Archivio mensile:agosto 2015

GEORGE SOROS “LA CINA SARÀ IL NOSTRO NUOVO ORDINE MONDIALE”. E, POI, ANTONIO MARIA RINALDI SULLA CRISI CINESE.

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La finanza mondiale ha iniziato lo sganciamento dal dollaro e punta alla Cina, infiltrando i BRICS, Russia compresa, attraverso la loro nuova banca. La Cina sfrutterà l’Africa e loro l’Europa

La crisi cinese scatena il panico mondiale. Le borse vanno a picco. Lo spread Btp-Bund torna a salire. Ma non era difficile prevederlo. Ma oltre all’euro, l’incubo che nessuno osa nominare penzola come una spada di Damocle sul sistema finanziario mondiale. Un incubo che si chiama “derivati”: gli USA ne hanno per 800 mila miliardi, in Germania, solo Deutsche Bank ne ha in pancia 55 mila miliardi. Venti volte il Pil tedesco. E se scoppia questa bolla, questa volta torniamo alle clave. Senza contare il vantaggio della sottovalutazione dell’€, perché il marco, oggi, varrebbe il 30% in più dell’€.

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Ma anche l’Italia ha 160 miliardi di derivati posti in essere per poter abbassare il rapporto debito pubblico-PIL all’entrata nell’€ il 1° gennaio 1999. Questo fatto dice che abbiamo debito pubblico occulto che, però, dovremo pagare. Anche per questo, l’€ non funzionerà mai. Urge riappropriarci della nostra politica economica, cioè non limitare più il nostro fabbisogno finanziario al gettito delle entrate fiscali, ma riavere la nostra banca centrale dello Stato, pagatore senza limiti di ultima istanza, quando lo Stato lo decide.

Le chiacchiere sulla moneta unica stanno a zero. Eravamo al 5° posto nel mondo e con l’€ siamo precipitati al penultimo, appena avanti ad Haiti. Uscirne non è un’idea, ma una necessità, per ripartire e costruire presto un nuovo futuro.

CON IL JOBS ACT IL LAVORO STABILE NON ESISTE PIU’! BASTA CON LE MENZOGNE DEL GOVERNO E DEI GIORNALAI DI REGIME (di Giuseppe PALMA)

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Ho visto che in parecchi leggete i miei articoli… siete proprio in tanti, e per questo Vi ringrazio di cuore.

Tuttavia mi sono accorto che in parecchi, sia sui social network che in televisione, continuano imperterriti a parlare di “lavoro stabile” e di “contratto a tempo indeterminato”. Sono solo MENZOGNE! Dopo il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi) IL LAVORO STABILE NON ESISTE PIU’! Lo avrò scritto e dimostrato almeno una ventina di volte, ma qualche “furbo” giornalaio di regime – nonostante legga i miei lavori – fa finta di niente e continua a diffondere notizie false.

Prima di dimostrare, per l’ennesima volta, la definitiva scomparsa – addirittura per legge – del lavoro stabile, sarebbe meglio che qualcuno di Voi rilegga quanto meno questi due miei precedenti articoli: a) http://scenarieconomici.it/il-crimine-della-svalutazione-del-lavoro-allo-scopo-di-salvare-leuro-di-giuseppe-palma/ b) http://scenarieconomici.it/il-jobs-act-e-i-licenziamenti-la-farsa-del-contratto-a-tempo-indeterminato-di-giuseppe-palma/

Li avete riletti? Bene. Se ancora non vi è chiara la “truffa”, adesso ve la rispiego un’altra volta:

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A) Nel caso dei licenziamenti per giusticato motivo oggettivo (quelli dovuti ad esempio a cause economiche), la tutela reale (cioè il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato) NON ESISTE PIU’! Chiaro? Il lavoratore, qualora il giudice del lavoro dovesse ritenere illegittimo il licenziamento, ha diritto SOLO alla tutela obbligatoria (cioè di tipo risarcitorio) che va da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità (2 mensilità per ogni annualità lavorativa ma nei limiti predetti). Tale trattamento è addirittura peggiore rispetto a quello previsto dalla Legge Fornero (Legge n. 92/2012), la quale, oltre a prevedere un’ipotesi concreta in cui il lavoratore aveva diritto al reintegro, stabiliva una più adeguata tutela obbligatoria (da 12 a 24 mensilità);

B) Nel caso dei licenziamenti per giusticato motivo soggettivo o per giusta causa (ad esempio quelli disciplinari), la tutela reale (reintegro) NON ESISTE PIU’, fatta salva l’ipotesi residuale costituita dall’INSUSSISTENZA del fatto materiale contestato al lavoratore, con onere della prova a carico di quest’ultimo! In pratica il lavoratore illegittimamente licenziato per motivi disciplinari potrà ottenere dal giudice una sentenza che lo reintegri nel posto di lavoro SOLO se il fatto contestatogli, motivo del licenziamento, non sussiste (con onere della prova a suo carico). Qualora invece vi fosse sproporzionalità tra fatto contestato e licenziamento, il giudice potrà accordare al lavoratore la SOLA tutela obbligatoria, la quale, in ogni caso, è sempre compresa nella forbice 4-24 mensilità.

Per entrambe le tipologie di licenziamento (sia per g.m.o. che per g.m.s. o giusta causa) permane la tutela reale nei casi di licenziamenti nulli (es. per mancanza di sottoscrizione della lettera di licenziamento), orali e/o discriminatori (es. per motivi politici, religiosi, colore della pelle etc… ). Trattasi comunque di ipotesi casisticamente impercettibili: sfido chiunque a portarmi una lettera di licenziamento predisposta da una multinazionale nella quale, a fondamento del licenziamento, vi sia riportata una motivazione attinente lo stato di gravidanza della lavoratrice.

Tutto ciò premesso, pur avendo il Jobs Act introdotto formalmente un contratto unico a tempo indeterminato, nella sostanza tale contratto – potendo il datore di lavoro procedere a licenziamento senza il rischio di essere condannato a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato – NON E’ UN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO bensì a PRECARIETÀ ILLIMITATA! Il lavoratore sarà quindi sotto perenne e costante ricatto del datore di lavoro: tutti i lavoratori d’Italia ringrazino il PD e Matteo Renzi per questo “meraviglioso regalo”! Regalo (quello della SVALUTAZIONE DEL LAVORO) che era “necessario” allo scopo di salvare l’€uro, una moneta completamente sbagliata che – essendo un accordo di cambi fissi – impedisce di far leva sulla svalutazione monetaria, scaricando il costo della competitività sui salari e sulla qualità occupazionale!

Capito adesso a cosa serve il Jobs Act? Capito perché il lavoro stabile è una farsa? Capito perché l’€uro è una moneta sbagliata e perché grava su salari e garanzie contrattuali? Capito perché l’€uro conviene solo al capitale internazionale e non al lavoro? Non lo avete ancora capito? Allora rileggete questo mio articolo sull’€uro (vi consiglio di leggere sia il testo che le note): http://scenarieconomici.it/vi-presento-leuro-tutto-quello-che-dovete-sapere-di-un-crimine-annunciato-di-giuseppe-palma/

Alla luce di quanto sopra, chi continua a parlare di contratti stabili non fa altro che MENTIRE SPUDORATAMENTE agli italiani!

Giuseppe PALMA

I decreti legislativi 80 e 81 hanno concluso la riforma avviata con la legge delega approvata nel dicembre 2014, che vedrà così dispiegate le sue normative.
I due decreti, infatti, hanno ricevuto il benestare delle competenti commissioni di Camera e Senato in materia di lavoro, e sono in corso di effettività da giovedì 25 giugno 2015.

I provvedimenti sono dunque i seguenti:
DECRETO LEGISLATIVO 15 giugno 2015, n. 80
Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
VAI AL TESTO
DECRETO LEGISLATIVO 15 giugno 2015, n. 81
Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183.
VAI AL TESTO

Si tratta di due ulteriori interventi che vanno a completare il quadro dei testi attuativi alla riforma del mercato del lavoro del governo Renzi.
Nei mesi scorsi, sono stati varati altri decreti, entrati in vigore il 7 marzo, che hanno ridisegnato il profilo dei contratti a tempo indeterminato e delle indennità di disoccupazione, tra le altre discipline introdotte o ritoccate.

EUROPA E AFRICA. ATTENZIONE ALL’IMMIGRAZIONE.

Vi propongo il punto di vista di un’africana sull’Immigrazione.

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Il fenomeno dell’immigrazione sta diventando uno tra I maggiori argomenti dei media occidentali e fonte di controverse e preoccupazioni per le popolazioni e i governi europei. Migliaia di analisi sono state pubblicate da Europei e Africani che vivono nel Vecchio Continente.
African Voices vi offre un diverso, forse controverso, punto di vista scritto da una donna africana attivista del Congo: Yvonne Bamswekere con la speranza che questo possa contribuire a una profonda riflessione sull’immigrazione africana in Europa libera da pregiudizi razziali e irrazionale sentimento di fratellanza a tutti i costi.

In questi giorni stiamo assistendo al dramma di dimensioni mondiali. Migliaia di immigrati stanno tentando di raggiungere l’Europa legalmente o illegalmente. Dall’Africa gli immigrati hanno scelto i paesi europei più deboli: Italia e Grecia e sono disposti a rischiare le loro vite in pericolosi viaggi attraversando paesi in guerra civile come la Libia ed affrontare il Mediterraneo a bordo di precarie imbarcazioni. Dietro questo fenomeno si nasconde un network mafioso che non è in mano agli europei ma agli africani. Le reazioni dell’Europa sono contraddittorie e convulse. Alcuni invocano la chiusura delle frontiere e un forte controllo militare del Mediterraneo. Altri invocano quote per gli immigrati. Altri il libero movimento degli esseri umani senza però risolvere le cause che si celano dietro l’ondata di immigrazione.
Come africana osservo tutti questi tentativi europei di affrontare il problema e noto un errato approccio da ambe le parti. Controllare militarmente il Mediterraneo è quasi impossibile ed estremamente costoso. Inoltre se una nave militare europea intercetta una imbarcazione di immigrati clandestini che fa? L’affonda uccidendo tutti i passeggeri o la scorta al punto di partenza? La prima ipotesi è classificata come omicidio premeditato che rischia di trasformarsi in genocidio. Qualcosa di simile è già stato tentato tramite accordi segreti con alcuni paesi nord africani quali Egitto e Marocco. Questi accordi prevedono aiuti economici e militari in cambio dell’impegno egiziano e marocchino di fermare l’immigrazione a tutti i costi. Una immunità non ufficiale viene loro garantita tramite il blocco di investigazioni internazionali. Spesso le marine militari di questi due paesi intercettano e affondano le navi uccidendo decine e decine di persone. Purtroppo questi crimini non riescono a fermare l’immigrazione. Per i governi di questi paesi nord africani è semplicemente un ottimo modo di ottenere soldi uccidendo quelli che loro chiamano “Afro” che nella mentalità araba è il termine utilizzato per definire i sub umani.

