Archivio mensile:giugno 2017

1263.- Gli Stati Uniti si ritirano da al-Tanaf e dall’occupazione della Siria sudorientale

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Inizia la corsa finale per la Siria e per i Curdi. Ma è in ballo tutto l’Occidente, se, come penso, non c’è futuro nella contrapposizione USA-Russia. Il Pentagono, costretto a inseguire le altalenanti politiche dei neocon, subisce le tattiche dei siriani e dei russi, spendendo il suo buon nome e le sue risorse. Il bombardamento degli F-18 sugli avamposti dell’ISIS, sarà anche riuscito a frizzare la riserva di Spazio Aereo dichiarata dai russi, ma ha dato una immagine senza valore della strategia USA. La politica estera deve avere un filone da seguire e non può altalenare da un business all’altro.

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Aurora: Moon of Alabama 29 giugno 2017. Gli Stati Uniti rinunciano alla posizione, senza speranza, al confine tra Siria e Iraq, vicino al-Tanaf, nella Siria sudorientale. I militari statunitensi avevano già bombardato le forze siriane quando si avvicinavano alla posizione, ma si trovarono esclusi dai combattimenti, isolati a nord e chiusi in una zona inutile. Al-Tanaf è nell’area blu con le due frecce blu nella parte inferiore della mappa. Sarà presto rossa, venendo liberata e posta sotto il controllo del governo siriano.

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Ricapitolando: “Il piano statunitense era di avanzare da al-Tanaf a nord, verso l’Eufrate, per prendere e controllare tutto il sud-est della Siria. Ma Siriani ed alleati compivano una mossa inattesa impedendo il piano. Gli invasori sono ora sono isolati dall’Eufrate da una linea ovest-est che termina al confine siriano-iracheno. Elementi delle Unità Militari Popolari iracheni sotto il comando del governo iracheno, avanzano per incontrare le forze siriane al confine. Gli invasori statunitensi sono ora nel mezzo del deserto, in una posizione piuttosto inutile, attorno al-Tanaf, dove la sola opzione è morire di noia o rientrare nella Giordania da dove sono venuti”. Le forze armate statunitensi avevano anche trasferito un lanciarazzi HIMARS per 300 km dalla Giordania ad al-Tanaf. Una mossa ridicola. Non ne migliorava le capacità passando dalla posizione iniziale in Giordania a poche miglia ad ovest. Ma qualcuno nell’esercito statunitense credeva che mostrare tale arma in una zona condannata avrebbe impressionato le forze siriane e russe e cambiato la realtà. Non l’ha fatto. Era chiaro che gli Stati Uniti avrebbero dovuto andarsene. Ora sembra stia accadendo. Una fonte informata afferma: “TØM CAT @TomtheBasedCat – 3:38 PM – 29 giugno 2017. LOL.
Evidentemente l’FSA di al-Tanaf sta davvero volando verso Shaddadi. Il piano “C” è in corso”.
C’erano diverse voci (https://twitter.com/lrozen/status/880256235211247616) a questo proposito sin da ieri e le notizie ora le confermano. LOL davvero. Circa 150 miliziani addestrati dagli Stati Uniti passeranno da al-Tanaf alla Siria nordorientale, dove si uniranno alle (odiate) forze curde. Possono, poi, cercare di raggiungere Dayr al-Zur assediata dall’ISIS a Nord, o eseguire una missione suicida contro un’altra posizione dell’ISIS.

L’Esercito arabo siriano si avvicina per liberare Dayr al-Zur probabilmente da Sud e da Est. È improbabile che lascerà che “i fantocci” (immagino l’umore dei ranger.ndr) degli USA vi partecipino. Il contingente statunitense si sposterà ad Ovest da al-Tanaf, tornando in Giordania. Le forze siriane e irachene prenderanno il controllo del confine da al-Walid ad al-Tanaf e riprenderà il regolare traffico commerciale sull’autostrada Damasco-Baghdad.
I propagandisti che hanno sostenuto la grande missione statunitense (molto tardiva.ndr) di occupare l’intero confine iracheno-siriano e la Siria orientale hanno perso. La “mezzaluna sciita” dall’Iran al Libano che avrebbero voluto impedire con tale mossa non è mai stato un collegamento stradale fisico e certamente nulla che gli Stati Uniti potessero combattere con qualsiasi mezzo fisico. La spinta all’occupazione statunitense della Siria orientale e l’incitamento a un grande conflitto sono ormai falliti.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

1262.- Progetto di trattato che istituiva una Costituzione per l’Europa

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Prima di concretarsi in un vero e proprio progetto politico e di divenire un obiettivo permanente nella politica di governo degli Stati membri, l’idea di Europa era patrimonio di una cerchia ristretta di filosofi e di idealisti: secondo l’opinione giuridica occidentale sviluppatasi nel Seicento, infatti, l’organizzazione del mondo era rigidamente impostata sull’evoluzione storica degli Stati nazionali, le cui uniche modalità di coordinamento intergovernativo consistevano nella loro relazioni dirette e disciplinate da specifici trattati.
Dall’inizio del Novecento, invece, quale immediata conseguenza del primo conflitto mondiale, le relazioni statali si sono articolate in due ambiti distinti, ma nello stesso tempo tra loro coordinati: la ormai tipica stipulazione di specifici trattati e l’innovativa elaborazione di politiche comuni attraverso la mediazione delle organizzazioni internazionali.
Per questa ragione, dal 1950, anno cui risale il discorso pronunciato da R. Schuman, gran parte dell’Europa matura la convinzione che, a fianco dei poteri nazionali o regionali, debba sussistere un potere europeo, basato su istituzioni democratiche ed indipendenti, in grado di gestire quei settori (il mercato interno, la moneta, la coesione economica e sociale, la politica dell’occupazione, la tutela dell’ambiente, la politica estera e di difesa, la creazione di uno spazio di libertà e di sicurezza), per i quali l’azione comune si rivela più efficace che quella svolta da Stati che agiscono separatamente.

In seguito alla firma del Trattato di Maastricht del 1992, l’istituzione dell’UNIONE EUROPEA (UE) rappresenta il risultato degli sforzi fino ad allora compiuti; si instaura così un modello istituzionale difficile da definire, strutturalmente intermedio tra la tipica organizzazione internazionale ed il tradizionale Stato Nazione.
L’UE è stata, infatti, investita di una funzione unica nel suo genere, il coordinamento tra le politiche democratiche degli Stati membri, che hanno creato una serie di istituzioni comuni, cui delegano parte della propria sovranità.
Storicamente, le radici dell’UE risalgono alla fine della seconda guerra mondiale, quando, nel 1951, il Trattato di Parigi istituì la COMUNITÀ EUROPEA DEL CARBONE E DELL’ACCIAIO (CECA), allo scopo di armonizzare pacificamente lo sviluppo costruttivo di sistemi economici in potenziale conflitto, obiettivo già precedentemente perseguiti per lo sfruttamento, comune a Francia e Germania, delle aree carbonifere e industriali della Rhur. La formazione di un mercato comune settoriale coinvolgeva i sei Stati sconfitti: l’Italia e la Germania (le due nazioni che avevano visto ufficialmente lesi i propri principi istituzionali ed ideologici, oltre che morali), la Francia (paese solo teoricamente vincitore, ma in realtà soggetto all’occupazione nazista per ben quattro anni e territorio dello sbarco in Normandia) e, infine, Lussemburgo, Belgio ed Olanda (i tre Stati “cuscinetto” tra le potenze mondiali in conflitto).
Nel 1952, al fine di organizzare un corpo armato europeo sotto un unico comando, questi stessi Stati, rinunciando a parte della propria sovranità, tentarono l’istituzione della COMUNITÀ EUROPEA DI DIFESA (CED), fallita in seguito alla mancata ratifica dell’Assemblea nazionale francese.
In seguito, con il Trattato di Roma del 1956, nacquero la COMUNITÀ EUROPEA DELL’ENERGIA ATOMICA (EURATOM) e la COMUNITÀ ECONOMICA EUROPEA (CEE); la prima si costituì quale mercato comune settoriale, anche se di evoluzione limitata, mentre la seconda quale un’organizzazione economica, incentrata sulla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei lavoratori.
Da questo momento, furono così operanti nel panorama europeo ben tre diverse comunità, ognuna caratterizzata da uno specifico scopo e, pur avendo in comune una stessa struttura interna, da propri organi: Commissione (potere esecutivo), Consiglio (potere normativo), Parlamento o Assemblea comune (potere consultivo) e Corte di giustizia (potere giudiziario).
Da allora, la volontà di portare avanti il processo d’integrazione europea si è fatta sempre più concreta, al fine di semplificare la separazione delle specifiche competenze di ciascuna comunità e di favorirne il coordinamento.
Delineando l’evoluzione cronologica della “politica dello step by step” di questo processo, è da considerarsi la prima tappa, avvenuta nel 1965 a Bruxelles, la cosiddetta “fusione degli esecutivi”, cui fece subito seguito il perfezionamento dell’Atto unico europeo del 1987, che prevedeva la fusione delle tre comunità in un’unica.
Quest’ultimo obiettivo è stato raggiunto a Maastricht, nel 1992, in seguito all’istituzione della COMUNITÀ EUROPEA (CE), comprendente al suo interno le tre precedenti comunità; parallelamente alla realizzazione di questo ambito progetto, è stata anche sancita la nascita dell’UE, attribuendole la funzione di coordinamento tra la stessa CE e le due cooperazioni intergovernative rafforzate già esistenti, POLITICA ESTERA E DI SICUREZZA COMUNE (PESC) e GIUSTIZIA AFFARI INTERNI (GAI).
A Maastricht, infine, si stabilì di convocare una conferenza nel 1996, per definire alcuni punti ancora oscuri del Trattato, che riguardavano la comunitarizzazione delle politiche comuni e dei problemi istituzionali.
Le modifiche ivi ipotizzate confluirono direttamente nel Trattato di Amsterdam del 1997, che ridistribuisce, tra i quindici paesi ormai facenti parte dell’UE, le cariche ed il peso delle competenze all’interno dei diversi collegi europei.
Soffermandosi a questo proposito sull’evoluzione politica dell’UE, tra gli anni Settanta e Novanta si assistette ad un graduale e costante ampliamento della partecipazione statale europea.
In seguito al fallimento dell’alternativa associazione di libero scambio (EFTA) tra le potenze d’influenza anglosassone, la prima fase dell’allargamento comunitario coinvolse, nel 1973, l’Europa settentrionale, più specificamente, l’Inghilterra, la Danimarca e l’Irlanda.
Nel 1981 e nel 1986, invece, le adesioni di Grecia, Spagna e Portogallo rafforzarono il versante meridionale della Comunità, rendendo ancora più necessaria la realizzazione di programmi strutturali destinati a ridurre le disparità di sviluppo economico tra i dodici Stati membri; le ragioni storiche, che resero possibile l’ancoraggio al mondo occidentale democratico, furono la conclusione dell’esperienza dittatoriale dei colonnelli per la Grecia ed il tramonto delle autocrazie franchista e salazariana di origine filofascista (rimaste fino ad ora al potere per la loro mancata partecipazione alla II guerra mondiale) per la Spagna ed il Portogallo.
Infine, il primo gennaio 1995 entrarono a far parte dell’UE tre nuovi paesi, l’Austria, la Finlandia e la Svezia, che arricchirono l’Europa con il loro patrimonio culturale e le aprirono nuovi spazi al centro e al nord. Non a caso, quest’ultima tappa di aggregazione europea é stata possibile solo in seguito alla caduta del muro di Berlino, che ha definitivamente sancito la rottura del confine tra Blocco Nato e Blocco di Varsavia; in particolare, mentre l’Austria doveva la sua neutralità all’obbligo internazionale derivante dagli Accordi di Yalta, la Finlandia e la Svezia adottarono una politica improntata alla prudenza, per rispettare l’accordo di non invasione concluso con l’URSS.

