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1876.- A chi serve la Forza militare d’intervento europea

Abbiamo già trattato l’argomento Esercito europeo e le sue implicazioni dal lato ordinativo – organizzativo, anche nei confronti della NATO. Citiamo l’iniziativa dell’Unione europea nell’ambito della Politica di sicurezza e di difesa comune: La Cooperazione strutturata permanente (il suo acronimo è PESCO, dall’inglese Permanent Structured Cooperation) volta all’integrazione strutturale delle forze armate di 25 dei 28 stati membri. Dopo anni di acronimi e sigle NATO, ci mancavano quelle europee. Comunque, la PESCO è simile ad una cooperazione rafforzata, poiché non richiede l’adesione di tutti gli stati membri per poter essere avviata e si basa sull’articolo 42.6 e sul protocollo 10 del TUE, Trattato sull’Unione europea che con il TFEU, compone il Trattato di Lisbona del 2007 ed è stata avviata nel 2017 con un primo gruppo di progetti che saranno lanciati, appunto, quest’anno.
La PESCO è, quindi, attiva e la sua funzione di segretariato viene svolta congiuntamente dal “Servizio europeo per l’azione esterna” e dall’”Agenzia europea per la difesa”.
Ora, l’evoluzione della politica del direttorio franco – tedesco, attratto dal mercato russo, ha influito sul legame transatlantico per quegli stati, che seguendo Germania e Francia, progettano un affrancamento dalla catena di comando e controllo NATO e, qui, c’entra in gioco lo sfilamento annunciato da Trump dai bilanci della NATO.
L’Italia, che di recente ha espresso il suo favore per Mosca, ma a Bruxelles non vi ha dato seguito e che ha approvato nuovamente le sanzioni, vuole vedere chiarite le posizioni dell’Unione nei riguardi della migrazione di massa e dubito che si sottrarrebbe alla NATO per sottomettersi alla politica di Parigi; così, è rimasta fuori da questa “intesa a nove”, pure se l’anno passato ha già aderito a un corpo sanitario militare comune. Recuperando, però, Mussolini, l’Italia è una portaerei nel Mediterraneo, la terza o la prima del Gruppo d’Attacco della Sesta Flotta e può contare, comunque, sull’interesse di Trump: un interesse che misureremo presto nell’incontro di Giuseppe Conte alla Casa Bianca, il 30 luglio.
Sorvolando su queste considerazioni, un esercito rappresenta l’ultima chance della diplomazia e ha senso se si ha una politica estera, cosa che assolutamente manca all’Unione Europea. Singolare la partecipazione della Gran Bretagna a questa intesa, come dire, “fuori dall’Unione, dentro l’Europa”. Per quanto abbiamo sostenuto in più occasioni, nei confronti delle politiche europee finanziarie, sui flussi migratori ed estere in generale, presupposto e condizione necessaria di una vera unione europea è la definizione del rapporto, equivoco per certi versi, tenuto da Parigi fra l’eurozona e la Comunità Finanziaria Africana del franco CFA, che fa della Francia una potenza colonialista, in contraddizione con l’Unione; un rapporto che si aggiunge alle diseguaglianze nelle politiche economiche e finanziarie. Non è casuale che si sia venuto a creare un direttorio franco-tedesco. Ecco che è necessario e importante comprendere sia dove va e dove potrà andare l’Europa di oggi, sia “A chi serve la Forza militare d’intervento europea” e lo leggiamo da LIMES, in questo articolo a cura di Lorenzo Di Muro.