La seconda opzione è priva di senso. Per ogni imbarcazione ricondotta al punto di partenza vi saranno altre tre pronte a salpare per l’Europa. Accogliere gli immigrati con l’introduzione di quote per ogni paese europeo è tecnicamente impossibile e danneggerebbe le già deboli e decadenti economie e società europee. Come pensate di poter accogliere migliaia di immigrati nei vostri paesi quando state soffrendo di disoccupazione di massa, crisi economica e la vostra assistenza sociale si sta progressivamente riducendo causa mancanza di fondi? Cosa fare? Provvederete assistenza sociale, educazione e sanità gratuite e opportunità di lavoro agli immigrati quando non siete più in grado di garantirle ai vostri cittadini?

I tentativi europei di risolvere il problema dell’immigrazione sono destinati a fallire perché non avete compreso le vere cause e siete vittime di vari pregiudizi che aggiungono confusione a quella già esistente. Voi europei pensate che le cause dell’immigrazione risiedono nella povertà. Sbagliato! Il 98% dei poveri africani vivono e muoiono in Africa senza avere nessuna possibilità di immigrare in Europa. Per affrontare il viaggio da clandestini occorrono almeno 5.000 dollari. Come possono possedere un tale somma i contadini africani, i disoccupati urbani o le povere donne quando non la vedranno mai in tutta la loro vita, costretti a sopravvivere con 1,5 dollari al giorno? La maggiora parte degli immigrati africani proviene dalla piccola e media borghesia. Hanno studiato presso le Università dei loro paesi e possiedono una buona preparazione professionale. Conoscono minimo due delle principali lingue europee: inglese e francese. Le loro famiglie possono sostenere i costi del viaggio in quanto l’immigrazione viene da loro considerata un investimento. Una volta che i loro figli hanno raggiunto l’Europa e trovato un lavoro sarà assicurata una rendita mensile in patria che giungerà in Euro. Vi è anche la possibilità di poter inviare altri membri della famiglia per aumentare questa rendita. L’invio avviene attraverso dei trucchi come i falsi certificati di matrimonio. Si fa passare una sorella come la moglie del figlio già stabilmente in Europa. Meglio ancora se questa sorella possiede dei bambini. Trucchi facilmente utilizzati sfruttando la buona volontà degli europei, le loro storie dei diritti umani e l’impossibilità per i governi europei di poter distinguere un certificato di matrimonio originale o falso. Entrambi emessi dai governi africani, il secondo grazie alla corruzione.

Nell’opinione pubblica europea è profondamente insito il credo che tutti gli africani desiderano immigrare perché il Continente è povero e distrutto. Sbagliato! La maggiora parte degli immigrati africani provengono da sei paesi: Eritrea, Etiopia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Senegal e Somalia. I paesi come Congo, Eritrea e Somalia sono attualmente vittime di instabilità, feroci regimi, guerre civili e assenza di governi. Per la Nigeria e il Senegal la storia è diversa. La Nigeria è una tra le potenze economiche africane e il Senegal una democrazia consolidata in pieno sviluppo economico. Allora perché nigeriani e senegalesi voglio venire in Europa? Perché pensano che da voi vi sia la vita facile, lavori ben pagati un monete forti e la possibilità di sfruttare il vostro sistema sociale giocando i ruolo delle povere vittime negre. Un ruolo facile da giocare grazia alla mentalità naive degli Europei.

Nella maggioranza degli altri paesi africani l’immigrazione è Continentale. Per esempio i Zimbabwani emigrano in Angola o Sud Africa, i sudanesi in Egitto. L’immigrazione Continentale ha però non raggiunto le proporzioni di quella in Europa, dando cosi’ la possibilità alle società e paesi ospitanti di poter assorbire gli immigrati per la maggior parte dei casi, escluso il Sud Africa. Il fenomeno migratorio Continentale non è cosi’ diffuso anche perché molti paesi si tanno sviluppando e le loro economie riescono ad offrire opportunità di lavoro e commercio. Molti di essi stanno vivendo la stessa situazione dei paesi europei dopo la Seconda Guerra Mondiale, negli anni Cinquanta e Sessanta. Se riusciranno a gestire bene le risorse naturali, iniziare il processo di industrializzazione e controllare demograficamente la loro popolazione questi paesi hanno ottime possibilità di raggiungere i paesi sviluppati entro il 2030 e il 2040. Uganda, Kenya, Rwanda e Tanzania, nell’Africa Orientale, possiedono già un forte sviluppo anche se la rivoluzione industriale non è ancora iniziata come da loro prevista e desiderata.

L’immigrazione verso l’Europa sta danneggiando i vostri paesi ma maggiormente danneggia l’Africa. Nelle vostre madre patrie stanno aumentando i conflitti sociali perché l’impatto con le diverse culture è reso difficile e conflittuale a causa del contesto di depressione economica che state vivendo. Aumenta inoltre le ideologie razziali rendendo più forti i partiti europei nazisti e di ultra destra con pericolose derive per le vostre deboli e malate democrazie. Ma è in Africa che i danni collaterali sono veramente drammatici e rischiano di compromettere la crescita economica. Visto che la maggioranza di immigrati appartengono alla classe media, hanno studiato e possiedono qualifiche e competenze professionali importanti come medici, tecnici IT e comunicazione, insegnanti, ingegneri etc, questo si tramuta in una fuga di cervelli dagli esiti catastrofici. Ironicamente questi immigrati altamente professionali raramente trovano in Europa un lavoro a loro adeguato accontentandosi di lavorare nelle fabbriche, nel settore informale, nei ristoranti o come mano d’opera occasionale nell’agricoltura.

L’immigrazione africana nasconde anche un aspetto criminale che è organizzato dall’Africa. Dietro l’immigrazione illegale non si nascondono i vostri network mafiosi ma i nostri. Attivissimi quelli Libici e Nigeriani. Le mafie europee possono collaborare o essere associate ma non hanno la minima possibilità di organizzare l’immigrazione dall’Africa. Le prostitute nigeriane che vi godete nelle strade e nei boschi dell’Italia non sono vittime di Cosa Nostra o di Ndrangheta ma della mafia nigeriana. Quelli che voi chiamate “scafisti” sono principalmente arabi dalla Libia. Raramente sono italiani. Come avveniva nel 1700 la moderna tratta degli schiavi dall’Africa è gestita dagli africani.

L’immigrazione africana è una diretta conseguenza della propaganda occidentale. Per mantenere il controllo sulle nostre risorse naturali i vostri governi stanno ancora diffondendo la propaganda della superiorità della cultura e società occidentale come avveniva nel periodo coloniale. Questo ci induce a pensare che in Europa non vi siano problemi, che la vita sia facile, il lavoro disponibile come le case confortevoli e le macchine di lusso. I vostri connazionali vengono in Africa e spendono i soldi come dei pazzi furiosi senza il minimo risparmio. Tutto questo induce molti africani naive ad identificare l’Europa come il loro El Dorado cercando di raggiungerlo a tutti i costi: sposando donne e uomini bianchi vecchi e grassi o affrontando viaggi infernali lungo il Mediterraneo. Chi lo fa dimostra di non aver cervello. Se uno è fortunato di poter possedere 5.000 dollari invece di affrontare viaggi che spesso mettono a rischio la propria vita o di essere costretto ad avere rapporti sessuali con esseri ripugnanti, potrebbe iniziare una media attività commerciale nel suo paese. Se gli affari vanno bene vivrebbe molto meglio che in Europa con statuto di immigrato.

Le proposte politiche europee di addolcire le leggi anti immigrazione richiamo di peggiorare la situazione e di aumentare l’immigrazione clandestina. La difesa militare dei confini europei è letteralmente un Non Sense. Allora che fare? Quali sono i giusti approcci al problema?
Un primo passo è interrompere le interferenze militari nei paesi stranieri. La mentalità europea per secoli ha creato una simbiosi tra la necessità di espandere la propria influenza e commercio con la violenza e le guerre. Questo è stata la normalità in Europa per secoli che ha originato la Guerra dei Cento Anni, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Violenza e guerre sono i pilastri della conquista coloniale e il principio numero uno adottato dai vostri governi per le moderne relazioni con Africa, Asia e America Latina. Ogni paese che non accetta i vostri principi democratici (che si traducono nella supremazia economica occidentale e nel diritto di sfruttare le nostre risorse naturali) diventa un paese da destabilizzare e da accusare di violazioni dei diritti umani.

Anche se questo modus operandi è particolarmente utilizzato dagli Stati Uniti, l’Europa lo segue perché lo considera una normale e naturale strategia per imporre la sua supremazia nel mondo. Il caos del Medio Oriente, dalla Siria allo Yemen e le guerre civili create dall’Europa in Africa: dal Mali al Sud Sudan, creano come effetto collaterale l’aumento della immigrazione illegale. Oggi una forte percentuale di clandestini in Europa proviene dal Medio Oriente, per esempio. La mentalità bellica europea e occidentale associata al desiderio di supremazia, sta portando Stati Uniti ed Europa al fallimento perché non si può competere con l’approccio soft della Cina e dei paesi del BRICS. Si crea solo alienazione e rancore nei paesi del terzo mondo vittime di questo mentalità che a loro volta aumentano le attività terroristiche a livello mondiale. Mi ricordo ancora come siamo stati contenti ad apprendere la notizia dell’attacco terroristico a New York del 11 settembre. Molti di noi erano entusiasti e brindavano. Finalmente gli Americani Muoiono!

L’abbandono della deleteria mentalità bellica deve essere associato a serie politiche di sviluppo concentrate sui paesi africani dove è maggiore l’immigrazione per l’Europa. Le politiche di sviluppo devono includere il rafforzamento dei modelli di democrazia che non necessariamente devono essere simili ai vostri, equi scambi commerciali, concreta partnership per iniziare lo sviluppo industriale. L’Occidente sicuramente perderà qualche profitto e privilegio ma ci guadagnerà in stabilità e diminuirà l’immigrazione clandestina. Noi Africani non necessitiamo di qualcuno che si vuole imporre a tutti i costi. Necessitiamo di onesti partner che riescano a comprendere una semplice ma nascosta verità: il nostro sviluppo e benessere rafforzerà il vostro sviluppo e benessere.

Una volta consolidato questo nuovo approccio nelle relazioni internazionali, le politiche migratorie devono basarsi sul principio del libero movimento degli esseri umani, garantito ora solo per le merci e i flussi finanziari. Ognuno ha il diritto universale di vivere dove più gli aggrada. Opportunità di lavoro e studio devono essere assicurate ovunque e per chiunque. Se un italiano sceglie di vivere e lavorare in Congo deve essere il benvenuto e viceversa per un Congolese che decide di vivere e lavorare in Italia. Quello che è veramente importante è che la scelta immigratoria sia libera e non dettata da forze maggiori.

L’Europa deve comprendere che il suo tempo è finito. Il mondo si sta avviando verso una integrazione multiculturale. I Bianchi stanno perdendo la loro supremazia nonostante tutte le instabilità e guerre che costantemente creano. Per la conservazione della loro razza è mille volte preferibile un cambiamento di mentalità che porti a considerare gli stranieri, i negri, gli asiatici e latini come opportunità e non come nemici da sfruttare. Questi suggerimenti sono utopici, siete liberi di pensare. Ma tenete presente che questa è la solo occasione che rimane alla vostra razza a rischio di estinzione.

