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6007.- Gli Accordi di Abramo dopo l’attacco a Israele


Da Affari Internazionali, di Eleonora Alemagni, 9 Ottobre 2023

Dopo il brutale attacco di Hamas a Israele, lo schema degli Accordi di Abramo, che doveva presto culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele, entra in crisi. Congelato, indebolito, posticipato da una guerra dai confini ancora imprevedibili. Tuttavia, è ancora presto per escludere che sauditi e israeliani instaurino, nel medio-lungo periodo, rapporti ufficiali: “Ogni giorno ci avviciniamo di più a un accordo” diceva in un’intervista americana, solo due settimane fa, il principe ereditario saudita. Per Mohammed bin Salman, tornare sui propri passi rispetto a Israele sarebbe infatti una sconfitta troppo grande, un segno di debolezza politica interna e regionale, poiché rimetterebbe in discussione la strategia di politica estera del regno.

Le tappe della normalizzazione

Per Riyadh, la normalizzazione con Israele era diventata una priorità, poiché legata alla leadership regionale, nonché alla ridefinizione dell’alleanza con gli USA. Insieme al riconoscimento di Israele, i sauditi stavano infatti negoziando garanzie di sicurezza con Washington nonché il supporto americano al loro programma nucleare per uso civile. E poi c’è la diversificazione economica post-oil di Vision 2030, che necessita di stabilità e interdipendenza regionale. Se Riyadh facesse retromarcia nei confronti di Israele, regalerebbe poi spazi geoeconomici agli Emirati Arabi Uniti, alleati ma competitor; basti pensare –per fare solo un esempio – al progetto del Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa lanciato al G20 di New Delhi e firmato, anche, da sauditi, israeliani ed emiratini.

E poi c’è un fattore ancora più importante, quello della reputazione. Seppur informali, i progressi tra sauditi e israeliani erano sempre più visibili, come la visita del ministro del turismo d’Israele in Arabia appena il 26 settembre scorso. Certo, Mohammed bin Salman ha mostrato più volte di essere un giocatore spregiudicato, a cominciare dal caso Khashoggi; ma nel caso di Israele, un ripiegamento di linea minerebbe la forza della sua leadership, che ne uscirebbe indebolita.

Ecco che allora, più degli Accordi di Abramo già firmati e (forse) futuri, è la tenuta delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, datata marzo 2023, a rischiare di più con la guerra tra Hamas e Israele. Se il plausibile ruolo dell’Iran nell’organizzazione dell’attacco contro Israele venisse accertato e, soprattutto, se gli Hezbollah libanesi e/o le milizie sciite siriane dovessero unirsi alla guerra di Hamas, la distensione tra Arabia Saudita e Iran sarebbe a rischio. L’unico punto (pubblico) del documento siglato a Pechino dai rivali storici del Golfo è la non ingerenza negli affari reciproci: però, il ruolo offensivo delle milizie filo-iraniane e il loro arsenale missilistico sono –ancor prima del nucleare di Teheran- il vero spauracchio delle monarchie del Golfo, a cominciare dallo Yemen.

Proprio per comprendere in anticipo gli obiettivi che l’Arabia Saudita sta perseguendo in Medio Oriente, occorre osservare la politica estera del Bahrein, paese fortemente legato a Riyadh. Nel 2020, Manama ha firmato gli Accordi di Abramo con Israele e nel settembre 2023 ha siglato con gli Stati Uniti un’intesa che rafforza la cooperazione bilaterale, con al centro sicurezza e difesa. Questa è esattamente la direzione strategica che l’Arabia Saudita stava seguendo al momento dello scoppio della guerra Hamas-Israele.

Il Bahrein non è certo un battitore libero. Tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), è quello che più dipende da Riyadh per energia (uno dei due giacimenti petroliferi offshore, Abu Safah, è condiviso con i sauditi), economia (nel 2011 e nel 2018 ha ricevuto aiuti finanziari da Riyadh e dalle monarchie vicine) e difesa (il dispiegamento della Guardia Nazionale saudita fu decisivo per reprimere la rivolta dei bahreiniti, prevalentemente sciiti, nel 2011).

Il piccolo regno, in realtà un arcipelago di trentatré isole collegato all’Arabia Saudita tramite un ponte di circa venti chilometri, persegue obiettivi pressoché sovrapponibili a quelli di Riyadh, condividendo rischi di sicurezza e destino nella regione. Con la differenza che il Bahrein può muoversi, in politica estera, più agilmente del gigante saudita, poiché privo del suo peso religioso, economico e dunque geopolitico.

Ecco il motivo per cui Manama ha potuto giocare d’anticipo –d’intesa con i sauditi- rispetto alla stessa Riyadh. Tra Bahrein e Arabia Saudita, c’è qualche differenza solo a proposito dell’Iran. Ma in questo caso, la monarchia bahreinita di confessione sunnita, da sempre particolarmente guardinga nei confronti di Teheran data la maggioranza sciita della popolazione, ha assecondato fin qui la de-escalation tra sauditi e iraniani poiché Riyadh è il suo primo garante di sicurezza.