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Nove Stati membri dell’Ue hanno siglato un’intesa per la creazione di una Forza militare di intervento europea volta, tramite l’integrazione tra un gruppo ristretto di eserciti nazionali, a prevenire e fronteggiare crisi internazionali.
Mentre non è ancora chiaro se la natura della Forza sia difensiva o meno, quali crisi debba fronteggiare e possibili teatri di impiego (probabilmente, in prossimità dei confini comunitari), il progetto voluto dal presidente francese Emmanuel Macron – cui hanno aderito sinora Germania, Belgio, Uk, Danimarca, Olanda, Estonia, Spagna e Portogallo – è distinto dai quadri di riferimento Nato e Ue (Pesco) e soprattutto conta la partecipazione di Londra. Il Regno Unito si era sempre opposto a costruzioni in grado di minare la special relationship transatlantica, soppiantando la Nato o il coinvolgimento degli Usa nella sicurezza del Vecchio Continente. Una posizione alterata da Brexit, che impone invece all’esecutivo di Theresa May di spingere per preservare un’influenza in Europa anche dal punto di vista militare.
Altrettanto significativa è l’assenza dell’Italia, il cui precedente governo – stando a Parigi – aveva dato il proprio sostegno al piano presentato da Macron alla Sorbona lo scorso anno. Fonti interne riferiscono di uno scetticismo di Roma sulla complementarità del progetto alla Nato e alla Pesco, ma visti i dossier attualmente in discussione sul tavolo comunitario – su tutti quello migratorio – il messaggio italiano è precipuamente politico.
Per il presidente di Francia, d’altro canto, l’istituzione di tale Forza risponde a diversi calcoli: la creazione di una forza indipendente propriamente europea ma ristretta, con strutture decisionali che garantiscano una maggiore efficienza e reattività rispetto al formato a 25 della Pesco (nel cui ambito ieri il Consiglio Europeo ha adottato un documento sulle linee guida); un contrappeso all’influenza economica tedesca in Europa (che difatti aveva finora privilegiato un approccio inclusivo in materia); la risposta, paradossalmente, alla richiesta di Trump all’Europa di farsi carico della propria difesa; nonché un potenziale stimolo all’industria bellica nazionale.
In tal senso, il ministro della Difesa francese Florence Parly ha vagheggiato la creazione di una “cultura strategica europea”; un’esternazione paradigmatica dell’assenza di soggettività geopolitica dell’Ue, che si riflette – oltre che nel limbo comunitario nei comparti della difesa e della sicurezza – soprattutto nella mancanza di una visione e dunque di una strategia comune nella gestione della politica estera.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha incontrato oggi papa Francesco a Roma, dove presso la basilica di San Giovanni in Laterano nel pomeriggio riceverà il titolo di protocanonico d’onore del capitolo lateranense.
Il vertice con il pontefice dopo l’incontro con una delegazione della Comunità di Sant’Egidio – mentre non è previsto alcun meeting con le autorità italiane – ha una evidente dimensione politica. Nel corso del bilaterale, i duei capi di Stato hanno discusso di temi quali migranti, clima, futuro della cristianità e responsabilità dell’Europa, la quale affronterà fra tre giorni l’ennesimo Consiglio Europeo che rischia di far saltare la costruzione comunitaria.
Per Macron – che si dice agnostico in ossequio alla laicité dello Stato ma fa sfoggio della sua istruzione gesuita e si è reso protagonista di un riavvicinamento con la Santa Sede e l’episcopato locale dopo gli anni difficili sotto la presidenza di Hollande – il sostegno (anche retorico) del papa può difatti costituire un perno non secondario nel suo attivismo in politica estera.
In primis – malgrado la necessità di destreggiarsi tra un approccio alla questione migratoria che cozza con i toni usati per raffigurare la posizione in materia del nuovo esecutivo italiano – ottenendo la sponda papale prima del vertice di Bruxelles. E magari, come sul fronte militare, consolidando la posizione di Parigi alla guida (anche sul piano morale) di un’Europa en marche.
USA E COREA DEL NORD
Gli Usa non impongono scadenze temporali nel negoziato con P’yongyang, ma continueranno a valutare le mosse del paese eremita verso la denuclearizzazione per il ristabilimento di piene relazioni.
Lo ha dichiarato il segretario di Stato Mike Pompeo dopo che ieri era circolata la voce che gli Usa fossero in procinto di presentare a Kim Jong-un una lista di specifiche richieste con relative scadenze, al fine di vagliare l’aderenza di P’yongyang al documento siglato durante il vertice di Singapore. Frattanto, il segretario alla Difesa Jim Mattis è arrivato in Cina, dove il dossier coreano sarà uno dei temi di discussione con Pechino.
La notizia conferma come Washington debba accontentarsi di contropartite limitate da parte di P’yongyang, come la cancellazione della manifestazione “anti-imperialista” annuale. Probabilmente, gli Stati Uniti hanno già raggiunto il massimo risultato ottenibile in questa fase, ossia provare a convincere il mondo dell’imminenza della (assai improbabile) rinuncia di Kim alla Bomba.
ALLARGAMENTO UE E NATO
L’Europa è divisa anche sull’allargamento dei confini comunitari, mentre si discute dell’apertura di negoziati per l’ingresso nell’Ue di Albania e Macedonia.
Da una parte Francia, Olanda e Danimarca sono i paesi più scettici, considerati gli scarsi avanzamenti di Tirana e Skopje in settori come la lotta alla corruzione e alla criminalità.
Dall’altra, l’allargamento ai Balcani occidentali è sostenuto dall’Ungheria e più recentemente dalla Germania, cui potrebbe far comodo anche la creazione di hotspot (centri di accoglienza) per migranti – progetto di cui si sta valutando la fattibilità – in paesi come l’Albania. Dell’apertura delle trattative è fautrice anche la Nato, di cui Tirana è già membro e che vedrebbe l’ingresso macedone nell’Ue come prodromico a quello nell’Alleanza Atlantica.