Fulvio Beltrami
Kampala, Uganda

LA STRAGE DI BISCARI. OBAMA CI VUOLE IN GUERRA; MA DEVO FIDARMI DEGLI STATI UNITI ?

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« Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali! »

(George Smith Patton)

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“Non solo spareremo ai bastardi, ma taglieremo loro gli intestini 

ancora vivi, e li useremo per oleare i cingoli dei nostri carrarmati.”

Con massacro di Biscari si intendono in particolare due episodi accaduti durante la seconda guerra mondiale, configurabili come crimine di guerra, nel quale truppe dell’esercito degli Stati Uniti uccisero senza giustificazione giuridica 76 prigionieri di guerra tedeschi ed italiani.

Entrambi gli episodi avvennero il 14 luglio 1943 nelle campagne di Piano Stella, vicino a Biscari, oggi Acate, località siciliana a sud di Caltagirone ed in provincia di Ragusa.

LA GUERRA DEI LIBERATORI IL MASSACRO DI BISCARI

In Sicilia durante la campagna d’Italia

Il 27 giugno 1943, durante la preparazione delle truppe statunitensi in vista dell’Operazione Husky, lo Sbarco in Sicilia, il comandante della 7ª Armata USA, generale G.S.Patton tenne un rapporto agli ufficiali della 45ª Divisione di fanteria nel corso del quale diede disposizione di uccidere – senza accettare le loro eventuali offerte di resa – i militari nemici che resistessero ancora quando le fanterie statunitensi fossero giunte a 200 iarde, circa 180 metri, di distanza da essi.

Lo sbarco in Sicilia

Subito dopo lo sbarco le unità statunitensi si diressero verso gli aeroporti siti nella parte meridionale dell’isola. Si segnalarono già alcune stragi di civili come quella che avvenne il 10 luglio 1943 in cui trovarono la morte dodici italiani tra cui il podestà fascista di Acate Giuseppe Mangano e il figlio diciassettenne Valerio. Quest’ultimo riuscito a divincolarsi cercò di soccorrere il padre, ma fu ucciso da un colpo di baionetta al volto.

In particolare il 180º Reggimento della 45ª Divisione di fanteria si diresse su quello di S.Pietro, identificato sulle carte statunitensi come aeroporto di Biscari-Santo Pietro. L’attacco iniziò nel corso della notte fra il 13 ed il 14 luglio 1943, ed i reparti dei difensori, in massima parte italiani, con nuclei tedeschi, dopo un’accanita resistenza, si arresero alle forze statunitensi nel pomeriggio.

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La prima strage ad opera del Capitano Compton

L’aeroporto di Santo Pietro era presidiato da una guarnigione di avieri comandati dal Capitano Mario Talante, un battaglione di artiglieri al comando del Maggiore Quinti ed un reparto di truppe tedesche. Dopo intensi bombardamenti l’aeroporto fu accerchiato all’alba del 14 luglio 1943. Gli avieri, la sera prima, furono divisi in due gruppi. Con certezza un gruppo, armato con i moschetti 91, fu lasciato in una casamatta nel tentativo di contenere l’avanzata degli americani. Furono presto presi prigionieri ed uscirono dal rifugio con le mani alzate, mentre qualcuno sventolava un fazzoletto bianco in segno di resa. Ai prigionieri furono tolti vestiti, scarpe, oggetti di valore e subito messi in fila per essere fucilati per ordine del capitano John Compton. Di questo gruppo si salvarono solo due militari italiani (il caporale Virginio De Roit e il soldato Quaiotto) che ai primi colpi riuscirono a darsi alla fuga e a nascondersi presso il torrente Ficuzza.

Il mattino del 15 luglio il tenente colonnello W.E. King, un cappellano della 45ª Divisione, trovò una fila di cadaveri sulla strada che dall’aeroporto portava al paese di Biscari, a pochi metri da una grande quantità di bossoli americani, per un totale di 34 italiani e 2 tedeschi. Il tenente colonnello King trovò altri cadaveri allineati, quindi, presumibilmente, fucilati, prima di giungere all’aeroporto, dove venne a conoscenza di un ulteriore gruppo di militari italiani fucilati.

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La seconda strage ad opera del Sergente West

Un altro gruppo di prigionieri incolonnato per essere condotto nelle retrovie ed interrogato dagli uomini dell’intelligence fu affidato al Sergente Horace West con 7 militari. Durante il tragitto si aggiunsero altri 37 prigionieri di cui 2 tedeschi. Dopo circa un chilometro di marcia furono obbligati a fermarsi e disporsi su due file parallele mentre West, imbracciato un fucile mitragliatore, aprì il fuoco compiendo il massacro. Al centro della prima fila c’era l’Aviere Giuseppe Giannola che fu l’unico superstite, che in una relazione inviata al Comando Aeronautica della Sicilia ricordò:

« Fummo avviati nelle vicinanze di Piano Stella ove fummo poi raggiunti da un altro contingente di prigionieri italiani del R° esercito, e questi ultimi in numero circa di 34. Tutti fummo schierati per due di fronte – un Sottufficiale americano, mentre altri 7 ci puntavano con il fucile per non farci muovere, col fucile mitragliatore sparò a falciare i circa 50 militari che si trovavano schierati. Il dichiarante rimasto ferito al braccio destro (rimase) per circa due ore e mezzo sotto i cadaveri, per sfuggire ad altra scarica di fucileria, dato che i militari anglo americani rimasero sul posto molto tempo per finire di colpire quelli rimasti feriti e agonizzanti. »

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(Dalla relazione dell’aviere Giuseppe Giannola del 4 marzo 1947 al Comando Aeronautica della Sicilia.)

Giannola, quando pensò che gli americani se ne fossero andati via, alzò la testa nel tentativo di allontanarsi, ma da lontano qualcuno gli sparò con un fucile colpendolo di striscio alla testa. Cadde e si finse di nuovo morto. Restò immobile per circa mezz’ora fin quando, strisciando carponi, raggiunse un grosso albero. Vide degli americani con la croce rossa al braccio e si avvicinò. Gli fu tamponata la ferita al polso e alla testa e gli fu fatto capire che da lì a poco sarebbe sopraggiunta un’autoambulanza che l’avrebbe trasportato al vicino ospedale da campo. Poco dopo vide avvicinarsi una jeep e fece segno di fermarsi. Scesero due soldati, uno con un fucile che gli domandò se fosse italiano. Alla risposta gli sparò colpendolo al collo con foro d’uscita alla regione cervicale destra, risalì in macchina e si allontanò.

Poco dopo sopraggiunse l’autoambulanza che lo raccolse trasportandolo all’ospedale da campo di Scoglitti. Due giorni dopo fu imbarcato su una nave e portato all’ospedale inglese di Biserta ed altri del Nord Africa. Rientrò in Italia il 18 marzo 1944 e ricoverato all’ospedale militare di Giovinazzo. Al termine del conflitto, in data 4 marzo 1947, presentò al Comando Aeronautica della Sicilia un resoconto di quanto accaduto, ma rimase inascoltato. Negli anni che seguirono continuò inutilmente a far sentire la sua voce, fino a quando, assistito dal figlio Riccardo, raccontò tutto al procuratore militare di Padova il quale aveva aperto un fascicolo per la storia di un altro sopravvissuto al crimine di guerra consumato negli stessi luoghi per mano del Capitano Compton.

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Le conseguenze giuridiche della strage

La procura militare statunitense iniziò gli accertamenti sull’episodio e rinviò a giudizio due graduati del 180º Reggimento, il sergente Horace West (Compagnia A) ed il capitano John Compton (Compagnia C).

Fu accertato che il sergente Horace West aveva ricevuto l’ordine di trasferire al comando di battaglione 37 prigionieri nemici (uno era sfuggito ai controlli del tenente colonnello King) ma, giunti in un uliveto, li aveva personalmente fucilati con la sua arma di ordinanza. Il sergente West si difese sostenendo che gli ordini dal Comando d’Armata erano di uccidere i militari nemici che non si fossero arresi immediatamente, sulla base del discorso già citato del Generale G.S.Patton, riportato ai gradi inferiori dal comandante del 180º reggimento con le stesse parole. La Corte Marziale, comunque, giudicò West colpevole, se non altro per aver ucciso militari che ormai avevano già ottenuto lo status di prigionieri e lo condannò all’ergastolo. Ciononostante non fu incarcerato ma continuò a prestare servizio nell’esercito americano.

Anche il capitano Compton si riferì al discorso del gen. Patton per giustificare le sue azioni, dato che aveva fucilato i militari italiani, circa quaranta, subito dopo la loro resa. Compton concluse la propria difesa sostenendo di aver agito sulla base di istruzioni del Comandante di Armata, generale con tre stelle ed una grande esperienza di combattimento. Compton fu assolto, ma cadde in combattimento l’8 novembre 1943 presso Montecassino.

Il generale G.S.Patton, in un colloquio successivo, 5 aprile 1944, col tenente colonnello C.E. Williams, ispettore del Ministero della Guerra sui fatti di Biscari, ammise di aver tenuto un discorso abbastanza sanguinario, pretty bloody, ma di averlo fatto per stimolare lo spirito combattivo della 45ª Divisione di fanteria, che si trovava per la prima volta sotto il fuoco nemico, negando comunque di aver incitato all’uccisione di prigionieri.

Nel settembre 2009 Giuseppe Giannola fu ricevuto al Quirinale dal Generale Mosca Moschini, Consigliere Militare del Presidente Giorgio Napolitano, al quale consegnò una lettera appello, rivolta al Presidente della Repubblica, in cui chiedeva che si facesse di tutto per individuare il luogo ove furono seppelliti i suoi commilitoni, per restituire l’onore a chi fu spenta la vita quella mattina del 14 luglio 1943, cancellando quei nomi dall’elenco dei dispersi e/o dei disertori. Il 14 luglio 2012 è stata finalmente apposta a Santo Pietro una targa di marmo che ricorda i nomi di tutti i soldati italiani uccisi nella strage (e 4 tedeschi). La manifestazione è stata organizzata dai comuni di Acate, Caltagirone, Vittoria e Santa Croce Camerina, in collaborazione con l’Associazione Culturale Storica Lamba Doria

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 Questo articolo non vuole demonizzare il soldato americano profittando di questi crimini orrendi, ma vuole significare che a Norimberga fu processata una sola parte e che in una guerra futura dovremo guardarci da tutti. La memoria del gen. Patton, figura osannata dall’US ARMY, ci ricorda che non avremo criminali di guerra solo da una parte. 

 

 

IL CENTRO STUDI DI UNIMPRESA PREVEDE IN AUMENTO IL PESO DELLE TASSE RISPETTO AL PIL , MA GLI SPRECHI NON SARANNO TOCCATI.