L’accordo di sicurezza tra Bahrein e Israele

Dopo gli Accordi di Abramo del 2020, il Bahrein ha siglato un’intesa di sicurezza con Israele nel 2022, fin qui l’unico patto di difesa tra un paese del Golfo e gli israeliani. L’accordo comprende la cooperazione in materia di intelligence, industria della difesa e tra forze armate (military-to-military) , incluse le esercitazioni militari congiunte. Bahrein e Israele condividono una lettura analoga degli equilibri mediorientali, poiché entrambi guardano all’Iran come a una minaccia diretta alla sicurezza. Con l’accordo, Israele trova un alleato di sicurezza che si affaccia nel Golfo, proprio di fronte all’Iran. Invece, la popolazione bahreinita (come i vicini sauditi) rimane diffusamente tiepida rispetto alla normalizzazione con Israele: il turismo verso Tel Aviv e Gerusalemme è ancora assai contenuto, così come l’interscambio commerciale, e non sono mancate proteste contro la normalizzazione, specie da parte sciita.

Il patto con gli USA verso la difesa integrata

Nel settembre 2023 il Bahrein, già sede della V Flotta USA e major non-NATO ally dal 2002, ha poi rafforzato la cooperazione bilaterale con gli Stati Uniti, firmando a Washington il Comprehensive Security Integration and Prosperity Agreement (C-SIPA). L’accordo -non un trattato, che implicherebbe invece l’approvazione del dubbioso Congresso USA- include commercio, tecnologie e investimenti, ma è centrato su sicurezza e difesa. In caso di attacco, le parti si riuniranno per “determinare le ulteriori necessità di difesa, sviluppare e applicare risposte appropriate in tema di difesa e deterrenza”, incluse quelle militari.

Con questo passaggio-chiave, il Bahrein ha ottenuto da Washington quelle garanzie di sicurezza che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti chiedono da tempo e stanno ora negoziando. Non a caso l’accordo, che vuole sottolineare l’impegno degli USA nel Golfo ma senza stipulare un trattato, contiene un riferimento all’architettura regionale di sicurezza ed è aperto all’adesione di altri Stati. Manama e Washington si impegnano al «rafforzamento dell’integrazione dei sistemi difensivi e delle capacità di deterrenza», soprattutto nel dominio aereo e marittimo.

L’obiettivo è quindi la difesa integrata: lavorare come partner per identificare, contrastare e, se necessario, rispondere alle comuni minacce di sicurezza. Tra gli ambiti da integrare, il testo menziona difesa antimissilistica, intelligence e cybersecurity, forze speciali, comunicazione strategica.

Ferite vecchie e nuove

Il piccolo Bahrein, anch’esso impegnato nella realizzazione della propria “Vision 2030” che lo traghetti oltre la dipendenza dagli idrocarburi, è dunque al centro dei nuovi assetti di sicurezza mediorientali e internazionali. Improbabile che Manama, dopo l’attacco di Hamas a Israele, ristabilisca presto le relazioni diplomatiche con Teheran (in questo caso sarebbe dopo l’Arabia Saudita). Al momento, il Bahrein è infatti l’unico membro del CCG a non avere un ambasciatore nella Repubblica Islamica. Pesano ancora le accuse del governo bahreinita all’Iran di aver fomentato le proteste del 2011, che misero davvero a rischio la stabilità del regno, nonché di sostenere formazioni locali che si ispirano a Hezbollah .

Nonostante l’ombrello di protezione dell’Arabia Saudita, il Bahrein deve fronteggiare un contesto problematico, anche interno. L’accordo con gli Stati Uniti è stato firmato nei giorni in cui circa 800 detenuti bahreiniti, arrestati per le rivolte del 2011, terminavano uno storico sciopero della fame collettivo, durato 36 giorni, organizzato per protestare contro le condizioni di vita in carcere . Talvolta, il Bahrein paga la vicinanza politica a Riyadh. Per esempio, Il 26 settembre scorso, quattro militari bahreiniti sono morti al confine saudita-yemenita (Manama fa parte della Coalizione militare a guida saudita che interviene militarmente in Yemen dal 2015), per l’attacco di un drone attribuito agli houthi yemeniti. Un probabile messaggio degli houthi a Riyadh, scontenti dell’andamento dei colloqui bilaterali, che ha colpito l’alleato più stretto del regno. Letto con gli occhi del dopo 7 ottobre, il primo segnale che qualcosa stava rapidamente cambiando nel quadrante. Un episodio, non inedito, che dà il senso dei rischi –e non solo dei benefici- di condividere il destino dei sauditi in Medio Oriente.

6004.- Assalto a Israele, pesa il fallimento della politica estera Biden

La politica estera di Biden ha minato la tessitura degli “Accordi di Abramo” che isolavano Iran, Hezbollah e Hamas. E lo scontro con Putin ha messo in imbarazzo Israele, che con Mosca ha rapporti economici e politici. Un effetto domino di disastri, che polarizza l’odio anti-ebraico per la gioia dei fondamentalisti.

«Noi israeliani, ora più uniti che mai»

Da La Nuova Bussola Quotidiana, di Patricia Gooding Williams, 21_10_2023

La visita del presidente statunitense Joe Biden in Israele è stata giudicata dalla maggior parte degli osservatori come un gesto forte e inequivocabile di solidarietà con lo Stato ebraico – unitamente al dispiegamento di unità della flotta davanti alle coste del Mediterraneo orientale – nel momento delicatissimo che quest’ultimo sta attraversando dopo il terribile eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre entro i suoi confini, e nei giorni della difficile rappresaglia contro i fondamentalisti nella striscia di Gaza. Ed è stata parimenti interpretata da molti come un tentativo di evitare una escalation di violenza nella regione, cercando di moderare la reazione israeliana e di lasciare aperti margini di dialogo e negoziato con il mondo arabo.