di Luisa Agliassa

1261.- NEI CIELI SIRIANI, LA GRANDE SFIDA!

Gli Stati Uniti forniscono un supporto aereo all’Esercito Siriano – ma solo per sconfiggere la Russia

Gli Stati Uniti hanno bombardato le posizioni dell’ ISIS vicino a Palmyra – agevolando l’avanzata siriana e inviando un messaggio alla Russia

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24 giugno.

La coalizione guidata dagli Stati Uniti ha condotto una missione strike a Palmyra, Siria, il 23 sera. Cioè, ben ad Ovest dell’Eufrate. By passando, così, l’avvertimento della Russia. Giovedì, gli aeroplani di coalizione guidati dagli Stati Uniti hanno attaccato le posizioni dell’ISIS vicino a Palmyra, e proprio di fronte all’Esercito Siriano che avanzava.

Gli Stati Uniti hanno voluto segnare un punto e inviare un messaggio alla Russia.

Ricordiamo: Mosca aveva annunciato lunedì che avrebbe “inseguito” tutti gli aeroplani della coalizione che volano a ovest dell’Eufrate.

Ma cosa può realmente fare la Russia se i piani della coalizione (senza invito) forniscono, tuttavia, il supporto aereo per l’Esercito Siriano?

 

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Qui leggete il rapporto trasmesso dal CENTCOM:

SOUTHWEST ASIA – Il 22 giugno le forze militari della coalizione hanno condotto 32 strike costituiti da 103 ingaggi contro i terroristi ISIS in Siria e in Iraq.

In Siria, le forze militari della coalizione hanno condotto 28 attacchi, costituiti da 49 ingaggi contro gli obiettivi ISIS.
* Vicino a Abu Kamal, sette strike hanno impegnato due unità tattiche ISIS e hanno distrutto nove cisterne di petrolio dell’ISIS, quattro autocarri, tre miscelatori di cemento, tre veicoli, tre veicoli tattici, due gru, un deposito di armi, una presa a pompa e un manifold.
* Vicino a Dayr Az Zawr, uno strike distrusse sei serbatoi di petrolio dell’ISIS.
* Vicino a Palmyra, uno strike distrusse quattro ingressi del tunnel dell’ISIS.
* Nei pressi di Raqqah, 19 strike hanno ingaggiato 14 unità tattiche ISIS; Distrutto 12 postazioni di combattimento, due veicoli e un deposito di IED; e ha danneggiato un canale di rifornimento dell’ISIS.

Ma, sopratutto, lo strike di Palmyra ha rotto il cerchio. esso non è stato condotto bene a Ovest dell’Euphrates—ma è avvenuto proprio sul cielo delle truppe del SAA mentre attaccavano le posizioni dell’ISIS:

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Qui vedete la mappa ingrandita, per meglio contestualizzare:

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Il punto che gli americani stanno tentando di fare è abbastanza chiaro: la Russia dovrà proteggere gli aeroplani della coalizione che volano a ovest dell’Eufrate che operano contro l’ISIS?

Cinico? Ovviamente.

L’obbiettivo finale: la Russia avrà non poche difficoltà a cercare di scoraggiare gli aerei degli Stati Uniti dal volare dove vogliono.

US Air Force General: “ISIS Is a Sideshow”, the Real Fight Comes After

The US general says a “state-on-state” fight is coming

Inherent Resolve

Brig. Gen. Charles S. Corcoran is the Commander, 380th Air Expeditionary Wing, Southwest Asia. The 380th is comprised of four groups and 15 squadrons. He is responsible for the wing’s air refueling, intelligence, surveillance and reconnaissance, air battle management, control and reporting center, ground attack, air support, theatre security cooperation and airlift missions in support of overseas contingency operations in Southwest Asia.

Il Brigadiere generale Charles Corcoran della US Air Force sta combattendo contro l’ISIS, ma crede anche che la lotta sia un “anteprima” della vera lotta “Stato-contro-Stato” che inizierà una volta che la minaccia dell’ISIS “sarà stata allontanata”.

La testata Military.com ha intervistato Corcoran nel suo quartier generale negli Emirati Arabi Uniti; La parte più interessante della relazione dice:

Durante un’intervista nel suo ufficio, Corcoran ha sottolineato: “Siamo qui per combattere l’ISIS”, ma ha anche indicato una mappa della Siria e dell’Iraq per definire alcune aree come “rosse” o controllate dallo stato islamico.

 

“È abbastanza chiaro che ad un certo punto il” rosso “andrà via,” ha detto “, e avremo forze dello stato sullo stato”. “L’ISIS è anteprima … ma cosa succederà quando gli altri due si incontreranno? Strategicamente, cosa succederà quando non ci sarà più l’ISIS, questo è il vero problema”.

Speriamo che Corcoran stia andando in questa direzione, piuttosto che a parlare dei piani reali USA. Quella dell’US Air Force, insieme con quella delle forze speciali – tradizionalmente, è la più feroce guerra che possa essere condotta da tutti i rami del Pentagono.

 

Ci sono veramente poche guerre che l’US Air Force ha mai visto e non gli sono piaciute. I generali dell’USAF, soprattutto il capo di Corcoran, il generale Jeffrey L. Harrigan, molto probabilmente sabotarono deliberatamente l’accordo di cessate il fuoco Kerry-Lavrov nel settembre 2016, organizzando un attacco alle truppe siriane nella città assediata di Deir ez-Zoor e uccidendone circa 100.

Corcoran racconta a Military.com che, quando i combattenti americani hanno sparato al Su-22 siriano e ai due drone forniti dagli iraniani, in ciascuno dei tre incidenti la decisione di fare fuoco è stata presa da piloti in volo:

In ciascuno degli abbattimenti, che hanno coinvolto gli aeromobili provenienti da altre località, i piloti americani hanno fatto la prevista chiamata per far scattare le regole di ingaggio, ha detto Corcoran. In tutti e tre i casi, “aerei indifesi” come gli aerei cisterna e gli altri aerei hanno lasciato lo spazio aereo a causa dell’incertezza di ciò che i siriani oi russi avrebbero potuto fare dopo, ha detto.

Questo, però, significa che le forze aeree americane e la Marina hanno prescritto regole di ingaggio molto permissive per la Siria.

Corcoran è il comandante del 380th Air Expeditionary Wing che gestisce la ricognizione,, il controllo del Traffico Aereo e le operazioni di rifornimento in volo per le forze aeree dell’USAF impiegate nelle operazioni USA in Syria e in Iraq.