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Il Centro Studi e ricerche, formato da rappresentanti del mondo universitario, della cultura e dell’economia e con il supporto, per materie specifiche come la legalità, di esponenti della magistratura e delle Forze dell’ordine, è impegnato nella realizzazione di pubblicazioni editoriali (Collana di Studi Aziendali, Economici e Territoriali), ricerche,  iniziative di studio, previsioni di mercato e promozione di osservatori permanenti su temi e realtà socio-economiche che coinvolgono i settori di rappresentanza dell’Associazione. Così, colgo l’occasione e Vi propongo le loro previsioni.

Più spesa pubblica per 38 miliardi e più tasse per 104 miliardi nei prossimi cinque anni. Dal 2015 al 2019 le entrate tributarie dello Stato cresceranno costantemente e arriveranno fino agli 881 miliardi del 2019.

Complessivamente nel prossimo quinquennio i contribuenti italiani dovranno versare nelle casse pubbliche 104,1 miliardi in più rispetto allo scorso anno (+13%). Sulle imposte dirette e indirette – principalmente Irpef, Ires e Iva – ci sarà una stretta da quasi 80 miliardi. Questi i dati di una analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo cui la pressione fiscale salirà oltre il 44%. Parallelamente continuerà a crescere pure il bilancio statale: le uscite cresceranno di quasi 38 miliardi (+4%) e sono stati sterilizzati gli investimenti pubblici, che resteranno stabili attorno ai 60 miliardi l’anno.

 

Secondo l’analisi dell’associazione, basata sull’ultimo Documento di economia e finanza (Def), nel 2015 le entrate tributarie e previdenziali saliranno a quota 785,9 miliardi dai 777,2 miliardi del 2014; nel 2016 cresceranno ancora a 818,6 miliardi e poi a 840,8 miliardi nel 2017; nel 2018 e nel 2019 arriveranno rispettivamente a 863,2 miliardi e a 881,2 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento di 104,01 miliardi (+13,38%). Aumenteranno sia le entrate tributarie sia quelle derivante dai cosiddetti contributi sociali (previdenza e assistenza).

Per quanto riguarda le entrate tributarie l’aumento interesserà sia le imposte dirette (come quelle sui redditi di persone e società, a esempio Irpef e Ires) sia le imposte indirette (tra cui l’Iva): le imposte dirette cresceranno in totale di 34,2 miliardi (+14,43%) mentre le indirette subiranno un incremento di 45,5 miliardi (+18,43%).

Il sostanziale giro di vite su Irpef, Ires e Iva sarà pari a 79,4 miliardi (+16,36%).

I versamenti relativi alla previdenza e all’assistenza cresceranno dal 2015 al 2019 di 22,02 miliardi (+10,18%).

L’incremento delle entrate tributarie e di quelle contributive farà inevitabilmente salire la pressione fiscale. Nello stesso Def, il peso delle tasse rispetto al pil è infatti previsto in aumento: quest’anno si attesterà al 43,5% (stesso livello del 2014), nel 2016 e nel 2017 salirà al 44,1%, nel 2018 si fermerà al 44% per poi calare leggermente al 43,7% nel 2019.

Nello stesso arco di tempo, la crescita economia, stando alle previsioni del governo, sarà timida: il pil non farà scatti in avanti significativi ed è infatti dato in aumento dello 0,7% nel 2015, dell’1,4% nel 2016, dell’1,5% nel 2017, dell’1,4% nel 2018 e dell’1,3% nel 2019.

Nessun intervento rigoroso sul bilancio statale: le uscite saliranno costantemente rispetto agli 826,2 miliardi del consuntivo 2014. Nel 2015 saliranno a 827,1 miliardi, nel 2016 a 842,1 miliardi, nel 2017 a 844,6 miliardi, nel 2018 a 854,4 miliardi e nel 2019 a 864,1 miliardi. Complessivamente, nel quinquennio si registrerà un incremento della spesa pubblica pari a 37,8 miliardi (+4,58%).

L’incremento è legato esclusivamente alle uscite correnti (acquisti, appalti, stipendi) che, nel quinquennio, aumenteranno di 44,6 miliardi (+6,45%).

In diminuzione, invece, la spesa per interessi sul servizio del debito che beneficerà verosimilmente della riduzione del divario di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi: il tesoretto legato allo spread sarà pari a 7,5 miliardi tra il 2015 e il 2019 (-10,03%), ma verrà di fatto bruciato dagli aumenti delle altre voci di spesa, piene di sprechi non toccati.

Resta invariata la voce “uscite in conto capitale”, che corrisponde agli investimenti pubblici, stabile attorno a circa 60 miliardi l’anno: nel quinquennio si registrerà un lievissimo incremento pari a 724 milioni (+1,23%).

ORIZZONTE 48: ‘STA CINA: I MERCATI INTERNI E IL FRANCHISING “WALL STREET”

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1. Qualcuno si affretta a dire: ma dov’è il problema?
Consideriamo che le esportazioni in Cina costituiscono rispettivamente il 3.7% e il 5.4% delle esportazioni totali dell’eurozona e della Germania.
Poi arriva qualche espertone e ci dice che le difficoltà di crescita della Cina pongono in pericolo il settore del lusso “made in Italy”: un settore che pesa relativamente poco sull’export italiano, a rigore, e che, in ogni modo, è ormai quasi tutto a controllo estero.

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La mappa del nuovo Made in Italy

“Non è un caso, insomma, se la crescita dell’export italiano sta esplorando e sempre più esplorerà le nuove geografie dello sviluppo. Quella dei Paesi Iets (Indonesia, Egitto, Turchia, Sudafrica) realtà dove la popolazione ha un’età media inferiore a 30 anni e nei quali è prevista, nei prossimi anni, una rapida crescita dei consumi interni, le previsioni di crescita dell’export italiano tra il 2014 e il 2016, viaggiano attorno a una media del 10%, così come quella dei Next-7 (Corea del Sud, Egitto, Filippine, Indonesia, Messico, Nigeria, Turchia). O ancora quella dei Rapid-Growth Market (Arabia Saudita, Argentina, Brasile, Cile, Cina, Corea del Sud, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Hong Kong, India, Indonesia, Malesia, Messico, Nigeria, Polonia, Qatar, Repubblica Ceca, Russia, Sudafrica, Thailandia, Turchia e Ucraina), Paesi ricchi di materie prime e con basso costo della manodopera. Qui la crescita delle esportazioni italiane è stimata attorno al 9,6%, con un peso sul totale che passerà dal 21,7% nel 2011 al 24% nel 2016. La stessa Africa subsahariana potrebbe essere in un futuro prossimo un’importante bacino di sviluppo per questo nuovo made in Italy, visto che già ora le importazioni dei Paesi dell’area sono trainate da progetti infrastrutturali e da investimenti nel settore petrolifero, che vedono coinvolte alcune grandi imprese italiane.”

2. E poi arriva qualche altro espertone e ci dice pure che la Cina mette in crisi il Brasile (che esporta in Cina soia e altre materie prime), che mette in crisi le grandi multinazionali (tipo Siemens e Caterpillar) che producono o esportano in Brasile e, ovviamente, in tutto il resto del mondo che non…potrebbe più esportare in Cina.

Insomma, messa così, si capisce che è tutto un fatto di contrazione delle esportazioni e di modello free-trade arrembante e, come vedremo, finanziarizzato e senza ripensamenti; come avevamo già detto.
La potremmo mettere anche in questi termini: si aspettava da tanto questo momento, per compiere la revenge sulla Cina, e pareggiare i conti dell’export, dopo che per tanti anni si era subita la sua “aggressività”, e invece la Cina che ti fa? Ti va in crisi.

4. Forse, l’ha fatto apposta, suggeriscono alcuni.
In un certo senso è vero: come dice Sapelli su “Il Messaggero” di oggi, la Cina intende, comunque, “passare da un modello fondato sull’esportazione (del manifatturiero mondiale accentrato presso il suo territorio), a un modello fondato su un mix di esportazioni e di creazione di mercato interno, per porre l’Impero di Mezzo al sicuro dalle fluttuazioni del commercio mondiale. Solo che la creazione di un mercato interno sta andando incontro a ripetuti fallimenti. La condizione per crearlo è staccare i contadini dalle campagne e gettarli nelle città dove non c’è spazio per l’autoconsumo e l’autoproduzione, non solo del cibo”.
Invece, si ritrovano, oggi, con “decine di città programmate e costruite che sono vuote: i contadini non abbandonano le campagne in misura sufficiente per introdurre il mercato” Dopo averci illustrato gli eccessi repressivi per realizzare manu militari questo disegno, Sapelli conclude: “la crisi è di natura strutturale ed è tipica di un ersatz (surrogato) dell’economia capitalista simile a quella del nazismo: una sorta di capitalismo monopolista di Stato a dominazione militare e non politica, come dimostrano le recenti vicende dove emerge chiaramente come l’esercito sempre più prevalga sul partito”.

In tutto questo sarebbero “compassionevoli e allarmanti…le idee di coloro (FMI compreso) che si cullano nell’ipotesi che l’abbassamento di valore dello yuan abbia di mira l’entrata nel mercato sia della moneta sia dell’economia cinese tutta…”
E dunque: “la prima conseguenza della situazione cinese è la moltiplicazione delle tendenze in atto verso una deflazione mondiale tipica dell’avvento di una terribile stagnazione planetaria…
Occorre invertire il passo e capire che l’unica salvezza è fare ciò che la Cina non riesce a fare. Ossia abbandonare la via della crescita fondata sulle esportazioni e i bassi salari. Essa è fallita.
Solo i mercati interni e la creazione del capitale umano, ossia di persone ben preparate e ben pagate che lavorano sicure tutta la vita, solo una nuova economia di piena occupazione può garantire lo sviluppo e la crescita. Altrimenti faremo tutti la fine della Cina”.

5. Vi ho riportato questa analisi di Sapelli e le sue conclusioni perchè ci portano dritti a un altro interrogativo, quello vero: ma quali sono le condizioni in cui si realizza la piena occupazione e la valorizzazione del capitale umano, nella sicurezza del posto di lavoro?
Noi lo sappiamo; lo abbiamo visto tante volte. Ci piacerebbe che Sapelli sviluppasse il discorso esplicitamente.