Ma essa dovrebbe essere in realtà letta a buon diritto innanzitutto come un tentativo di porre almeno parzialmente rimedio a una catena di eventi negativi per gli interessi statunitensi e occidentali innescati proprio dalla fallimentare strategia di politica estera portata avanti dalla stessa amministrazione Biden.

Quest’ultima, infatti, a partire dal 2021 ha demolito sistematicamente, con esiti disastrosi, alcune linee fondamentali della politica internazionale promossa dal predecessore di Biden, Donald Trump. In primo luogo, ha minato la paziente tessitura che Trump aveva compiuto con gli “Accordi di Abramo” (siglati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein) per riavvicinare lo Stato ebraico ai paesi più influenti dell’islam sunnita, e soprattutto all’Arabia Saudita, e favorire così una stabilizzazione complessiva dell’area, isolando gli agenti disgreganti ed estremisti come l’Iran, Hezbollah e lo stesso Hamas.

Fin dalla campagna elettorale, e poi una volta in carica, Biden ha tenuto invece un atteggiamento apertamente ostile al regime del principe Mohammed Bin Salman, giustificandolo con l’uccisione del giornalista dissidente saudita Jamal Kashoggi, di cui Salman era sospettato di essere responsabile. E, all’inverso, egli ha avviato una politica di dialogo con il regime degli ayatollah iraniani, cercando di riavviare il processo negoziale sul nucleare di Teheran, che Trump aveva fermato nel 2018 revocando il trattato che era stato negoziato nel 2015 ad opera dell’amministrazione Obama.

Un rovesciamento che ha rafforzato gli iraniani, dando ad essi maggiori margini di manovra sullo scacchiere mediorientale (usati da questi ultimi per rafforzare i propri legami con Cina e Russia), e indebolendo decisamente Israele. E che è culminato nello sblocco di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani congelati negli Stati Uniti, proprio pochi giorni prima del massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz israeliani, verosimilmente incoraggiato, se non finanziato proprio da Teheran: con un effetto boomerang clamoroso sulla credibilità americana.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden aveva operato attivamente contro gli interessi vitali propri e dell’Occidente intero anche sul fronte ucraino, alimentando sempre più la tensione con la Russia, rifiutandosi di cercare una soluzione negoziale condivisa alla frattura apertasi nel 2014 e, dopo l’invasione russa del febbraio 2022, sostenendo Kiev a senso unico, trattando Putin come un nemico e isolandolo totalmente dall’Occidente: con il risultato di rinsaldare i rapporti tra Mosca e Pechino, di fare il gioco della Cina – sua principale antagonista globale – sul piano geopolitico e di coagulare un composito fronte anti-occidentale che ha attratto anche paesi precedentemente alleati o amichevoli.

Per quanto riguarda specificamente gli equilibri mediorientali, lo scontro frontale con Putin ha messo fortemente in imbarazzo Israele, che con Mosca intrattiene consolidati rapporti economici e politici e ha interesse a una gestione congiunta con i russi delle aree di crisi tra Siria e Libano. Ha determinato un riavvicinamento dell’Arabia Saudita alla Russia, con una politica coordinata dei prezzi del petrolio, e persino all’Iran, suo antagonista per eccellenza. Ha rilegittimato il regime siriano di Bashar al-Assad, “feudo” di Mosca in Medio Oriente, riammesso nella Lega Araba proprio con il beneplacido dei sauditi. E, soprattutto, ha interrotto il percorso verso il completamento degli accordi di Abramo, con la sperata normalizzazione dei rapporti diplomatici tra israeliani e sauditi.

Insomma, un effetto domino di disastri autolesionistici quasi senza precedenti(completato dalla crescente destabilizzazione dell’Africa sub-sahariana, innescata da Cina e Russia), che ha creato il terreno ideale per quanti avevano interesse a riaccendere il conflitto arabo-israeliano. E che si è plasticamente materializzato nello scorso agosto quando, in occasione del vertice dei BRICS di Johannesburg, è stato annunciato l’ingresso congiunto nell’organizzazione, a partire dal 2024, di Arabia Saudita e Iran, insieme agli Emirati e all’Egitto.

Resasi conto tardivamente del piano inclinato pericolosissimo che aveva innescato, l’amministrazione Biden ha cominciato a cercare di porvi rimedio almeno in parte con un cambiamento della sua linea nei confronti di Riad, cominciata con la visita di Biden nell’estate del 2022 e culminata nell’agosto scorso con il coinvolgimento dell’Arabia Saudita, al G20 di Nuova Dehli, nel memorandum d’intesa per il corridoio infrastrutturale India-Medio Oriente-Europa chiamato “Via del Cotone”, per contrapporlo simbolicamente al progetto egemonico cinese di  “Nuova Via della Seta”.

Ma ormai la frittata era fatta, e il vaso di Pandora era scoperchiato. Il potenziale asse tra Israele e i paesi arabi sunniti voluto da Trump, che, una volta saldato, avrebbe potuto contare forse sulla benevola neutralità russa, era già su un binario morto. Ma l’attacco di Hamas e la inevitabile reazione israeliana, polarizzando di nuovo l’odio anti-ebraico nelle società islamiche, lo condanna oggi al rinvio sine die, se non al definitivo naufragio. Per la gioia di fondamentalisti, integralisti e regimi anti-occidentali di tutto il mondo. E con la conseguenza di spingere l’Europa e l’Occidente di nuovo in prima linea, oltre che sul fronte russo-ucraino, anche su quello dei conflitti mediorientali e di una più che probabile, anzi già iniziata, recrudescenza del terrorismo islamista, favorita dalla bomba a orologeria delle cospicue comunità di immigrati islamici “radicalizzati” ormai stabilitesi entro le loro mura.