1260.-Il sorpasso degli stranieri a Piazza Affari: il 51% delle spa quotate è in mano loro

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Unimpresa: In mani straniere il 51% di spa quotate italiane. Il rapporto dell’associazione: sale dal 47,9% al 51,4% la quota di possesso dei grandi gruppi del nostro Paese in mani estere. Il 2015 è il primo anno in cui si registra il sorpasso: oltre la metà del capitale quotato sul listino di Milano finisce Oltreconfine. Longobardi: “Siamo preoccupati, spesso i colossi finanziari internazionali comprano solo per fini speculativi e non per investire”.  I casi sono due. O gli stranieri sono più attivi e compratori rispetto agli italiani, se si guarda Piazza Affari. Oppure hanno investito meglio, e la loro quota di capitale si è apprezzata più di quella di tutti gli altri nel 2015, tanto che hanno operato il clamoroso sorpasso: in Borsa il 51% del capitale delle spa è nelle mani di soci esteri. Lo accerta una ricerca di Unimpresa, svolta su elaborazioni della Banca d’Italia e che confronta i dati di fine 2015 con quelli di un anno prima.

 

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L’Italia è terra di conquiste e oltre la metà delle spa quotate tricolori è in mani straniere: gli investitori esteri superano nel 2015, per la prima volta, il 50% di possesso del made in Italy di piazza Affari. La capitalizzazione di Borsa delle imprese del nostro Paese è cresciuta in un anno di 81 miliardi di euro arrivando a 537 miliardi complessivi, ma sale oltre il 51%, con un’impennata di 57 miliardi, la fetta in mano ai colossi internazionali. Mentre il 43% di tutte le imprese (anche le non quotate) è controllato dalle famiglie. Da dicembre 2014 a dicembre 2015, il capitale delle spa quotate del nostro Paese è passato da 457 miliardi a 538 miliardi in crescita di 81 miliardi (+17%). Sul listino tricolore cresce il peso degli azionisti “non italiani” che ora hanno partecipazioni di imprese quotate della Penisola pari a 276 miliardi, il 51% del totale. Predominante e in crescita è il peso delle famiglie nel capitale delle aziende (quotate e non) con partecipazioni pari a 891 miliardi, in salita 42 miliardi; anche per quanto riguarda il totale delle spa è più forte la presenza degli stranieri, passati dal 22 al 24% con un aumento delle quote di 68 miliardi. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi di Unimpresa, sull’andamento del valore delle aziende italiane nell’ultimo anno.

Secondo l’analisi di Unimpresa, basata su dati della Banca d’Italia, da dicembre 2014 a dicembre 2015, si è dunque assistito a un significativo scatto in avanti del valore delle spa presenti sui listini di piazza Affari, ma l’andamento del valore delle quote presenta delle differenze secondo la categoria di azionisti. Le partecipazioni di spa quotate in mano alle imprese italiane a dicembre 2015 valevano 103,7 miliardi (il 20,82% del totale) in aumento di 8,5 miliardi (+9,00%) rispetto ai 95,1 miliardi di dicembre 2014. Le banche continuano ad avere una presenza forte e in rafforzamento nel capitale delle spa quotate con il 10,52%, pari a 56,6 miliardi in crescita di 8,1 miliardi (+16,81%) rispetto ai 48,4 miliardi del 2014. Lo Stato centrale ha nel suo portafoglio titoli azionari quotati italiani per 13,7 miliardi (il 2,56% del totale), in salita di 1,2 miliardi (+10,07%) rispetto ai 12,5 miliardi di un anno prima. A piazza Affari i privati (famiglie) controllano quote pari a 66,6 miliardi (il 12,39% del totale), cresciute di 1,9 miliardi (+2,97%) rispetto ai 64,7 miliardi dell’anno precedente. Gli stranieri controllano il 51,40% di piazza Affari con partecipazioni pari a 276,6 miliardi in aumento di 57,5 miliardi rispetto ai 219,1 miliardi di dicembre 2014: fino allo scorso anno le quote estere non avevano mai superato la soglia del 50%. Complessivamente il valore delle società italiane quotate è salito in un anno di 81,2 miliardi (+17,78%) da 457 miliardi a 538,2 miliardi.

Presenza estera in espansione, dunque. Sale, infatti, il peso degli stranieri anche se si estende l’analisi a tutto l’universo delle società per azioni. L’intero universo delle spa italiane, comprese le quotate, vale (dicembre 2015) 2.060,3 miliardi, in aumento di 143,8 miliardi (+7,51%) rispetto ai 1.916,5 miliardi di dicembre 2014. La ripartizione delle quote è la seguente: le imprese hanno il 13,14% pari a 276,3 miliardi, in crescita di 7 miliardi (+2,63%) sui 269,2 miliardi di un anno prima. Le banche hanno l’11,43% pari a 235,5 miliardi, in aumento di 24,1 miliardi (+11,45%) rispetto a 211,3 miliardi dell’anno precedente. Sale anche la quota dello Stato centrale che ora ha il 4,84% di spa con 99,6 miliardi, in salita di 1,2 miliardi (+1,28%) rispetto ai 98,3 miliardi precedenti. I privati detengono il 43,27% di società per azioni, dato che conferma il carattere familiare dell’imprenditoria italiana, con 891,6 miliardi in aumento di 42,3 miliardi (+4,98%) rispetto agli 849,3 miliardi di dicembre 2014. La quota di imprese italiane in mano agli stranieri, che corrisponde al 24,51% del totale, è aumentata di 68,3 miliardi (+15,65%) da 436,6 miliardi a 504,9 miliardi.

“Se da una parte va valutato positivamente l’aumento del valore delle imprese italiane, dall’altro bisogna guardare con attenzione la presenza degli stranieri e capire fino a che punto si tratta di investimenti utili allo sviluppo e dove finisce, invece, l’attività speculativa” commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi. “Siamo preoccupati, la fortissima crisi che sta colpendo l’Italia più di altri paesi sta consegnando di fatto i pezzi pregiati della nostra economia a soggetti stranieri, si tratta di colossi finanziari che non sempre comprano con prospettive di lungo periodo o di investimento, ma spesso per fini speculativi” aggiunge Longobardi.

Ma c’è un’altra notizia alla finestra:

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1259.-BAIL IN, IL PROBLEMA E’ IL 1834 CC

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   (Andrea Cavalleri)

Perché se una banca fallisce ci devono rimettere i correntisti?

In realtà bisognerebbe anche chiedersi perché una banca fallisce, ma qui il discorso diventa un po’ troppo tecnico, consiglio in merito di leggere le pubblicazioni del gruppo di studio inglese “Positive money” o di guardare i loro video con sottotitoli in italiano.

Torniamo quindi al nodo della questione che interessa il cittadino: se l’azienda bancaria fallisce logico che gli azionisti perdano tutto, logico che chi avanza dei diritti nei confronti della banca, come obbligazionisti e detentori di titoli vari, venga liquidato in percentuale a seguito della vendita delle residue attività, logico che vi sia una scala gerarchica nella ripartizione dei proventi fallimentari: lo Stato, i privilegiati, i chirografari.

Ma, si chiede il cittadino, perché io che ho messo i miei soldi in banca non posso riprendermeli e devo invece pagare per l’incapacità o la disonestà dei dirigenti dell’istituto?

Se io fossi un sarto, come Armani, e avessi depositato in un magazzino le mie giacche, in caso di fallimento del magazzino non sarei mai tenuto a rimborsare i creditori della logistica con i miei capi firmati, in banca non è lo stesso?

La risposta è no, non è per niente lo stesso, perché mentre Armani ha le sue giacche in magazzino, tu non hai i tuoi soldi in banca né potrai mai averli perché non esiste nemmeno la possibilità di “avere i propri soldi in banca”.

Il conto corrente bancario rientra in una fattispecie giuridica detta “deposito a vista” descritta dal

  1. 1834 del codice civile (quello italiano, comunque identico a tutti gli analoghi regolamenti bancari vigenti nel modo democratico, moderno e progredito, che tanto bene vuole ai suoi cittadini) che suona così:

Nei depositi di una somma di danaro presso una banca, questa ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria, alla scadenza del termine convenuto ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi.

Dal testo risulta quindi che i soldi segnati nel conto corrente sono di proprietà della banca, in quanto il correntista glieli ha prestati all’atto stesso del deposito.

Due riflessioni in merito.

La prima: la legge non ammette ignoranza, dunque formalmente il rapporto cittadino-banca è perfettamente regolare e rispetta un contratto sottoscritto e approvato bilateralmente.

Però sostanzialmente, dato che, a essere ottimisti, un cittadino su mille conosce i termini della questione, i contratti bancari procedono da una circonvenzione di incapace e si configurano come falso ideologico e truffa di massa.

La seconda: la guerra al contante e l’obbligo sempre più massivo di effettuare ogni transazione passando da un conto corrente, ha come effetto quello di costringere la popolazione a prestare i suoi soldi alle banche. Dal punto di vista razionale e morale è una mostruosità senza precedenti, qualcuno mi può spiegare cosa significa “essere obbligati a prestare dei soldi”?

L’unica situazione analoga che mi viene in mente è quella di un “promotore assicurativo” dal forte accento meridionale, che forza imprenditori e commercianti a stipulare una “polizza di copertura contro rischi generici” magnificando la protezione attiva garantita dal general manager don Vito Corleone.