6. E lo stesso vale per Krugman che sul NY Times di oggi, ci racconta: “Cosa sta causando la contrazione globale? Probabilmente un misto di fattori. La crescita demografica sta rallentando in tutto il mondo (…!) e nonostante tutto i clamore sulle nuove tecnologie, non pare si stia creando nè un innalzamento della produttività nè la domadna per investimenti nelle imprese. L’ideologia dellìasuterità, che ha condotto a una debolezza senza precedenti nella spesa pubblica, si è aggiunta al problema. E la bassa inflazione in tutto il mondo, che singifica bassi interessi anche quando le economie sono in espansione, ha ridotto lo spazio per tagliare i tassi quando le economie sono indebolite….I “policy makers” dovrebbero seriamente prendere in esame la possibilità che l’eccesso di risparmio (ndr: figlio delle logiche export-oriented, della finanziarizzazione e della redistribuzione verso l’alto della ricchezza, in una frase, figlie di questo mercato del lavoro – Draghi dixit- dove il salario segue la produttività reale e non quella nominale), la persistente debolezza globale è la nuova normalità”

7. E allora?
Per Krugman: “La mia sensazione è che ci sia una profonda mancanza di volontà, anche tra i più sofisticati responsabili delle politiche economiche, di accettare questa realtà”.
E Krugman ci pare eccessivamente cauto e, anzi, “eufemistico”, quando aggiunge:
“Ciò è in parte (?!) dovuto a “special interests”: Wall Street non vuole sentire che un mondo instabile esiga una forte regolazione finanziaria, e politicamente chi vuole distruggere il welfare State non vuole sentire che la spesa pubblica e l’ndebitamento non siano problemi nella situazione attuale”.
Krugman, dunque, fa un passo in più, rispetto alla diagnosi senza terapia di Sapelli. Come al solito, il problema è la democrazia in senso sostanziale. Quella “lavoristica” che si rivela, più che mai, il vero motore dello sviluppo sostenibile.

7. La democrazia costituzionale italiana, per dire…
Speriamo che, visto che l’€uropa è quanto di più lontano e anzi di opposto a questo modello, qualcuno se ne ricordi e lo rivendichi. Magari la Corte costituzionale, anche se è molto improbabile ormai.
Magari qualche rinascente partito di massa: ma senza finanziamento pubblico ai partiti, – cioè senza la garanzia che non siano i gruppi finanziari più forti ad indirizzare il gioco elettorale nella “finzione idraulica” -, la Wall Street di turno (è un marchio “politico” di frande suggestione e diffusione) ci può sempre trascinare sempre più nel baratro.
Con nuove riforme strutturali e privatizzazioni…

LA GUERRA SPORCA DEL PRESIDENTE TURCO ERDOGAN IN SIRIA, IRAQ E TURCHIA

Per comprendere in che frangente viviamo bisogna inquadrare tutta l’area del Mediterraneo, il Medio Oriente e il confine di demarcazione fra Russia e Unione europea. La Turchia e il suo sogno di ricreare un impero ottomano vi giocano un ruolo importante

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Maurizio Blondet 10 agosto 2015, via Luciano Garofoli

Dal 24 luglio il governo turco di Recep Erdogan ha deciso di lanciare un’offensiva militare su vasta scala diretta a colpire il califfato islamico più noto come ISIS, ma (o invece) nell’offensiva ha anche incluso attacchi massicci e forse preponderanti, contro i ribelli separatisti curdi: In pratica la tregua stabilita quattro anni fa sfociata in un cessate il fuoco tra Turchia ed il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

I Turchi hanno mantenuto sempre una posizione piuttosto rigida a proposito della spinosa questione dei Curdi. Innanzitutto negano assolutamente l’esistenza storica di un Kurdistan e dicono che questa entità statale fantasma è assolutamente una menzogna.

Il popolo Curdo abita una vasta area che si estende tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e parte dell’Armenia: questa vasta area geografica, divisa tra questi vari stati è abitata da circa 40 milioni di curdi: quindi non una piccola ed irrilevante minoranza etnica, come invece sostiene il governo turco. Effettivamente sono la quarta etnia mediorientale dopo arabi, persiani e turchi.

Tutt’altro!

In sostanza sono uno dei più grandi gruppi etnici privi di un’entità statuale autonoma: parlano una serie di dialetti compresi da tutti, in cui si suddivide la lingua curda, la quale fa parte del ramo iranico delle lingue indoeuropee che loro chiamano Màda.

I Curdi moderni discendono dagli abitanti dell’antico Regno di Corduene, noti anche come Carduchi, a loro volta discendenti dagli antichi Medi, con apporti di Sciti e Galati, queste popolazioni di stirpe celtica.

Diamo un’occhiata ai vari stati che ”ospitano” i Curdi ( a dire il vero tutti molto malvolentieri): cominciamo con l’Iran.

Qui nel secondo dopoguerra fu proclamata la Repubblica di Mahabad, la quale ebbe una vita effimera. Lo Scià Reza Pahlavi dovette a lungo confrontarsi con la guerriglia dei Curdi, guidati dallo sceicco Mustafa Barzani. Dietro questa insurrezione di spontaneo c’era ben poco: l’Iraq, ma soprattutto l’URSS soffiavano sul fuoco della rivolta per poter mettere le mani, o in qualche modo dividersi le risorse petrolifere iraniane e privare l’occidente di una linea strategica di rifornimento essenziale da un punto di vista economico. Lo Scià ha sempre esercitato una fortissima repressione nei confronti della guerriglia ed i mezzi usati dagli iraniani furono molto brutali: esecuzioni sommarie, torture, processi sommari. Il tutto durò fino al 1974 anno in cui gli Irakeni si resero conto che continuare a fomentare la guerriglia non gli era di nessun giovamento, anzi a lungo andare avrebbero avuto dei grossi problemi anche nella loro zona quindi cessarono gli aiuti ai ribelli e lo Scià poté ristabilire un potere centrale abbastanza rigido. Quanto ai russi dal 1979 iniziarono l’occupazione dell’Afghanistan e strategicamente non avevano nessun interesse nell’interessarsi dei Curdi.

Iraq: qui essi sono il 17% del totale della popolazione. Vivono prevalentemente nella parte settentrionale del paese in quella regione che viene denominata Kurdistan iracheno. Sono anche presenti a Kirkuk, Mossul, Khanaqin e Baghdad. Circa 300.000 curdi vivono nella capitale irachena, 50.000 nella città di Mossul e circa 100.000 nell’Iraq meridionale. Dohuk è la città più piccola, ed è considerata la capitale del Badinan.

Nel 1983 da Abril ne sparirono 8.000 e tutt’oggi di loro non si sa più nulla. Nel 1985 altri 3.000 ragazzi curdi sono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene: sembra fossero stati catturati come ostaggi per obbligare i loro parenti a consegnarsi alle autorità. Nel biennio 19871988 è stata fatta la più grande repressione nei confronti dei Curdi: in questa occasione le autorità irachene usarono armi chimiche con migliaia di morti s’intravvede un preciso disegno politico teso all’eliminazione dei curdi iracheni, quasi una pulizia etnica.

Nel 1988 furono uccisi 5.000 Curdi in soli due giorni a seguito di un attacco chimico; dieci giorni dopo nel Qaradash è stato lanciato un altro attacco chimico: 400 sopravvissuti sono stati arrestati e giustiziati, mentre cercavano di raggiungere un luogo di cura. Nel 1988 le autorità turche affermarono di aver dato asilo a ben 57000 rifugiati Curdi.

Riguardo a queste ultime affermazioni bisogna tener presente che esse in parte sono inquinate dalla disinformazione dei vari servizi occidentali, tutti tesi a presentare la brutalità del regime di Saddam Hussein; la stessa affermazione che la Turchia avrebbe dato asilo a ben 57000 rifugiati, sembra un po’ in contraddizione con tutto quello che i vari governi di Ankara hanno poi effettivamente messo in essere nei confronti di questa popolazione.

Siria: qui la popolazione gode di una relativa tolleranza. Infatti quando nel 1966 Hafiz Assad prese il potere con un colpo di stato, fu appoggiato dagli alauiti a cui egli apparteneva, ma anche da Drusi, Cristiani e Curdi i quali temevano una deriva integralista dei mussulmani sunniti allora classe dominante del paese. Quando però si iniziò una forte campagna di arabizzazione della Siria moltissimi furono i Curdi che persero la cittadinanza. E’ bene ricordare che i governi della Turchia e della Siria stipularono un accordo di concessione reciproca che permetteva alle truppe di entrambe le nazioni di inseguire ed attaccare i ribelli curdi anche oltre i confini se questo fosse stato necessario.

Turchia: anche sotto la Sublime Porta i Curdi non godevano assolutamente di molta simpatia e di nessuna libertà. Con l’avvento dei Giovani Turchi le cose andarono peggiorando in quanto l’accento era fortemente posto sul nazionalismo ottomano, che chiaramente cozzava con quello curdo. Per loro fu coniato il termine Turchi di montagna e mai e poi mai si parlava di Kurdistan o di concessioni politiche o di autonomia nei loro confronti. Durante il periodo del genocidio armeno, le autorità di Istanbul giocarono davvero sporco cercando di prendere due piccioni con una fava. Fecero di tutto per contrapporre Curdi ed Armeni creando un clima di odio tra le due etnie. Nell’est della Turchia le stragi, gli incendi, gli assassini, i rapimenti e le discriminazioni odiose si ripetevano ogni giorno e chi aveva la peggio, erano quasi sempre gli armeni i quali vivevano integrati nel tessuto sociale del paese. Moltissimi dei reparti impegnati dal governo contro gli Armeni erano formati da elementi curdi. La maggior parte degli aguzzini più feroci, naturalmente, appartenevano a questa etnia.

Il gioco di eliminazione incrociata sortì solo parzialmente l’effetto sperato, ma addirittura servì, al contrario, a ricompattare ed aumentare le aspirazioni all’indipendenza del Kurdistan.

Dopo l’ingresso della Turchia nella struttura militare della Nato, la zona con più alta concentrazione di Curdi, cioè la parte est del paese, divenne strategicamente molto importante per la difesa dell’occidente. Gli americani impiantarono due grosse basi militari nel sud est dell’Anatolia.

Una ad Incirlik, a 12 chilometri ad est di Adana.

Essa è una base aerea estremamente importante, in quanto la USAF vi localizzò subito dopo la sua apertura, degli importanti gruppi aerei comprendenti sia caccia, sia bombardieri d’assalto: la frontiera dell’Unione Sovietica era distante soltanto poche centinaia di chilometri, quindi soltanto qualche decina di minuti di volo separavano il dispositivo difensivo americano dal confine caldissimo dell’URSS. Ma c’è di più il governo americano fece diventare la base il centro delle missioni di ricognizione e spionaggio ad alta quota, missioni che venivano eseguite dagli U2 (Dragon Lady dal nome di un famoso fumetto americano dell’epoca), jet che raggiungevano una quota altissima di navigazione ed avevano un’autonomia davvero formidabile: pensate che le missioni cominciavano in Anatolia e terminavano ad Anchorage in Alaska.

L’altra base è posizionata a Dyarbakir, questa in pieno Kurdistan. Gli Usa istallarono qui, oltre ad un gruppo di intervento aereo avanzato, anche decine di chilometri di antenne per la sorveglianza radar ed elettronica del territorio russo. I Turchi ovviamente, per evitare attentati, insurrezioni o colpi di mano, magari fomentati dell’URSS attraverso la popolazione curda, imposero lo stato d’assedio con regole rigidissime. Qualsiasi trasgressione veniva punita con la pena capitale attraverso impiccagione sulle piazze delle città che avevano visto il verificarsi degli episodi.

Lo stato d’assedio è stato revocato solo in tempi recentissimi.

Questo lo scenario che precede gli ultimi avvenimenti.

Erdogan ha sempre avuto un atteggiamento piuttosto ondivago nella conduzione della sua politica estera: atteggiamenti contrastanti li ha posti in essere sia nei confronti del dramma palestinese, sia nei confronti di Israele.