3489.- Macron scioglie il gruppo ultranazionalista turco dei Lupi Grigi. Erdoğan: Ankara “risponderà con la forza”

Mentre aspettiamo di capire quale sarà la politica della NATO verso la Turchia dopo Trump, Emmanuel Macron fa fronte all’attacco dell’Islam, fomentato da Recep Tayyip Erdoğan. Lo scontro è frontale.

Ci mancavano pure i Lupi Grigi, i famigerati nazionalisti dell’ultra destra parafascista e xenofoba turca, che spesso si sono macchiati di crimini efferati e che sono tra i sostenitori del sultano Recep Tayyip Erdoğan.  Emmanuel Macron e Recep Tayyip Erdoğan sono coinvolti in uno scontro che, molto possiamo dire certamente voluto e cercato da entrambi e che trova radice, da un punto di vista, nella politica sempre più aggressiva, espansionista di Erdoğan, da un altro punto, nella debolezza politica della Turchia, come potenza regionale, impossibile a sostenere le aspirazioni del cosiddetto neo sultano. Non dimentichiamo che, con l’eccezione dei droni, le proiezioni di potenza turche in Siria, in Libia, nel Karabach, hanno visto l’impiego di un arsenale datato della NATO, risalente alla Guerra Fredda. Nemmeno dimentichiamo, che nella regione di cui il sultano varrebbe diventare arbitro e padrone si intrecciano gli interessi delle vere potenze.

Per l’Europa, i soli a fare fronte a Erdoğan sono i greci e Emmanuel Macron.

Alle spalle dell’attivismo turco c’è la cosiddetta Nuova Via della Seta, dalla Cina verso il Mediterraneo e l’Europa. In questi ultimi tre anni, la Cina ha investito tre miliardi di dollari in Turchia e, dopo la Russia, è il secondo più grande importatore di prodotti turchi. Il progetto della Nuova Via della Seta è stato solo rallentato dalla pandemia e costituisce una occasione unica per i paesi del Medio Oriente. La Grande Turchia deve, però, fare i conti con Israele e con l’Arabia Saudita. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, celebrando alla Casa Bianca la firma degli Accordi di “Abramo” da parte di Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein per la normalizzazione delle loro relazioni, aveva, anzi, ha messo la prima pietra sul Nuovo Medio Oriente. Ora, mentre la normalizzazione dei rapporti degli arabi con Israele ha fermato l’annessione dei Territori palestinesi e permetterà agli Emirati Arabi Uniti di sostenere con maggior forza i palestinesi nella realizzazione di un loro Stato indipendente, l’intenzione di Erdoğan, malgrado le smentite, senz’altro strumentali, sarebbe di annettere o sottomettere territori, ridisegnare a pro suo i confini degli stati inventati nella regione medio orientale dagli accordi di Sykes-Picot  tra i governi del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda e della Repubblica francese. La sconfitta di Trump e della sua ferma leadership non dovrebbero fermare questo processo.

In tutto questo divenire, le continue iniziative aggressive di Recep Tayyip Erdoğan costituiscono un problema e, per la Turchia, un boomerang, a parere nostro. Erdoğan è abile a collocarsi dove gli interessi contrapposti lasciano spazi alla sua ambizione e alla sua necessità di alimentare il favore dei turchi per la sua politica. Proprio gi interessi contrapposti, hanno fatto sì che Francia e Turchia siano giunte ai minimi termini. Nel Nagorno-Karabakh, Erdoğan ha armato, sostenuto e condotto le operazioni degli azeri e, con vari progetti, mira a mantenere la sua influenza sull’Azerbaijgian. Qui, Erdoğan ha dovuto sottomettersi a Putin. In Medio Oriente, Ankara sta deliberatamente lavorando per una autonomia dall’Occidente e dalla Russia. Un’ambizione da tavolo del poker. Nel recente conflitto del Nagorno-Karabakh, la politica dell’Eliseo è stata a favore dell’Armenia e l’impegno militare di Ankara nel conflitto ha acuito le tensioni. In Libia, Erdoğan ha comprato da al-Sarraj una posizione privilegiata, promettendo di debellare l’esercito fedele a Khalifa Haftar, senza però riuscirci. Lo avessero lasciato libero di strafare, avrebbe trasferito in Libia l’esercito turco, ma non demorde. Di certo, a Erdoğan non manca il coraggio che difetta al governo italiano. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura. La Turchia, dopo 108 anni, è tornata in Libia e ha fatto di Misurata una sua base navale. A giugno, la Turchia, aveva accusato la Francia di aver appoggiato le forze del generale Khalifa Haftar e di aver violato quanto deciso dall’Alleanza Atlantica e dalle Nazioni Unite. Il Ministro della Difesa aveva parlato molto chiaramente di “un problema turco” da affrontare in seno alla Nato. Considerate anche la cacciata dell’ENI dalle acque di Cipro, i tentativi di accaparramento delle risorse energetiche, le frizioni della Turchia con la Grecia su queste risorse e sull’Asia Minore e le manovre congiunte fra le flotte francese e greca, in chiave anti turca, niente di più vero. Aspettiamo di vedere come Biden affronterà il problema turco denunciato da Macron e non da Merkel. Trump, sorpassando anche l’ONU, ha fatto pensare a un futuro in cui arabi e israeliani, musulmani, ebrei e cristiani possano vivere insieme, pregare insieme e sognare insieme, vicini, in armonia”. Il Corano non dice questo.