L’evocazione di don Vito ci riporta al secondo aspetto cruciale della questione, ovvero il perché i regolamenti bancari siano così anti intuitivi, contorti e poco spiegati al pubblico.

Forse la materia è così problematica che gli esperti non sanno trovare soluzioni migliori?

Direi proprio di no. Gli studi scientifici definitivi in materia risalgono al 1936 e sono dovuti al grande economista Irving Fisher (“Debt-deflaction theory” e “100% money” detto Chicago plan).

Questi spiegò che l’uso della riserva frazionaria (il metodo di gestione dei depositi a vista) non solo mette a rischio le proprietà del singolo correntista, ma che è la causa principale di tutte le grandi depressioni economiche, perché può provocare la scomparsa di ingenti quantità di moneta, precipitando il sistema in una gravissima crisi da deflazione. Nel caso della crisi del ’29, un terzo dei dollari di tutta la nazione americana scomparvero nel nulla, dollari che figuravano virtualmente sui conti correnti, ma che erano solo la proiezione di una serie di parametri bancari che, una volta compromessi, determinarono la volatilizzazione dei soldi.

Il rimedio a questo tallone d’Achille del sistema monetario è forse troppo complicato?

No, è banale!

Fisher spiegò chiaramente che bastava usare la “moneta intera” cioè moneta reale e non virtuale, ovvero permettere al cittadino di “avere i suoi soldi in banca”.

Ma allora perché non lo si fa?

E qui ritorna don Vito Corleone, cioè la persona umana dietro il sistema.

Dire che noi prestiamo i nostri soldi alle banche, significa, in ultima istanza, che noi diamo i nostri soldi ai banchieri (che poi ce li re-imprestano a interesse).

Questo andazzo, protratto ormai da qualche secolo, ha prodotto un accumulo incommensurabile di ricchezza e di potere nelle mani di una ristretta cerchia di banchieri e tra i poteri che queste persone si sono accaparrati c’è ovviamente quello di decidere sui regolamenti bancari e monetari.

Insomma il buon vecchio e sicuro conflitto di interessi elevato all’ennesima potenza.

Questa è la ragione per cui le migliori menti, studiano, escogitano metodi sicuri ed efficienti per garantire il benessere generale, magari ottengono dei riconoscimenti (come il premio Nobel a Tobin, quello della Tobin tax) ma poi non vedono mai applicate realmente le loro teorie.

Al contrario vengono regolarmente adottati i provvedimenti più assurdi, utilizzando come giustificazione teorie antiquate, inconsistenti e più volte smentite dai fatti, ma funzionali a garantire i privilegi di una ristretta casta dominante.

E’ così perché conviene a lorsignori. Conviene? Ma neanche, basta che piaccia.

Pensate che negli ultimi lustri si è sviluppato un sistema di scommesse detto dei “contratti derivati” che, pur con alcune eccezioni di utilità, è al 95% un giro di truffe e riffe da biscazzieri.

Ebbene in caso di fallimento di una banca i contratti derivati hanno una priorità rispetto ai conti correnti. Cioè quando il commissario liquidatore avrà racimolato il patrimonio derivato dalla cessione di tutti gli attivi, prima dovrà pagare le scommesse di lorsignori chiamate derivati e poi, nell’eventualità -impossibile- che avanzi qualche briciola, potrà ripartirla tra i correntisti.

Giustamente vengono prima i loro divertimenti e poi le nostre necessità.

Per concludere la logica vorrebbe che il bail in fosse la normale procedura fallimentare, ma con moneta intera, cioè coi “miei soldi in banca” e che non si toccano!

Per fare questo bisognerebbe pensare a una campagna referendaria per l’abrogazione del 1834 del codice civile, il che equivarrebbe a una rivoluzione e imporrebbe in pratica una costituente.

Il vecchio potere non acconsentirà mai, ma un tale referendum costituirebbe comunque la legittimazione giuridica e democratica dei forconi. Forconi che non devono andare in piazza, ma nei collegi degli azionisti di maggioranza delle banche, nelle fondazioni bancarie e nelle direzioni generali degli istituti di credito.

Con le buone maniere si ottiene sempre tutto.

 di Maurizio Blondet

 

1258.- NOTE CRITICHE SUL C.D. “PAREGGIO DI BILANCIO”

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La legge di revisione dell’art. 81 della Costituzione intitolata “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, salvo qualche limitato accenno, non fu oggetto del dibattito politico, incentrato piuttosto sul processo di risanamento finanziario e di contenimento del deficit e del debito pubblico, a parole, in corso di faticosa attuazione per via di legislazione ordinaria. Dell’introduzione del c.d. principio del pareggio di bilancio in Costituzione si parlò con pressoché esclusivo riferimento agli impegni assunti dall’Italia in sede di Unione europea, al fine di garantire una ritrovata immagine di credibilità del sistema dei bilanci pubblici e del debito italiani al cospetto dei mercati finanziari. In questa sede ci si limiterà, invece, ad una rapida lettura dei contenuti del progetto di revisione costituzionale, inquadrandone altresì il significato normativo nel contesto del c.d. Fiscal compact3, trattato internazionale sottoscritto al di fuori del contesto dei trattati su cui si fonda l’Unione europea.

Sembrano comunque opportune due brevi premesse. Le osservazioni critiche che seguiranno non devono essere assunte quale obiezione all’indispensabile necessità di garantire una finanza pubblica in equilibrio e un debito sostenibile. Con la naturale conseguenza di ritenere necessarie azioni per la riduzione dell’ammontare del debito accumulato negli anni, unitamente a politiche di sostegno allo sviluppo funzionali al controllo di un adeguato livello del prodotto interno lordo. Elementi del resto assunti ormai anche in via di fatto – oltre che giuridicamente formalizzati in specifici impegni fin dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht – quali criteri di valutazione della affidabilità finanziaria del sistema pubblico dei singoli Paesi e di evidente strumentalizzazione ad opera dei movimenti speculativi nei mercati finanziari. In secondo luogo deve essere, altresì, chiaro che i contenuti della riforma costituzionale in corso di approvazione non sono direttamente funzionali agli scopi ora richiamati, contenendo piuttosto la disciplina di strumenti asseritamente necessari al fine del consolidamento dei risultati di risanamento finanziario che si presume debbano essere conseguiti nel frattempo e per via di legislazione ordinaria. La revisione dell’art. 81 della Costituzione italiana così come il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria hanno lo scopo di definire, quindi, regole di contenimento delle politiche economiche pubbliche, come si suol dire in questi casi, “a regime”, non implicando alcuna conseguenza immediata sul piano delle politiche di risanamento finanziario in corso nei vari Stati europei, se non sull’ineffabile piano della “psicologia dei mercati”.

Il progetto di revisione costituzionale introduce nel secondo comma dell’art. 81 della Costituzione italiana la seguente disposizione: “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Il successivo art. 5, comma 1, lett. d) del progetto di riforma, qualifica tali “eventi eccezionali” come: “gravi recessioni economiche, crisi finanziarie e gravi calamità naturali”4. Il portato normativo di questa disposizione pare introdurre, quindi, un divieto di indebitamento – salvi i casi, alle condizioni e con le procedure aggravate previste dal testo della legge di riforma – misura ben più pervasiva dell’obbligo di garantire l’“equilibrio tra le entrate e le spese” del bilancio dello Stato con cui si apre invece il primo comma del nuovo art. 81. L’ultimo comma della nuova disposizione rimette, comunque, ad una futura legge costituzionale la definizione della normativa di principio nel cui contesto una successiva legge, approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, dovrà provvedere a dare attuazione alla riforma. La legge di revisione costituzionale prevede, inoltre, tra le altre cose: a) la riconduzione della materia “armonizzazione dei bilanci pubblici” alla competenza esclusiva dello Stato5; b) una forte revisione dell’art. 119 Cost. con l’introduzione di ulteriori e gravi limiti all’autonomia finanziaria di Regioni6 ed enti locali; c) un ulteriore limite al ricorso all’indebitamento di tutti gli enti di autonomia con l’impegno di questi di concorrere, comunque, “alla sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni”7.