Ha negato l’uso delle basi turche di Incirlik e di Dyarbakir agli americani all’inizio della guerra condotta contro l’Iraq. Ha tollerato lo smembramento di fatto del medesimo e la creazione di uno stato curdo autonomo nel nord del paese, salvo poi prendere le distanze quando gli occidentali hanno cominciato pesantemente ad armare i Peshmerga in funzione anti Califfato. Non meno ambiguo è stato l’atteggiamento nei confronti della Siria: prima ha appoggiato Assad, poi ha improvvisamente fatto macchina indietro ed ha cominciato a prendere le distanze dal legittimo governo siriano. Contemporaneamente ha stretto relazioni commerciali importanti con la Russia di Putin che come si sa appoggia Assad.

Ma l’atteggiamento più ambiguo e più equivoco è quello tenuto nei confronti dell’ISIS, talmente ambiguo da sembrare che la Turchia fornisca, aldilà delle prese di posizione ufficiali di pura circostanza, appoggio copertura e forniture belliche ai fondamentalisti islamici.

Ed ora la nuova trovata di questa operazione antiterrorismo contro ISIS, ma ben più concretamente incentrata contro il PKK che non contro i fondamentalisti: da evidenziare che la Turchia, appena partita la serie di raid aerei americani contro l’ISIS si è guardata bene dal partecipare direttamente ai medesimi: né ha alzato un dito per aiutare i Curdi nella difesa di Kobane, nonostante fosse a portata di tiro dei cannoni dei carri armati schierati a protezione del confine.

Alla fine il 20 luglio l’attentato terroristico a Suruc, città vicino al confine meridionale con la Siria: durante una manifestazione di giovani socialisti che chiedevano il permesso di poter costruire una biblioteca ed un parco a Kobane appena riconquistata dai combattenti curdi, ma allo stesso tempo anche simbolo del Kurdistan siriano.

Tra i manifestanti c’era infiltrata anche una ragazza che si è fatta saltare in aria immolandosi per l’ISIS e causando una carneficina. Alla fine i morti erano 32 tutti molto giovani: ovviamente l’impatto psicologico sulla popolazione e la prossimità di un impegno elettorale, hanno giocato a favore di una reazione violenta ed immediata contro i mandanti dell’attentato.

Erdogan ha deciso di lanciare un’offensiva antiterrorismo contro l’ISIS senza precedenti, ma ha finito per scatenare un’offensiva militare sia contro le strutture dell’apparato militare del Califfato, sia contro quelle del PKK. Gli F16 turchi hanno colpito sia le città di Qandil , Avashin e Basya nel nord dell’Iraq e in Turchia Sirnak centro operativo delle strutture militari del PKK.

Quindi la lotta contro la “minaccia terroristica” si è abbattuta come un’ascia a doppio taglio: si doveva colpire contemporaneamente, vista la situazione di emergenza, sia l’ISIS, sia anche il nemico separatista curdo che stava strutturando le sue forze per resistere agli attacchi del Califfato, ma che comunque, secondo la visione del governo di Ankara, starebbe poi lavorando in prospettiva per la creazione di un grande stato curdo sottraendo vasti territori anche alla Turchia.

E’ doveroso ricordare che tra alti e bassi, la guerriglia condotta dal braccio armato del PKK, dura da più di 30 anni ed è costata ben 40000 morti da entrambe le parti.

Spendiamo due parole per chiarire meglio chi sia il PKK la cui sigla indica il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Esso nasce nel 1978 su iniziativa di Abdullah Öcalan il quale era un militante di gruppi studenteschi di estrema sinistra, durante il periodo della contestazione studentesca all’Università di Ankara.

Come ben si sa certe formazioni nascono e prosperano assolutamente in modo tutt’altro che spontaneo, altrimenti non avrebbero avuto i mezzi necessari per crescere e portare avanti i loro obiettivi di lotta: anche questo non fa, ovviamente eccezione.

Alcune fonti sostengono che Öcalan sia stato aiutato a fondare il PKK dalla Siria, interessata a destabilizzare la zona per rallentare i lavori di costruzione della diga Atatürk sull’Eufrate, la quale avrebbe lasciato in mano alla Turchia il totale controllo sulla portata dell’acqua del fiume regolandone a proprio piacimento il flusso in uscita. Anche la Grecia e l’Unione Sovietica, generalmente interessate a destabilizzare la Turchia, avrebbero appoggiato il PKK. Il condizionale è soltanto un modo per evidenziare una realtà che nessuno ha interesse a svelare anche dopo anni dalla fine della guerra fredda.

La Grecia sosteneva in modo più discreto il PKK in quanto entrambe le nazioni facevano parte della struttura dell’Alleanza atlantica; ma la Siria agli inizi aveva addirittura concesso all’organizzazione, una base di addestramento sul proprio territorio. I rapporti fra Siria e Turchia si fecero tesi e nel 1998 i due paesi si trovarono sull’orlo di un conflitto armato a causa della costruzione di quelle dighe turche destinate a imbrigliare, come abbiamo appena accennato, le acque dell’Eufrate. Tuttavia, nonostante i precari rapporti tra le due nazioni, le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare subito il paese.Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di un asilo politico, sempre braccato dagli agenti dei servizi segreti turchi. Si rifugiò dapprima in Russia, da cui però fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni. L’unico sostegno rimastogli erano alcuni agenti dei Servizi segreti greci tra cui Sabbas Kalenteridis che lo scortavano continuamente per evitarne la cattura da parte dei rivali turchi, ma agendo in maniera indipendente, senza l’avallo formale del governo greco. Sappiamo bene come funzionano le cose in questi casi: tutti ne sono al corrente, ma se succede qualcosa il governo accusa i servizi di essere andati oltre i mandati loro affidati: processi, grandi rivelazioni, poi tutto finisce in una inconsistente bolla di sapone.

Öcalan aveva, nel frattempo, nominato suo legale Britta Böhler, un’avvocatessa tedesca di grande fama ed altri principi del foro in vari paesi europei tra cui l’Italia. Questi sostenevano la legittimità della battaglia da lui condotta in favore del popolo curdo, ma nessuno di loro riuscì a strappare al proprio governo la concessione dell’asilo politico. Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista. La cosa fu avallala dall’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto del PdCI.

Il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere in qualche giorno asilo politico. Ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il neo-formato governo D’Alema a ripensarci.

Il governo italiano non poteva estradare Öcalan in Turchia, paese in cui era ancora in vigore la pena di morte, né poteva concedergli asilo: la concessione dell’asilo spetta infatti, in Italia, alla magistratura, che infatti lo riconobbe a Öcalan, ma troppo tardi. Una soluzione sarebbe potuta arrivare dalla notifica, da parte del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, del mandato di cattura in vigore contro di lui in Germania, ma Schröeder probabilmente non volle creare tensioni nell’ampia minoranza di immigrati curdi in Germania. Dopo 65 giorni, il 16 gennaio 1999, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi, in Kenia. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana, che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.

Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi. Fu quindi fatto salire a bordo di un aereo e portato in Turchia, dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza ad İmrali, un’isola del Mar di Marmara. Il suo arresto provocò immediatamente una serie di massicce proteste di curdi e non, che in vari punti del globo presero d’assalto le sedi diplomatiche greche. Essi ritenevano che il loro capo fosse stato tradito dai Greci e che proprio questi lo avessero consegnato al nemico. Anche in Italia a causa dell’arresto vi furono manifestazioni di protesta: a Roma sfociarono in scontri che portarono a perquisizioni ed arresti.

Una volta prigioniero, scampò la pena di morte, abolita dalla Turchia nell’agosto del 2002 su pressione dell’Unione europea, ed oggi il capo del PKK sconta l’ergastolo nel carcere dell’isola sul Mar di Marmara in completa solitudine.

Il PKK è stato definito organizzazione terroristica da molti organismi internazionali ed anche da vari stati: Turchia in testa, Stati Uniti, Unione europea, Siria, Canada, Iran ed Australia.

Oltre all’offensiva aerea è scattato anche un vasto giro di vite per colpire l’opposizione interna al governo di Erdogan: a partire dal 24 luglio,

in una settimana di operazioni repressive, vengono eseguiti 1.300 arresti, per lo più di militanti curdi e di sinistra di queste soltanto il 10% è sospettato di essere vicino allo Stato islamico. 96 siti internet, per lo più orientati a sinistra, sono stati bloccati dal governo, e almeno 190 sono le vittime dei raid aerei turchi nel nord dell’Iraq. Erdogan ha chiesto ai giudici di rimuovere i deputati del Parlamento del Partito Popolare Democratico (HDP), che condivide radici ideologiche e circoscrizioni elettorali con il PKK; “Per i suoi legami con gruppi terroristici”.

Questo partito di sinistra e filo-curdo ha aumentato la sua presenza in occasione delle elezioni del giugno scorso, arrivando al 13% dei voti ed ottenendo ben 80 seggi su un totale di 500 nel Parlamento, mentre l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza assoluta dopo 13 anni di egemonia assoluta parlamentare.

Poche ore dopo i primi attacchi aerei, quindici dipendenti di una centrale elettrica turca Sirnak, nel sud-est, sono stati rapiti dai militanti del PKK: questa la risposta agli attacchi, i ribelli.

Ovviamente l’offensiva militare turca è stata duramente condannata anche dalle autorità del Kurdistan irakeno: il presidente Massud Barzani ha espresso disapprovazione ed ha anche denunciato il livello di pericolosità della situazione.

Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon ha invece dato il suo avallo all’operazione antiterrorismo di Ankara ed ha definito gli attacchi come atti di legittima autodifesa. Amaramente dobbiamo costatare come ormai soltanto il Governo italiano ed il Papa continuino ad avere una cieca fiducia in questa obsoleta istituzione internazionale: per poter intervenire in Libia per fermare gli sbarchi di migranti l’Italia aspetta fiduciosa il pronunciamento delle Nazioni Unite che non arriverà mai. Sarebbe una contraddizione che l’ONU, dopo aver avallato i piani per trasferire in Europa 140 milioni di disperati all’improvviso desse il permesso di interrompere il flusso migratorio.

Quanto al Pontefice forse spera, invano, di diventare il Segretario generale dell’Onu delle religioni e capo della nuova sola religione adogmatica mondiale: Dio lo converta!!

In realtà Erdogan ha avuto il via libera, per questa operazione antiterrorismo, dagli Stati Uniti i quali, in cambio hanno ottenuto l’uso delle basi turche, in territorio curdo, per le operazione della coalizione anti ISIS. Ma se Erdogan si presenta anche mostrando i muscoli come forza anti ISIS della regione, ha tuttavia sia permesso il transito di militari del Califfato sul proprio territorio, sempre in funzione anti curda; sia è diventato la plaque tournante per tutti quei combattenti di ogni nazionalità che desiderano unirsi alle forze yidahiste nei territori controllati dagli integralisti islamici; il tutto non può essere avvenuto senza almeno un tacito consenso da parte statunitense: qualcosa non quadra!

