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6225.- L’EUROPA CHE VERRÀ

Dal Notiziario del Centro Studi Rosario Livatino, MAG 6, 2024

Le prospettive di riforma dell’Unione Europea in vista delle prossime elezioni, tra diritti fondamentali e limiti strutturali. Note a margine della Risoluzione del Parlamento Europeo sull’inclusione del diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali della UE.

Il dibattito che si è accompagnato al voto del Parlamento di Bruxelles del 11 aprile 2024 sulla inclusione del diritto all’aborto tra i diritti fondamentali della UE va ampliato aldilà del merito, relativo a materia forse troppo sensibile, in quanto legata, da un lato, alla pretesa autodeterminazione della donna, dall’altro, alla tutela della vita del nascituro, per consentire valutazioni più propriamente giuridiche e quindi sottratte al clamore della propaganda ideologica, ma non meno di rilevanza politica.

Eppure la risoluzione, votata con il voto favorevole di 336 deputati, quello contrario di 163 e 39 astensioni, quindi con maggioranza semplice e non quella assoluta della metà + uno degli aventi diritto, con cui il Consiglio europeo è stato invitato ad inserire l’aborto tra i diritti fondamentali di cui alla Carta di Nizza, modificandone l’art. 3 (con l’inserimento di un comma 2 bis che reciti: “Ogni persona ha diritto all’autonomia del corpo e all’accesso libero, informato, pieno e universale alla salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti, come pure a tutti i servizi di assistenza sanitaria correlati, senza discriminazioni, compreso l’accesso a un aborto sicuro e legale”), ammette valutazioni che vanno addirittura oltre la pur rilevante importanza della questione specifica ed impattano, appunto, profili istituzionali di carattere generale della UE, oggetto di proposte di riforma collegate ai possibili futuri assetti conseguenti alle elezioni del prossimo 9 giugno ed ai relativi equilibri politici fra le forze rappresentate nel nuovo Parlamento.  

I. Il primo aspetto, invero non nascosto neppure dai promotori della risoluzione, è che la stessa non ha carattere vincolante ma svolge solo funzione di sprone affinchè il Consiglio, rappresentativo degli Stati membri, in composizione di un rappresentante per Paese, accolga l’invito all’inserimento del diritto all’aborto nella Carta dei Diritti fondamentali della UE, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000 e poi resa, tra le fonti di rango primario del diritto unionale, parametro di legittimità degli atti degli organi della UE  dal Trattato di Lisbona, in vigore dal dicembre 2009, ex art. 6 TUE.

Ciò che è meno sbandierato è che, nonostante l’inserimento della Carta di Nizza tra le fonti del diritto vigente a livello UE, insieme appunto al TUE – Trattato dell’Unione Europea, ed al TFUE – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il medesimo art. 6 TUE espressamente ne limita, al paragrafo 1 comma 2, la valenza quoad obiectum, prevedendo che le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione, tali da consentire a quest’ultima di legiferare in materia di diritti umani, in lesione del principio di attribuzione, che non prevede appunto tale oggetto ricompreso tra le competenze nè esclusive nè concorrenti della UE rispetto agli Stati nazionali che vi aderiscono.

Al comma 3, poi, si precisa che le medesime disposizioni devono essere interpretate in conformità a quanto dispone la stessa Carta, il che porta ad escludere che il suo valore possa essere indebitamente esteso.

In particolare si deve tenere conto dell’art. 51 della Carta in virtù del quale la Carta si applica alle istituzioni, agli organi, agli organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà. Soprattutto poi la disposizione in questione precisa che la Carta si applica agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione europea. Gli Stati membri sono quindi tenuti a rispettare la Carta soltanto quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. la Carta, pertanto, non rappresenta una sorta di diritto costituzionale federale in tema di diritti fondamentali, che si sostituisce alle tradizioni proprie dei singoli ordinamenti nazionali. Né, tantomeno il circuito decisionale dell’UE accentra in sé le scelte normative in ordine al grado di tutela dei singoli diritti, al contemperamento tra gli stessi, al bilanciamento con l’interesse generale” (Manuale Breve Diritto dell’Unione Europea, Calamia – Di Filippo – Marinai, Milano 2020, pp. 100-101).

II. Dunque, non solo v’è la necessità, ai fini dell’invocato inserimento del diritto all’aborto all’interno della Carta dei Diritti Fondamentali, che la risoluzione parlamentare sia adottata con la complessa procedura, ex art. 48 TUE, di revisione ordinaria dei Trattati, cui la Carta va oggi equiparata in conseguenza del suo recepimento ex art. 6 TUE (la quale impone, dopo il voto favorevole del Consiglio europeo, la convocazione da parte del Presidente del Consiglio della Convenzione –organismo composto sia dai rappresentanti degli Stati membri che delle istituzioni della UE- e, quindi, all’esito del consensus di questa, della CIG – Conferenza Intergovernativa, che, infine, licenzia il testo di revisione che dovrà poi essere sottoscritto da tutti gli Stati membri e, da ultimo, ratificato dai singoli Parlamenti nazionali), il che rende la Risoluzione pressocchè una mera …provocazione, stante la assai improbabile disponibilità al riguardo di tutti i Paesi membri, alcuni dei quali nominativamente tacciati, nel testo della delibera, di essere de iure (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Malta) o quantomeno de facto (tra cui l’Italia, per la previsione del diritto all’obiezione di coscienza dei medici non abortisti), favorevoli alla restrizione all’accesso alla interruzione volontaria di gravidanza.

Ma va anche osservato, in contrario avviso al “considerando C” della Risoluzione (“considerando che la Carta sancisce i principali diritti e le principali libertà fondamentali per le persone che vivono nell’UE; che la protezione dell’assistenza per un aborto sicuro e legale ha implicazioni dirette per l’esercizio effettivo dei diritti riconosciuti dalla Carta, quali la dignità umana, l’autonomia personale, l’uguaglianza, la salute e l’integrità fisica e mentale; che la privazione dell’accesso all’assistenza all’aborto costituisce una violazione di tali diritti fondamentali”), che vi sarebbe in ogni caso un ostacolo strutturale alla assunzione del diritto all’aborto fra i criteri ispiratori dell’ordinamento giuridico della UE, rappresentato appunto dal rispetto dei princìpi di attribuzione e di sussidiarietà, che impedisce comunque l’adozione fra i diritti fondamentali della UE di materia che esula dal campo di azione della medesima: come ha detto David Casa, premier maltese, a commento della Risoluzione del 11 aprile, “l’aborto rimane una competenza nazionale”.

III. Di tanto sembrano, del resto, essere consapevoli anche i promotori della Risoluzione, la quale, nella parte finale, segnatamente al punto 14, in modo solo apparentemente erratico, dopo avere “invitato l’UE ad agire come sostenitore e a fare del riconoscimento di tale diritto una priorità fondamentale nei negoziati in seno alle istituzioni internazionali e in altri consessi multilaterali quali il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite; chiede che l’UE ratifichi la Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.

La CEDU è un trattato internazionale adottato nel 1950, nell’ambito del Consiglio d’Europa, cui aderiscono 47 Paesi europei (di fatto pressocché tutti e, comunque, ben più dei 27 che costituiscono la UE), ad oggetto la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, affidata alla giurisdizione della Corte di Strasburgo -che è diversa e distinta dalla CGUE (la Corte di Giustizia della Unione Europea, organo della UE con sede a Lussemburgo)-, cui può rivolgersi qualsiasi cittadino europeo che vanti la lesione di un suo diritto fondamentale da parte del proprio Stato di appartenenza.

L’invito della Risoluzione alla UE a sottoscriverne l’adesione significa, allora, il tentativo surrettizio di imporre, in termini di vincolatività derivata dall’efficacia del trattato internazionale con cui l’Unione Europea aderirebbe alla CEDU, anche il diritto all’aborto, se non espressamente previsto dal Trattato CEDU quantomeno ricompreso nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, vero motore immobile dei ‘nuovi diritti’ (tra cui certamente quello alla salute riproduttiva ed alla libera autodeterminazione delle donne).

Se è vero che gli accordi internazionali sottoscritti dalla UE sono fonti intermedie tra le fonti primarie (i Trattati e la Carta di Nizza) e le fonti di diritto derivato (i regolamenti e le direttive), per cui non possono contrastare con i Trattati medesimi –come implicitamente afferma l’art. 218 par. 11 TFUE-, nondimeno l’art. 6 TUE afferma che la UE aderisce alla CEDU anche se precisa che tale adesione non modifica le competenze dell’Unione, riconoscendo che i diritti fondamentali della CEDU fanno parte dell’ordinamento UE quali princìpi generali ma purchè siano risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

I negoziati avviati in seno al Consiglio d’Europa nel luglio 2010, dopo avere portato alla redazione di un progetto di accordo di adesione della UE alla CEDU, si sono arenati, dopo lo stop imposto dalla CGUE (parere n° 2/13 del 18.12.2014), preoccupata di salvaguardare l’autonomia dell’ordinamento unionale da possibili interferenze esterne, ed infine sono stancamente ripresi solo da qualche anno ma senza auspici di prossimo successo.

IV. È significativo che la spinta all’adesione alla CEDU si accompagni ai proclami elettorali per dei rinnovati ‘Stati Uniti d’Europa’ (non il partito della Bonino e di Renzi, ma il programma politico di Mario Draghi, cui -pure- il primo si ispira), che, aldilà della suggestiva formula, implicano piuttosto uno scivolamento subdolo verso la progressiva erosione delle competenze e prerogative degli Stati nazionali, in rottura dell’equilibrio originario fra essi e le istituzioni della UE, sempre più immaginata come un superstato distinto ed autonomo dai Paesi membri, in spregio al disegno del legislatore dei Trattati, con conseguente accrescimento del deficit democratico che già oggi i popoli europei lamentano e/o comunque patiscono.

Forse, oltre che verificare quali sono i gruppi parlamentari europei che intendono promuovere l’aborto fra i diritti ‘umani’, occorre che nell’urna del 9 giugno si tenga conto anche del progetto d’Europa che vi si accompagna.

                                                                         Renato Veneruso

6224.- UCRAINA: gli aiuti Nato non bastano, il fronte inizia a cedere

La Nato ha perso la guerra del Donbass. L’Ucraina non ha sufficienti riserve umane né di munizioni. 31 carri armati americani M1A1 Abrams sono stati ritirati dal fronte, d’ordine del Pentagono, dopo che 5-6 erano stati distrutti dai drone e uno era stato catturato dai russi, intatto. Ma i I bellicosi Macron e Cameron alimentano le loro ambizioni con minacce impossibili.

Questi due tomi hanno il consenso di Bruxelles per fornire all’Ucraina missili in grado di attaccare obiettivi all’interno del territorio russo? Fino a quando gli europei e, per quanto ci riguarda, gli italiani dovranno contare per la loro vita sulla saggezza di Vladimir Putin?

Da Pagine Esteri, di Marco Santopadre | 10 Maggio 2024

UCRAINA: gli aiuti Nato non bastano, il fronte inizia a cedere

di Marco Santopadre*

Il 24 aprile il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato il pacchetto da 95 miliardi di aiuti militari a lungo bloccato al parlamento statunitense, di cui 61 formalmente destinati all’Ucraina. In realtà solo 15 serviranno per acquistare armi da inviare in Ucraina (foraggiando ovviamente l’apparato militare-industriale di Washington) ma si tratta comunque di una grossa boccata d’ossigeno per Kiev che da mesi attendeva con ansia che il Pentagono riprendesse le consegne di armi al suo esercito sempre più sfiancato e alle prese con una cronica mancanza di munizioni.

L’avanzata russa prosegue
Le consegne di armi (anche a lunga gittata) e munizioni statunitensi sono riprese immediatamente ma con il contagocce, sortendo finora scarsi effetti sul campo. Nelle ultime due settimane, infatti, le truppe russe hanno continuato ad avanzare e a conquistare territori soprattutto nell’Ucraina orientale, impossessandosi di una decina di villaggi e cittadine. La perdita di Chasiv Yar, strategica cittadina dell’oblast di Donetsk nel frattempo ridotta in macerie, sembra inoltre inevitabile.

I comandi militari ucraini continuano a temere che la sostenuta pressione militare russa degli ultimi mesi si tramuti improvvisamente in una possente offensiva concentrata su alcuni dei punti più deboli di un fronte che sembra sul punto di cedere. I bombardamenti di Mosca sulle infrastrutture militari ed energetiche non sono mai calati di intensità e continuano a mettere in seria difficoltà le retrovie ucraine. Al fronte le cose non vanno meglio, con le unità di Kiev costrette a indietreggiare per evitare l’annientamento, bersagliate dall’artiglieria e dai droni russi.
Le sortite ucraine, con i droni o i missili a lunga gittata lanciati in profondità nel territorio russo a colpire le infrastrutture o le città, non sembrano impensierire più di tanto Mosca e sicuramente, al momento, non riescono a indebolire il meccanismo offensivo russo.

Quest’ultimo sembra puntare alla conquista di Sloviansk e Kramatorsk, le due maggiori città del Donetsk ancora sotto controllo ucraino, per poi proseguire fino alla sponda orientale del fiume Dnepr. Allo scopo i russi starebbero costruendo una base aerea nell’area di Belgorod, a circa 70 km dal confine.

Zelensky al fronte

Il fronte è sul punto di cedere?
Da più parti si segnala il rischio imminente di un cedimento del fronte. Gli inviati dell’agenzia di stampa Reuters, che seguono la 93ª Brigata meccanizzata ucraina, testimoniano che «le forze ucraine si sono assottigliate e si trovano in inferiorità di armi, di fronte a un nemico meglio equipaggiato».

La ritirata continua delle prime linee ucraine mette a dura prova gli apparati logistici e i rifornimenti destinati alle truppe, così come la realizzazione delle infrastrutture difensive che vengono spesso bypassate dai russi prima ancora di diventare del tutto operative. Nel frattempo, Kiev ha dovuto ritirare dal fronte 31 carri armati statunitensi Abrams che si sono rivelati troppo vulnerabili agli attacchi dei droni da bombardamento russi.

In questo quadro, il pacchetto di aiuti statunitensi potrebbe essere sufficiente solo a evitare il completo collasso ucraino, ma non a imprimere alla situazione un’inversione di tendenza, almeno non nei prossimi mesi. «La situazione al fronte è peggiorata» ha riconosciuto nei giorni scorsi il capo dell’esercito ucraino, Oleksandr Syrskyi, subentrato l’8 febbraio al generale Valery Zaluzhny. Quest’ultimo, inviso al presidente Zelensky, è stato ora del tutto esonerato dalle forze armate con un decreto ad hoc che giustifica la misura con presunti “problemi di salute”.

Kiev mobilita i detenuti
Le consegne di aiuti statunitensi procedono a rilento e comunque le truppe ucraine scontano parecchi mesi di razionamento delle munizioni, oltre a una cronica mancanza di ricambi nonostante l’approvazione, da parte della Rada, dei provvedimenti diretti ad allargare la coscrizione obbligatoria. Ora, nel tentativo di rimpinguare le prime linee, il parlamento di Kiev ha approvato mercoledì un disegno di legge sulla mobilitazione volontaria dei detenuti, che però esclude coloro che sono stati condannati per reati gravi. Agli altri, se si arruoleranno, i tribunali potranno concedere la condizionale. Il governo di Kiev ha anche chiesto agli alleati europei di “incoraggiare” i rifugiati ucraini a tornare in patria per combattere.

Si combatte in vista del negoziato
Kiev sta tentando in ogni modo di frenare l’avanzata russa, cosciente che presto o tardi dovrà intavolare serie trattative con Mosca e accettare dei duri compromessi. Ormai, che i due eserciti stiano combattendo in vista di una trattativa alla quale giungere nella posizione più favorevole possibile, viene riconosciuto pubblicamente anche dall’establishment ucraino.

Lo ha fatto, ad esempio, il generale Vadim Skibitski, vice direttore dell’intelligence militare ucraina (Gur), in un’intervista al settimanale britannico “The Economist”. Secondo Skibitski, però, negoziati realmente significativi potrebbero iniziare solo nella seconda metà del 2025. A meno che l’esercito russo – che per il vice direttore del Gur opera ora «come un corpo unico, con un piano chiaro e sotto un unico comando» – non riescano nelle prossime settimane a sfondare in profondità nel territorio ucraino.

I russi sfondano a Kharkiv
Nei giorni scorsi il generale Skibitski aveva avvertito che la Russia si stava preparando per un assalto contro le regioni di Kharkiv e Sumy, nel nord est del Paese. L’attacco, previsto tra un mese circa, sembra invece essere già iniziato.
Già stamattina decine di migliaia di soldati russi, supportati dall’artiglieria e dai blindati, sono penetrati all’interno dell’oblast di Kharkiv dopo che per dieci ore le installazioni vicine alla città e al confine erano state martellate dai bombardamenti.

Le truppe di Mosca sono penetrate in territorio ucraino per circa un chilometro in prossimità della cittadina di Vovchansk, precedute da gruppi di sabotatori. Contemporaneamente i reparti russi hanno sfondato una quarantina di km più a ovest, sempre nell’oblast di Kharkiv, conquistando i villaggi di Streleche, Krasne, Pylna e Borysivka.

Il fronte all’8 maggio

Macron: “servono truppe Nato”
Il netto squilibrio delle forze e la possibilità di un crollo del fronte orientale ucraino sembrano preoccupare soprattutto la Francia, il cui presidente Macron continua da mesi a evocare la necessità di un intervento militare occidentale sul campo per impedire che le truppe di Mosca dilaghino nel paese invaso.

L’inquilino dell’Eliseo è tornato nei giorni scorsi a ribadire, in un’intervista sempre a “The Economist”, che un invio di truppe in Ucraina non è escluso nel caso in cui la Russia dovesse «bucare le linee del fronte» e nel caso in cui «Kiev lo richiedesse». Macron, che sembra cercare un rischioso protagonismo francese nel momento in cui l’impegno statunitense a sostegno di Kiev sembra ridimensionarsi, ha affermato che scartare a priori l’ipotesi di un intervento militare diretto occidentale «significa non trarre insegnamento dagli ultimi due anni», durante i quali i paesi della Nato hanno inviato a Kiev sistemi d’arma che inizialmente avevano escluso.

Nessun altro capo di stato dell’Alleanza Atlantica – esclusi i baltici – ha dato corda a Macron, e anzi in molti si sono affrettati a giurare alle proprie opinioni pubbliche che nessun soldato europeo metterà piede in Ucraina.
Intanto però, nel corso di una visita a Kiev, il ministro degli esteri britannico David Cameron ha promesso un invio rapido dei potenti missili Storm Shadow con una gittata di 500 km, affermando che l’Ucraina gode del consenso di Londra per attaccare obiettivi all’interno del territorio russo.

Russia e Bielorussia testano l’arsenale nucleare tattico
Vladimir Putin, che ha appena iniziato il suo quinto mandato alla guida della Federazione Russa, ha voluto reagire ricordando che i paesi europei potrebbero pagare molto caro un coinvolgimento diretto nel conflitto.
La Russia ha avvisato che «si sente obbligata» a rafforzare il deterrente nucleare a causa di quella che considera una “escalation”, ha detto ieri il vice ministro degli Esteri di Mosca Sergei Ryabkov.

Già lunedì il Cremlino aveva annunciato l’avvio a breve di una serie di esercitazioni, che coinvolgeranno Marina e Aviazione, all’uso delle armi nucleari tattiche nei pressi del confine con l’Ucraina. Subito dopo, anche l’esercito bielorusso ha avvisato di aver avviato un’esercitazione per verificare il grado di “preparazione” dei suoi lanciatori tattici dei missili a testata nucleare schierati nel paese da Mosca nel 2023.

Intanto l’Unione Europea ha deciso, dopo un lungo dibattito interno, di utilizzare i proventi derivanti dai capitali russi sequestrati nella primavera del 2022 per finanziare lo sforzo bellico ucraino. Secondo i rappresentanti dei 27 membri dell’UE riuniti a Bruxelles, gli asset della Banca Centrale della Federazione Russa requisiti – per un valore di circa 210 miliardi di euro – dovrebbero generare dai 2,5 ai 3 miliardi di euro l’anno. Gli USA chiedevano invece la completa confisca dei beni russi congelati. Pagine Esteri

6223.- ANALISI. Artificiali i dissensi tra Biden e Netanyahu. Israele ha armi Usa sufficienti per colpire Rafah

Le minacce di Biden portano soltanto a incrementare l’industria bellica israeliana già molto sviluppata.

Da Pagine Esteri, di Michele Giorgio | 10 Maggio 2024 

ANALISI. Artificiali i dissensi tra Biden e Netanyahu. Israele ha armi Usa sufficienti per colpire Rafah

di Michele Giorgio

Una tempesta in un bicchiere d’acqua o, peggio, un inganno mediatico volto a rappresentare un “aspro dissenso” tra Stati uniti e Israele che è solo nelle parole e non nei fatti. Così occorre interpretare i contrasti tra Joe Biden e Benyamin Netanyahu emersi più nettamente negli ultimi giorni dopo la decisione, peraltro non ancora definitiva, dell’Amministrazione americana di ritardare le forniture di alcuni tipi di bombe made in Usa che Israele potrebbe o dovrebbe usare durante il suo assalto alla città palestinese di Rafah, sul confine tra Gaza e l’Egitto.

Il clamore per l’annuncio di Biden è stato enorme nelle ultime ore. Netanyahu ha prima replicato affermando che Israele “si difenderà con le unghie” e continuerà a combattere “anche da solo”. Poi, in una intervista di qualche ora fa, ha ammorbidito i toni dicendo che dissensi con gli Usa ci sono stati anche in passato, ma sono “superabili” e che l’alleanza tra i due paesi è sempre solida e non è stata messa in discussione da questa vicenda.

Da parte sua la Casa Bianca già getta acqua sul fuoco e precisa, attraverso la portavoce dell’Amministrazione, Karine Jean-Pierre, che Biden “continuerà a fornire a Israele tutte le capacità di cui ha bisogno per difendersi, ma non vuole che alcune categorie di armi americane vengano utilizzate in un particolare tipo di operazione in un determinato luogo” (Rafah). A conferma che gli Usa non intendono aggravare i dissensi con Israele, il segretario di Stato Blinken, nel rapporto che si accinge a presentare oggi al Congresso, pur criticando lo Stato ebraico, afferma che l’uso da parte di Tel Aviv delle armi americane contro Gaza è in linea con la legge internazionale. Una posizione fortemente contestata dalle Ong per i diritti umani e dagli esperti di diritto internazionale.

Davvero Biden impedirà l’utilizzo di bombe Usa contro Rafah? Nulla di più lontano dalla realtà. Il tipo di bombe ad alto potenziale che Washington non ha ancora consegnato a Tel Aviv, è già largamente presente negli arsenali israeliani, perché nei passati 7 mesi Biden non ha fatto mancare a Israele alcuno strumento di morte da utilizzare contro Gaza. Non a caso il ministro della Difesa Yoav Gallant, che vanta ottimi rapporti con gli Usa, ha ribadito che “Israele raggiungerà i suoi obiettivi a sud (a Gaza) e a nord (con gli Hezbollah)”.  Certo, dovessero gli Usa bloccare o limitare le forniture di bombe ed altre armi, Israele dovrebbe adottare “un’economia degli armamenti”, quindi conservare le munizioni in modo che queste non finiscano o procurarsele altrove. Ma è una prospettiva remota. Il portavoce militare di Israele, Daniel Hagari, ha detto che le forze israeliane hanno munizioni sufficienti per l’attacco a Rafah e per altre operazioni pianificate.

“Quando parliamo di difficoltà all’interno delle forze di difesa israeliane, è a lungo o medio raggio”, ha spiegato Yaakov Amidror, ex generale dell’esercito e consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu. “Per la guerra a Gaza – ha aggiunto – o per la possibile guerra aperta di domani in Libano, la decisione degli Stati Uniti non farà alcuna differenza”.  L’industria bellica israeliana è molto sviluppata e vanta risorse prodotte internamente come il sistema di difesa missilistico Iron Dome. “Abbiamo notevoli capacità, ma ci sono campi in cui, anche se non dipendessimo dagli aiuti militari americani, dovremmo comunque comprare armi da altri paesi”, ha detto alla radio israeliana Avi Dadon, ex capo del Dipartimento acquisti e produzione del Ministero della Difesa.

Il vero effetto pratico dell’annuncio di Biden è quello di spingere Israele a rafforzare la sua industria militare. “È chiaro che investiremo molti soldi per essere in una posizione migliore e produrre in futuro ciò di cui abbiamo bisogno”, ha aggiunto Amidor.

6211.- Messaggio a Netanyahu: “Se entrate a Rafah non vi diamo più le armi promesse”. Israele, suicidio annunciato.

Da nova- Project, Gianluca Napolitano, 28 aprile 2024

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Di fronte al rischio per la propria sopravvivenza, la classe politica americana ora deve dimostrare di sapersi opporre alle lobby ebraiche.

Ma se Israele viene lasciato a metà del guado, sarà la sopravvivenza della classe politica sionista ad essere non più garantita.

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(Guardando indietro: nova-project · 11 ottobre 2023).

Mi dispiace, veramente, vedere la fine di Israele. Se non altro era un buon posto per passarci l’inverno e che non esiste già più, ma sono religiosi, e si sa che Dio toglie il senno a coloro che vuol perdere.

Passo falso 1 – fanculo le regole Ahi ahi. E ora gli alleati occidentali come fanno a continuare a parlare della necessitò di sacrificarci e accettare tutto quello che stiamo subendo per difendere un “mondo fatto di regole” e “rispetto del diritto internazionale” e tutte le varie questioni morali che hanno tirato fuori per la guerra in Ucraina? E’ evidente che le regole valgono solo finchè vinci tu ma quando cominci a perdere allora tutto è lecito.

Passo falso 2 – fare i nazisti, senza se e senza ma E peggio ancora farlo davanti agli occhi del mondo intero, dopo aver fatto imparare a tutti a memoria la storia dell’Olocausto. Tra il 22 luglio e il 12 settembre 1942, i tedeschi avevano rinchiuso circa 300.000 ebrei nel ghetto di Varsavia. Di questi, 265.000 vennero deportati e soltanto a 35.000 venne concesso di rimanere nel ghetto. Ma oltre 20.000 si rifiutarono di esserre deportati e crearono un’unità armata di autodifesa, nota con il nome di Organizzazione Combattente Ebraica (Zydowska Organizacja Bojowa; ZOB). La maggioranza degli abitanti non era d’accordo, non sapendo in realtà quale era la fine dei deportati, che si pensava venissero solo mandati ai lavori forzati e temeva la reazione violenta dei tedeschi. La ZOB aveva infatti inizialmente solo circa 200 membri ai qualisi unì subito l’Unione Combattente Ebrea (Zydowski Zwiazek Wojskowy; ZZW). Ad ottobre 1942 il movimento armato clandestino polacco (Armia Krajowa, o Esercito Nazionale) riuscì a fornire alla ZOB alcune armi ed esplosivi. Il 18 gennaio 1943 la ZOB si infiltrò in una colonna di ebrei che stavano per essere deportati, ruppe le righe e combatté contro le guardie tedesche. Morirono quasi tutti ma i tedeschi rimasero disorientati. Heinrich Himmler, il Reichsführer delle SS, diede ordine di “liquidare” con ogni mezzo la resistenza del ghetto di Varsavia. Secondo il programma tedesco, la “liquidazione” avrebbe dovuto essere eseguita in tre giorni, ma i combattenti del ghetto riuscirono a resistere per più di un mese. Reputando la resistenza ebraica troppo numerosa, i tedeschi si riolsero a bombardare il ghetto con gll Stukas – bombardieri da picchiata con un forte impatto psicologico – abbattendo la maggior parte dei palazzi. I civili che si arresero furono immediatamente deportati e mandati nelle camere a gas. Morirono in 42.000. Ma nonostante questo anche dopo la distruzione completa del ghetto, ancora il 16 maggio 1943, singoli ebrei nascosti tra le rovine continuarono ad attaccare le pattuglie tedesche e il personale ausiliario. A Gaza sono chiusi 2,6 milioni di palestinesi, non solo 300mila.

Passo falso 3 – fare le vittime Gli israeliani si sono macchiati per decenni di ogni tipo di crimine possibile, durante l’occupazione, equagliando i metodi delle SS con i loro nonni. L’elenco è sterminato, troppo per citarlo qui, si va dall’avvelenamento degli aquedotti all’uso di bombe al fosforo nelle case, ma ovviamente tutto è nascosto sotto il tappeto del senso di colpa occidentale per quanto accaduto a 6 milioni di ebrei fatti passare per il camino dai tedeschi. Strano che nessuno abbia analoghi sensi di colpa per i 25 milioni di russi morti per mano tedesca. Sono dettagli che in occidente nessuno nota. Ma solo in Occidente. Fino a ieri i governi di Israele hanno violato sistematicamente ogni accordo sottoscritto, decisione dell’ONU o regola del diritto internazionale come gli è parso e piaciuto, sempre nascondendosi dietro l’Olocausto e facendosi beffa di tutti. Ma il governo di Israele non è “gli ebrei”. Non ha nessun diritto di riscuotere lui la cambiale firmata al popolo ebraico. Ci marcia sopra. Quando è apparso un politico israeliano che parlava di pace e poteva raggiungerla, lo hanno ammazzato. Assassinio di Yitzhak Rabin – Wikipedia Adesso che gli israeliani non si trovano più davanti un nemico che usa la fionda, e si fa ammazzare senza poter reagire, ma una rivolta organizzata con tutti i crismi della regola – e gli stessi metodi usati dai loro nonni nel 1948 – fanno le vittime e chiedono la solidarietà del mondo per portare a termine una “soluzione finale” del problema palestinese.

Passo falso 5 – la tragedia dei “piani geniali” Hamas è una creatura di Israele e degli USA, messa in piedi a suo tempo per contrastare L’OLP di Yasser Arafat. Il più antico e influente quotidiano israeliano scrive che Netanyahu ancora nel 2019 ha insistito in parlamento nel sostenere Hamas, anche finanziariamente, perché secondo la strategia del governo impediva la creazione di uno stato palestinese indipendente. Non ci vuole molto a capire chi glielo aveva suggerito. Gli stessi geniali strateghi americani che hanno coltivato a suo tempo i Talibani, Al Qaeda, l’ISIS e il Califfato Islamico. Che poi si sono TUTTI rivoltati contro i loro astuti sponsor, seminando caos e terrore fino in Europa Passo falso 5 – Strafare Dopo molto tempo il tema principale della politica internazionale non è più la guerra in Ucraina. E questo è destinato a durare a lungo, perchè quello in Palestina è un conflitto che – a differenza di quell’altro – tocca veramente da vicino i paesei europei, che potrebbero essere presi nel mezzo da un fuoco incrociato di VERE sanzioni (se i paesi arabi decideranno di chiudere i rubinetti del petrolio e del gas) e terrorismo islamico in casa propria. Tutti i politici europei sono stati colti di sorpresa, e l’impreparazione, l’incompetenza e la incapacità di Borrell (responsabile della politica estera europea) è stata plateale. Qui si tratta di farla davvero, una politica europea, e non solo di accodarsi a Washington e ricevere il biscottino in premio. Anche perchè a Washington in questo momento regna il panico più assoluto e nessuno sa cosa fare se non mandare, pare, una seconda portaerei. E i paesi arabi, le oro “masse islamiche” comincaino a sentire un insostenibile puzzo di “Nona Crociata”. Perfino Erdogan – membro della NATO e alleato quindi degli USA – sta cambiando linea ora dopo ora. Il salomonico equilibrismo delle prime ore sta cedendo a poco a poco il passo alla retorica anti-occidentale sulla spinta delle piazze. Di fatto però è l’unico alleato NATO che ha il coraggio di fare la domanda che nessun governante ha il coraggio di fare: che cosa hanno in mente gli USA? “Perché la portaerei americana viene in Israele? A quale scopo? Che cosa vogliono fare esattamente? Colpiranno Gaza con i loro aerei da guerra e faranno un massacro?” “Hanno tagliato l’acqua e l’elettricità a Gaza. Dove sono i diritti umani? Non hai il diritto di tagliare l’acqua secondo la Dichiarazione dei diritti umani. Come la mettiamo con gli ospedali di Gaza? Come opereranno? Funzioneranno senza medicinale e acqua? Purtroppo no. Vedi che colpiscono ospedali e templi senza alcuna pietà. E nessuno dice nulla al riguardo“ Colpiscono ospedali e templi senza alcuna pietà e nessuno dice nulla al riguardo. Sono dettagli che vengono notati. Hai voglia te a non farli vedere sulle TV europee. Gli arabi mica si informano coi nostri media. Ieri i missili e i gruppi di DRG (commandos di sabotaggio e ricognizione) di Hezbollah hanno fatto le prime apparizioni nel nord di Israele, così come i primi lanci di missili di prova. Hezbollah sta solo tastando il terreno, effettuando dei “drill test”, in attesa del momento mediatico giusto – l’ingresso delle truppe di terra a Gaza – per fare le sue mosse. Dalla Siria è giunto l’OK del preidente Assad al “libero transito” di miliziani e volontati che intendono assalire le alture del GOlan occupate dagli israeliani. L’esercito siriano, per ora, starà a guardare, ma loro facciano come credono meglio, nessuno (se non gli israeliani) li fermerà. La Siria non ha paura di rappresaglie israeliane. Subisce costantemente attacchi da Israele senza motivo, tanto vale lasciar fare chi ha volgia di farsi ammazzare. Basta che gli israeliani non si mettano strane idee in testa perchè i russi ora, con la squadra navale americana e il suo ombrello aereo in zona, voglia di lasciar passare velivoli “non identificati” che ronzano nelle prossimità della loro base navale non ne hanno per niente. Gli israeliani hanno anche bombardato anche la dogana di Rafah, l’unico valico che unisce Gaza al resto del mondo, cioè a Sud e all’Egitto, costringendo ambulanze e camion carichi di medicinali delle varie ONG a fuggire e facendo qualche ferito fra i doganieri egiziani. La cosa non ha fatto una gran buona impressione sulla opinione pubblica egiziana, e sui suoi 50 milioni di giovani sotto i 25 anni di età. Pare che Al Sisi abbia personalmente ordinato di predisporre un convoglio gigantesco da mandare a Gaza. Vuole vedere se gli israeliani avranno il coraggio di bombardarlo. ll Valico è esclusiva competenza di Egitto e autorità palestines, e anche se ora è chiuso, verrà riaperto all’arrivo del convoglio Ad ogni buon conto tutte le licenze dei militari sono state sospese, e l’aereonautica messa in stato di allarme. Secondo i media israeliani, il governo ha avvertito il Cairo che non esiterà a colpire qualsiasi convoglio umanitario, anche se egizian, se tenteranno di fornire ulteriori aiuti alla Striscia di Gaza, La strategia israeliana – per quanto brutale – ha una sua logica, ma comporta anche dei rischi, mentre il danno di immagine è già fatto ma ma potrebbe anche spingere i paesi del golfo a decidere di rispondere a queste posizioni troppo muscolari, tirando fuori il ricatto petrolifero. E non solo nei confronti di Israele ma anche di tutti coloro che gli hanno manifestato pieno supporto. Esagerare non conviene, ma è nell’animo stesso degli israeliani. Certo la misura estrema è volta a scoraggiare ogni possibile intervento esterno e circoscrivere il conflitto su un piano dove Israele è sicura di vincere. Ma essere sicuri di vincere e riuscire a farlo veramente non è la stessa cosa. Queste posizioni infatti stanno rendendo sempre più dificile la neutralità dei vicini arabi. Tel Aviv probabilmente calcola che la copertura militare americana sia sufficiente a dissuadere coinvolgimenti esterni nella guerra, ma come ci insegna Clausewitz la guerra è un “gioco probabilistico” dove si gioca a carte coperte e gli errori sono frequenti. Per far capire che fa sul serio, “aerei da guerra non identificati” – chissà di chi – questa notte hanno colpito un convoglio militare in viaggio tra Al-Qa’im (Iraq) e Al-Bukamal (Siria). Sempre per far vedere che anche Hamas non scherza, dopo l’ennesimo edificio civile colpito dagli israeliani a Gaza, Hamas ha diffuso un video in cui due ostaggi vengono uccisi da un colpo di fucile d’assalto. Il video si svolge in un locale buio e quindi non si sa se sia vero e di chi si tratti. Passo falso #6 – Sputtanarsi “Abbiamo camminato porta a porta, abbiamo ucciso molti terroristi. Sono molto cattivi. Tagliano teste ai bambini, tagliano teste alle donne. Ma noi siamo più forti di loro”. 18+ 2023-10-10 – Soldati israeliani uccidono prigioneiri e poi inscenano un combttimento 18+ 2023-10-10 Palestina – coloni israeliani si accaniscono con l’auto sul corpo di un palestinese

https://novaproject.quora.com/israele-suicidio-annunciato

E siccome a questo punto diventa difficile salvare la faccia qualcosa deve succedere a breve.

6169.- Mar Rosso, gli Houthi negano di aver tagliato i cavi. I dettagli sul reindirizzamento del traffico

Da Formiche.net, di Stefano Bontempi, 5.03.2024

Colpito il 25% del traffico che tramite cavi sottomarini collega Asia, Africa ed Europa. I fatti risalgono ad alcuni giorni fa, ora arrivano le conferme dei danni subìti da parte delle società proprietarie. I cavi interrotti sarebbero almeno quattro (di 15 totali), stando alle informazioni fornite dai media locali:

  • AAE-1 (Asia-Africa-Europa 1): 25.000km, sud-est asiatico – Europa
  • Seacom: 17.000km, Sudafrica, Kenya, Tanzania, Mozambico, Gibuti, Francia, India
  • Europe India Gateway (EIG): 15.000km
  • TGN

NOTA: tra i cavi danneggiati non risulta esserci 2Africa, infrastruttura ancora in costruzione che collega Genova a Gran Canaria circumnavigando il continente africano. La sua lunghezza a lavori finiti sarà di 45.000km.

Seacom è stata la prima a confermare il danneggiamento, che sarebbe avvenuto ad una profondità compresa tra 150 e 170 metri in una zona in cui si sono verificati attacchi alle navi di passaggio tramite droni. I tempi per il ripristino sono stati stimati in 8 settimane circa, ma bisogna considerare il fatto che si tratta di un’area di conflitto difficilmente accessibile.

Il cavo sottomarino EIG (Europe India Gateway), lungo 15.000 chilometri.

Questi giorni sono serviti per contare i danni che, a quanto pare, risultano essere superiori rispetto alle stime iniziali: i provider sono infatti costretti a reindirizzare il 25% del traffico internet tra Asia ed Europa a causa della indisponibilità dei cavi sottomarini. La società di telecomunicazioni HGC Global Communications di Hong Kong ha parlato di interruzioni significative alle reti di comunicazione in Medio Oriente.

 Il reindirizzamento del traffico prevede tre percorsi:

  • verso nord: da Hong Kong all’Europa via Cina
  • verso est: da Hong Kong all’Europa via Stati Uniti
  • verso ovest: impiego dei rimanenti 11 cavi sottomarini funzionanti

Nei comunicati stampa, HGC non cita i miliziani Houthi, né si sofferma a motivare la causa del malfunzionamento dell’infrastruttura. Certo è che alcune settimane fa il governo yemenita aveva avvisato la comunità internazionale della possibilità che i ribelli potessero danneggiare i cavi con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra est e ovest.

La situazione va letta all’interno di un quadro più ampio in cui anche gli approvvigionamenti di materie prime provenienti dall’Asia e diretti verso l’Europa hanno subìto un forte rallentamento: gli attacchi alle navi da parte dei ribelli rischiano infatti di generare una grave crisi soprattutto in campo tecnologico (chip) e automotive.

Gli Houthi negano di aver tagliato i cavi. Hanno sempre rivendicato i loro attacchi.

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi e Massimiliano Boccolini, 28.02.2024

Mentre gli Houthi smentiscono di aver colpito i cavi sottomarini nel Mar Rosso nei giorni scorsi, resta alta l’attenzione sulle infrastrutture Internet. Emergono nuovi dettagli sull’accaduto: l’ancora di un cargo colpito dei miliziani yemeniti, il Rubymar, potrebbe aver tranciato i cavi mentre andava alla deriva?

Gli Houthi dichiarano di non essere responsabili del danneggiamento di alcuni cavi sottomarini che scorrono lungo il Mar Rosso – in tilt da sabato. In un comunicato pubblicato martedì, il ministero delle Comunicazioni e dell’Informatica di Sanaa, in mano agli Houthi, ha ribadito la volontà di “risparmiare tutti i cavi di comunicazione e i loro servizi da qualsiasi rischio” e di “fornire le strutture necessarie per la loro riparazione e manutenzione, a condizione che ottengano i necessari permessi dall’Autorità per gli affari marittimi di Sanaa”.

In passato erano emerse minacce da parte del gruppo yemenita e di altre milizie del network finanziato dai Pasdaran, ma non è effettivamente chiaro quanto queste forze siano in grado di operare – ipotesi remota, secondo l’intelligence militare americana. Non è chiaro nemmeno se tali capacità le abbia l’Iran, che fornisce le armi alla rete di milizie che lavora sia in forma autonoma sia per curare l’influenza della Repubblica islamica nella regione. E soprattutto, non è chiaro se ci sia un reale interesse ad alzare ulteriormente il livello dello scontro, aggiunge al già problematico attacco costante alle rotte commerciali di superficie, un’azione altrettanto critica sulle infrastrutture Internet sottomarine.

“Credo che la carta dei cavi sottomarini sia ancora nella fase delle minacce per gli Houthi e non sia entrata nei target reali, ma rimane al centro dell’attenzione per loro e potrebbero cercare di prenderli di mira in seguito, e questo provoca lo spavento della popolazione e delle autorità in un certo numero di continenti come Asia, Europa e Africa, con effetti che potrebbero essere di grande portata sia per lo Yemen sia a livello internazionale, perché le acque davanti al nostro Paese sono un corridoio globale per i cavi Internet marittimi”, spiega Hesham Sarhan, giornalista yemenita,

Sarhan aggiunge che il gruppo cerca guadagni politici ed economici all’interno dello Yemen e nei negoziati con i Paesi della coalizione araba e altri. Anche per Muhammad Ali Mahrous, giornalista e fact-checker yemenita, esiste la spinta da parte di media e influencer pro-Houthi per attaccare i cavi, nonostante il gruppo abbia rivendicato di non essere responsabile. “Il problema – aggiunge Mahrous – è che anche le navi che dovrebbero fare riparazioni e diagnostica non possono avvicinarsi per questioni di sicurezza”.

Secondo le informazioni raccolte da Formiche.net, il danneggiamento non è stato prodotto da un evento naturale come un terremoto o una frana sottomarina. Dalle informazioni che si stanno consolidando in queste ore, è possibile che il cargo Rubymar, colpito il 18 febbraio da un missile anti-nave Houthi, sia stato responsabile della vicenda. Ma si resta nel campo delle ipotesi.

Il Rubymar, una volta colpito pesantemente, avrebbe gettato l’ancora di tribordo, poi l’equipaggio ha lasciato la nave per mettersi in salvo. L’imbarcazione sta affondando e non è più ancorata, ma sta lentamente andando alla deriva attraverso il Mar Rosso. Le ancore di queste navi possono anche raggiungere i 150/170 metri di profondità, quella a cui sarebbe avvenuto il danno ai cavi. Si stanno analizzando le rotte del Rubymar, ma in generale le indagini da compiere in certi casi sono molto complesse.

La Rubynar è affondata.

Eppure, questo genere di incidenti accadono (per altro, la Rubynar che affonda può produrre altri disastri oltre a quello naturale). Però, in un contesto iper-teso come quello del Mar Rosso, dove le infrastrutture sono raccolte in modo eccessivo esponendo ulteriormente le vulnerabilità, questioni accidentali vengono automaticamente percepite come attacchi – con speculazioni conseguenti. Va comunque aggiunto che in questo caso l’eventuale incidente si sarebbe verificato a fronte di un attacco degli Houthi che ha messo fuori uso il Rubymar.

6132.- La profezia di Ratzinger del 1969 sul futuro di una «Chiesa della Fede» e «quel piccolo gregge di credenti»

2 Dicembre 2023  Blog dell’Editore di Vik van Brantegem

Ripropongo alla riflessione un articolo pubblicato l’8 ottobre 2021, sulla profezia sul futuro di una «Chiesa della Fede» e «quel piccolo gregge di credenti», che concluse un ciclo di cinque lezioni radiofoniche, svolte nel 1969 dall’allora professore di teologia Joseph Ratzinger. Dopo aver rotto con gli amici teologi Hans Küng, Edward Schillebeeckx e Karl Rahner sull’interpretazione del Concilio Vaticano II, iniziano nuove amicizie con i teologi Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, con i quali darà vita alla rivista Communio. Nelle cinque lezioni il teologo e futuro Papa in quel complesso 1969 tracciava la propria visione sul futuro dell’uomo e della Chiesa.

È soprattutto l’ultima lezione, nel giorno di Natale del 1969 ai microfoni della Hessischer Rundfunk, ad assumere i toni della profezia.

Il Professore Joseph Ratzinger si diceva convinto che la Chiesa stesse vivendo un’epoca analoga a quella successiva all’Illuminismo e alla Rivoluzione francese: «Siamo a un enorme punto di svolta nell’evoluzione del genere umano. Un momento rispetto al quale il passaggio dal Medioevo ai tempi moderni sembra quasi insignificante». Il Professor Ratzinger paragonava l’era attuale con quella di Papa Pio VI, rapito dalle truppe della Repubblica francese e morto in prigionia nel 1799. La Chiesa si era trovata allora alle prese con una forza che intendeva estinguerla per sempre, aveva visto i propri beni confiscati e gli ordini religiosi dissolti. Una condizione non molto diversa, spiegava, potrebbe attendere la Chiesa odierna, minata dalla tentazione di ridurre i preti ad “assistenti sociali” e la propria opera a mera presenza politica.

Ratzinger affermava che «alla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali» e ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la Fede al centro dell’esperienza. «Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la Sinistra e ora con la Destra. Sarà povera e diventerà la Chiesa degli indigenti».

Quello che il Professor Ratzinger delineava, era «un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una Chiesa più spirituale e semplificata». A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di «indescrivibile solitudine» e avendo perso di vista Dio, «avvertiranno l’orrore della loro povertà». Allora, e solo allora, concludeva, vedranno «quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per sé stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto».

La traduzione italiana delle parole di Professore Joseph Ratzinger, rispondendo alla domanda di coloro che si chiedevano cosa sarebbe diventata la Chiesa in futuro durante la trasmissione radiofonica del 25 dicembre 1969

(…) Dobbiamo essere cauti nei nostri pronostici. Quello che ha detto Sant’Agostino è ancora vero: l’uomo è un abisso; nessuno può prevedere quello che uscirà da queste profondità. E chiunque creda che la Chiesa sia non solo determinata dall’abisso che è l’uomo, ma raggiunga l’abisso più grande, infinito, che è Dio, sarà il primo a esitare con le sue predizioni, perché questo ingenuo desiderio di sapere con certezza potrebbe essere solo l’annuncio della sua inettitudine storica. (…)

Il futuro della Chiesa può risiedere e risiederà in coloro le cui radici sono profonde e che vivono nella pienezza pura della loro fede. Non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente o in quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili, né in coloro che prendono la strada più semplice, che eludono la passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica, tutto ciò che esige qualcosa dagli uomini, li ferisce e li obbliga a sacrificarsi. Per dirla in modo più positivo: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia. La generosità, che rende gli uomini liberi, si raggiunge solo attraverso la pazienza di piccoli atti quotidiani di negazione di sé. Con questa passione quotidiana, che rivela all’uomo in quanti modi è schiavizzata dal suo ego, da questa passione quotidiana e solo da questa, gli occhi umani vengono aperti lentamente. L’uomo vede solo nella misura di quello che ha vissuto e sofferto. Se oggi non siamo più molto capaci di diventare consapevoli di Dio, è perché troviamo molto semplice evadere, sfuggire alle profondità del nostro essere attraverso il senso narcotico di questo o quel piacere. In questo modo, le nostre profondità interiori ci rimangono precluse. Se è vero che un uomo può vedere solo col cuore, allora quanto siamo ciechi!

In che modo tutto questo influisce sul problema che stiamo esaminando? Significa che tutto il parlare di coloro che profetizzano una Chiesa senza Dio e senza fede sono solo chiacchiere vane.

Non abbiamo bisogno di una Chiesa che celebra il culto dell’azione nelle preghiere politiche. È del tutto superfluo. E quindi si distruggerà. Ciò che rimarrà sarà la Chiesa di Gesù Cristo, la Chiesa che crede nel Dio che è diventato uomo e ci promette la vita dopo la morte. Il tipo di sacerdote che non è altro che un operatore sociale può essere sostituito dallo psicoterapeuta e da altri specialisti, ma il sacerdote che non è uno specialista, che non sta sugli spalti a guardare il gioco, a dare consigli ufficiali, ma si mette in nome di Dio a disposizione dell’uomo, che lo accompagna nei suoi dolori, nelle sue gioie, nelle sue speranze e nelle sue paure, un sacerdote di questo tipo sarà sicuramente necessario in futuro.

Facciamo un altro passo. Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. In contrasto con un periodo precedente, verrà vista molto di più come una società volontaria, in cui si entra solo per libera decisione. In quanto piccola società, avanzerà richieste molto superiori su iniziativa dei suoi membri individuali.

Scoprirà senza dubbio nuove forme di ministero e ordinerà al sacerdozio cristiani che svolgono qualche professione. In molte congregazioni più piccole o in gruppi sociali autosufficienti, l’assistenza pastorale verrà normalmente fornita in questo modo. Accanto a questo, il ministero sacerdotale a tempo pieno sarà indispensabile come in precedenza. Ma nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la Chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica.

Sarà una Chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Essa farà questo con fatica. Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione la renderà povera, la farà diventare una Chiesa dei piccoli, il processo sarà lungo e faticoso, perché dovranno essere eliminate la ristrettezza di vedute settaria e la caparbietà pomposa. Si potrebbe predire che tutto questo richiederà tempo.

Il processo sarà lungo e faticoso, come lo è stata la strada dal falso progressismo alla vigilia della Rivoluzione Francese – quando un vescovo poteva essere ritenuto furbo se si prendeva gioco dei dogmi e insinuava addirittura che l’esistenza di Dio non fosse affatto certa – al rinnovamento del XIX secolo. Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una Chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto.

A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.

La Chiesa cattolica sopravvivrà nonostante uomini e donne, non necessariamente a causa loro, e comunque abbiamo ancora la nostra parte da fare. Dobbiamo pregare e coltivare la generosità, la negazione di sé, la fedeltà, la devozione sacramentale e una vita centrata in Cristo.

Joseph Ratzinger

6121.- Gli Stati Uniti non dovrebbero più essere “stupidi”: Trump chiede la fine degli aiuti esteri “senza vincoli”.

The Epoch Times

di Melanie Sun, 11 febbraio 2024

US Should Be ’Stupid’ No More: Trump Calls for End to ‘No Strings’ Foreign Aid

“Un aiuto può essere prestato a condizioni straordinariamente vantaggiose, come nessun interesse e una durata illimitata, ma è comunque un prestito”, ha scritto l’ex presidente.

L’ex presidente Donald Trump ha invitato il Congresso degli Stati Uniti a smettere di donare aiuti statunitensi a nazioni straniere senza alcun “vincolo”.

“Da questo momento in poi, state ascoltando il Senato degli Stati Uniti (?), nessun denaro sotto forma di aiuti esteri dovrebbe essere dato a nessun paese a meno che non sia fatto come prestito, non soltanto come omaggio”, ha detto il 45esimo presidente in un post sulla sua piattaforma di social media Truth Social il 10 febbraio, richiamando in particolare l’attenzione del Senato.

“Può essere prestato a condizioni straordinariamente vantaggiose, per esempio, senza interessi e con durata illimitata, ma deve rimanere pur sempre un prestito.

“L’accordo dovrebbe essere (contingente!) che gli Stati Uniti vi aiutino come nazione, ma se il paese che stiamo aiutando si rivoltasse contro di noi, o diventasse ricco in futuro, il prestito verrà ripagato e il denaro restituito”. negli Stati Uniti”, ha detto il presidente Trump.

Il suggerimento arriva in quanto leader repubblicano e leader delle campagne del movimento “Make America Great Again” (MAGA) per la presidenza del 2024, con un record di politica estera che ha suscitato un certo scalpore sulla scena internazionale.

In qualità di 45esimo presidente degli Stati Uniti, il presidente Trump ha diffuso molte opinioni contrarie sulla scena mondiale, chiedendosi perché ci si aspetta che gli Stati Uniti finanzino più della loro giusta quota negli sforzi multilaterali. All’epoca disse che credeva che molte delle piattaforme internazionali non servissero più gli interessi degli Stati Uniti a cui voleva dare priorità, come fornire vantaggi ai produttori e alla produzione statunitensi rispetto a quelli di altri paesi.

Il suo riposizionamento verso una politica “America First” nei rapporti internazionali ha suscitato scalpore in molte nazioni partner. Ma nel corso del tempo, le critiche e le politiche del presidente Trump hanno visto un rimpasto degli accordi tra gli alleati, compresi maggiori investimenti da parte dei paesi partner in istituzioni intergovernative come la NATO.
“Non dovremmo mai più donare denaro senza la speranza di un rimborso, o senza vincoli”, ha affermato il presidente Trump. “Gli Stati Uniti d’America non dovrebbero più essere ‘stupidi’”.
Il commento è arrivato prima della manifestazione elettorale del presidente Trump a Conway, nella Carolina del Sud, sabato pomeriggio, dopo che un pacchetto di sicurezza estera da 118 miliardi di dollari è recentemente fallito al Senato dopo che lui aveva espresso opposizione.

Anche il presidente Trump ha vissuto una settimana da record alle urne. L’8 febbraio ha superato il proprio record del 2016 nel Nevada Republican Caucus, raccogliendo circa 60.000 voti, quasi il doppio dei 34.500 ricevuti nel 2016.
Di conseguenza, il presidente Trump ha travolto tutti i 26 delegati dello stato dopo che l’ex governatore della Carolina del Sud Nikki Haley aveva optato per le primarie del Nevada due giorni prima che non avevano assegnato alcun delegato.

Ma ha subito una battuta d’arresto imbarazzante quando gli elettori hanno scelto a stragrande maggioranza “Nessuno di questi candidati” al posto suo nel concorso del 6 febbraio.

“Il 2024 è la nostra battaglia finale”, ha aggiunto il presidente Trump in un altro post. “Con te al mio fianco, demoliremo il Deep State, espelleremo i guerrafondai dal nostro governo, scacceremo i globalisti, scacceremo i comunisti, i marxisti e i fascisti, elimineremo la classe politica malata che odia il nostro Paese, sconfiggeremo i mezzi di informazione falsi, prosciugheremo la palude e libereremo il nostro Paese da questi tiranni e malvagi una volta per tutte!

“Grazie Carolina del Sud!!!”

Le primarie della Carolina del Sud, che hanno in palio 50 delegati, sono previste per il 24 febbraio.