Ci si limiterà qui soltanto a sollevare alcuni interrogativi, in parte frutto della acritica ed affrettata stesura del testo della riforma. Ciò appare, del resto, evidente conseguenza della conclamata urgenza con cui si è dato avvio al progetto di revisione costituzionale sotto la forsennata pressione delle istituzioni europee, dei governi di alcuni Stati membri dell’UE, delle istituzioni finanziarie internazionali e dei mercati nella grave crisi di affidabilità del debito pubblico italiano durante i concitati mesi dello scorso autunno. E’ del tutto evidente, ad esempio, la polisemia dell’espressione “equilibrio tra le entrate e le spese” di cui al primo comma dell’art. 81, il che la rende in qualche misura adattabile alle differenti letture connesse alla discrezionalità delle politiche economiche a seconda della congiuntura. Ben maggiori problemi interpretativi porrà, invece, nella prassi applicativa la formula “ricorso all’indebitamento”9 di cui al secondo comma. E’ un riferimento specifico ai saldi di bilancio? Se sì, con quale declinazione? E’ possibile convenire di ridurne semanticamente il senso quale mero sinonimo di deficit ai sensi dei trattati europei e del Patto di stabilità e crescita? Dobbiamo ritenere che, a regime, la Costituzione italiana vieti il ricorso a soglie anche minime di deficit pubblico se non ai limitati fini e con le procedure di cui al nuovo secondo comma dell’art. 81? Il necessario ricorso alla maggioranza assoluta affinché, al fine di considerare gli effetti del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali, si possa procedere alla elaborazione di politiche di spesa pubblica anche se minimamente idonee a determinare un deficit di bilancio, inoltre, sottrae la disponibilità di questo fondamentale strumento di politica economica a qualunque maggioranza politica, a qualunque governo – salvi i benefici di un occasionale sistema elettorale ad ampio effetto maggioritario – implicando il necessario coinvolgimento di parte delle opposizioni anche solo per sfruttare gli effetti di una congiuntura economica particolarmente favorevole. A meno di non ritenere di voler riservare l’utilizzo di questo strumento a soli governi tecnici, o comunque sostenuti da maggioranze parlamentari bipartisan. Per tacere dei drammatici effetti che la riforma produrrà sull’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, sembra quindi consolidarsi nel testo della Costituzione la scelta (di politica contingente) di eliminare dall’orizzonte del possibile la elaborazione di politiche espansionistiche anche in fasi congiunturali positive. Senza poterci, qui, peraltro impegnare in una disamina delle differenti teorie economiche in relazione agli effetti e ai possibili rimedi dell’intervento pubblico nell’economia nelle fasi congiunturali avverse10. Il recente appello al Presidente degli Stati Uniti di ben cinque premi Nobel per l’economia contro l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione per via dei gravi rischi di recessione e di contrazione del PIL, con conseguente avvitamento in una crisi di sostenibilità del debito pubblico, avrebbe però dovuto indurre ad assumere maggiori cautele prima di cristallizzare in un testo costituzionale gli effetti di una delle possibili dottrine economiche in materia di ruolo dello Stato e della spesa pubblica in economia, a quanto pare anche scarsamente condivisa11.

Tra l’altro il testo della legge di revisione costituzionale italiana nell’indicare il divieto, salve le già richiamate rare e modulate eccezioni, del ricorso all’indebitamento tout court si pone in linea distonica tanto con le analoghe iniziative assunte da altri Stati europei, quanto con le più recenti prescrizioni del Trattato contenente il c.d. Fiscal compact. Come è noto la legge di revisione della Costituzione francese non ha compiuto il suo iter e la procedura è attualmente bloccata in attesa dell’esito delle prossime elezioni presidenziali12. Ma anche il testo del nuovo art. 135 della Costituzione spagnola non si spinge a vietare acriticamente il ricorso all’indebitamento, né a fissare una soglia percentuale di deficit pubblico, indicando piuttosto l’obbligo di non “incurrir en un déficit estructural que supere los márgenes establecidos, en su caso, por la Unión Europea para sus Estados Miembros” rinviando quindi, per la determinazione in dettaglio dei limiti di deficit strutturale ammissibile, ad una successiva legge organica. Questa formula consente, ad un tempo, un margine di manovra per le politiche espansionistiche nelle fasi in cui la stessa Unione europea dovesse consentirle, ponendo contemporaneamente la Spagna in una posizione di pari dignità con gli altri Stati membri quanto alle determinazioni di politica economica, alla sorveglianza sul debito pubblico e alla elaborazione di scelte di politica economica congiunturalmente aperte alla ipotesi di espansione del deficit a sostegno della crescita o a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini. Il disposto normativo del nuovo testo dell’art. 81 della Costituzione italiana, invece, pone un divieto di indebitamento che alla lettera non contempla analoghi margini di flessibilizzazione.

A fronte di una disciplina di bilancio che, nel testo originario della Costituzione e a prescindere dagli errori e dalla scarsa attenzione all’equilibrio dei saldi imputabili nel tempo al sistema politico, non comprometteva la scelta per un determinato modello sociale, l’attuale proposta di revisione determinerà radicali mutamenti nella forma di Stato, per i significativi riflessi che la scelta di costituzionalizzazione della opzione di politica economica implicata dalle formule normative richiamate determinerà sul sistema delle autonomie regionali e locali e sulla garanzia dei diritti fondamentali in effettiva condizione di eguaglianza. La gestione della crisi finanziaria mondiale e di sostenibilità del debito pubblico italiano, pur in fase di superamento grazie a politiche di bilancio finalmente rigorose e attente, viene pertanto assunta quale strumentale occasione per modificare a regime la forma di Stato ponendo le premesse giuridiche per il superamento, di fatto, dell’impianto sociale dell’economia di mercato.

L’altro fronte del processo di riforma della disciplina dei bilanci pubblici e degli strumenti di contenimento del debito è quindi rappresentato, come accennato, dalla stipula del c.d. Fiscal compact, il Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione economica e monetaria. Si tratta, come è noto, di un trattato internazionale stipulato al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’UE13 la cui entrata in vigore (indicata nel 1° gennaio 2013) è subordinata alla ratifica, non più di tutti, ma di soli 12 Stati contraenti14. Il sistema di procedure atte a contenere e correggere l’indebitamento dei singoli Stati aderenti all’Euro in una con l’abbattimento strutturale del debito pubblico eccedente la soglia massima del 60% rispetto al PIL è articolato in una serie di potestà, competenze e strumenti giuridici vincolanti per la cui declinazione si rinvia direttamente al testo dell’articolato15. Nel quadro di quanto già esposto con riferimento alle criticità del processo di revisione costituzionale in corso in Italia e proprio in considerazione della natura ad esso complementare di fatto assunta dal Trattato – seppur successivo all’avvio del richiamato procedimento di revisione costituzionale16 – qui ci limiterà ad indicare tre sintomi del superamento del principio di eguaglianza tra gli Stati membri dell’UE e della pari dignità formale, oltre che sostanziale, dei relativi sistemi di governo. Circostanza che appare in rottura del limite della “condizione di parità con gli altri Stati” al quale l’art. 11 della Costituzione italiana subordina le limitazioni di sovranità necessarie alla costruzione dell’ordinamento comunitario prima e dell’UE, successivamente.

L’art. 3 del Trattato fissa un limite percentuale di indebitamento sostenibile con una soglia positiva dello 0,5%. E’ ovvio che fasi congiunturali avverse e obbiettivi di abbattimento del livello di debito pubblico possono generare la necessità, giuridicamente vincolata già in applicazione del Patto di stabilità e crescita, di prevedere un bilancio pubblico addirittura in regime di avanzo primario. Ma alternativamente è possibile che la congiuntura suggerisca interventi di politica economica in regime di seppur minimo disavanzo, cosa appunto consentita dal Trattato ma impedita dal nuovo art. 81 della Costituzione italiana. L’indicazione di un valore di riferimento positivo di un eventuale disavanzo – pur sempre sostenibile – nel testo del Fiscal compact mette a disposizione di tutti gli Stati dell’area Euro17 uno strumento di intervento nell’economia a sostegno della crescita, di cui l’Italia intende invece privarsi – almeno a voler prendere sul serio quanto previsto dal nuovo secondo comma dell’art 81 Cost. – rinunciando ad un importantissimo elemento negoziale in sede di istituzioni europee a difesa delle proprie politiche pubbliche; e rinunciando altresì ad un fondamentale strumento di politica economica a sostegno della crescita dell’economia reale utile anche al fine di correggere la sproporzione tra debito pubblico e Prodotto interno lordo. In termini di confronto sul piano della crescita economica ciò significherà avere meno risorse disponibili rispetto agli altri Stati membri direttamente concorrenti. A ciò deve aggiungersi, proprio sul piano della eguaglianza formale, che l’art. 3, comma 1 lett. d) del Trattato, consente agli Stati membri che abbiano un debito pubblico inferiore alla soglia del 60% del PIL di spingere legittimamente il proprio deficit strutturale fino all’1%, con ciò aumentando anche giuridicamente il divario tra gli strumenti idonei a sostenere la crescita economica a disposizione degli Stati virtuosi rispetto a quelli a disposizione degli altri Stati; e consentendo un più forte differenziale di progresso economico e sociale che renderà ancora più significativo il tasso di diseguaglianza territoriale nel mercato interno. Diseguaglianza non compensata tra l’altro da adeguate politiche di spesa pubblica a sostegno delle aree depresse, che negli Stati unitari possono correggere i rischi di creazione di colonie interne a fronte di tassi di sviluppo economico difformi tra le diverse aree del Paese.

Terzo elemento di disparità tra gli Stati aderenti, l’art. 4 del Trattato impone agli Stati il cui ammontare di debito pubblico ecceda il limite del 60% del PIL di adottare politiche di risanamento che ne riducano il peso in ragione del differenziale tra effettivo ammontare del debito e il 60% del PIL in ragione di un ventesimo per ogni anno a partire dal 201318. La fotografia dei punti di partenza dei diversi Stati all’atto dell’entrata in vigore del Trattato determinerà, quindi, la disparità nelle chances di crescita in ragione della quantità di risorse che i diversi Stati dovranno matematicamente destinare all’abbattimento del debito, dato di mero fatto. Con ciò certificando la disparità nei diritti dei singoli Stati alla promozione di politiche anticongiunturali a sostegno della crescita, incrementandone la diseguaglianza economica e incentivando la differenza del tasso di sviluppo a vantaggio di alcuni Stati ma non di altri, i quali ultimi saranno giuridicamente costretti a rinunciare a politiche di sostegno dell’economia per un mero meccanismo aritmetico, pur laddove eventualmente gravati da un debito, alto sì, ma sostenibile. Con ciò non soltanto cristallizzando un’opzione di politica economica tra le tante, e rendendola giuridicamente vincolante, ma sancendo altresì una disparità nel diritto alla crescita economica tra i diversi Stati membri19.