Il 25 giugno l’ISIS ha compiuto tutta una serie di attentati spettacolari e di vasta risonanza mediatica a Kobane, Francia, Turchia, Somalia e Kuwait: nella regione di Rojava con epicentro a Kobane, appena ripresa alle forze del Califfato, i Curdi hanno gettato le basi per una repubblica democratica libertaria, con concezioni ideologiche molto simili allo zapatismo: ora la situazione sembra più chiara e ciò getta una luce particolare sulle successive decisioni di intervento militare antiterrorismo di Erdogan, il quale ormai sta spingendo sempre di più il pedale dell’acceleratore sul nazionalismo turco.

I curdi, in appoggio a questa loro iniziativa ed al loro sforzo bellico reale contro l’ISIS, stanno cercando l’approvazione della comunità internazionale che assolutamente tarda ad arrivare: troppo alta è la posta in gioco.

Mancano ancora due tasselli al completamento del mosaico: essi riguardano la Cina e la Russia. Erdogan si è recentemente recato in visita di stato a Pekino; la Repubblica Popolare cinese è insieme a Russia e Germania uno dei principali partner commerciali di Ankara. La Francia, dopo le prese di posizione a favore del genocidio armeno è stata completamente tagliata fuori dal circuito commerciale anatolico.

Erdogan nella capitale cinese ha negoziato, con successo l’acquisizione di un nuovo sistema di difesa missilistica di produzione cinese; finora gli approvvigionamenti di materiale bellico erano stati diretti esclusivamente nei confronti di Germania e Stati Uniti e sì che il budget di acquisti di armi turco è sempre stato abbastanza consistente: gli americani quadravano il cerchio da una parte rinforzando il dispositivo meridionale della Nato e dall’altra vendendo armi e non spendendo assolutamente niente nello scacchiere anatolico, se non il costo dell’affitto delle basi di Incirlik, Dyarbakir e del porto di Smirne. Una vera pacchia.

Più complesse sono le relazioni con la Russia. I recenti accordi per la costruzione di un oleodotto sostitutivo al Southstream hanno sicuramente dato un impulso positivo allo sviluppo dei rapporti bilaterali tra i due vicini.

Giorni fa, Putin ha convocato d’urgenza personalmente l’ambasciatore turco a Mosca.

The Moscow Times riferisce che:

“Il presidente russo, Vladimir Putin, ha rotto il protocollo diplomatico convenzionale ed ha convocato personalmente l’ambasciatore turco a Mosca, Ümit Yardim, per avvertirlo che la Federazione Russa intende rompere nell’immediato le relazioni diplomatiche con la Turchia a meno che il presidente turco, Recep Erdogan, metta fine al sostegno fornito all’ISIS ed ai ribelli in Siria, dove la Russia dispone della sua ultima base navale nel Mediterraneo, a Tartous.

Il presidente russo è entrato in una lunga discussione polemica criticando la politica estera turca ed ha denunciato il ruolo malevolo svolto dalla Turchia in Siria, in Iraq e nello Yemen dovuto all’appoggio fornito costantemente dal governo di Ankara ai terroristi di Al Qaeda-sauditi. Moscow Times riferisce che la conversazione con l’ambasciatore turco è divenuta molto accesa fino a sfociare in un’aspra polemica.

Secondo le informazioni filtrate, l’incontro tra Putin e l’ambasciatore turco era imbevuto da intenso risentimento reciproco. Yardim ha respinto tutte le accuse della Russia, attribuendo alla Federazione russa la causa della dura e prolungata guerra civile in Siria. La risposta lapidaria di Putin è stata “…..allora dica al suo presidente dittatore che può andare all’inferno assieme ai suoi terroristi dell’ISIS e noi faremo in modo che la Siria divenga niente di più che una grande Stalingrado, per Erdogan ed i suoi alleati sauditi che non sono meglio di Adolf Hitler”.

Putin ha aggiunto:

“Come risulta ipocrita il suo presidente visto che lui afferma di difendere la democrazia e si permette di fustigare il golpe militare in Egitto, mentre approva simultaneamente tutte le attività terroriste dirette a rovesciare il presidente siriano! “

Il presidente russo ha continuato dicendo che il suo paese non abbandonerà mai il governo legittimo in Siria e coopererà con i suoi alleati, Iran e Cina, per trovare una soluzione politica all’interminabile guerra in quel martoriato paese e che ha fatto precipitare la nazione araba in un situazione di conflitto permanente e di anarchia religiosa (Anzi, Vi aggiungo io, Putin ha dichiarato: Faremo della Siria una nuova Stalingrado!).

Per Erdogan sicuramente una grana in più ed anche un motivo di profonda riflessione su tutta la sua attività ambigua di politica estera.

TECNOCRAZIA E SINARCHIA.

PER RISPONDERE AD ALCUNI PERCHE

La tecnocrazia non è solo un fatto recente con quale bisogna fare i conti, ma anche un fenomeno che ha antiche origini, storicamente ben anteriori a quella tecnologia da essa esaltata e usata con abilità e disinvoltura morale. Tecnocrazia

Origini rivoluzionarie

La tecnocrazia nacque dalla svolta ideologica avviata all’inizio del XVI secolo dal filosofo e politico inglese Francis Bacon e dall’ambiente della Royal Society. Essi diffusero una concezione del sapere come strumento di potere, ossia di trasformazione della natura e della società mediante la scienza e le tecniche, allo scopo di ricuperare la felice condizione perduta nel Paradiso Terrestre.

Il programma tecnocratico venne elaborato poco dopo dal filosofo ebreo-polacco Jan Amos Komenski (noto come Comenius), capo della setta hussita dei Fratelli Moravi e forse membro della confraternita occultista dei Rosa-Croce. Nel suo libro Panorthosia (1644), egli progettò di assicurare la pace universale mediante una rieducazione dell’umanità realizzata da una filosofia razionale, una religione ecumenica e una lingua universale. Questa rieducazione doveva essere guidata dalla “Corte Suprema dell’Umanità”, un senato internazionale degli iniziati (con sede a Gerusalemme) diviso in tre sezioni: il “Consiglio della Luce”, ossia il tribunale culturale delle accademie scientifiche; il “Concistoro”, ossia il tribunale religioso delle Chiese; il “Consiglio della Pace”, ossia il tribunale politico dei popoli, composto però non tanto da politici quanto da “saggi illuminati” esperti nelle tecniche per manipolare le coscienze e suscitare il consenso sociale.

Questo programma fu rilanciato nel XVIII secolo da vari filosofi e politici illuministi, poi nel XIX secolo da positivisti come i francesi Claude-Henri de Saint-Simon e Auguste Comte. Secondo loro, le neonate “scienze sociali” da una parte smentivano i “dogmi” (religiosi, morali, politici) finora considerati come base della civiltà e riducevano il verum al factum, il bonum all’utile e lo justum al practicun; dall’altra parte esse permettevano di abolire ogni autorità politica, gerarchia sociale e potere statale e ridurre la vita sociale alla “gestione delle risorse e delle cose”. La guida spirituale dell’umanità doveva essere affidata ad una setta cosmopolita di tecnici-iniziati che assicurasse l’unità politica animando l’opinione pubblica con un “entusiasmo sociale”, suscitato dai mezzi di comunicazione e basato su una nuova religione umanitaria (priva di dogmi, riti, autorità e istituzioni) che identificasse Dio con l’umanità, il pensiero con l’azione, il diritto col fatto, l’uomo con la società, la felicità con il progresso economico. Questo progetto fu echeggiato nell’Italia risorgimentale da Carlo Cattaneo e dal cosiddetto Politecnico.

La sinarchia

Dalla fine del XIX secolo, la tecnocrazia s’impegnò a costruire una “Repubblica Universale” (massonica) mediante prima la Società delle Nazioni e poi l’O.N.U. Vi collaborarono movimenti come l’utilitarismo, il cooperativismo, la Fabian Society e soprattutto la cosiddetta Sinarchia nei suoi vari club, circoli e commissioni riservati o settari od occulti. Il “progetto sinarchico” fu delineato fin dal 1884 dall’occultista francese Joseph Saint-Yves d’Alveydre e fu formalizzato nel 1934 col Patto Sinarchico Rivoluzionario. Tale progetto fu poi rilanciato dal movimento europeista, guidato da vari politici liberal-socialisti come Jean Monnet, Chaban Delmas e Altiero Spinelli, e fu infine parzialmente realizzato con l’unione monetaria europea avviata dall’eurocrate Jacques Delors, un “cattolico democratico” seguace di Mounier.

Negli ultimi tempi, tramite sette globalitarie come il Bilderberg Club e la Trilateral Commission, la tecnocrazia sta tentando di passare dalla occulta influenza politico-economica all’aperta presa di potere, per via elettorale o cooptativa, sostituendo i Governi democratici nazionali con amministrazioni composte da tecnici e burocrati – solitamente provenienti dalla finanza internazionale – ritenute più affidabili nel realizzare il progetto tecnocratico senza farsi influenzare dall’opinione pubblica contraria; ne sono esempi significativi i casi dei “Governi tecnici” italiani, affidati ieri a Ciampi e Dini e oggi a Monti.

Quadro del fenomeno

La tecnocrazia consiste nel potere esercitato sulla vita civile da una certa classe tecnologica che pretende di essere priva di radici filosofiche e indipendente da ogni valutazione religiosa, morale e politica. In realtà. la tecnocrazia si basa su una precisa ideologia che presuppone: la sostituzione delle verità filosofiche, morali e politiche con gli assiomi delle scienze esatte e sperimentali; l’ideale della società programmata e costruita alla luce delle “scienze sociali”; la totale “razionalizzazione” della vita politica ed economica in senso centralizzato ed egualitario; la riduzione del processo decisionale a risultato di calcoli, statistiche, programmi e previsioni scientifici; la sostituzione del governo politico con la “gestione delle risorse umane” e l’“amministrazione delle cose”; la critica della politica come àmbito d’incompetenza, inefficienza, corruzione e particolarismo; la esaltazione dei tecnici come classe superiore alle divisioni politiche, ideologiche e religiose, capace di assicurare la pace e il benessere universali e salvare l’umanità della crisi generale; il diritto di questa classe a emanciparsi dal controllo politico e di guidare la società in nome del merito, della competenza e della efficienza.

Il manager cosmopolita

Modello della tecnocrazia è la figura del manager, ossia il dirigente-esecutore (non specialista ma funzionale a tutti i settori produttivi) consacrato all’applicazione delle regole e delle procedure amministrative, dunque privo d’ideali, di radici sociali, di patria e possibilmente anche di famiglia; tipici esempi attuali ne sono il burocrate e il finanziere cosmopoliti. Sotto la direzione della classe manageriale, la vita politico-sociale, la produzione economica e la stessa proprietà privata diventano anonime e impersonali e dunque si deresponsabilizzano, anche perché l’esercizio e il controllo gestionali degli strumenti esecutivi e produttivi sono ormai separati dalla titolarità ufficiale del diritto.