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1019.- ESTONIA: Il governo propone la cittadinanza per tutti i residenti, anche russi.

estoniamapsaaremaa panoraamunnamedTallinn è la capitale dell’Estonia nonché suo principale porto, è situata nella costa settentrionale del paese, affacciata sul Mar Baltico, in linea d’aria è divisa da 80 chilometri di Mar Baltico da Helsinki, quest’ultima situata più a Nord, inoltre Tallin è anche la città più popolosa e maggiore centro economico e commerciale del paese estone. La sua Città Vecchia medioevale, antico porto anseatico, è divenuta patrimonio dell’umanità dell’UNESCO nel 1997. Tallinn è stata la Capitale Europea della Cultura per l’anno 2011 assieme alla città finlandese di Turku.

Il Primo Ministro estone Jüri Ratas ha recentemente avanzato ai microfoni di Radio Svoboda la proposta di estendere la cittadinanza a chiunque abbia vissuto in Estonia per almeno 25 anni, a prescindere dall’appartenenza etnica e linguistica. Nelle intenzioni, ciò servirebbe ad aumentare la sicurezza del Paese – sia interna, rafforzando la coesione sociale; sia esterna, diminuendo la densità di un gruppo, quello dei “non-cittadini“, facilmente origine e mezzo di tensioni con la Russia.

Inserendosi entro il solco dell’annosa questione delle minoranze russe, la proposta non è stata colta con favore da più parti. Andres Herkel, segretario del Partito Libero (EV), ha subito bollato l’idea come un mero espediente politico di Ratas, tentativo di spianare la strada verso le prossime elezioni generali al Partito di Centro – di cui il Primo Ministro è membro e il quale già gode di ampio consenso tra la minoranza russa.

Martin Helme, del Partito Popolare Conservatore (EKRE), ha rincarato la dose. Non ha infatti esitato a definirla come una “svendita” della cittadinanza in favore di tutti coloro i quali non hanno ancora dimostrato la propria fedeltà alla Repubblica. Secondo Helme, ciò non potrà che portare ad un rinnovamento delle tensioni inter-etniche, perturbando il delicato equilibrio sociale dello Stato.

Persino il Ministro dell’Interno Andres Anvelt (Partito Socialdemocratico, SDE) ha definito “irresponsabile” il progetto di Ratas, ma ad essere ancor più significativa è la posizione di Jüri Adams, padre costituzionale dell’Estonia post-sovietica. Secondo Adams ogni tentativo di mutare le fondamenta della politica estone sulla cittadinanza equivarrebbe ad un ribaltamento del referendum del 1992 – con il quale la popolazione sancì di non attribuire diritto di voto agli individui non etnicamente estoni.

Il 25 gennaio il Primo Ministro ha cercato di fornire al Parlamento una serie di rassicurazioni sulla propria proposta. Ben altro che una campagna di universalizzazione della cittadinanza, essa riguarderebbe soltanto gli individui residenti in Estonia già prima dell’indipendenza dall’Unione Sovietica e sarebbe dunque applicabile a meno della metà degli 80.000 non-cittadini odierni. Inoltre, i candidati dovrebbero comunque sottostare ai severi criteri di eleggibilità definiti dell’art.6 della legge sulla cittadinanza.

Ciò non pare tuttavia essere abbastanza per ammorbidire le posizioni degli oppositori. E’ dalle parole di Adams che traspare una questione ben più profonda delle semplici divisioni partitiche. La proposta di Ratas sarebbe infatti irrealizzabile perché incapace di tenere conto del profondo divario in termini di conoscenza dei processi democratici tra i popoli occidentali – a cui l’Estonia afferirebbe – e i popoli dell’Est – ai quali sono relegate la Russia e dunque le minoranze russofone. La questione si ridurrebbe così ad una fondamentale incompatibilità nella composizione culturale e spirituale delle due popolazioni.

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Quanto proposto dal Primo Ministro Jüri Ratas è lungi dall’essere accoglibile dal Parlamento. Il dibattito che ne è scaturito permette di vedere come i fattori identitari-nazionali restano cruciali nella formulazione delle scelte politiche dell’Estonia: la memoria dell’occupazione sovietica è ancora ben salda e capace di coagulare consistenti nuclei di opposizione che tagliano trasversalmente allo spettro partitico, unendolo intorno all’ideale dell’indipendenza come nazione estone. I problemi che ne derivano – tra i quali l’ostentata ostilità alla Russia – non potranno essere risolvibili se non nel lungo periodo, col favore del ricambio generazionale.

Nicolò Fasola