Ma è con riferimento alla distribuzione degli strumenti giuridici atti a correggere eventuali scostamenti da tali obblighi che il Trattato è più radicalmente portatore di un diritto diseguale tra i diversi Stati membri dell’Unione economica e dell’Euro. Con la stipula di questo accordo gli Stati hanno sottoscritto, infatti, una clausola compromissoria ai sensi dell’art. 273 del Trattato sul Funzionamento dell’UE, che consente agli Stati membri di rimettere alla Corte di Giustizia la competenza a giudicare, con efficacia obbligatoria e vincolante, “qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto dei trattati, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso”20. Dal che si deduce, in primo luogo, che l’efficacia giuridica delle disposizioni del Trattato sulla Stabilità e degli ulteriori obblighi che ne deriveranno in caso di assunzione di impegni correttivi di situazioni di disavanzo o di debito pubblico eccessivi, si risolve in vincoli formalmente giustiziabili dinanzi alla Corte di Giustizia. Ma in aggiunta a ciò, e oltre le procedure di sorveglianza multilaterale reciproca tra gli Stati collegialmente gestite nelle sedi istituzionali dell’UE per come disciplinate dai Trattati, dal Patto di Stabilità e Crescita e dalla relativa normativa di attuazione, l’art. 8 del Fiscal Compact attribuisce poteri di sorveglianza e di denuncia alla Corte di Giustizia degli Stati eventualmente inadempienti in capo ai singoli Stati contraenti – starei per dire ad alcuni di questi, se non ad uno in particolare – . Compresa la potestà di ulteriore deferimento, in seconda battuta, alla Corte di quegli Stati che manchino di dare corretta esecuzione alle sentenze in materia di violazione del Fiscal compact della stessa Corte di Giustizia, fino a provocare l’adozione delle sanzioni di carattere finanziario previste dal Trattato stesso21.

Salvi gli effetti di eventuali affievolimenti del portato normativo del Trattato in sede di applicazione concreta, pur sempre suscettibile di negoziato politico nei concreti rapporti tra gli Stati membri anche in conseguenza della effettiva situazione di equilibrio in cui possano trovarsi i bilanci pubblici degli stessi Stati virtuosi22, e salva altresì la concreta determinazione che dell’attuale significato del nuovo art. 81 della Costituzione italiana verrà articolata nella legge costituzionale e nella legge ordinaria di relativa attuazione, sembra pertanto che il nuovo regime giuridico dei bilanci pubblici presenti plurime e diffuse incongruenze nei rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento dell’UE; oltre alla paventata rottura della parità di condizioni che sembra andarsi sempre più formalizzando nei reciproci rapporti tra i diversi Stati aderenti all’Unione economica e monetaria, almeno nella più recente fase del processo di integrazione.

1257.- CETA, OVVERO NEOLIBERISMO CONTRO COSTITUZIONI

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L’attuazione del pensiero neoliberista, nelle cui finalità c’è quella di distruggere i Popoli e le Nazioni, trova il suo completamento nella approvazione dello scellerato trattato, detto CETA, tra UE e Canada.
Si tratta di un Accordo internazionale che ha la finalità di superare il principio di precauzione vigente nell’Unione Europea secondo il quale non è possibile commerciare prodotti dannosi per l’uomo e per l’ambiente. Infatti con questo accordo si stabilisce che sulle Costituzioni europee deve prevalere il principio della libertà di investimento e di commercio anche se ciò comporta la lesione di altri principi e diritti fondamentali previsti dalle Costituzioni stesse. Si prevede in particolare che se gli investitori e i commercianti americani incontrino ostacoli nelle misure poste a tutela della salute e dell’ambiente, detti commercianti e investitori avranno diritto al risarcimento del danno, da determinarsi da parte di un organismo da loro stessi nominato. Ciò comporta che qualora l’Italia volesse adottare misure protettive della salute e dell’ambiente sarebbe obbligata ad accantonare nei propri bilanci somme ingentissime per pagare detti risarcimenti. Si internazionalizza, in sostanza, il principio dell’egemonia del mercato senza limiti sovvertendo l’ordinamento di tutte le comunità politiche europee, che hanno come fine fondamentale la difesa della dignità della persona e il progresso spirituale e materiale della società.

E’ evidente che questo trattato sostituisce di fatto il TTIP, che l’amministrazione USA di Obama voleva contrarre con l’Europa, e che Trump ha eliminato dal suo programma. Infatti non ci vuol molto per capire che i commercianti e gli investitori statunitensi possono molto agevolmente aprire in Canada loro sedi o succursali.

E’ dubbio che esso possa avere reale applicazione, poiché, secondo la nostra giurisprudenza costituzionale, gli accordi internazionali sono, come suol dirsi, “norme interposte” tra la Costituzione e la legislazione ordinaria, e su di esse permane intatto il potere di annullamento della Corte, se e in quanto si tratti di norme, come certamente lo sono quelle in esame, contrarie ai principi fondamentali della nostra Costituzione repubblicana.
Ciò non toglie, tuttavia, lo sconcerto che ci assale pesando che questo provvedimento, tanto negativo per gli interessi italiani, sia stato dapprima approvato dai nostri parlamentari europei, ed è oggi oggetto di ratifica dal nostro Parlamento, avendo già ottenuto il voto favorevole da parte della competente Commissione del Senato ed essendo velocemente passato all’esame dell’Aula del Senato stesso.

Stiamo assistendo ad un vero e proprio “tradimento” del nostro Popolo a favore delle richieste della finanza e delle multinazionali di oltreoceano. La soggezione a queste del nostro governo e della nostra maggioranza parlamentare è divenuta, intollerabilmente, “spudorata”. Ma i media tacciono.

E agli Italiani, tenuti all’oscuro di queste incredibili e proditorie manovre ai loro danni, potranno accorgersi delle malefatte di questo governo solo a cose avvenute, quando diverranno concreti gli effetti di questa inqualificabile azione dei nostri rappresentanti politici.

Paolo Maddalena

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1256.- LA STRATEGIA DEL TERRORE APPARTIENE STORICAMENTE AD ALCUNI POPOLI.

L’arma decisiva di Israele è seminare il terrore nei popoli nemici. Oggi, questa strategia è usata dai terroristi contro gli europei con azioni  che definirei irrazionali  folli, incredibili, inverosimili, pazzesche che hanno per solo scopo di sconcertare e terrorizzare i cittadini. I ragazzi e le ragazze del Bataclan subirono torture, castrazioni, decapitazioni, ebbero strappati gli occhi: così i jihadisti hanno ucciso i ragazzi e così dovranno essere puniti. Non siamo antisemiti, ma sappiamo bene chi ha creato, armato, addestrato e sostiene questo esercito satanico e con quali fini.

(Mauro Zanon) – Dopo la strage islamista del Bataclan, il governo francese ha «soffocato» i media che tentavano di riportare la notizia secondo cui diversi ostaggi del Bataclan avrebbero subito «torture abominevoli» dai jihadisti. È la notizia forse più incandescente emersa dallo scorso 13 novembre. Una notizia che in Francia è stata divulgata soltanto da alcuni siti controcorrente come Fdesouche.com, e che è invece stata completamente oscurata dai grandi media parigini. Sono dettagli macabri e raccapriccianti quelli emersi dalle pagine del rapporto ufficiale della commissione d’inchiesta relativa ai mezzi utilizzati dallo Stato per lottare contro il terrorismo dal 7 gennaio 2015, la Commission Fenech (Georges Fenech è lo stesso che la scorsa settimana ha invocato a gran voce una riforma profonda dell’intelligence francese, e che ieri ha denunciato l’incapacità totale del governo Hollande nella lotta al terrorismo).

