Il ministro Danilo Toninelli commenta le escusatio di Atlantia e promette sicurezza ai cittadini per le infrastrutture e trasporti:
Quello del ministro è un atto dovuto che speriamo sarà accompagnato da idonee inchieste giudiziarie e da altrettanto idonea riforma della Magistratura, che ne cancelli le dipendenze e le connotazioni politiche, finalmente! Sull’argomento sicurezza delle infrastrutture e dei trasporti, piace ricordare questo articolo di Marco Ponti, pubblicato su LA VOCE.INFO del 12 gennaio 1918. A chi contesta che la soluzione ai problemi del trasporto pubblico sia la partecipazione in prima persona dello Stato, obiettiamo che
una cosa è il monopolio puro e semplice, cosa ben diversa è il monopolio pubblico di un servizio pubblico, che significa non lasciar prevalere le ragioni di economicità e del profitto sul servizio pubblico, con tariffe tenute calmierate e con piena garanzia della sicurezza per la mobilità e la circolazione di persone e merci, quali diritti scaturenti dalla nostra Costituzione. A chi, invece, sostiene la convenienza economica di delegare la gestione di un monopolio naturale a una Autority indipendente dalla politica, osserviamo che la duplicazione delle responsabilità già di per sé rappresenta un costo, con tutte le variazioni cui sarà soggetto nel tempo; ma che un servizio deve dirsi pubblico quando è di pubblica utilità e, come tale, può andare in perdita, come la sanità o l’istruzione. Sono i nostri diritti costituzionali e, perciò, al di sopra delle ragioni d’economia, almeno fino a quando non decideremo di subordinarveli. Ma, ditemi, subordinereste il Vostro diritto di libertà all ragioni dell’economia? Vale anche per il trasporto locale, in specie nelle aree a domanda debole del Paese.
Presentiamo,ora, il professor Marco Ponti, con la promessa di seguire meglio i suoi contributi: Decano e insegnante di economia dei trasporti e di economia ambientale, prima a Venezia e poi per dieci anni, come ordinario, al Politecnico di Milano. Ha svolto attività di consulenza per la Banca Mondiale (in 15 paesi in via di sviluppo), la Commissione Europea, l’OECD, il ministero dei trasporti, le Ferrovie dello Stato e il ministero del Tesoro. Svolge attività di ricerca nell’ambito delle analisi di fattibilità economica e finanziaria dei progetti (versioni avanzate dell’analisi costi- benefici), regolazione economica e politiche pubbliche del settore (investimenti e gestione). È attualmente membro dell’Advisory Board dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART), presidente della società TRT SrL, e responsabile dell’associazione Bridges Research, che svolge ricerche indipendenti e autofinanziate. Leggeremo il suo: “Anas-Fsi, troppo grande per non creare perplessità” e i suoi ultimi libri: “Sola Andata” (Università Bocconi Editore)” e “L’arbitrio del principe. Sperperi e abusi nel settore dei trasporti. Che fare?
Ponti dice ciò che pensa. Per restare ai nostri temi, è successo che una sua consulenza per il Tesoro fosse annullata dopo la contestazione della riservatezza degli accordi tra Anas e concessionario autostradali.
Il monopolio è la forma di impresa dominante nei trasporti italiani. Al di là delle giustificazioni formali, a renderlo una scelta politica razionale ci sono disparati motivi. Per confutarli è necessario sviluppare strumenti di analisi molto più realistici.
Tutte le forme del monopolio
Nei trasporti italiani il monopolio, in varie configurazioni, è la forma di impresa dominante.
Le autostrade sono sì “monopoli naturali”, ma invece di ridurne il potere, lo si è massimizzato per via politica: concessioni molto lunghe (di recente prolungate senza gara), elevata concentrazione (un solo operatore detiene più di metà della rete).
L’impresa ferroviaria (Fsi) è dominante, integrata verticalmente e orizzontalmente, con oltre il 90 per cento del fatturato e la quasi totalità della rete. Ora, la fusione con Anas ne aumenta ancora la capacità di pressione politica (“clout”).
Il trasporto pubblico locale (Tpl) è monopolio legale, ma mai affidato con gare credibili (quelle fatte sono state quasi tutte vinte dagli incumbents).
Il settore aereo è stato liberalizzato dall’Europa, con rilevanti benefici per gli utenti, ma lo stato italiano continua a fare sforzi economici per sostenere l’ex-monopolista Alitalia, in una sorta di nostalgia perversa.
La regolazione del settore (per definizione pro-concorrenza) fin dall’inizio è stata dotata di poteri limitati rispetto a quelli rimasti nella sfera politica.
Le motivazioni formalmente addotte per questo atteggiamento sono molte, in genere intercambiabili. Qui possiamo elencarle solo sinteticamente:
– il concetto di “campione nazionale”, da difendere in quanto strategico, qualsiasi sia il settore interessato;
– l’esistenza di economie di scala o di scopo, che giustificherebbero la dominanza;
– i costi tecnici e la complessità gestionale di operazioni di “spacchettamento” (unbundling)
– la socialità: affidare servizi pubblici in gara (non solo liberalizzarli) impedirebbe di conseguire obiettivi sociali, spesso non molto definiti e spesso riferiti più ai dipendenti che agli utenti.
Tutti questi motivi sono confutabili. D’altra parte, vi sono anche dichiarazioni esplicite dell’attuale ministro dei Trasporti Delrio, di ostilità verso il concetto di concorrenza, mentre un ministro precedente, Altero Matteoli, era contrario a una autorità indipendente di regolazione.
Perché è una “scelta razionale”
Quali sono però i motivi reali, non formali, che rendono razionale questo atteggiamento politico favorevole ad assetti non concorrenziali? Data la situazione italiana, lo potremmo far coincidere con il “favore per lo status quo”.
Il primo, dominante, è riconducibile allo “scambio politico” diretto: i beneficiari della concorrenza sono diffusi (utenti o contribuenti), non ne godranno nell’immediato e, soprattutto, sarà per loro difficile confrontare scenari competitivi con scenari monopolistici, dati i tempi e i contesti diversi in cui li potranno verificare.
I soggetti danneggiati (addetti e fornitori attuali di imprese monopolistiche), che al contrario percepirebbero immediatamente l’effetto di politiche di liberalizzazione, tendono invece a essere coesi e “vocali” e votano in favore di chi li protegge. Anche l’assunzione dei dipendenti e la scelta dei fornitori risultano politicamente condizionabili in contesti monopolistici, assai più che non in quelli concorrenziali, per i quali l’efficienza è condizione irrinunciabile.
Poi per imprese monopolistiche private (per esempio, autostrade), che generano alti profitti, vi è la “spartizione delle rendite” (a danno di utenti inconsapevoli e “diffusi”). Questo avviene per via fiscale, dati gli elevati tassi di prelievo sui profitti.
Tornando ai fornitori (per esempio, si pensi ai 5 miliardi l’anno circa di acquisti delle ferrovie), è ovvio che è preferibile per un privato negoziare con un monopolista invece che con un soggetto pressato dalla concorrenza e per il quale la qualità e i prezzi delle forniture sono fattori essenziali di sopravvivenza.
Quanto al management di imprese pubbliche, vi sono prassi diffuse di nomine politiche dirette che garantiscono poi un sistema di “scambi di favori” con chi li ha nominati, spesso non di per sé illegali, anche se non è possibile ignorare il fenomeno corruttivo presente in Italia.
Queste ultime considerazioni sono, per loro natura, facilmente spiegabili anche solo con l’obiettivo del tutto legittimo del consenso politico a breve termine (noto come “hidden agenda” in termini di “public choice”).
Siamo quindi di fronte a un comportamento in gran parte razionale e infatti “bipartisan”. Anzi, ora addirittura “tripartisan” (l’M5S è fortemente critico verso il regime attuale delle concessioni autostradali, ma il fatto che gli altri monopoli non siano un bersaglio legittima il dubbio che l’attacco sia motivato dalla circostanza che solo quel settore è dominato da un’impresa privata).
Per concludere, raccomandazioni generiche sembrano davvero inutili. Pare invece necessario sviluppare strumenti di analisi molto più realistici e disincantati. Quelli forniti dall’approccio public choice (che, si badi, non comportano affatto l’adesione politica a quella linea di pensiero) potrebbero rivelarsi di grande utilità. Solo se la diagnosi è corretta, infatti, ci possono essere speranze che la cura possa essere efficace.
Estratto.
I politici, anche onesti, vogliono almeno essere rieletti. Cercano quindi di spendere il più possibile e in tutti i modi possibili. E, se possibile, in modo che gli elettori percepiscano chiaramente chi devono ringraziare per i benefici che arrivano loro da queste spese. E che cosa è meglio delle grandi infrastrutture a questo fine? Si vedono, si inaugurano con grandi cerimonie mediatiche, fanno contenti i costruttori, gli utenti (anche se quelli reali sono relativamente pochi) e i politici locali. Occupano gente e non attirano la concorrenza di imprese straniere, le opere pubbliche infatti sono molto «locali». E così ovunque nel mondo. Il fatto che spesso possano essere soldi sprecati, cioè che generino molti più costi che benefici per la collettività, interessa pochissimo, e misurare questo scarto è pericoloso. Proprio in termini di consenso…
Estratto.
Il settore dei trasporti è caratterizzato da un intervento e da una spesa pubblica rilevanti. La necessità dell’intervento dello Stato in tale ambito è generalmente data per scontata; spesso ritenuta inevitabile alla luce di obsolete convinzioni, mai riviste nonostante i radicali cambiamenti sociali e tecnologici sopravvenuti. Ma è davvero tanto indispensabile l’intervento dello Stato? E, se sì, è bene che avvenga con i margini di discrezionalità correnti? Questo libro mostra come la necessità dell’intervento dello Stato non sia affatto ovvia e debba essere invece sempre provata. Se si ricorre al settore pubblico, peraltro, è necessario che la sua azione sia vincolata da regole, e non caratterizzata dalla piena discrezionalità. Se l’azione pubblica è del tutto imprevedibile, anche investitori e cittadini agiranno in condizioni di costante incertezza e faranno a loro volta scelte sbagliate.