Mercoledì la Turchia ha avvertito che avrebbe “risposto con forza” allo scioglimento da parte della Francia dell’organizzazione ultranazionalista turca “I lupi grigi”, definendo la mossa una “provocazione”. “Sottolineiamo che è necessario tutelare la libertà di espressione e di riunione dei turchi in Francia (…) e che risponderemo nel modo più forte possibile a questa decisione”, ha dichiarato in un comunicato il ministero degli Affari esteri turco.

DRHugo Rouet. Il segno distintivo dei Lupi Grigi, noti col nome ufficiale di Ülkücüler, sono le corna, in alto, con cui, però, si rappresentano le orecchie del lupo.

Il decreto che scioglie i Lupi Grigi è una mossa di Macron contro Erdoğan

La decisione è stata assunta in seguito ad un atto vandalico che ha colpito un memoriale del genocidio armeno situato nei sobborghi della città di Lione. Il memoriale è stato imbrattato da una serie di graffiti tra i quali ci sono la firma dei Lupi Grigi e le iniziali del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La recrudescenza delle attività del gruppo fa seguito anche alle polemiche fra Francia e Turchia seguite all’appello di Macron a mettere fine al “separataismo islamico” e all’Islam radicale in Francia. Il presidente turco Erdoğan aveva invitato l’omologo francese a “farsi esaminare il cervelllo”, affermazioni definite “inaccettabili” tanto dall’Eliseo che dall’Unione Europea. Non dimentichiamo gli efferati delitti compiuti da terroristi islamici in Francia, contro cittadini indifesi e innocenti e contro le chiese. Questo attivismo violento dimostra, che l’Islam propugnato da Erdoğan persegue i suoi propositi imperialisti, con la consueta ipocrisia, anche avvalendosi di cellule eversive, dormienti o quasi.

Chi sono i lupi grigi fascisti che sostengono Erdoğan

Il gruppo viene definito idealista perché tra i suoi fondamenti ideologici ci sono l’ideale del panturchismo (o turanismo, e cioè l’unione di tutte le popolazioni di cultura turca) e la xenofobia nei confronti delle minoranze etnico-religiose in Turchia e nei paesi confinanti. Il gruppo accompagna al panturchismo, un generale atteggiamento militarista e parafascista. I lupi Grigi sono giunti in Germania, Francia, Austria, Svizzera e nei Paesi Bassi, a seguito di una messa al bando in patria, dedicandosi prevalentemente al contrabbando di eroina, alla gestione di moschee, alle rapine e all’organizzazione di eventi, apparentemente, culturali, di copertura. Soltanto dal 1997, una nuova leadership del movimento li ha portati su posizioni, apparentemente, più moderate. I lupi Grigi sono tra i sostenitori di Recep Tayyip Erdoğan. Infatti, il gruppo è affiliato al Partito del Movimento Nazionalista, già alleato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdoğan e questo spiega la durezza della reazione del ministro  per gli affari esteri Mevlüt Çavuşoğlu. 

A Lione e a Digione, Manifestazione dei nazionalisti turchi nel “segno” dei lupi grigi

Da Globalist, 4 novembre 2020 

Una mossa importante e inevitabile: la Francia ha messo ufficalmente al bando l’organizzazione nazionalista turca dei “Lupi grigi”, su decisione adottata in Consiglio dei Ministri dal presidente francese Emmanuel Macron: lo ha reso noto il ministro degli Interni, Gerald Darmanin.
“Come dettagliato nel decreto che ho presentato, l’organizzazione incita all’odio ed è implicata in atti violenti”, scrive Darmanin elencando le ragioni che hanno portato a “decretare lo scioglimento del gruppo”. In particolare, nel decreto viene sottolineato che il gruppo incitava alla discriminazione, all’odio e alla violenza contro persone di origine curda o armena, come è capitato di recente a Lione. Per chi manifesta, la pena prevista è fino a tre anni di reclusione, più una multa di 45mila euro.

Nelle zone di Lione e Digione, malgrado il lockdown in atto, i militanti del gruppo paramilitare ultranazionalista turco dei Lupi Grigi si sono riversati in strada a decine, urlando “Allah Akbar uccidiamo gli armeni”, scontrandosi con la polizia. Nelle vie delle cittadine di Vienne e del sobborgo lionese di Décines-Charpieu, nei quartieri abitati da armeni, centinaia di turchi e azeri, organizzati dai Lupi Grigi e armati di spranghe, martelli e coltelli, avevano dato luogo a una caccia all’uomo, dopo che un’ottantina di armeni, muniti di bandiere armene e striscioni avevano picchettato l’autostrada dalle 7,30 del mattino per richiamare l’attenzione del pubblico alla guerra del Nagorno Karabakh: “vogliamo impedire un secondo genocidio, vogliamo la pace”. Décines-Charpieu ospita un memoriale del genocidio armeno. I Lupi Grigi sono foraggiati da Erdoğan. Quella dei turchi era stata spacciata per una “contro-manifestazione”, ma si è palesata come un vero attacco all’armeno e ai negozi armeni da devastare, fallito solo per la massiccia presenza della polizia francese.

Décines-Charpieu, sobborgo lionese, dove il 29 ottobre 2020 si è scatenata la caccia dei turchi e degli azeri all’Armeno.