Testimonianze – Pagine che confermano quello che a novembre era stato liquidato come un rumor infondato, e che giornali cosiddetti «di riferimento» come Le Monde avevano frettolosamente tacciato come «invenzione»: gli ostaggi che si trovavano al secondo piano del Bataclan sono stati torturati brutalmente dai miliziani islamici e ci sono state delle decapitazioni. Durante l’audizione del 21 marzo scorso, un poliziotto della Bac (Brigade anti-criminalité), tra i primi soccorritori ad entrare nel Bataclan, descrive con freddezza quello che si è ritrovato davanti agli occhi assieme ai suoi colleghi: uomini castrati con i testicoli in bocca, donne seviziate nelle parti intime, corpi con gli occhi strappati fuori dalle orbite e teste decapitate. «Dopo l’assalto, eravamo con dei colleghi a livello del passage Saint-Pierre-Amelot (stradina accanto al Bataclan, ndr), quando ho visto uno degli inquirenti uscire in lacrime e vomitare. Ci ha detto quello che aveva visto», testimonia il poliziotto. «Le torture sono state commesse al secondo piano?», chiede Alain Marsaud, uno dei membri della Commission Fenech. «Credo di sì», risponde l’agente della Bac, «perché quando sono entrato al pianoterra non c’era niente di simile, solo persone colpite da proiettili».
Lo stesso agente, durante l’audizione, dice al presidente della commissione che «alcuni corpi non sono stati presentati alle famiglie perché c’erano delle persone decapitate, sgozzate, sventrate. C’erano donne che sono state accoltellate a livello dei genitali». Secondo la sua testimonianza, uno dei terroristi, prima di farsi esplodere, avrebbe anche mimato degli atti sessuali con alcune donne. Non solo: tutte le torture sarebbero state filmate dagli islamisti a fini di propaganda. A confermare la testimonianza che il procuratore di Parigi, François Molins, ha messo in discussione, e che il governo socialista ha voluto nascondere, è emersa inoltra la lettera struggente che il padre di una delle vittime del Bataclan avrebbe inviato al giudice d’istruzione. «Sulle cause della morte di mio figlio A., all’istituto medico-legale di Parigi mi è stato detto (…) che gli erano stati tagliati i testicoli, che gli erano stati messi in bocca e che era stato sventrato. Quando l’ho visto dietro un vetro, disteso su tavolo, con un telo bianco che lo copriva fino al collo, mi accompagnava una psicologa. Quest’ultima mi ha detto: “La sola parte che si può mostrare di suo figlio è la sua parte sinistra”. Ho constatato che non aveva più l’occhio destro. L’ho fatto notare; mi è stato detto che glielo avevano strappato».
E pensare che tutto poteva essere più chiaro già tre giorni dopo l’assalto, il 16 novembre, quando il quotidiano Le Progrès, ha riportato la testimonianza di una madre, il cui figlio, poliziotto, aveva dichiarato di aver visto «teste decapitate» al Bataclan. Versione evocata due settimane dopo su Twitter da una sopravvissuta alla strage, @mahahh, il cui account è stato quasi subito disattivato, senza possibilità di avere ulteriore conferme.
Censura – Resta la questione principale: perché il governo di François Hollande ha voluto censurare la notizia? Perché ha intimato ai media francesi di tenere nascoste queste barbarie islamiste? Sono passati più di otto mesi dalla mattanza jihadista del Bataclan, ma restano ancora troppe zone d’ombra su quella tragica nottata. Dallo stesso rapporto, pubblicato il 12 luglio sul sito dell’Assemblea nazionale, spunta addirittura l’ipotesi di un quarto terrorista presente nella sala per concerti parigina, che si sarebbe mimetizzato tra i sopravvissuti per sfuggire alle autorità.

1255.- QUANTE ARMI SERVONO AGLI ITALIANI? PORTAEREI, F-35 E, POI,TANK ED ELICOTTERI D’ATTACCO PER 1 MILIARDO

Armi, Parlamento dà l’ok all’acquisto di tank ed elicotteri d’attacco per 1 miliardo

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Dopo il Via libera di novembre, dalle commissioni Difesa e Bilancio di Camera e Senato, l’Esercito sta procedendo all’acquisto dei primi Centauro 2 prodotti dal consorzio Iveco-Oto Melara al costo di 530 milioni ciascuno e dei prototipi dei Mangusta 2 prodotti da Leonardo Elicotteri, anche questi, più o meno, per 487 milioni. Molte le perplessità che riguardano i nuovi mezzi. Innanzitutto i costi elevatissimi
Come di consueto ormai per quasi tutti i maggiori programmi d’armamento della Difesa, a pagare sarà il ministero dello Sviluppo economico, integralmente per quanto riguarda gli elicotteri e prevalentemente per i carri armati. Per i carri Centauro 2 è stata finanziato solo l’acquisito della prima tranche di 50 mezzi(di cui 11 prototipi) ma l’Esercito ne vuole comprare 136. Per gli elicotteri Mangusta 2 il finanziamento riguarda solo 3 prototipi, ma il programma prevede in tutto 48 velivoli. Parliamo quindi di programmi che impegneranno i futuri governi a spendere diversi miliardi di euro.

Molte le perplessità che riguardano questi nuovi mezzi. Innanzitutto i costi elevatissimi, anche tenendo conto dell’inserimento dei costi di “supporto logistico decennale” a carico del produttore. Il Centauro 2 costa quasi 11 milioni a macchina: una cifra altissima, non solo rispetto ai 2 milioni di euro del Centauro 1 e ai 4,4 milioni del carro Ariete, già inutile “nelle sconfinate pianure italiane!” (entrambi mezzi degli anni ’90), ma perfino ai 6,6 milioni degli omologhi blindati Freccia (in servizio da pochi anni e ancora in fase di acquisizione). Il Mangusta 2 costa addirittura 162 milioni, quasi dieci volte tanto il Mangusta 1: uno sproposito anche considerando i costi di manutenzione.

I principali dubbi riguardano la reale necessità di comprare queste nuove costosissime macchine da guerra. I 136 carri Centauro 2 si andranno a sommare ai 630 nuovi blindati da combattimento Freccia, a 181 carri armati Ariete e Leopard e 200 carri ‘Dardo’ (per citare solo i mezzi pesanti). Una forza corazzata sovradimensionata rispetto alle esigenze operative nazionali, che infatti risponde ad esigenze di natura diversa, industriale e commerciale.

Come si legge nel documento della Difesa relativo al programma, “la produzione estensiva di sistemi per il cliente nazionale è il prerequisito di referenza indispensabile ad ogni opportunità di vendita all’estero”. Cioè: ne dobbiamo comprare tanti non perché servono all’Esercito, ma per poter lanciare il prodotto sul mercato internazionale. In sostanza lo Stato si mette al servizio dell’industria militare nazionale, prima assumendosi il rischio d’impresa tramite il finanziamento di tutta la fase di progettazione, sviluppo e realizzazione dei veicoli prototipali pre-serie, poi garantendo tramite grosse commesse il finanziamento della fase di industrializzazione e produzione su vasta scala, infine agendo come procuratore di commesse estere.

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Stesso discorso per gli elicotteri Mangusta 2, la cui esigenza risulta incomprensibile se si considera che i Mangusta 1 sono stati appena aggiornati alla versione ‘Delta’ compiendo – parole della Difesa – “un salto generazionale” rispetto alla precedente versione in termini di prestazioni e armamento. La logica, anche qui, è puro marketing: “Lo sviluppo del nuovo velivolo – si legge nel documento della Difesa presentato al Parlamento – collocherebbe l’industria nazionale in posizione di vantaggio sul mercato internazionalein una finestra temporale nell’ambito della quale potrebbero essere concretizzate ottime opportunità di collaborazione e/o vendita”.

Il documento cita addirittura l’esempio virtuoso del Mangusta 1 “sulla base della quale è stata sviluppata una versione per l’estero che è stata acquistata dalla Turchia” – che ora, per inciso, li usa per bombardare i villaggi curdi.

1254.- Una trappola chiamata ius soli

La giovane coppia cinese che ho in affitto avrà un figlio cinese, dovunque nasca. Solo una parte degli italiani è convinta che l’identità nasca dalla terra e appartiene alla stessa parte politica degli ignoranti al governo: ignoranti, ma non per i loro interessi. Rodolfo Casadei scrive:

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Premesso che nessuna delle due cose rappresenta un peccato o una virtù in base alla morale cristiana e al Catechismo della Chiesa cattolica, in linea di principio sono contrario allo ius soli e favorevole allo ius sanguinis. Per un motivo molto semplice: i bambini non nascono dal suolo, ma dal ventre delle loro madri. Crescerli ed educarli non è compito dello Stato, ma dei genitori. Padre e madre hanno il diritto e il dovere di crescere ed educare i figli secondo la storia, la cultura, i valori di cui loro sono eredi e che definiscono la loro identità. Da due italiani nasce un italiano, o un’italiana; da due tunisini nasce un tunisino, o una tunisina; da un tunisino e un‘italiana nasce un italo-tunisino, ecc.

Qualunque sia il paese nel quale le coppie sopra menzionate si trovino a vivere, e qualunque sia la legislazione vigente sulle nazionalità e sulle naturalizzazioni, nessuno potrà cancellare il fatto che l’identità nazionale di un bambino che viene al mondo è quella dei suoi genitori, oppure è una combinazione delle loro nazionalità se i genitori sono di nazionalità diversa. Quando un bambino viene dato in adozione a una coppia di italiani nel contesto di un’adozione internazionale, quel bambino diventa ipso facto italiano non perché va a vivere in Italia, ma perché coloro che si impegnano a offrirgli amore ed educazione sono italiani. I rapporti reali vengono prima delle determinazioni giuridiche astratte, come quella che stabilisce che chi nasce in un certo luogo ne assume per il fatto stesso la cittadinanza in quel momento storico vigente.