Con la “terza rivoluzione scientifica” (quella dell’automazione e del computer) è nata una nuova classe tecnocratica che ha creato una economia ancora più astratta, perché estranea non solo alla reale ricchezza ma anche alla concreta produzione e gestione dei beni; questa nuova economia virtuale risulta contraddittoria perché spinge sia alla unificazione e semplificazione dei centri decisionali e operativi, sia alla loro moltiplicazione e conflittualità globale.

Breve critica

La tecnocrazia si basa sui seguenti presupposti ideologici e propagandistici: oggettività del dato, primato dei mezzi sui fini, riconoscimento della competenza, efficacia del risultato. Ma la filosofia dimostra che il dato va sempre interpretato in base a giudizi di valore che dipendono dalle concezioni filosofiche e religiose (almeno implicite). La morale dimostra che i mezzi non giustificano di per sé i fini, anzi nemmeno li assicurano, perché ogni strumento è funzionale al suo scopo. La sociologia dimostra che la competenza tecnica non assicura il merito né la responsabilità morale e non può sfuggire al condizionamento del pregiudizio e dell’interesse, specialmente se questi rimangono indipendenti da criteri filosofici, morali e religiosi. La storia recente dimostra che spesso l’efficacia fallisce il risultato, se opera basandosi su criteri e mezzi riduttivi, astratti e impersonali. Il progetto tecnocratico costituisce quindi la caricatura e il surrogato della meritocrazia, perché riduce il merito una competenza astratta, faziosa, irresponsabile e sterile.

Per farsi accettare da una opinione pubblica che disprezza profondamente, la tecnocrazia si abbellisce con un moralismo che predica serietà, competenza, responsabilità, austerità, sobrietà, ecologia, talvolta perfino umanitarismo e religiosità. In realtà, essa mira ad ostacolare, reprimere ed abbattere non tanto l’egoismo, il consumismo e lo spreco, quanto la ricchezza reale, la proprietà privata, il risparmio, l’eredità generazionale, le libertà economiche, le libere professioni, le classi sociali e specialmente il ceto medio, ossia quella base borghese di piccoli-medi proprietari, risparmiatori e produttori che tende ad assicurare ordine, stabilità e bene comune e che quindi è refrattaria sia all’individualismo liberale che al collettivismo socialista. Non potendo sterminare questa classe usando metodi sovietici, la tecnocrazia cerca almeno d’intimorirla, paralizzarla e impoverirla con una persecuzione politica e fiscale che la consegni nelle mani del sistema burocratico-finanziario nazionale o internazionale, e cerca pure di toglierle l’assistenza della sua storica alleata, ossia la Chiesa Cattolica, danneggiandola mediante una politica economica e fiscale che colpisce le sue istituzioni caritatevoli e assistenziali. Ciò spiega come mai la tecnocrazia si allei spesso al mondo delle comunicazioni di massa e al potere socialista e sindacalista, allo scopo comune di distruggere le due basi sociali del vivere civile.

L’attuale crisi politico-economica e la conseguente emergenza sociale dimostrano il fallimento storico del progetto tecnocratico e delle sue promesse. Eppure la tecnocrazia vede di buon occhio questa crisi. Infatti le considera come una occasione storica da sfruttare, allo scopo di far ripartire la Rivoluzione ormai impantanata imponendo al popolo una dittatura tecnotronica, una politica di “austerità”, una economia “eco-solidale” e una rivoluzione sociale altrimenti inaccettabili, per il semplice fatto ch’esse conducono al degrado e alla miseria non solo materiali ma anche spirituali.

Pur di realizzare questo progetto, il vertice liberal-tecnocratico si accorda con la base social-cristiana per sospendere le regole democratiche e le istituzioni rappresentative, fino al punto da rinunciare al vecchio idolo della “sovranità popolare”. Infatti secondo loro, parafrasando un noto motto di Voltaire, “niente libertà per i nemici della libertà”; pertanto, quando un popolo si lascia sedurre dalle “tendenze conservatrici” (ossia di sopravvivenza) e strumentalizzare dalle “forze della reazione” (ossia di risanamento), allora le élites “illuminate e responsabili” debbono “costringere il popolo a farsi liberare” da loro, secondo un noto paradosso lanciato dalla Scuola di Francoforte. Le dichiarazioni recentemente fatte da guru come Scalfari, Rodotà, Flores d’Arcais, Eco e Asor Rosa, sono illuminanti.

La giusta risposta

A quest’assurda e contraddittoria pretesa bisogna rispondere in tre modi. Innanzitutto richiamando le élits a un minimo di coerenza con i loro stessi princìpi ufficiali ed esigendo ch’essa (almeno) rispetti i valori, le esigenze e i diritti di quella società che pretende di moralizzare e salvare. Poi informando il popolo sulle vere intenzioni della tecnocrazia, svelandone l’ideologia occulta e mettendo in guardia da progetti di “redenzione sociale” che si approfittano delle emergenze interne o internazionali per imporre regimi settari. Infine ammonendo élites e popolo a ritornare alla vera e integra dottrina sociale della Chiesa, che riconduce ogni autorità a Dio e ogni potere alla società civile, negando sia ad élites pretese competenti, sia a basi pretese liberatrici, il diritto di tramare contro l’Italia, il suo bene comune e la sua missione storica cristiana. Questa è oggi la vera “emergenza” che ormai richiede princìpi chiari e scelte coerenti.

Bibliografia attendibile di approfondimento

– Louis Daménie, La tecnocrazia punto d’incontro della sovverisone, Il Falvo, Milano1985

– Juan Vallet de Goytisolo, Ideologia, praxis y mito de la tecnocracia, Escelicer, Madrid 1971

– Juan Vallet de Goytisolo, Mas en torno a la tecnocracia, Speiro, Madrid 1982

– Josemarìa Caballo Fernàndez, El mito tecnotrònico, in: La Ciudad Catòlica, Los mitos actuales, Speiro, Madrid 1969, pp. 209-231

– Jacques Ellul, Le bluff technologique, Hachette, Paris 1988

– Claudio Finzi, Il potere tecnocratico, Bulzoni, Roma 1977

– Domenico Fisichella, L’altro potere. Tecnocrazia e gruppi di pressione, Laterza, Roma 1997

– José Pedro Galvão de Sousa, O Estado tecnocratico, Saraiva, São Paulo 1973

– La Ciudad Catòlica, La tecnocracia y las libertades, Speiro, Madrid 1976

– Michel Schooyans, Droits de l’homme et technocratie, C.L.D., Chambrai-lès-Tours 1982

– Michele F. Sciacca, La ofensiva de la tecnocracia contra la cultura, su “Verbo” (Madrid), nn. 85-86

– Sergio Cotta, La sfida tecnologica, Bologna 1968

– G. Tournier, Babel ou le vertige technique, Fayard, Paris 1959

da Guido Vignelli 2 agosto 2012

IL RACCONTO DI UNA SUORA TRA I VERI PROFUGHI: “CRISTIANI NON HANNO SOLDI PER IMBARCARSI”

Dove c’è la guerra vera, solo i peshmerga difendono i cristiani.

“Nei primi otto mesi dall’invasione dello Stato islamico, abbiamo perso dodici consorelle. Il loro cuore non è riuscito a sopportare tanta sofferenza”. Così suor Justina, delle suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, presenti ad Erbil, riassume ad Aiuto alla Chiesa che soffre il dramma vissuto da tante religiose costrette a fuggire dal Califfato.

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Suor Justina è rientrata dall’Italia un anno e mezzo fa. Il convento dove viveva vicino Pisa è stato chiuso e lei è tornata ad Ankawa, sobborgo a maggioranza cristiana di Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno. Appena in tempo per assistere all’esodo di 120mila cristiani che nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014 hanno abbandonato la Piana di Ninive per trovare rifugio in Kurdistan.

“È impossibile descrivere quanto è accaduto in quei giorni. Intere famiglie hanno perso tutto. Per paura di essere uccisi dallo Stato Islamico sono scappati senza neanche prendere i documenti”, ha spiegato.

Assieme ai profughi, alla casa delle domenicane di Ankawa sono giunte anche molte consorelle fuggite dalle città e dai villaggi caduti in mano ad Isis: “Sono arrivate in lacrime, traumatizzate, stanche, sporche”.

Tra loro, suor Lyca, che racconta le dieci interminabili ore di viaggio verso Erbil. Per tutta la giornata del 6 agosto, mentre molti altri abitanti di Qaraqosh erano già fuggiti, le religiose sono rimaste nel villaggio cristiano per sostenere i fedeli terrorizzati. “Speravamo che la minaccia sarebbe durata soltanto alcuni giorni – ricorda – ma quando i peshmerga hanno smesso di difenderci, abbiamo capito che non vi era più alcuna speranza”.

Le religiose hanno lasciato il convento alle 11.30 di sera. In condizioni normali sarebbe stata sufficiente un’ora per raggiungere Erbil, ma le strade erano invase da macchine e famiglie in fuga e le religiose hanno camminato fino al mattino seguente, senz’acqua e con una temperatura di oltre 40 gradi.

“In marcia ai bordi della strada vi erano migliaia e migliaia di persone, mentre ogni macchina ospitava almeno dieci passeggeri”, precisa.

Nonostante il grave shock subito, appena giunte ad Ankawa le suore domenicane si sono messe al servizio dei rifugiati.

Alcune di loro vivono in uno dei container donati da Aiuto alla Chiesa che soffre ai profughi cristiani. Non hanno certo soldi per pagare scafisti e trafficanti: “Ci impegniamo soprattutto per garantire un’educazione ai ragazzi – dichiara ad Acs suor Diana – facciamo del nostro meglio ma purtroppo non è abbastanza. Isis sta uccidendo il nostro futuro, perché se questa generazione non riceverà un’istruzione non ve ne sarà un’altra”.

Questi sono veri profughi. Infatti non sbarcano. Perché decide ISIS chi può arrivare in Europa: e sono tutti islamici.

Poi ci sono gli africani. Ma loro, con la guerra, non c’entrano nulla.

Noi dimentichiamo di aiutare i veri profughi di guerra, per mettere in hotel i clandestini: perché fa guadagnare Mafia Pd/Vaticano.

Se usassimo un decimo di quello che spendiamo in hotel per assistere i profughi veri in Siria e Libano, allevieremmo tante sofferenze. Ma non è questo che interessa i nostri governi: a loro interessa ‘muovere le popolazioni’, per creare una massa indistinta facilmente dominabile.

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La drammatica ricostruzione dell’economista Nino Galloni

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Non si finisce mai di imparare e quando vengono alla luce determinate verità, ci si rimane davvero meravigliati della falsità che fa da padrona in questo mondo corrotto.

Ormai non si governa per portare avanti un popolo, non si vive con ideali veri…Ma si va avanti con l’esigenza di sopraffare l’altro a tutti i costi e con ogni mezzo a disposizione!

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Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora Ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese.

Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi……

A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. Nel  1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca.

Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».

Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, e il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa.

Alla fine degli anni ‘80, Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’ investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione.Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’ idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: racconta Galloni , “feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’ acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione». Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto… Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’ economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’ altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia.

Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema.
Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil.

Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita».

A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico».