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6114.- Apocalittica Gaza. Il futuro incerto di Israele secondo Dentice

Da Formiche.net, di Emanuele Rossi, 07/12/2023 – 

Apocalittica Gaza. Il futuro incerto di Israele secondo Dentice

L’invasione della Striscia procede verso la fascia meridionale, peggiorano le condizioni dei civili gazawi mentre il governo Netanyahu procede nel piano militare con poche prospettive politiche e il rischio che la Cisgiordania possa esplodere da un momento all’altro. Conversazione con Giuseppe Dentice, a due mesi dall’inizio della guerra

Tra le Nazioni Unite che definiscono la situazione a Gaza “apocalittica”, scelta semantica non casuale, e Israele bloccata, sia dal punto di vista militare sul campo che sul piano politico-diplomatico, sono passati due mesi dall’attentato mostruoso di Hamas che ha aperto alla violenta invasione della Striscia. È in corso una crisi regionalizzata, con spilloverche toccano il Golfo quanto il Mar Rosso, sebbene per ora l’intensità dello scontro resti a moderata intensità – a differenza di quanto accade sul piano locale.

L’offensiva militare è già arrivata nelle zone meridionali della Striscia, con il ministero della Pianificazione strategica che sta lanciando l’idea di insediare nuove colonie ebraiche dopo l’espulsione della popolazione gazawi, toccando istanze particolarmente sensibili al tema che sostengono il governo Netanyahu, fa notare Giuseppe Dentice, direttore del Mena Desk del CeSI. “È evidente che il problema non è tanto la rioccupazione momentanea della Striscia, ma è il come viene fatta, con che modalità e per quanto tempo: tutte domande a cui non viene data risposta. Possiamo ipotizzare che la rioccupazione possa esserci per un periodo più o meno lungo, soprattutto se ci saranno nuove colonie ebraiche, e questo ci porta a pensare che i gazawi che vivevano in quelle aree potrebbero migrare verso l’Egitto”.

Il Cairo, sin dall’inizio del conflitto, cerca di scongiurare tale evenienza, che potrebbe creare un problema interno di immigrazione tanto quanto rendere più complicate le relazioni con Israele – perché le collettività egiziane potrebbero non apprezzare una leadership che dialoga con un Paese responsabile del “furto di territorio ai fratelli arabi”, detto con un linguaggio comune nel mondo arabo appunto. Per non parlare di una problematica securitaria diretta: Rafah, dove la Striscia confina con l’Egitto, e la Wilyat al Sinai dello Stato islamico si troverebbero in situazioni di continuità territoriale, e le istanze jihadiste potrebbero ulteriormente attecchire tra malcontento e scoramento, creando ulteriori problemi al Cairo (e più in largo al resto del Mediterraneo).

“Anche se Israele espande l’operazione di terra nella Striscia di Gaza meridionale, l’amministrazione Biden sta segnando l’inizio del 2024 come data obiettivo per porre fine alla massiccia campagna militare di Israele a Gaza. Questa non è una scadenza, ma un obiettivo. Durante una guerra le date obiettivo possono cambiare, ma gli americani credono chiaramente che Israele sia vicino ad esaurire l’ampia invasione terrestre che ha lanciato il 27 ottobre [per poi] passare a sforzi più mirati per abbattere Hamas”, scrive Ben Caspit, esperto israeliano in un articolo informato su Al Monitor. L’assenza di una chiara pianificazione strategica, unita ai rischi tattici dell’invasione, è da sempre il cruccio statunitense. Washington ha difeso Israele, ma ha anche cercato di gestire le attività diplomatiche con l’obiettivo di evitare l’escalation regionale e non creare (e crearsi) eccessivi imbarazzi.

La definizione di situazione apocalittica è un imbarazzo, perché – al netto di attività scrupolosamente severe che hanno caratterizzato l’azione dell’Onu nei confronti di Israele in passato – quella lettura della situazione è condivisa dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. “Con Egitto e Giordania le tensioni sono molto alte, senza parlare del Libano dove la situazione è ancora più complicata: Israele sembra chiudersi su se stessa, e questo diventa un problema anche di prospettiva, perché diventa molto difficile parlare per esempio di normalizzazione con il mondo arabo, e maggior ragione con l’Arabia Saudita,”, sottolinea Dentice. Riad sta cercando di chiedere quanto meno il rispetto minimo del diritto internazionale in alcune azioni contro i palestinesi, per non entrare essa stessa in imbarazzo, perché attorno alla normalizzazione si sono creati progetti strategici a lunga gittata, la cui preparazione rischia di slittare nel tempo.

E questo comporta anche dei problemi con lo Yemen, che ricadono anch’essi su Riad? “A livello di regionalizzazione, quanto accade nel Mar Rosso (dove gli Houthi hanno dichiarato obiettivi legittimi tutte le navi riconducibili a Israele, ndr) è il principale punto di pressione sia sull’Arabia Saudita che sugli Stati Uniti: ricordiamo che questo crea problemi di sicurezza marittima globale non indifferenti, perché il corridoio di collegamento Europa-Asia, con Bab el Mandeb in interconnessione con Suez vede transitare ogni anno il 12% del commercio mondiale, il 10% del petrolio e l’8% di Gnl”. Questo genere di destabilizzazione ha effetto sul mercato dei prezzi, sia energetici sia della spedizioni, e diventa l’elemento che porta la guerra di Gaza a diventare un interesse internazionale in grado di creare contraccolpi economici e inflativi.

Non è un caso se media come il Financial Times chiedono al governo Netanyahu il cessate il fuoco immediato. “Il problema – continua Dentice – è la debolezza intrinseca di questo governo, perché il leader Benjamin Netanyahu non ha intenzione di mollare di un centimetro, e per interessi e per l’alta percezione che ha di se stesso non intenderà lasciare il potere. Questo lo mette sotto pressione dalle componenti più radicali del governo. Ma questa debolezza dell’esecutivo produce una maggiore fragilità dello stato che portano a divisioni interne i cui effetti potrebbero ricadere pesantemente in Cisgiordania”. Perché? “È lì che si gioca tutto, è da lì che potrebbero arrivare allargamenti del conflitto se i coloni, spesso con le autorità che chiudono più di un occhio, continuano a commettere violenze contro i palestinesi, violenze che a loro volta innescano cicli di violenza di risposta, creando un corto circuito”.

La situazione in Cisgiordania, nonostante sia meno al centro dei riflettori di ciò che accade nella Striscia, rischia di essere il fattore esplosivo. La radicalizzazione dello scontro potrebbe impedire un qualsiasi compromesso futuro. E il rischio è che Hamas cresca di popolarità tra i palestinesi anche fuori dalla Striscia. “Hamas rischia di essere più forte di prima, paradossalmente la guerra ha dato al gruppo la forza che non aveva prima, riuscendo a non essere sconfitto, perché anche se verrà in qualche modo distrutta nella Striscia comunque sopravvivrà, sia perché la leadership politica è fuori dal territorio, sia perché quella militare ha dimostrato di poter colpire lo stesso Israele”, spiega Dentice.

“Come Hamas, l’Isis era profondamente radicato nelle aree urbane. E la coalizione internazionale contro l’Isis ha lavorato duramente per proteggere i civili e creare corridoi umanitari, anche durante le dure battaglie”, ha detto il capo del Pentagono Lloyd Austinnei giorni scorsi. “Quindi la lezione non è che puoi vincere nella guerra urbana proteggendo i civili. La lezione è che puoi vincere nella guerra urbana solo proteggendo i civil. […] Se guidi [i civili di Gaza] tra le braccia del nemico, sostituisci una vittoria tattica con una sconfitta strategica”. E a due mesi di distanza dall’invasione, sotto la pressione delle considerazioni apocalittiche sulla crisi, certe valutazioni di Austin non arrivano casualmente.

6108.- Il vero significato del riconoscimento di uno “Stato palestinese”

Questa guerra ha un senso soltanto se accettiamo che entrambi i contendenti vogliano e soltanto vogliano, ciascuno la distruzione dell’altro e se consideriamo quali interessi gravitino in Medio Oriente, sopratutto per la sua stabilità e sicurezza, da parte della Cina, dell’India, della Turchia e non dimentichiamo l’energia.  A voi l’analisi di Drieu Godefridi sul piano giuridico e su quello politico.

Perché Belgio, Norvegia, Spagna e tutti dovrebbero astenersi dal riconoscere uno “Stato palestinese” proprio ora

Da Gatestone Institute, di Drieu Godefridi, 3 dicembre 2023. Nostra traduzione libera

Nel caso di uno “Stato palestinese”, non esiste alcun territorio sul quale anche i palestinesi siano d’accordo. Infatti, lo statuto di Hamas – designato come organizzazione terroristica da molti paesi in Occidente, e che regna incontrastato nella Striscia di Gaza dal 2007, quando espulse con la forza l’Autorità Palestinese, in parte gettando i suoi membri da edifici di 15 piani — chiede la “liberazione” di “ogni centimetro della Palestina” attraverso la jihad.

L’Autorità Palestinese rivendica anche tutto il territorio, compreso tutto Israele (vedi anche qui, qui, qui e qui).

  • Il possibile riconoscimento di uno “Stato palestinese” da parte del Belgio non ha senso dal punto di vista del diritto internazionale. In realtà, ciò non è tanto il risultato del desiderio di aiutare i palestinesi – la cui vita non ne trarrà alcun miglioramento – quanto piuttosto di un’ostilità feroce e sempre più palese nei confronti dello Stato di Israele e, molto probabilmente, anche degli ebrei.
  • Riconoscere uno Stato palestinese senza autorità, senza richieste territoriali realistiche e senza una leadership accettabile – e con un desiderio esplicito e a lungo termine di militarizzare e distruggere il suo vicino Israele.

Nella foto: terroristi di Hamas con il loro bambino apprendista durante una manifestazione a Gaza City il 24 maggio 2021. (Foto di Mahmud Hams/AFP tramite Getty Images)

Nei corridoi del potere si vocifera che il Belgio, come la Norvegia e la Spagna, si stia preparando a riconoscere uno “Stato palestinese”. Vediamo perché questa mossa sembra discutibile, sia sul piano giuridico che su quello politico.

Le prime condizioni per il riconoscimento di uno Stato sono il territorio e l’autorità statale. Il diritto internazionale definisce uno Stato sovrano come un’unità territoriale stabilita, all’interno della quale le sue leggi si applicano a una popolazione permanente, e che è costituita da istituzioni attraverso le quali esercita autorità e potere effettivo.

L’Autorità Palestinese rivendica inoltre l’intero territorio, compreso tutto Israele. Il territorio dello “Stato Palestinese” non è quindi conteso ai margini; è contestato nella sostanza. Al momento nessuno, e certamente non gli stessi palestinesi, può dire quali siano, anche approssimativamente, i confini del territorio che rivendicano, a parte l’intero territorio apertamente desiderato di Israele.

Inoltre, l’Autorità Palestinese conta sul “Piano in dieci punti” dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina del 1974 (noto anche come “piano a fasi”) per la “liberazione globale” di tutta la terra che si estende “dal fiume [Giordano] al [ Mar Mediterraneo]” – un eufemismo per l’eliminazione di Israele. Il piano prevede che l’OLP utilizzi qualunque territorio gli venga offerto come base operativa per ottenere il resto.

Né esiste alcuna autorità statale costituita. O meglio, sono due. A Gaza, Hamas governa dal 2007. Nelle aree popolate da palestinesi della Giudea e della Samaria, domina l’Autorità Palestinese. Queste due autorità non si riconoscono, tanto da entrare in guerra. Tra il 2007 e il 2008, centinaia di quadri e attivisti sono stati uccisi negli scontri tra Hamas e l’Autorità Palestinese nella Striscia di Gaza. Si stima che circa 600 prigionieri politici di Hamas siano detenuti nelle carceri dell’Autorità Palestinese.

Qual è allora questa enigmatica “autorità” che dovrebbe essere riconosciuta? L’Autorità Palestinese, che non ha legittimità, non ha rappresentanti a Gaza ed è odiata da un gran numero della sua stessa popolazione? Oppure Hamas, che governa la Striscia di Gaza dal 2007, è un’organizzazione terroristica e ha appena perpetrato il peggior atto di omicidio di massa contro gli ebrei dai tempi della Shoah?

Il Belgio si rende conto che riconoscere qualsiasi tipo di “autorità” in queste condizioni equivale a riconoscere un’organizzazione terroristica o l’Autorità Palestinese, la cui autorità a Gaza è un puro mito, o un miscuglio delle due che non ha alcuna rilevanza sul terreno?

Nel rigoroso diritto internazionale non ha senso riconoscere uno “Stato palestinese” che non esiste in nessuna delle sue componenti fondamentali. Come si può giustificare il riconoscimento di un mito come quello dello Stato palestinese, rifiutando allo stesso tempo di riconoscere uno “Stato di Taiwan” democratico, che è perfettamente costituito e lo è da decenni? Va benissimo pretendere di essere regolati dal diritto internazionale, ma è ancora meglio essere coerenti nel rispettarne le categorie.

Un altro problema è quello dei “profughi palestinesi”. Si stima che siano due milioni i “rifugiati palestinesi” riconosciuti come tali dalle Nazioni Unite che vivono attualmente in Cisgiordania e Gaza. La questione dei rifugiati è una delle più delicate nel conflitto arabo-israeliano. Cinque milioni di arabi palestinesi attualmente registrati come “rifugiati palestinesi” – due milioni in Cisgiordania e Gaza, più due milioni in Giordania e un altro milione in Siria e Libano – chiedono di “tornare” a quella che ritengono essere la loro storica patria.

Se questi cinque milioni di palestinesi si aggiungessero ai circa due milioni di arabi palestinesi che sono già cittadini di Israele, ci sarebbe un enorme cambiamento demografico, come sottolinea Einat Wilf. Gli ebrei di Israele verrebbero probabilmente relegati allo status di minoranza. Questo è il motivo per cui gli israeliani hanno sempre rifiutato il preteso “diritto al ritorno” dei palestinesi. Eppure i palestinesi insistono sul fatto che questo è un requisito fondamentale di qualsiasi accordo di pace.

Riconoscere uno “Stato palestinese” significa mettere fine al mito dei rifugiati che già vivono in questi territori. Non puoi essere un rifugiato dalla Palestina e vivere in uno Stato palestinese allo stesso tempo. Se Gaza e la Cisgiordania diventassero “Palestina”, allora i milioni di palestinesi che vivono lì cesseranno di essere rifugiati. Fingere di riconoscere uno “Stato palestinese” pur mantenendo il mito dei rifugiati tradisce la natura intrinsecamente politica e ostile di questo riconoscimento di un fantomatico “Stato palestinese”.
​Del resto, secondo molti commentatori, uno Stato palestinese esiste già: si chiama Giordania.

Il che ci porta al nocciolo della questione: il possibile riconoscimento di uno “Stato palestinese” da parte del Belgio non ha senso dal punto di vista del diritto internazionale. Ha senso piuttosto per soddisfare un’ostilità feroce, sempre più palese, nei confronti dello Stato di Israele e anche degli ebrei.

Belgio, Norvegia e Spagna farebbero bene a ritornare in sé. Riconoscere uno Stato palestinese senza autorità, senza richieste territoriali realistiche e senza una leadership accettabile – e con un desiderio esplicito e a lungo termine di militarizzare e distruggere il suo vicino Israele – subito dopo un pogrom jihadista contro gli ebrei -, non aumenterà la felicità. di una qualsiasi delle parti coinvolte o, del resto, di chiunque altro.

Drieu Godefridi è giurista (Università Saint-Louis, Università di Lovanio), filosofo (Università Saint-Louis, Università di Lovanio) e dottore di ricerca in teoria giuridica (Parigi IV-Sorbonne). È un imprenditore, amministratore delegato di un gruppo europeo di istruzione privata e direttore di PAN Medias Group. È autore di Il Reich verde (2020).

2492.- Vertice politico ” Pro-Terzo Tempio”. Dopo il vertice di pace arabo-israeliano, Preparatevi per la Guerra

By David SidmanJuly 31, 2019 , 10:07 am

Quelle nazioni che stai per espropriare ricorrono davvero a indovini e promuovono il Deuteronomio 18:14 (The Israel Bible ™)

(Shutterstock)FacebookTwitterEmailWhatsAppPrintCondividi1.224

In risposta alle notizie di un imminente vertice di pace arabo-israeliano ospitato dall’amministrazione Trump, l’ex MK Moshe Feiglin ha dichiarato che il risultato di questa iniziativa sarà una “guerra”.

Moshe Feiglin, un ex parlamentare e attualmente capo del partito Zehut, è, poi, apparso sui social media ripetendo che “il risultato del prossimo vertice sulla pace di Trump, come tutti i precedenti vertici di pace, sarà una guerra”.

Moshe Feiglin (credit: Facebook)

“Per comprenderlo, bisogna capire che l’obiettivo di un” palestinese “non è la sovranità (per questa non nazione) in Israele ma piuttosto l’eliminazione della sovranità ebraica”, ha aggiunto Feiglin.“

Nel post, il leader del partito ha ricordato l’ex segretario agli esteri britannico Ernest Bevin che, alla fine del mandato britannico, ammise che l’obiettivo degli arabi in Palestina è garantire che gli ebrei non abbiano mai uno stato.

“Da allora non è cambiato nulla”, ha continuato Feiglin. “Non vogliono uno stato, vogliono solo assicurarsi che gli ebrei non ne abbiamo uno. Non hanno fatto funzionare uno stato nei “territori” quando era sotto il controllo giordano ed egiziano. Chiederanno sempre l’ultimo centimetro quadrato di terra governata da ebrei ”, ha affermato.

“Pertanto, ogni tentativo di pace porterà sempre a un altro giro di spargimenti di sangue”, ha aggiunto Feiglin.

Il partito di Feiglin, Zehut, è l’unico partito politico attuale che ha pubblicamente approvato la costruzione del Terzo Tempio, sebbene non sia necessariamente in prima linea nella loro agenda. Il partito Zehut è anche l’unico partito libertario di Israele che promuove il capitalismo del libero mercato ma anche l’annessione di tutta la Giudea, la Samaria e Gaza.

2483.- Mentre la soluzione dei due stati perde terreno, il progetto di uno stato guadagna popolarità.

How Israel Systematically Hides Evidence of 1948 Expulsion of Arabs. International forces overseeing the evacuation of Iraq al-Manshiyya, near today’s Kiryat Gat, in March, 1949.

Queste note, seguite alla dichiarazione di Trump a favore di Gerusalemme capitale, sono tuttavia ottimistiche, a favore del progetto di uno stato unico. Non lo vedremo mai. Quello favorito da Friedman per i palestinesi non sarà un stato costituzionale, ma l’opportunità di insediare stabilmente le forze armate USA in Palestina e, per Israele, di non fare sconti sulla sua sicurezza, oggi e domani.

Le riflessioni di David M. Halfbinger per il The New York Times, 5 gennaio 2018.

L’insediamento israeliano di Ariel in Cisgiordania. Incoraggiata dalla dichiarazione del presidente Trump su Gerusalemme, la destra israeliana sta apertamente perseguendo il suo scopo di un solo stato dal Giordano al Mediterraneo. Credit Dan Balilty per il New York Times.

La destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, non è l’unica corrente politica a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha cominciato a chiedersi se questa possa non essere una idea così cattiva, sebbene abbia una visione radicalmente diversa di come dovrebbe essere questo stato.

Mentre la soluzione dei due stati perde slancio, entrambe le parti stanno riprendendo in considerazione l’idea dello stato unico. Ma questa soluzione è da tempo problematica per entrambe le parti.

Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico. Anche i Palestinesi, che non vogliono vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, vedevano la soluzione dei due stati come la loro migliore speranza.

Ora, per la prima volta da quando, nel 1988, dichiarò il suo appoggio ad uno stato palestinese accanto ad Israele, l’OLP sta seriamente discutendo se abbracciare soluzioni di ripiego, inclusa la realizzazione dell’unico stato.

“Questo sta dominando la discussione”, ha dichiarato Mustafa Barghouti, un medico membro del comitato centrale dell’OLP, che deve farsi carico di possibili mutamenti nella strategia del movimento nazionale nel corso di questo mese.

L’insediamento israeliano di Oranit. La destra israeliana sta facendo pressioni per annettere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata. Credit Dan Balilty per il New York Times.

I sostenitori dei Palestinesi immaginano uno stato con eguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. I Palestinesi avrebbero potere politico in proporzione al loro numero e, considerando i trend demografici, sarebbero entro breve tempo la maggioranza, determinando la fine del progetto sionista.

Questo risultato è inaccettabile per la destra israeliana, che sta premendo per annettere i territori della Cisgiordania occupata su cui i coloni israeliani hanno costruito colonie, relegando i Palestinesi nelle aree dove ora vivono.

Gli Israeliani che propongono lo stato unico riconoscono apertamente che le aree palestinesi sarebbero assai meno che uno stato, almeno all’inizio: il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha addirittura chiamato uno “stato minore”. In futuro, dicono, i Palestinesi potrebbero ottenere una statualità in una confederazione con la Giordania o l’Egitto, come parte di Israele, o forse addirittura in modo indipendente, ma non a breve.

Entrambe le parti hanno ufficialmente sostenuto a lungo l’idea dei due stati come soluzione al conflitto, contemporaneamente accusando l’altra parte di covare piani sull’intero territorio. Ma la dichiarazione di Trump su Gerusalemme del mese scorso ha cambiato le carte in tavola.

L’amministrazione Trump non ha sostenuto la soluzione dell’unico stato, e sta lavorando a un suo progetto di pace, insistendo che ogni accordo definitivo, confini inclusi, deve essere negoziato dalle due parti. Ma la decisione presa dal presidente il mese scorso di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, in spregio alla ultradecennale politica statunitense ed al consenso internazionale e senza alcuna menzione delle rivendicazioni palestinesi sulla città, è stata letta come un deliberato spostamento dell’ago della bilancia dalla parte di Israele.

Saeb Erekat, veterano negoziatore palestinese, ha detto che la dichiarazione di Trump ha suonato la campana a morto per la soluzione dei due stati e che i Palestinesi dovrebbero spostare la loro attenzione su “uno stato con uguali diritti”. Da allora la sua posizione ha guadagnato popolarità tra i leader palestinesi.

I Palestinesi si sono scontrati il mese scorso con le forze israeliane in Cisgiordania, durante le proteste contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump. Alcuni leader palestinesi hanno letto l’annuncio come la fine della soluzione dei due stati. Credit Dan Balilty per il New York Times

In questa prospettiva, il movimento palestinese dovrebbe passare ad una battaglia per l’eguaglianza dei diritti civili, incluse le libertà di movimento, assemblea, manifestazione del pensiero, e il diritto di voto alle elezioni politiche. “Il che significa che un Palestinese potrebbe essere primo ministro”, ha detto Barghouti.

Per i suoi sostenitori palestinesi, l’idea dell’unico stato è un’amara consolazione dopo decenni di battaglie per uno stato sulla base degli accordi di pace di Oslo, che molti ritengono abbiano portato a poco se non a dare copertura, e tempo, all’espansione degli insediamenti israeliani.

“Se sostieni la soluzione dei due stati, sostieni Netanyahu”, ha dichiarato As’as Ghanem, docente di scienze politiche all’Università di Haifa che da tempo lavora con un gruppo di Israeliani e Palestinesi a una strategia basata su un unico stato. “È ora che noi Palestinesi proponiamo un’alternativa”.

Vari sforzi sono in corso. Un gruppo che esiste da una decina d’anni, chiamato Movimento Popolare per uno Stato Unico e Democratico, guidato da Radi Jarai, un ex-leader di Fatah che ha passato 12 anni in un carcere israeliano dopo aver partecipato alla guida dell’Intifada del 1987, sta pianificando una campagna sui media per spiegare l’idea agli abitanti della Cisgiordania.

“Pensano che ciò significhi che i Palestinesi avranno la carta d’identità israeliana e vivranno sotto un regime di apartheid”, ha detto. “Ma la nostra idea è di avere uno stato democratico, con nessun privilegio per gli Ebrei o per alcun altro gruppo etnico o religioso”.

Altri stanno parlando di delineare un prototipo di costituzione per un unico stato o di fondare un partito politico che lo sostenga in Israele e nella Cisgiordania.

La polizia di confine israeliana monta la guardia nel quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme. I sostenitori palestinesi della soluzione di un unico stato immaginano uno stato con uguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

“Almeno il 30% dei Palestinesi sostiene l’idea dell’unico stato sebbene nessuno ne parli”, ha detto Hamada Jaber, organizzatore di un gruppo chiamato Fondazione per un Unico Stato, “se ci sarà almeno un partito politico da ciascuna parte che ne parla e ne adotta la strategia, il sostegno crescerà”.

L’idea ha un sostegno più ampio tra i giovani, ha detto il sondaggista palestinese Khalid Shikaki, in particolare tra gli studenti e i professionisti che reclamano un mutamento di strategia fin dalla primavera araba del 2011.

“Ho 24 anni”, afferma Mariam Barghouti, scrittrice e attivista coinvolta negli sforzi verso un unico stato, e parente alla lontana di [Mustafa] Barghouti, “Tutto ciò che ho conosciuto è Oslo e il processo di negoziazione per i due stati. Sono stata testimone di come le cose siano solo peggiorate per me e la mia generazione”.

Per la destra israeliana, abbandonare l’obiettivo dei due stati è una cosa buona, una minaccia evitata. Molti infatti guardano a ciò che è successo a Gaza, da cui Israele si è unilateralmente ritirata nel 2005, e immaginano una Cisgiordania controllata allo stesso modo dai militanti di Hamas, con la conseguenza di razzi che piovono sull’aeroporto Ben-Gurion da est, anziché sulle fattorie e sulle scuole da sud.

Ma la destra israeliana non ha pienamente chiarito come il suo unico stato supererebbe il dilemma demografico. Assorbire i quasi tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significherebbe la fine dello stato ebraico, oppure distruggerebbe la democrazia israeliana se ai Palestinesi venissero negati uguali diritti. Anche una risicata maggioranza ebraica non sarebbe politicamente in grado di negare ai Palestinesi piena cittadinanza e pari diritti in un singolo stato sovrano.

“Non darei mai la cittadinanza alle masse della popolazione araba in Giudea e Samaria”, ha dichiarato Yoam Kisch, parlamentare del partito di Netanyahu che sta portando avanti un piano per l’autonomia, usando i nomi biblici per la Cisgiordania.

Lo scorso mese le bandiere israeliana e americana sono state proiettate sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, subito prima che Trump riconoscesse Gerusalemme come la capitale di Israele. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

In futuro, ha detto, ciò che rimane delle aree palestinesi potrebbe diventare parte della Giordania o dell’Egitto, o diventare una qualche forma di “stato minore” con sovranità limitata. Nel frattempo, Kisch ha dichiarato di voler dare la piena cittadinanza israeliana soltanto a circa 30.000 Palestinesi della Cisgiordania che vivono in aree su cui vuole che Israele affermi la sua sovranità.

Una mossa del genere sarebbe inaccettabile per i Palestinesi.

Ciò che queste due visioni completamente diverse dello stato unico condividono è la convinzione che la soluzione dei due stati sia irraggiungibile.

Certamente l’OLP non sta completamente rinunciando all’idea dei due stati. Sta ancora percorrendo altre vie diplomatiche. Venerdì, per esempio, Erekat ha fatto appello agli stati membri della Lega Araba perché diano corso agli impegni presi in passato di interrompere ogni legame con i paesi che riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.

