, quando il presidente francese Macron fa incontrare i due all’Eliseo fissando per il 10 dicembre la data delle elezioni.

Un piano, quello transalpino, poi naufragato sul nascere con l’Italia che prontamente recupera terreno politico e con tutta la ben nota storia ruotante attorno il vertice di Palermo. Le condizioni rispetto allo scorso anno sono diverse, ma il principio è lo stesso: vedere Al Sarraj ed Haftar assieme a Parigi è un elemento in grado di far saltare dalla sedia i diplomatici della Farnesina che da mesi invece intrecciano la tela italiana sulla Libia. 

Il vertice non è confermato: in realtà nessun media libico ne fa cenno, a parlarne è soltanto Libya24, emittente filo gheddafiana. Non ci sono conferme, ma nemmeno smentite: questo rende l’incontro a Parigi più che probabile. Secondo la testata libica sopra citata, quello tra Al Sarraj ed Haftar dovrebbe essere un vero e proprio vertice di due giorni, tra il 25 ed il 26 febbraio. Solo nelle prossime ore è possibile capire se realmente i due attori libici principali hanno in programma un volo da Tripoli e da Bengasi con destinazione Parigi. 

E l’Italia? 

Il “derby” tra Roma e Parigi sulla Libia in realtà negli ultimi mesi appare ridimensionato. La Francia non riesce a mettere in atto il suo piano, Al Sarraj si conferma vicino all’Italia e lo stesso Haftar è ben lieto di tornare al tavolo con il nostro paese. L’idea è che nessuno senza l’apporto italiano possa avere chance di controllo futuro della Libia. E dunque la Francia, anche per tutelare i propri interessi, sembra se non collaborare almeno rispettare il ruolo di Roma.

A Palermo, in occasione del vertice, da Parigi arriva il ministro degli esteri Jean – Yves Le Drian, il quale è anche il maggior esponente politico inviato in Sicilia dalla diplomazia europea. Ma adesso, come detto, le carte nuovamente sono rimescolate. In Libia il deserto non è soltanto un luogo geografico ma anche l’emblema dell’attuale situazione: il vento politico rovescia le sorti allo stesso modo di come il vento del Sahara ribalta velocemente la sabbia delle dune. 

L’avanzata di Haftar è repentina e gode di un certo sostegno popolare nel Fezzan, eccezion fatta per i gruppi e le tribù ricollegabili all’etnia Tebu. E la Francia prova quindi ad approfittarne, riprendendo in mano l’iniziativa. L’Italia, esitante durante i primi giorni di offensiva di Haftar nel sud, si ritrova nuovamente a dover operare per attenuare l’offensiva politica dei cugini francesi.

Roma paga lo scotto dato dall’appoggio offerto ad enti non proprio popolari tra i libici: il governo di Al Sarraj in primis, che a stento controlla parti della capitale, e la missione Onu che, dal canto suo, specie in Cirenaica è accusata di non essere imparziale ed anzi in alcune manifestazioni se ne chiede l’allontanamento. In parole povere, fin quando l’equilibrio post Palermo regge, l’Italia mantiene il primato dell’iniziativa in Libia ma Roma si è un po’ cullata sugli allori, senza intervenire in tempo nel momento in cui sul campo Haftar avanza con il favore popolare ed i libici chiedono con più decisione la fine delle divisioni. 

Adesso il governo prova a recuperare, l’incontro tra l’ambasciatore Buccino ed Haftar dei giorni scorsi è un segnale che va in questa direzione. Al netto però della realizzazione o meno del nuovo meeting francese, il nostro paese mantiene comunque molte risorse per rimanere a galla al di là del Mediterraneo. Dagli interessi energetici, ai legami storici e culturali, Roma ha la possibilità di riprendere quota anche al virare dei nuovi equilibri. Serve però un deciso piano di azione che sia in linea con la velocità con la quale il vento del deserto libico riesce a mescolare le frastagliate carte che compongono il mosaico del paese africano. 

2230.- Il niet di Conte all’oro di Bankitalia allo Stato azzoppa un’Italexit (e apre la strada a una patrimoniale?)


Un’altra conferma che questo governo e il presidente del Consiglio (in quanto tale, non è un premier) sono la continuazione della governance filo Unione europeista di Giorgio Napolitano? La Banca d’Italia nacque come somma delle banche di emissione private e pubbliche (Regno delle Due Sicilie) degli stati preunitari, a seguito di un complesso processo di istituzione di un unico soggetto con potere di battere moneta. A partire dal 1999, gli stati aderenti all’eurozona hanno nella BCE la loro Banca di emissione principale. Ma non basta che a Maastritch sia stato firmato un trattato senza specifico mandato, quell’oro è degli italiani, non della Banca d’Italia che lo gestisce, che non garantisce più la vecchia nostra lira, né si occupa più di controllare le banche italiane.  Ritorniamo ad ascoltare ciò che dice Claudio Borghi e riflettiamo: Al riguardo, l’unico articolo della proposta di legge di Claudio Borghi, così recita: «Il secondo comma dell’articolo 4 del testo unico delle norme di legge in materia valutaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, si interpreta nel senso che la Banca d’Italia gestisce e detiene, ad esclusivo titolo di deposito, le riserve auree, rimanendo impregiudicato il diritto di proprietà dello Stato italiano su dette riserve, comprese quelle detenute all’estero». La Banca d’Italia, è scritto nel testo di legge «è il quarto detentore di riserve auree al mondo, dopo la Federal Reserve statunitense, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale. Il quantitativo totale di oro detenuto dall’istituto, a seguito del conferimento di 141 tonnellate alla Banca centrale europea, è pari a 2.452 tonnellate (metriche); è costituito prevalentemente da lingotti (95.493) e, per una parte minore, da monete».

Tutti gli effetti delle parole del premier Giuseppe Conte sull’oro della Banca d’Italia. Il commento di Mitt Dolcino

Andrebbe detto “clamorosi sviluppi” con la risposta del premier Giuseppe Conte alla richiesta di chiarimenti in aula sulla titolarità dell’oro di Bankitalia. Stranamente, pochi commenti sono riverberati sui media, come invece ci si sarebbe aspettati vista l’importanza dell’argomento, oltre che le implicazioni per il Paese.

Alla richiesta di chiarimenti di Fratelli d’Italia sulla disponibilità/proprietà dell’oro di Bankitalia, il premier ha affermato quanto segue:

Anche dopo il superamento del gold standard, le banche centrali hanno continuato a possedere riserve auree, al fine di rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario e della moneta e di diversificare il valore delle loro attività di riserva per mantenerne equilibrato il valore. Con il Trattato di Maastricht, per volontà degli Stati contraenti, sono state trasferite in maniera esclusiva all’Unione europea le competenze sovrane in materia di politica monetaria“.

Ossia, la disponibilità dell’oro della Banca d’Italia va collegata all’entrata in vigore in Italia del Trattato di Maastricht che fu finalizzato per il tramite di Guido Carli nel bel mezzo di Tangentopoli, ossia di una rivoluzione che minacciava – come poi ha fatto – di portare in galera mezza classe politica italiana. Ancora Conte:

la detenzione e la gestione delle riserve valutarie, fra cui quelle auree, rientra ora fra i compiti fondamentali dell’Eurosistema, composto dalla Bce e dalle Banche centrali nazionali degli Stati dell’area dell’euro“.

Ossia il premier ha affermato, a nome del governo gialloverde, ossia euro-scettico, che l’oro di Bankitalia di fatto va ormai riferito alle funzioni dell’Eurosistema, ossia della Bce post Maastricht, a cui le banche centrali nazionali aderiscono. E non strettamente all’Italia. Di seguito:

le riserve auree nelle disponibilità delle Banche centrali nazionali possono essere utilizzate, oltre che per interventi sul mercato dei cambi, anche per adempiere agli impegni nei confronti di organismi finanziari internazionali o per espletare il servizio di debito in valuta del Tesoro. Inoltre, non sembra possibile che le riserve auree possano essere rivendicate dai partecipanti al capitale di Banca d’Italia, i cui diritti patrimoniali sono limitati al valore del capitale e agli utili netti annuali“.

Di fatto questa presa di posizione ufficiale del capo del governo italiano, senza minimamente accennare al fatto che tale oro è stato accumulato utilizzando le risorse del popolo italiano prima dell’entrata in vigore sia dell’euro che di Maastricht, pone limiti oggettivi alla disponibilità futura della riserva aurea. Infatti viene aggiunto quanto segue:

La stessa Banca Centrale Europea precisa “il divieto comprende qualsiasi erogazione finanziaria, anche in assenza di un obbligo di restituzione, al fine di tenere conto della finalità ultima della norma. Il trasferimento non oneroso, o comunque effettuato a prezzi inferiori a quelli di mercato, di attività finanziarie dal bilancio della Banca d’Italia a quello dello Stato rientrerebbe pertanto in tale divieto. Risulta quindi dall’assetto normativo descritto che la proprietà delle riserve auree nazionali è della Banca d’Italia, ente pubblico che svolge le funzioni di banca centrale della Repubblica Italiana. L’utilizzo della riserva aurea rientra tra le finalità istituzionali della Banca, a tutela del valore della moneta“.

In pratica si fa riferimento al divieto d’uso dell’oro di Bankitalia per finalità di stabilizzazione di tutto l’euro sistema e non a necessità strettamente italiane (…). Infatti, ecco l’epitaffio:

un intervento normativo volto a modificare gli assetti della proprietà aurea della Banca d’Italia, ancorché nell’ambito della discrezionalità politica del legislatore nazionale, andrebbe valutato, sul piano della compatibilità, con i principi basilari che regolano l’ordinamento del Sistema Europeo delle Banche Centrali“.

Dunque, a seguito di tale presa di posizione ufficiale del governo italiano sembra esclusa a priori una Italexit unilaterale da parte del governo. Italexit che inevitabilmente – notasi – sarebbe dovuta passare da una collateralizzazione dell’oro italiano ad esempio come strumento per dollarizzare temporaneamente il sistema monetario nazionale, come effetto prodromico al ritorno di una propria valuta nazionale a breve giro, lasciando l’euro.

Questo era un piano ben conosciuto anche oltreoceano. Di fatto la presa di posizione di Conte azzoppa ogni eventuale progetto di Italexit futuro di tipo “soft”, ossia imposto unilateralmente dall’Italia a soddisfazione dei propri interessi (di fatto l’opzione “dollarizzazione” è stata oggi “bruciata” da Conte).

Dunque, l’impostazione data oggi dal premier su come interpretare la disponibilità dell’oro di Bankitalia sembra lasciare spazio solo ad una Italexit “non soft”, quasi golpista direi, nel senso che l’utilizzo delle riserve auree come collaterale ad es. per dollarizzare il sistema economico italiano al di fuori dell’Eurosistema – come viatico per il ritorno alla lira – da oggi è ufficialmente precluso dalle affermazioni ufficiali del capo del governo.

Ovvero qualsiasi eventuale tentativo futuro di uscita dall’euro utilizzando a garanzia l’oro di Bankitalia – passo necessario per il fine di cui sopra – verrebbe inevitabilmente interpretato come un atteggiamento legalmente ostile da parte degli altri Paesi membri dell’Unione, con tutte le conseguenze del caso.

A questo punto le speranze di evitare una pesante tassazione straordinaria nei prossimi 9-15 mesi atta a ridurre il debito statale italiano ormai obiettivamente fuori controllo, sembrano ufficialmente defunte (leggasi: imposta patrimoniale, Imu sulla prima casa, riforma del catasto ad incremento di saldo, Iva al 25%+, emissione di miniBOT in forma onerosa per le famiglie italiane ecc., o un mix di quanto sopra).

Mitt Dolcino

2229.- Che cosa prevede la proposta di legge di Fratelli d’Italia sulla Banca d’Italia

Nomine, proposte di legge sull’azionariato, idee sulle riserve auree. Banca d’Italia sempre più al centro delle attenzioni politiche e della pubblicistica. Ecco come e perché

La Camera si appresta a esaminare una proposta di legge per la nazionalizzazione della Banca d’Italia.

La commissione Finanze ha infatti incardinato un testo presentato già a inizio legislatura da Fratelli d’Italia e “la presidente Ruocco, senza che ci siano state prima interlocuzioni né ufficiose né ufficiali – spiega il deputato Fdi, Marco Osnato – ha assegnato il ruolo di relatore a un’esponente del Movimento 5 Stelle”, Francesca Anna Ruggiero.

IL NO DEL PREMIER CONTE SULL’ORO DI BANKITALIA

“Questo non significa – sottolinea Osnato – che entriamo in maggioranza ma mettiamo a disposizione il nostro disegno di legge e se M5S, e anche la Lega, votano il nostro provvedimento siamo solo contenti”.

La proposta di legge a prima firma Meloni, punta con due soli articoli a introdurre “Norme per l’attribuzione a soggetti pubblici della proprietà della Banca d’Italia”, con il Mef che acquisisce le quote e le può eventualmente cedere solo ad altri soggetti pubblici. Il provvedimento e’ stato presentato il 23 marzo 2018 e assegnato alla commissione Finanze a giugno dello scorso anno. Ora “la conferenza dei capigruppo ha previsto” il provvedimento nel calendario di Aula “di marzo ed entro la prima meta’ di marzo dovremo esaurire i lavori in commissione”, spiega ancora Osnato, ricordando che nella scorsa legislatura anche il Movimento aveva presentato analoga proposta di legge, a firma “anche del sottosegretario Villarosa, che era presente oggi in commissione”.

IL NO DEL PREMIER CONTE SULL’ORO DI BANKITALIA

L’obiettivo “in ottica sovranista – ha detto ancora il deputato interpellato in proposito – è quella di evitare di correre il rischio che la Banca d’Italia, ora di proprietà di banche private, cada in mano straniere”.

Nel frattempo, sempre su Bankitalia, tengono banco le discussioni non solo sulle nomine al direttorio ma anche sulla questione controversa della proprietà delle azioni di Bankitalia e dell’utilizzo delle riserve auree.

IL PENSIERO DI ANTONIO FAZIO SULL’ORO DI BANKITALIA

Sul primo punto verte una proposta di legge dell’economista della Lega, Claudio Borghi. “La maggioranza di governo non intende vendere in alcun modo le riserve auree di Banca d’Italia, ma soltanto ribadire che esse appartengono allo Stato e non all’istituto, ha detto nei giorni scorsi il presidente della Commissione Bilancio della Camera, Claudio Borghi. “Non vogliamo vendere un grammo (d’oro). Se vogliamo scriverci di fianco una bella proposta di legge che chiarisca che non si vende niente, cose di questo tipo, più che disponibile”, ha aggiunto l’esponente leghista: “Vogliamo semplicemente ribadire che l’oro è conservato in Banca d’Italia ma la proprietà è dello Stato Italiano”.

Parlamentari della Lega hanno messo a punto la bozza di una norma, vista nei giorni scorsi dall’agenzia Reuters, che consentirebbe al governo la vendita dell’oro custodito dalla Banca d’Italia qualora fosse autorizzata da una legge costituzionale. Una prima norma, già presentata dallo stesso Borghi, prevede di far riconoscere allo Stato la proprietà di questi lingotti.

IL NO DEL PREMIER CONTE SULL’ORO DI BANKITALIA

Ieri sui social è divampato un dibattito, spesso polemico, dopo l’intervento a titolo personale di Giuseppe Capuano, capo della Divisione “Strumenti e metalli preziosi” del ministero dello Sviluppo economico, pubblicato su Start Magazine dopo l’intervista al professor Mario Deaglio che ha spiegato perché le riserve auree non si possono utilizzare.

La tesi dell’economista e dirigente del dicastero retto da Luigi Di Maio? Eccola in sintesi: “L’alienazione di una quota delle riserve auree attualmente possedute in maniera infruttifera dalla Banca d’Italia potrebbe in parte risolvere a costo zero per il contribuente italiano il problema del debito pubblico e relativi costi dovuti al pagamento degli interessi”.

IL PENSIERO DI ANTONIO FAZIO SULL’ORO DI BANKITALIA

Un’opinione che ha suscitato dibattito. L’economista Antonio Maria Rinaldi, fondatore e animatore di Scenari Economici, ha avuto una posizione dialogante. Claudio Borghi della Lega invece è stato tranchant e critico fra gli altri è stato sulla proposta anche Andrea Montanino, direttore del centro studi di Confindustria. Mentre Guido Crosetto di Fratelli d’Italia sempre su Twitter ha cinguettato un “mah”.

2228.- QUESTO GOVERNO HA GIÀ FRENATO LA CRESCITA, MA PERSEVERA

Da un teatrino all’altro. Sono fra Roma e Napoli. Passa ‘nu quaglione con il secchio delle bibite, strillando: “ Vulite? Friccica!”. Ecco un altro prossimo leader e, chissà mai, vicepresidente del Consiglio dei ministri! Auguri, fratello.

Spentasi al mercato delle vacche la pupazzata del voto dei 5 Stelle e della Giunta del Senato su Salvini, si prosegue con la fesseria delle 41 richieste di risarcimento. Gli avvocati che hanno presentato il folle ricorso dei clandestini, fanno parte della “Rete legale Baobab Experience” coordinata dall’avvocato Giovanna Cavallo. Per il risarcimento milionario, hanno autenticato le firme di 41 ignoti senza documenti.

L’avvocato Giovanna Cavallo,delle Associazioni della Rete legale per i migranti in transito, A Buon Diritto Onlus, Baobab Experience, CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati) e Radicali


Per inciso, non ho mai capito questa stupida vicenda, costruita dai magistrati “democratici” di Catania, su un ministro nell’esercizio delle sue funzioni e iniziata con l’uso spregiudicato della nave “militare” Diciotti. 
Ricordo che la direttiva europea 115/2008/UE, agli arti. 15-16-17, prevede, per i migranti irregolari, Il ricorso dello Stato al trattenimento, ai fini del rimpatrio o dell’allontanamento, che dovrebbe di norma avvenire presso gli appositi centri di permanenza temporanea, ma che poteva essere altrettanto umano e dignitoso a bordo della nave Diciotti. E, allora, mi sono chiesto: Le direttive europee valgono quando comoda, oppure, è stato sparato un falso bersaglio per distrarre la massa? Comunque sia e con tutti i problemi che abbiamo, la giudico, appunto, una stupida vicenda.

Il mercato delle vacche

Da una scena, all’altra.

I deputati, con 261 voti a favore, 136 contrari, 2 astenuti hanno approvato la mozione presentata dai capigruppo di M5S e Lega, Francesco D’Uva e Riccardo Molinari e depositata mercoledì, che impegna il governo a «ridiscutere integralmente il progetto della linea Torino-Lione, nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Praticamente, abbiamo congelato, non solo la Tav, ma tanti, tanti posti di lavoro.

Tajani ai sardi: il latte di pecora deve costare 1 euro.

Diamo la parola al presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, un ufficiale, figlio di ufficiale come me, che ha appena ottenuto dall’Ue 191 milioni per la promozione dei prodotti sardi:

“Il Governo del No, dei temporeggiatori, degli incapaci, è l’ultima cosa di cui ha bisogno un Paese in recessione, dove la prima emergenza si chiama lavoro.

Questi sono fatti e non importa il colore politico; ma il dubbio è: Non sarà che a votare questi sciagurati siano stati anche quei 420.000 che perderanno il posto di lavoro?

Dai ponti alle strade, alla TAV, passando per la Pedemontana Veneta, l’alta velocità Brescia-Padova, la terza corsia A11 o la Gronda di Genova, solo per citare alcuni tra i progetti più noti, si sta fermando tutto. Ci sono 270 opere pubbliche bloccate, con i cantieri fermi per i più svariati motivi: dall’aperta ostilità del Governo, fino alla manifesta incapacità di sbloccare i lavori.

Dei 150 miliardi disponibili, è stato speso meno del 4%. Il Governo ha detto stop a 21 miliardi di euro già destinati alle grandi opere in corso. Rischiamo, inoltre, di perdere, 4.3 miliardi di finanziamenti Ue.

I primi a pagare questa follia sono i lavoratori. Stime attendibili indicano che sono a rischio 420.000 posti, senza contare le conseguenze negative sull’intera economia italiana della mancanza d’infrastrutture moderne. 15 tra le più grandi imprese edili italiane sono già in amministrazione controllata.

Il mondo galoppa, mentre noi tiriamo il freno. Il confronto con il resto dell’Europa è impietoso. Nel solo 2018 negli altri Paesi Ue sono state fatte opere per 400 miliardi. Negli ultimi 10 anni, la Spagna ha speso una media di 40 miliardi l’anno per infrastrutture. La sola Germania, ha approvato un piano d’investimento per infrastrutture di trasporto di 270 miliardi. ”

Per finire, ricorderete il teatrino sulla legge di bilancio e, poi, sul DEF, l’ostinazione di Salvini e Di Maio verso l’Ue e contro Tria e Moscovicì, la mediazione di Conte e la vittoria del piffero dal 2,4 al 2,04%, che, già in estate ci era stato proposto da Bruxelles. Il problema non era i %, ma come avremmo investito sulla crescita. Ora, con la Manovra 2019 bis e la denegata patrimoniale, si replica. Titolo: “Offerta all’Ue: manovra bis dopo le Europee”. Leggo ciò che scrive il Country report dell’Unione europea, una sorta di pagella sull’andamento dell’economia degli stati membri, boccia il governo italiano e la Manovra 2019: “Mancano misure capaci di impattare sulla crescita a lungo termine” e la definisce nefasta per Pil, deficit e debito, contraddittoria dal punto di vista fiscale e, addirittura, un freno per la crescita. Mentre Salvini e Di Maio ricusano la Manovra bis – Savona si è sfilato, al sicuro in Consob -, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, osa sperare non debba essere necessaria. Ma che ministro dell’Economia sei, Giovanni? Qualche mese fa poteva anche esserci una speranza, ma, ora, l’Italia è in recessione, la produzione è crollata, i cantieri si chiudono, 15 fra le più grandi imprese di costruzione sono in pre-fallimento perché le entrate previste sono bloccate, mentre le uscite nei confronti dei fornitori che continuano ad accumularsi stanno costringendo molti piccoli imprenditori a chiudere.

Ecco il cambiamento: tutti gli istituti segnalano una crescita prossima a zero nel 2019. Parlano di crescita e non sanno come si finanzia una crescita. Non è astio politico! A giugno – cito Milena Gabanelli dal Corriere -, …”il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli decise di stoppare i finanziamenti a tutte le grandi opere già in corso o programmate: dal tunnel del Brennero (appalti per un valore di 5,9 miliardi), alla pedemontana veneta (2,3 miliardi), dall’alta velocità Brescia-Padova (7,7miliardi), al Terzo Valico tra Genova e Milano (6,6 miliardi), oltre alla Torino-Lione. Il ministro vuol rivedere il rapporto costo-benefici.” 

Avevamo votato per questo risultato? Dopo marzo, la campagna elettorale non si è mai conclusa, da una regione al voto all’altra e, fino al 26 maggio per le elezione europee dell’”Europa de che?”

Chiudo, per non star male, con una “buona notizia! Ecco l’ESERCITO a Ferrara ormai in balia delle bande nigeriane, GIUNTE GRAZIE AI PORTI LASCIATI APERTI DALLA SINISTRA.

2227.- L’Albania non può diventare la nuova Siria. Urge l’aiuto dell’Europa

Sono trascorsi 20 anni da quando lasciai Tirana. Vi abitai per quasi due anni, in centro, davanti al Museo, lavorando per il governo di Fatos Nano, con una delegazione italiana. Voglio ricordare solo un episodio. L’Italia finanziò il progetto di ristrutturazione del porto di Durazzo, compresa l’illuminazione notturna della rada. Importante cerimonia di inaugurazione con tutto il governo, autorità italiane, bandiere e bande militari. Ma il contrabbando è la prima attività degli albanesi e la merce si scaricava al buio, di notte. Al mattino dopo, tutte le boe luminose e i cavi dell’impianto erano spariti. Mi disse sconsolato un ministro: “Mario, noi la notte dobbiamo lavorare!”