La comunità armena di Décines-Charpieu aveva denunciato l’azione dei Lupi Grigi e chiesto la messa al bando dell’organizzazione nazionalista turca. “Questi gruppi, foraggiati dal presidente turco, stanno indebolendo il nostro modello di società”, aveva dichiarato Sarah Tanzilli, presidente della Casa della cultura armena di Décines. “E’ la stessa logica in base alla quale si arriva all’odio delle caricature. Sono delle pressioni volte a limitare il nostro diritto di libertà d’espressione, in un Paese in cui questo diritto è fondamentale”. Per questo diritto di libertà d’espressione sono stati orridamente assassinati il prof Patry e le vittime di Nizza.

Gli attacchi di Parigi, Nizza e Vienna sembrano aver scosso l’Europa. Per la Germania di Merkel e della sua nutrita comunità turca, l’Europa e la Turchia hanno reciproco bisogno tra di loro. Francamente, faremmo a meno della Turchia, della Nuova Via della Seta e degli assatanati per non sentire più parlare di questa barbarie.

Misurata è turca per 99 anni! La Turchia ha ottenuto di fare del porto di Misurata una sua base navale e anche l’utilizzo della base aerea di al-Watya. Giuseppe Conte non è al livello di Recep Tayyip Erdoğan. Emblematico lo sfratto dato all’ospedale militare italiano di Misurata, ribadito, ogni mese, da una raccomandata al comandante della struttura.

3251.- Sale la tensione in Libia, sì di Tobruk all’intervento dell’Egitto

14 luglio 2020. Il parlamento della Cirenaica fedele al maresciallo Khalifa Haftar apre all’ingresso di truppe egiziane per contrastare le forze della Turchia. Tre settimane fa al Sisi aveva parlato della possibilità di un impegno militare diretto del Cairo nel conflitto libico

Lunedì, il parlamento libico ha affermato in una dichiarazione che “le forze egiziane hanno il diritto di intervenire per proteggere la sicurezza nazionale libica ed egiziana se vedono una minaccia imminente per la sicurezza dei due paesi”.

libia parlamento tobruk vuole intervento militare egitto
© Abdullah Doma/AFP – Libia: miliziani fedeli al generale Haftar a Bengasi

AGI – Lo scenario peggiore che rischia di concretizzarsi in Libia è uno scontro militare diretto tra la Turchia e l’Egitto. La prima in appoggio del Governo di accordo nazionale, il secondo in sostegno della Cirenaica e delle Forze del maresciallo Khalifa Haftar.

La luce verde all’intervento esterno anche nella parte orientale della Libia è arrivata dal Parlamento di Tobruk, braccio legislativo di Haftar. L’organo si è dichiarato a favore di un possibile intervento dell’esercito egiziano contro la Turchia in Libia in caso di “minaccia”.

Spetta alle forze armate egiziane intervenire per proteggere la sicurezza nazionale libica ed egiziana se vedono una minaccia imminente per la sicurezza dei nostri due Paesi”, ha dichiarato in una nota il Parlamento eletto nel 2014. 

La dichiarazione di Tobruk segue un discorso del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi del 20 giugno scorso in cui aveva minacciato di intervenire direttamente in Libia, in risposta al coinvolgimento diretto della Turchia nel Paese a sostegno del Governo di Tripoli. “Chiediamo sforzi concertati tra i due Paesi fratelli, la Libia e l’Egitto, per garantire la sconfitta dell’occupante invasore (Turchia) e preservare la nostra sicurezza nazionale comune”, scrive il Parlamento libico nel suo comunicato stampa. “I pericoli posti dall’occupazione turcarappresentano una minaccia diretta per il nostro Paese e per i Paesi vicini, in particolare per l’Egitto”, si legge ancora.     

Non è escluso che ne parlerà a Roma, dov’è arrivato ieri, il presidente dello stesso Parlamento fedele ad Haftar, Aguila Saleh. La sua agenda non è ancora chiara ma l’intento è quello di ottenere l’appoggio per l’iniziativa egiziana di cessate il fuoco. Un’iniziativa mai considerata né da Tripoli né da Ankara. 

La soluzione in Libia non può essere diplomatica. Il futuro si deciderà a Sirte.

L’esercito egiziano ha iniziato i preparativi per le principali operazioni in Libia

L’esperto militare egiziano, il contrammiraglio Mahfouz Marzouq, ex direttore del Collegio navale, ha ritenuto che le dimensioni delle manovre militari condotte dalle forze egiziane alla frontiera occidentale e lo sviluppo delle operazioni di sbarco, confermano che il Cairo si sta preparando seriamente per un’operazione militare in Libia.

In un’intervista telefonica con il media Azza Mustafa nel programma “Al-Tahrir Hall” trasmesso sul canale “Echo Al-Balad”, che la manovra invia un messaggio che conferma la vigilanza delle forze armate e la leadership politica che ha predetto minacce regionali che potrebbero negativamente incidere sulla sicurezza nazionale egiziana.

Mahfouz Marzouk ha spiegato: “Tre missili sono stati colpiti contemporaneamente nell’esercizio navale e questo conferma l’accuratezza dell’attuazione. “Mahfouz Marzouk ha continuato:” L’obiettivo di colpire missili lanciando contemporaneamente missili, cacciatorpediniere e sottomarini, è un’operazione molto complicata, ma le nostre forze armate l’hanno eseguita oggi con precisione “. Mahfouz Marzouq ha dichiarato: “Oggi abbiamo assistito all’addestramento ai massimi livelli della marina e abbiamo assistito a una formazione eterogenea e navale, tra cui veicoli corazzati, porta elicotteri, lanci e sottomarini”.