Lo ius soli assoluto vige nei paesi, come gli Stati Uniti, di recente formazione e nati da una colonizzazione che ha coinvolto persone di molte etnie diverse. In quel caso essendo il territorio “vuoto” e senza storia (i pellerossa avrebbero molto da ridire su questo, ma non hanno abbastanza forza per farsi ascoltare), lo stesso prenderà i suoi valori e la sua tradizione da chi viene ad abitarlo. Contrariamente a quello che pensano i progressisti italiani, in epoca moderna lo ius soli non sta a significare la preminenza della cultura del luogo su quella di chi immigra, che viene incorporato alla cultura dominante attraverso la cittadinanza, ma il riempimento di una identità vuota da parte di chi immigra. Gli Stati Uniti, dove vige una forma radicale di ius soli, sono stati a lungo un paese Wasp (white, anglo-saxon and protestant) perché Wasp erano la maggioranza degli immigrati. Poi hanno assunto il cattolicesimo nella loro identità attraverso gli immigrati italiani, irlandesi e polacchi. Poco più di 35 anni fa la componente ispanofona ha messo il turbo, e oggi negli Usa ci sono 41 milioni di persone che parlano spagnolo come loro prima lingua, quando nel 1980 erano solo 11 milioni. Gli Usa sono diventati un paese che è anche latino.

In linea di principio, lo ius sanguinis indica una preminenza dei rapporti reali su quelli astratti: riconosco la cittadinanza italiana a un figlio di italiani perché confido che gli trasmetteranno la lingua e la cultura che storicamente hanno costituito l’identità italiana, beni che la cittadinanza mira a proteggere insieme ad altri diritti della persona. Storicamente lo ius sanguinis è praticato da popoli di origine antica (o che si pensano tali) che hanno con fatica creato istituzioni politiche sovrane in un determinato territorio, e a partire dalla sovranità su quel territorio riconoscono diritti di cittadinanza a tutti coloro che presentano le caratteristiche identitarie di quel popolo, anche se nati fuori dai confini. È il caso dell’Italia e della Germania, del Marocco e di Israele, ecc.

Se l’Italia dovesse approvare la legge attualmente in discussione al Senato, nel nostro paese verrebbe introdotta una forma temperata di ius soli accanto allo ius sanguinis, che resterebbe vigente. Secondo il testo di legge un bambino nato in Italia avrebbe diritto alla cittadinanza se almeno uno dei due genitori è cittadino Ue e si trova legalmente in Italia da almeno cinque anni. Se i genitori non provengono dall’Unione Europea, oltre ad avere il permesso di soggiorno da almeno cinque anni almeno uno dei due deve avere un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale, un alloggio idoneo e superare un test di conoscenza della lingua italiana. Inoltre potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico, elementari o medie. I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico.

Perché ci sarebbe bisogno di questa innovazione? I sostenitori della proposta invocano due motivi: perché occorre mettere fine alla discriminazione fra bambini stranieri nati in Italia e bambini italiani, e per facilitare l’integrazione dei bambini stranieri. Tutte e due le motivazioni appaiono discutibili. In Italia bambini italiani e bambini stranieri hanno gli stessi diritti civili e possono accedere agli stessi servizi: scuola, sanità, assistenza sociale in caso di povertà, ecc. Di più: in Italia italiani e stranieri possono godere degli stessi diritti umani fondamentali. Come scrive Rocco Todero su Il Foglio, «oggi gli stranieri regolarmente residenti nel nostro Paese godono di tutti i diritti e le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione repubblicana. Si va dal naturale riconoscimento di tutte le libertà cosiddette negative, come quelle di circolazione, manifestazione del pensiero, associazione, religione, alla tutela dei principali diritti sociali di prestazioni quali il diritto al lavoro, alla pensione, all’assistenza sociale, all’istruzione, alla sanità, agli assegni sociali e all’invalidità civile». L’unica cosa che agli stranieri manca è il diritto di voto, ma in compenso non sono tenuti ad assolvere quanto richiesto dall’art. 52 della Costituzione: sono esentati dal “sacro dovere” della difesa in armi della patria italiana. Quanto al secondo argomento, quello dell’integrazione, è evidente che la cittadinanza dovrebbe essere la conclusione di un percorso integrativo e non un qualcosa che viene conferito all’inizio, a scopo di incoraggiamento.

Quali sono allora le vere ragioni che spingono la sinistra ad accelerare su questo tema? Anzitutto c’è una ragione ideologica: l’ossessione per l’uguaglianza. I progressisti si sentono in colpa e vogliono che tutti gli italiani si sentano in colpa e si vergognino per il fatto che persiste una diseguaglianza fra i minorenni italiani e i minorenni stranieri che vivono da tempo in Italia, la disuguaglianza di cittadinanza. Anche se tutti i diritti umani e civili fondamentali dei bambini stranieri sono rispettati e promossi, la diseguaglianza di cittadinanza appare ai loro occhi intollerabile come la differenza che hanno cercato di eliminare con l’istituzione delle unioni civili, o la differenza legale fra il consumo di alcolici e il consumo di cannabis che desiderano cancellare, o la genitorialità che vorrebbero estendere a tutti i tipi di coppie, ecc. Non si rendono conto che in questo caso il loro egualitarismo ha il sapore del disprezzo per la cultura e la nazionalità altrui. È come se dicessero: “Poverini, gli tocca restare marocchini, gli tocca restare albanesi, è intollerabile!”. Ma chi ha stabilito che la nazionalità italiana è così superiore a quella egiziana, o peruviana, o filippina, che negarla troppo a lungo a qualcuno diventa un delitto di lesa civiltà? Dopo tante prediche multiculturaliste, il velo del politically correct cade e si vede quello che i progressisti pensano veramente: le altre nazionalità sono talmente inferiori alla nostra che prima ne liberiamo gli stranieri e meglio sarà per tutti.

Poi ci sono ragioni più pratiche. Una è quella che vede nell’accelerazione delle naturalizzazioni la via maestra per riequilibrare il deficit demografico italiano e quindi per risolvere il rebus pensionistico dell’Italia dei prossimi decenni. Un demografo serio come Giancarlo Blangiardo ha spiegato e rispiegato che questa idea è sbagliata. I deficit demografici e le loro conseguenze sulla struttura pensionistica di un paese non si riequilibrano, il prezzo degli errori fatti si paga senza sconti, e se si crede di risolvere il guaio intensificando l’immigrazione si rinvia di poco il redde rationem e lo si appesantisce un altro po’. Perché anche gli immigrati invecchieranno e bisognerà pagare loro la pensione, e poiché mediamente avranno versato meno contributi degli italiani, il tesoro pubblico dovrà accollarsi altri pesi. Senza poi dimenticare che anche gli immigrati, dopo qualche anno che sono in Italia, abbassano sensibilmente il loro tasso di fecondità al punto da contribuire al deficit demografico italiano anziché alleviarlo. Evidentemente ci sono problemi economici e politici che spingono la natalità in Italia verso il basso, problemi che valgono sia per gli italiani che per gli immigrati, e l’importazione di esseri umani dall’estero non è una soluzione.

Probabilmente la vera ragione per cui il governo di sinistra vuole introdurre una legislazione di ius soli riguarda non i minorenni, ma i loro genitori: per un bambino straniero in Italia non cambia niente avere la nazionalità italiana subito piuttosto che a 18-20 anni, ma per i suoi genitori la cosa può fare una grossa differenza. Chi ha un figlio divenuto italiano non potrà essere allontanato dall’Italia perché è rimasto disoccupato e quindi non gli viene rinnovato il permesso di soggiorno, o perché dopo tanti anni di ricorsi la sua domanda per essere riconosciuto come rifugiato è stata respinta. Un minorenne con la cittadinanza italiana vale tanto oro quanto pesa per la sua famiglia che la cittadinanza italiana ancora non ce l’ha. Perché credete che in Europa arrivino attraverso l’emigrazione illegale tanti minorenni non accompagnati? Sono minorenni, non possono essere espulsi, le famiglie di origine contano nel tempo di ricongiungersi a loro in terra europea.

Il governo di sinistra evidentemente vuole captare la benevolenza politica di questi immigrati, e in prospettiva il loro voto. Dal punto di vista utilitaristico degli uni e degli altri, lo ius soli pare dunque un buon affare. Ma è buono veramente, per le famiglie di immigrati e per l’Italia in generale? C’è da dubitarne assai. Un figlio che diventa italiano prima del genitore non è una buona prospettiva per un immigrato: questo fatto potrebbe accentuare il distacco generazionale, alimentare un’estraneità fra genitori e figli. L’integrazione di un ragazzo immigrato al mainstream italiano senza la mediazione familiare può avere esiti socialmente perversi. Dall’Olanda arriva una lezione su cui riflettere, portata alla mia attenzione dal direttore dell’Istat olandese Kim Putters. Costui, ex senatore socialista non sospettabile di pregiudizi etnici o razziali, mi spiegava che se si vanno a vedere le statistiche dei due gruppi di immigrati più numerosi in Olanda, marocchini e turchi (entrambe le comunità contano circa 400 mila unità), i primi risultano più integrati dei secondi: sono più secolarizzati e parlano meglio l’olandese.

Eppure il 70 per cento dei marocchini ha problemi con la legge prima del compimento del trentesimo anno di età per reati contro il patrimonio o a sfondo sessuale, mentre il tasso di criminalità dei turchi è identico o inferiore a quello degli olandesi autoctoni. A proteggere i giovani turchi da passi falsi non è l’integrazione, ma il suo contrario: la coesione familiare, l’introversione del gruppo, il relativo isolamento dal resto della società, l’essere più turchi che olandesi in tutti i sensi. Per avere uomini retti e buoni cittadini la famiglia, cioè il sangue, è più importante del suolo.

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