6113.- Ankara, Hamas e il grande gioco di Erdogan nel Mediterraneo. L’analisi del gen. Del Casale

Erdogan sa cosa vuole e guarda lontano.

Da Formiche.net, di Massimiliano Del Casale | 06/02/2024 – 

Ankara, Hamas e il grande gioco di Erdogan nel Mediterraneo. L’analisi del gen. Del Casale

Ankara considera Hamas di fatto l’evoluzione paramilitare della fratellanza musulmana, motore di quel neo-ottomanesimo caro a Erdogan, oggi più che mai attratto dalla prospettiva di esercitare una crescente influenza regionale. Anche a costo di mettere a repentaglio i rapporti con gli alleati occidentali. Il punto del generale Massimiliano Del Casale, già presidente del Centro alti studi per la Difesa

A un anno dal più devastante terremoto che abbia mai colpito i territori turco e siriano, costato oltre cinquantamila morti, sabato scorso sono state consegnate 7.200 abitazioni, una parte delle 318mila nuove unità abitative che Recep Tayyip Erdogan ha promesso di realizzare entro fine mese (la metà di quelle distrutte dal sisma nelle province di Adana e di Haltay). Un risultato ormai difficile da conseguire. Norme edilizie poco rispettate nel passato, l’eccessiva burocrazia ed esigue risorse disponibili rendono lunga e tormentata la strada da percorrere per avviare un ritorno alla normalità.

Per questo, dopo aver consentito di innalzare i tassi d’interesse, nel tentativo di risollevare un’economia sempre più depressa dall’inflazione, il reis ha costretto nei giorni scorsi Hafize Erkan, prima donna alla guida della banca centrale, a rassegnare le dimissioni a fronte delle insostenibili scelte di governo, deciso a non aumentare nuovamente i tassi, dopo anni di crisi economica e di alti costi della vita.

D’altro canto, Erdogan ha sempre preferito assecondare i bisogni percepiti come essenziali dal “turco medio” – su tutti, trasporti pubblici economici ma efficienti, facilità di erogazione di mutui edilizi e costi contenuti dei generi alimentari primari – allontanandone l’interesse da più gravi problemi interni e dai grandi accadimenti internazionali.

Ma è in politica estera che continua a manifestarsi tutta l’assertività di cui è capace, coniugando un inequivocabile euro-atlantismo con una più marcata autonomia, alla ricerca di un nuovo posizionamento geopolitico.

Sia chiaro, la Turchia continua ad essere prezioso alleato, membro della Nato e da sempre considerata baluardo dell’Occidente. Tuttavia, complice la presa di distanze dell’Ue da una leadership spesso giudicata autocratica, la politica estera turca appare ispirarsi a una sorta di neo-ottomanesimo imperniato sul recupero della tradizione islamica, quantunque moderata, e proteso verso una nuova visione multipolare del mondo.

Un richiamo al passato, quindi, che da tempo induce la Turchia a recuperare una concreta influenza politica sui territori già facenti parte dell’impero ottomano, a partire dal Mediterraneo dove, più che in ogni altro luogo, si manifesta l’assertività turca. Una chiave di lettura politico-confessionale per interpretare l’approccio alla causa palestinese, con la feroce condanna nei confronti del governo israeliano e l’appoggio ad Hamas, definita patriottica.

Si tratta di un sostegno non ultimo motivato dall’interesse turco per l’immenso giacimento sottomarino di gas Leviathan, al largo delle coste israeliane. Risulta quindi vitale il supporto ai palestinesi, anche in ragione della conservazione territoriale della Striscia di Gaza per la loro futura nazione.

Peraltro, non va nemmeno trascurato che la formazione jihadista è considerata di fatto l’evoluzione di tipo para-militare della fratellanza musulmana, protagonista delle Primavere arabe e motore proprio di quel neo-ottomanesimo tanto caro a Erdogan, più che mai fortemente attratto dalla prospettiva di esercitare una crescente influenza regionale. Anche a costo di mettere a repentaglio i rapporti con gli alleati occidentali.

6192.- Netanyahu, le proteste a Tel Aviv e la telefonata con Biden

Da Redazione Affari Internazionali, 22 Gennaio 2024

Netanyahu, le proteste a Tel Aviv e la telefonata con Biden

Sabato 20 gennaio, migliaia di israeliani hanno manifestato a Tel Aviv per chiedere la liberazione degli ostaggi detenuti dal 7 ottobre nella Striscia di Gaza e per chiedere l’allontanamento del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accusato di continuare la guerra per rimanere al potere. I manifestanti hanno marciato attraverso piazza Habima, alcuni portando cartelli che accusavano Netanyahu con slogan come “il volto del male” e chiedendo “elezioni subito”.

Gli ostaggi e le vittime del 7 ottobre

Netanyahu sta affrontando forti pressioni per ottenere la restituzione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre durante l’attacco senza precedenti di Hamas sul suolo israeliano e poi portati nella Striscia di Gaza, dove Israele sta conducendo da allora una guerra contro il movimento palestinese.

Delle circa 250 persone rapite, un centinaio sono state rilasciate in base a una tregua alla fine di novembre, mentre 132 sono ancora a Gaza. Di queste, 27 sono morte senza che i loro corpi siano stati restituiti, secondo un rapporto dell’AFP basato su dati israeliani. “Di questo passo, tutti gli ostaggi moriranno. Non è troppo tardi per liberarli”, ha dichiarato sabato Avi Lulu Shamriz, padre di uno degli ostaggi uccisi a Gaza.

Il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che le sue truppe hanno trovato un tunnel a Khan Younès (sud) con “prove di ostaggi” al suo interno, tra cui i disegni di un bambino di cinque anni. “Una ventina di ostaggi” sono stati tenuti lì in vari momenti, “in condizioni difficili, senza luce diurna (…) con poco ossigeno e un’umidità spaventosa”, ha continuato Daniel Hagari.

L’attacco del 7 ottobre ha causato la morte di circa 1.140 persone in Israele, la maggior parte delle quali civili, secondo un conteggio dell’AFP basato su dati ufficiali israeliani. A Gaza, quasi 25.000 persone, per la maggior parte donne, bambini e adolescenti, sono state uccise dai bombardamenti e dalle operazioni militari, secondo il Ministero della Sanità di Hamas.

Le proteste contro Netanyahu

Netanyahu ha dichiarato di voler continuare la guerra finché Hamas non sarà “eliminato”.

“Tutti nel Paese, ad eccezione della sua coalizione tossica, sanno che le sue decisioni non sono prese per il bene del Paese, ma che sta solo cercando di rimanere al potere”, ha criticato sabato Yair Katz, 69 anni. “Tutti vogliamo che si dimetta“.

Il Paese è gestito da criminali che non hanno alcun interesse per il popolo”, ha detto Boaz Sadeh, 46 anni. “Non fanno nulla per liberarli”, ha aggiunto.

A Gerusalemme, circa 250 persone si sono riunite davanti alla residenza del Primo Ministro, portando fiori e cartelli con l’immagine degli ostaggi.

La telefonata tra Biden e Netanyahu

Gli Stati Uniti chiedono ad Israele di limitare il numero di vittime civili, mentre la guerra tra Israele e Hamas continua a infuriare nella Striscia di Gaza. Washington ha anche ribadito il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese.

In una chiamata, infatti, tra il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuta lo scorso venerdì – la prima volta dopo quasi un mese – Biden ha ribadito il suo sostegno alla futura statualità per i palestinesi. “Il Presidente crede ancora nella promessa e nella possibilità di una soluzione a due Stati. Riconosce che ci vorrà molto lavoro”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby.

Netanyahu ha dichiarato di aver ribadito invece la sua opposizione alla “sovranità palestinese” nella Striscia di Gaza, insistendo sulla “necessità” di sicurezza. Durante la conversazione, “il Primo Ministro Netanyahu ha ribadito la sua politica secondo cui, una volta distrutto Hamas, Israele deve mantenere il controllo della sicurezza a Gaza per garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele, una richiesta che contraddice la richiesta palestinese di sovranità”, ha dichiarato l’ufficio del Primo Ministro.

Il giorno precedente, il presidente israeliano aveva già dichiarato che “Israele deve avere il controllo della sicurezza su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano. Questa è una condizione necessaria, che contraddice l’idea di sovranità (palestinese)”.

Tuttavia, al termine della loro conversazione, Biden ha affermato che è ancora possibile che Netanyahu accetti una qualche forma di Stato palestinese.

Da parte sua, Hamas ha respinto i commenti del presidente statunitense sulla possibilità di uno Stato palestinese, definendoli una “illusione” che “non inganna” i palestinesi. Biden è “un partner a tutti gli effetti della guerra genocida e il nostro popolo non si aspetta nulla di buono da lui”, ha commentato Izzat al-Richiq, un leader del movimento islamista, criticando “coloro che si considerano i portavoce ufficiali del popolo palestinese e che vogliono decidere per il popolo palestinese che tipo di Paese gli conviene”.

© Agence France-Presse

6174.- Il Piano Mattei in Gazzetta Ufficiale

DECRETO-LEGGE 15 novembre 2023 , n. 161 .

Approvato definitivamente 10 gennaio 2024. Non ancora pubblicato.

Disposizioni urgenti per il «Piano Mattei» per lo sviluppo in Stati del Continente africano.

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione; Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del Continente africano, al fine di promuovere lo sviluppo economico e sociale e di prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari; Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di rafforzare il coordinamento delle iniziative pubbliche e private, anche finanziate o garantite dallo Stato italiano, rivolte a Stati del Continente africano; Ritenuta la rilevanza strategica del nesso tra sviluppo sociale ed economico condiviso e responsabilità compartecipate per la stabilità e la sicurezza, quale fondamento di rapporti duraturi di reciproco beneficio tra Italia e Stati del Continente africano;

Ritenuta la necessità e l’urgenza di definire un piano complessivo per lo sviluppo della collaborazione tra Italia e Stati del Continente africano, che si inserisca nella più ampia strategia italiana di tutela e promozione della sicurezza nazionale in tutte le sue dimensioni, inclusa quella economica, energetica, climatica, alimentare e della prevenzione e del contrasto ai flussi migratori irregolari; Vista, altresì, l’esigenza di un piano che persegua la costruzione di un nuovo partenariato tra Italia e Stati del Continente africano, volto a promuovere uno sviluppo comune, sostenibile e duraturo, nella dimensione politica, economica, sociale, culturale e di sicurezza e che favorisca la condivisione e la partecipazione degli Stati africani interessati all’individuazione, alla definizione e all’attuazione degli interventi previsti dal piano, nonché l’impegno compartecipato alla stabilità e alla sicurezza regionali e globali; Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 3 novembre 2023; Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno, della giustizia, della difesa, dell’economia e delle finanze, delle imprese e del made in Italy, dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, dell’ambiente e della sicurezza energetica, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro e delle politiche sociali, dell’istruzione e del merito, dell’università e della ricerca, della cultura, della salute, del turismo, per i rapporti con il Parlamento, per la pubblica amministrazione, per gli affari regionali e le autonomie, per la protezione civile e le politiche del mare, per gli affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il PNRR, per lo sport e i giovani, per la famiglia, la natalità e le pari opportunità, per le disabilità e per le riforme istituzionali e la semplificazione  normativa;

E M A N A

il seguente decreto-legge:

Art. 1.

Piano Mattei

            1. La collaborazione dell’Italia con Stati del Continente africano è attuata in conformità a un documento programmatico strategico, denominato «Piano strategico Italia-Africa: Piano Mattei», di seguito «Piano Mattei».

            2. Il Piano Mattei individua ambiti di intervento e priorità di azione, con particolare riferimento ai seguenti settori: cooperazione allo sviluppo, promozione delle esportazioni e degli investimenti, istruzione, formazione superiore e formazione professionale, ricerca e innovazione, salute, agricoltura e sicurezza alimentare, approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse

naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, tutela dell’ambiente e adattamento ai cambiamenti climatici, ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture anche digitali, valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili, sostegno all’imprenditoria e in particolare a quella giovanile e femminile, promozione dell’occupazione, turismo, cultura, prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare e gestione dei flussi migratori legali.

            3. Il Piano Mattei prevede strategie territoriali riferite a specifiche aree del Continente africano, anche differenziate a seconda dei settori di azione.

            4. Il Piano Mattei ha durata quadriennale e può essere aggiornato anche prima della scadenza.

            5. Le amministrazioni statali conformano le attività di programmazione e di attuazione delle politiche pubbliche di propria competenza al Piano Mattei con le modalità

previste dagli ordinamenti di settore, nell’ambito delle competenze stabilite dalla normativa vigente.

Art. 2.

Cabina di regia per il Piano Mattei

            1. È istituita la Cabina di regia per il Piano Mattei, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e composta dal Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, con funzioni di vicepresidente, dagli altri Ministri, dal Vice Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale delegato in materia di cooperazione allo sviluppo, dal Vice Ministro delle imprese e del made in Italy delegato in materia di promozione e valorizzazione del made in Italy nel mondo, dal presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dal direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, dal presidente dell’ICE-Agenzia italiana per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, nonché da un rappresentante della società Cassa depositi e prestiti S.p.A., uno della società SACE S.p.A. e uno della società Simest S.p.A. Della Cabina di regia fanno, altresì, parte rappresentanti di imprese a partecipazione pubblica, del sistema dell’università e della ricerca, della società civile e del terzo settore, rappresentanti di enti pubblici o privati, esperti nelle materie trattate, individuati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

  • Su delega del Presidente, la Cabina di regia è convocata e presieduta dal vicepresidente.
  • Per la partecipazione alla Cabina di regia non spettano compensi, gettoni di presenza, rimborsi di spese o altri emolumenti comunque denominati.
  • Il segretariato della Cabina di regia è assicurato dalla struttura di missione di cui all’articolo 4.

Art. 3.

Compiti della Cabina di regia

Ferme restando le funzioni di indirizzo e di coordinamento dell’attività del Governo spettanti al Presidente del Consiglio dei ministri, la Cabina di regia:

a) coordina, nel quadro della tutela e della promozione degli interessi nazionali, le attività di collaborazione tra Italia e Stati del Continente africano svolte, nell’ambito delle rispettive competenze, dalle amministrazioni pubbliche ad essa partecipanti;

b) finalizza il Piano Mattei e i relativi aggiornamenti;

c) monitora, anche ai fini del suo aggiornamento, l’attuazione del Piano;

d) approva la relazione annuale al Parlamento di cui all’articolo 5;

e) promuove il coordinamento tra i diversi livelli di governo, gli enti pubblici nazionali e territoriali e ogni altro soggetto pubblico e privato interessato;

f) promuove iniziative finalizzate all’accesso a risorse messe a disposizione dall’Unione europea e da organizzazioni internazionali, incluse le istituzioni finanziarie internazionali e le banche multilaterali di sviluppo;

g) coordina le iniziative di comunicazione relativeball’attuazione del Piano Mattei.

Art. 4.

Struttura di missione

  1. Per le finalità di cui al presente decreto, è istituita, a decorrere dal 1° dicembre 2023, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’articolo 7, comma 4, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, una struttura di missione, alla quale è preposto un coordinatore e articolata in due uffici di livello dirigenziale generale, compreso quello del coordinatore, e in due uffici di livello dirigenziale non generale. Il coordinatore è individuato tra gli appartenenti alla carriera diplomatica, posto in posizione di fuori ruolo.
  2. La struttura di missione svolge le seguenti attività:                                                    a) assicura supporto al Presidente del Consiglio dei ministri per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento dell’azione strategica del Governo relativamente all’attuazione del Piano Mattei e ai suoi aggiornamenti;                     b) assicura supporto al Presidente e al vicepresidente della Cabina di regia nell’esercizio delle rispettive funzioni;                                                                        c) cura il segretariato della Cabina di regia;                                                               d) predispone la relazione annuale al Parlamento di cui all’articolo 5.
  3. La struttura di missione è composta da due unità dirigenziali di livello generale, tra cui il coordinatore, da due unità dirigenziali di livello non generale e da quindici unità di personale non dirigenziale. Le unità di personale non dirigenziale di cui al primo periodo sono individuate tra il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri e tra il personale dei Ministeri e di altre amministrazioni pubbliche, autorità indipendenti, enti o istituzioni, con esclusione del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico e ausiliario delle istituzioni scolastiche. Il predetto contingente di personale non dirigenziale può essere, altresì, composto da personale di società pubbliche controllate o partecipate dalle amministrazioni centrali dello Stato in base a rapporto regolato mediante convenzioni. A tal fine è autorizzata la spesa di euro 193.410 per l’anno 2023 e di euro 2.320.903 annui a decorrere dall’anno 2024.
  4. Alla struttura di missione è assegnato un contingente di esperti ai sensi dell’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303, che prestano la propria attività a titolo gratuito con rimborso delle spese di missione. Per le spese di missione di cui al primo periodo nonché per le attività della struttura di cui al presente articolo è autorizzata la spesa di euro 41.667 per l’anno 2023 e di euro 500.000 annui a decorrere dall’anno 2024.
  5. Il personale della struttura di missione non appartenente alla Presidenza del Consiglio dei ministri è collocato in posizione di comando o fuori ruolo o altro analogo istituto previsto dai rispettivi ordinamenti, ai sensi dell’articolo 17, comma 14, della legge 15 maggio 1997, n. 127. Per la durata del collocamento fuori ruolo, è reso indisponibile un numero di posti nella dotazione organica della amministrazione di provenienza equivalente dal punto di vista finanziario. Il trattamento economico del personale di cui al presente comma è corrisposto secondo le modalità previste dall’articolo 9, comma 5 -ter, del decreto legislativo n. 303 del 1999.
  6. Ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali, ivi compreso quello di coordinatore della struttura di missione non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135. Resta fermo quanto previsto dall’articolo 1, comma 489, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e dagli articoli 14, comma 3, e 14.1, comma 3, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26.

Art. 5.

Relazione annuale al Parlamento

1. Entro il 30 giugno di ciascun anno, il Governo trasmette alle Camere una relazione sullo stato di attuazione del Piano, previa approvazione da parte della Cabina di regia. La relazione indica altresì le misure volte a migliorare l’attuazione del Piano Mattei e ad accrescere l’efficacia dei relativi interventi rispetto agli obiettivi perseguiti.

Art. 6.

Disposizione finanziaria

1. Agli oneri derivanti dall’articolo 4, pari ad euro 235.077 per l’anno 2023 e ad euro 2.820.903 annui a decorrere dall’anno 2024, si provvede mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190.

2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

Art. 7.

Entrata in vigore

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sarà presentato alle Camere per la conversione in legge.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a Roma, addì 15 novembre 2023