Commentando la dichiarazione del Parlamento libico, l’esperto Martedì Marzouq, riferendo all’agenzia di stampa russa RIA Novosti, ha identificato tre punti importanti che indirizzano le azioni dell’Egitto:

“In primo luogo, il presidente egiziano Abdel-Fattah Al-Sisi ha annunciato, a fine giugno, che il suo paese era pronto ad aiutare le tribù libiche a combattere le interferenze straniere addestrandole e armandole. Il Presidente ha anche dichiarato che qualsiasi intervento diretto egiziano in Libia ora ha legittimità ai sensi del diritto internazionale “.

Secondo Al-Sisi, la “linea rossa” per il progresso del governo di accordo nazionale (GNA) sostenuto dalla Turchia è la città di Sirte, a 900 chilometri dal confine con l’Egitto e la città di Al-Jafra.

Il generale Marzouq ha dichiarato: “In secondo luogo, è possibile che se questa decisione viene presa, questa sarà una giustificazione politica per l’intervento delle forze armate egiziane in Libia”.

Al Sisi apre le porte all’intervento in Libia: Sirte e Al-Jafra ‘una linea rossa’. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein esprimono sostegno alla posizione egiziana.

Domenica 21/06/2020

A file picture of Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi saluting members of the Egyptian armed forces, after travelling to the troubled northern part of the Sinai peninsula. (Reuters)
Un’immagine di archivio del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi che saluta i membri delle forze armate egiziane, dopo aver viaggiato nella parte settentrionale travagliata della penisola del Sinai. (Reuters)

CAIRO– Sabato, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha aperto le porte all’intervento militare diretto in Libia per fermare l’avanzata delle milizie GNA sostenute dalla Turchia affermando chiaramente che “Sirte e al-Jafra sono una linea rossa”, in una risposta diretta al turco dichiarazioni, fatte ore prima delle sue, che chiedevano che le forze dell’esercito nazionale libico guidate dal maresciallo di campo Khalifa Haftar si ritirassero da Sirte e al-Jafra.

Sisi fece le sue dichiarazioni mentre visitava una base aerea vicino al confine occidentale dell’Egitto lungo 1.200 km con la Libia. La televisione ufficiale ha mostrato le riprese del presidente egiziano che guardava aerei da combattimento ed elicotteri decollare dalla base.

“Siamo preparati a svolgere qualsiasi missione qui all’interno dei nostri confini o, se necessario, al di fuori dei nostri confini”, al Sisi ha detto a una rappresentanza di piloti ed elementi delle forze speciali alla base.

Fonti egiziane ritengono che il discorso di al Sisi miri a confermare che il suo paese non è in una posizione di debolezza e che è in grado di proteggere i suoi confini occidentali e in profondità strategica all’interno del territorio libico. Le sue dichiarazioni, tuttavia, non possono essere interpretate come una dichiarazione di guerra, ma piuttosto una riaffermazione dell’impegno del suo paese per la pace da una posizione di forza mentre si prepara alla guerra, se dovesse arrivare a questo. Sta ad Erdogan capire fin dove può forzare la mano e che la Libia non sarà mai una sua colonia. In pratica, la competizione riguardante le risorse libiche va oltre lo scontro fra Khalifa Haftar e al Sarraj.

Le fonti hanno sottolineato che le sfide poste dal discorso del presidente egiziano, lanciate poco prima di una presunta riunione dei ministri degli Esteri dei paesi arabi, sono state un forte messaggio alla Turchia perché la posizione egiziana ha il sostegno della maggior parte dei paesi arabi, nonché incontra un’ampia comprensione internazionale, ben riflessa nelle posizioni dei paesi europei. A questo proposito, il governo italiano sembra avere abdicato alla sua politica estera mediterranea.

Il presidente al Sisi ha sottolineato che qualsiasi ruolo diretto dall’Egitto in Libia godrebbe della legittimità internazionale, sia secondo la Carta delle Nazioni Unite (il diritto all’autodifesa) o in base alla volontà della sola autorità legittima eletta dal popolo libico, vale a dire, la Camera dei rappresentanti libica. Sarebbe facile per l’Egitto ottenere un mandato dal parlamento libico, l’unica istituzione legittima in Libia, ha dichiarato Aref el-Nayid, capo del blocco di Revival libico.

Nelle dichiarazioni rilasciate in esclusiva da The Arab Weekly, Nayid è stato affermato che la Libia è un membro fondatore della Lega degli Stati arabi e un partecipante originario al sistema di difesa congiunta araba e che non sarebbe sorprendente affatto che le sue nazioni arabe si precipitassero in suo soccorso, dato che viene invasa dalla Turchia, o più precisamente da un’alleanza turco-iraniana. Ha, poi, sollecitato che “la Libia venga rappresentata nella Lega araba e in tutti i paesi da rappresentanti del Parlamento libico, che è l’unica entità in Libia ad avere legittimità elettorale, e da rappresentanti del governo nominati da questo parlamento”.

Da parte sua, il Presidente egiziano ha voluto dimostrare che l’intervento dell’Egitto in Libia, qualora avesse luogo, avrebbe il solo scopo di “proteggere i confini occidentali dello stato con la sua profondità strategica e proteggerlo dalle minacce delle milizie terroristiche e mercenarie, e ripristinare la sicurezza e la stabilità sulla scena libica, dato che sono parte integrante della sicurezza e stabilità dell’Egitto ”.

Con una mossa volta ad alleviare i timori dei libici e a contrastare la propaganda ostile, come si manifesta il flusso costante proveniente dai media del Qatar, al Sisi ha dichiarato: “Non saremo invasori e non abbiamo ambizioni in Libia”, mentre siamo impegnati a addestrare e armare le tribù libiche.

Il presidente egiziano ha pronunciato il suo discorso alla presenza dei massimi vertici dell’esercito egiziano e dei rappresentanti delle tribù libiche. Per comprendere l’attuale trama del tessuto sociale libico, basta andare indietro di qualche anno e ripercorrere alcune tappe.

Pensando agli anni 2015 e 2016 ricordiamo come il Paese nord africano, prima di oggi, sia stato diviso non in due, ma in quattro parti.

All’epoca le autorità in gioco erano quattro: il governo proveniente dal Parlamento guidato da Abdullah Al-Thani, con sede a Tobruk nell’Est del Paese, il primo governo di “salvataggio” non riconosciuto dall’Onu e guidato da Khalifa Al-Ghweil ex primo ministro ed esponente del Congresso Nazionale Generale, l’attuale governo di accordo nazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite, nato dal patto di Skhirat e guidato da Fayez al-Sarraj (GNA) nella Libia occidentale e dall’autorità rappresentata dal Feldmaresciallo Khalifa Haftar nella Libia orientale. A quanto pare il Presidente dello GNA, Fayez Al Sarraj, firmando il patto illegittimo con il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, è riuscito in una missione che sembrava quasi impossibile in Libia: Mettere d’accordo tutte le Tribù, riunendole sotto un’unica guida che è quella di Haftar.

Le Tribù costituiscono il tessuto sociale della Libia e si sono compattate sotto la guida di Haftar. Sono circa 140 le tribù esistenti in Libia. Non si tratta di piccoli gruppi sparuti, ma di centinaia di migliaia di uomini che si rivedono e si affiliano sotto uno stesso nome come fossero una grande famiglia allargata.

Al Sisi ha aggiunto che l’obiettivo dell’Egitto era di avere “un cessate il fuoco immediato, l’avvio di negoziati per un processo di risoluzione politica globale sotto gli auspici delle Nazioni Unite in conformità con i risultati della Conferenza di Berlino e un’applicazione pratica dell’iniziativa della Dichiarazione del Cairo” .

È bene ricordare che, all’inizio di questo mese, l’Egitto ha chiesto un cessate il fuoco in Libia come parte di un’iniziativa che ha anche proposto un processo politico tra cui l’elezione di un consiglio per guidare la Libia. Ha anche chiesto una riunione dei ministri degli esteri arabi, che è stata immediatamente respinta dal governo di accordo nazionale guidato da Fayez al-Sarraj, in una chiara indicazione che le mosse diplomatiche dell’Egitto stavano infastidendo Ankara, in particolare con l’emergere di voci europee che si opponevano agli interventi turchi , in particolare di Francia e Grecia.

Gli osservatori affermano che la nuova posizione egiziana farà probabilmente in modo che la Turchia debba controllare la sua spinta verso Sirte e Al-Jafra, nonché la sua ricerca di intese “sotto il tavolo” con la Russia e con gli Stati Uniti, ignorando le posizioni arabe.

Ma Erdogan è costretto ad una politica offensiva. Il portavoce presidenziale turco Ibrahim Kalin ha detto sabato che raggiungere un cessate il fuoco permanente in Libia richiede il ritiro delle forze di Haftar dalla strategica città di Sirte e che “un cessate il fuoco deve essere sostenibile, il che significa che l’altra parte (il cittadino libico Esercito) guidato da Haftar non dovrebbe essere in grado di lanciare a piacimento un nuovo attacco al governo legittimo ”. “Allo stato attuale, il GNA di Tripoli – e noi lo sosteniamo in questo – ritiene che tutte le parti debbano tornare alle loro posizioni del 2015 quando venne firmato l’accordo politico di Skhirat (in Marocco), il che significa che le forze di Haftar devono ritirarsi da Sirte e da al Jafra ”, ha aggiunto Kalin.

Ha, quindi, lanciato un attacco deciso alla Francia, che ha accusato di sostenere il maresciallo di campo Khalifa Haftar, in una mossa che mostra il fastidio di Ankara per le recenti mosse diplomatiche e mediatiche della Francia contro le ambizioni turche. “In Libia, sosteniamo il governo legittimo, mentre il governo francese sostiene un signore della guerra illegittimo, mettendo in pericolo la sicurezza e la sicurezza della NATO nel Mediterraneo, la sicurezza nel Nord Africa e la stabilità in Libia”, ha detto.

Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno espresso il loro sostegno alla posizione di Sisi sulle minacce alla sicurezza della Libia. “Il regno Saudita è al fianco dell’Egitto per difendere i suoi confini dalle persone dall’estremismo, dalle milizie terroristiche e dai loro sostenitori nella regione”, ha detto un ministero degli Esteri dichiarazione rilasciata dall’agenzia di stampa saudita statale. Allo stesso modo, il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti ha affermato che “sta schierandosi con l’Egitto su tutte le misure che prende per proteggere la sicurezza e la stabilità dalle ripercussioni degli sviluppi riguardanti l’invasione turca.