L’analisi sulla situazione in cui versa l’Albania a cura di Agron Gjekmarkaj docente nell’Università pubblica di Tirana per Agensir

Oggi in Albania esiste soltanto un potere quasi assoluto: quello del premier Edi Rama. Le istituzioni principali dello Stato sono nelle sue mani. Con la scusa della riforma giudiziaria, i Tribunali sono tali solo di nome: non c’è più differenza tra poliziotto, procuratore e giudice. Mi dispiace avere un atteggiamento critico verso il mio Paese soprattutto parlandone ad un’agenzia estera, ma la verità ci rende liberi… forse.

In sei anni di governo socialista, l’Albania è diventata la repubblica verde della cannabis, divenendo, di fatto, il Paese al centro dei vari narcotraffici, spesso legati a personaggi molto in vista.

LA MALAVITA E IL POTERE SONO SINONIMI

Noi siamo una popolazione di 4,2 milioni di abitanti, di questi, dagli anni Novanta, 1,5 milioni sono quelli emigrati in altri Paesi. Altri 300mila se ne sono andati dal 2015, portando così il numero degli espatriati a 1,8 milioni. Per un Paese così piccolo questo è un suicidio demografico. Gli ultimi sondaggi offrono una panoramica spaventosa, dove il 60% della popolazione rimasta vuole andare via.

La gente oggi soffre per la povertà, la disoccupazione, la criminalità, la corruzione diffusissima e, soprattutto, la mancanza di uno Stato di diritto.

Solo poco tempo fa è stato reso pubblico un dossier di intercettazioni telefoniche tra gli esponenti politici vicini al premier Edi Rama e appartenenti alla criminalità organizzata: in queste telefonate si parlava apertamente di voti venduti o comprati durante l’ultimo processo elettorale colpendo così duramente la legittimità del governo. A questo si aggiunge la vicenda degli appalti stradali, gestiti da anni solo da persone vicine al premier, che suscita rabbia e scalpore nell’opinione pubblica.

Ultimamente proprio la reazione dei cittadini e dell’opposizione ha fatto annullare un appalto da 30 milioni di euro: era stato affidato a una ditta fantasma che contava su un capitale depositato di soli 80 centesimi.

Da due mesi gli studenti e i professori delle università pubbliche sono in stato di agitazione permanente: protestano per i vari problemi che pesano nella loro vita quotidiana. Edi Rama, sfruttando questo momento, e senza soddisfare le richieste del mondo dell’università, ha cambiato l’80% dei ministri, peggiorando ulteriormente la qualità del governo.

IN ATTESA DI UN SEGNALE FORTE DALL’EUROPA

Il 16 febbraio scorso l’opposizione ha chiamato in piazza i suoi sostenitori e la novità è che erano in tanti, più di 60mila in un’Albania dalla popolazione quasi dimezzata, scappata da un bel Paese cui hanno ucciso le speranze tra arroganza del potere e corruzione. Alla protesta ha fatto seguito la decisione del gruppo parlamentare del Partito democratico, principale formazione dell’opposizione albanese di centro destra guidata da Lulzim Basha, di non fare più parte dell’Assemblea nazionale. E già si guarda a giovedì prossimo, giorno in cui ci sarà una nuova protesta di piazza. Insomma, il quadro è alquanto complesso.

E se le democrazie europee non interverranno per garantire la libertà di scelta politica, per garantire il funzionamento dello stato di diritto, per garantire che la società albanese sconfigga la corruzione del governo, si creerà di nuovo il “caso Albania” alle porte dell’Italia e dell’Europa e saremo noi i prossimi profughi.

Ci serve l’aiuto vero dell’Europa per vivere in Albania da cittadini europei e non in Europa da emigranti, carne per le bocche elettorali dei nuovi populisti. Siamo europei, non i gatti neri d’Europa. Aiutateci a ottenere la libertà dagli ultimi Pascià ottomani che ci governano, rubano e deridono.