“Sappiamo che dobbiamo stare attenti che il mondo non ci fraintenda”, ha dichiarato Barghouti in un’intervista. “Se la soluzione dei due stati muore, sarà responsabilità di Israele, non dei Palestinesi. Ma se gli Israeliani la uccidono, che è ciò che stanno facendo ora, purtroppo con l’aiuto dell’amministrazione Trump, allora l’unica opzione per noi sarà quella di combattere il regime di apartheid e farlo crollare, il che significa un unico stato con uguali diritti per tutti”.

Sia i Palestinesi che gli Israeliani sono scettici riguardo alla possibilità che leader palestinesi come Erekat e Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, possano mai veramente abbandonare il processo di Oslo, al quale hanno consacrato le loro carriere e al quale devono il loro sostentamento.

Se e quando in Israele verrà eletto un governo più liberale, potrebbe anche resuscitare il processo di pace basato sui due stati.

Ma i costi e la difficoltà politica di ritirare gli Israeliani dalla Cisgiordania crescono con ogni famiglia di coloni che vi si trasferisce.

Daniel C. Kurtzer, un professore di Princeton che è stato ambasciatore in Egitto con l’amministrazione Clinton e in Israele sotto George W. Bush, ha fatto notare che circa 120.000 lavoratori palestinesi fanno i pendolari in Israele, i servizi di sicurezza palestinesi forniscono aiuto ad Israele nella protezione della sua popolazione e l’Autorità Palestinese solleva Israele dall’obbligo che grava sulla potenza occupante di prendersi cura dei rifugiati.

“Tutti noi diciamo ‘non accadrà mai, torneranno in sé’”, ha detto Kurtzer. “Ma quanto si può andare avanti con lo status quo? Ci sveglieremo un giorno e sarà di fatto un solo stato. È come in ‘Thelma e Louise’. Corri lungo l’autostrada e la vita è fantastica. Ma c’è un precipizio”.

David M. Halfbinger

Rami Nazzal ha contribuito con notizie da Ramallah, Cisgiordania, e Myra Noveck ha fornito ricerche da Gerusalemme.

2482.- L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”

Tramonta il progetto dell’ONU dei due Stati, portato avanti, fra gli altri, da Federica Mogherini.  Una breve scansione:

Il nome “Palestina” fu usato da Erodoto nel V° secolo a.c.. Ufficialmente, fu adottato per la prima volta dall’impero romano, per la provincia di Palestina, appartenuta, poi, all’impero bizantino e, ancora, al califfato arabo omayyade e abbaside. Dopo l’Impero Ottomano, il 16 maggio 1916, con la firma dell’Accordo Sykes-Picot, Francia e Gran Bretagna decidono che il territorio della Palestina ottomana venga assegnato alla fine della guerra al Regno Unito, con mandato di tipo A, sotto controllo della Società delle Nazioni. Il 9 dicembre 1917, le truppe britanniche occupano gerusalemme e l’intera Palestina. Il mandato comincia formalmente nel 1920 e terminerà nel 1947, caratterizzato da varie rivolte da parte dei palestinesi contro la politica britannica nei confronti dell’autorizzazione del Regno Unito all’immigrazione ebraica e delle vendite di terreni ai migranti da parte dei latifondisti arabi. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU approva il Piano di partizione della Palestina. Agli arabi viene lasciata la minoranza del territorio dell’ex mandato britannico della Palestina e nel rimanente viene costituito lo Stato di Israele. Il diritto di esistenza di uno Stato di Palestina è riconosciuto da 136 paesi, anche se a vario titolo, dalle Nazioni Unite (secondo la risoluzione del 1948) e dall’Unesco, non dall’Italia.

Ci sono differenti progetti riguardanti un possibile stato palestinese

Il progetto “Sicurezza dei due Stati” (Two State Security), che colonizzerebbe la Palestina sotto il dominio di Israele, nonostante essa vi venga definita un territorio “sovrano”, e sotto l’occupazione USA permanente che sorvegli il fiume Giordano. A Gaza richiederebbe per prima cosa una riaffermazione del governo e del controllo della sicurezza di Gaza da parte dell’Autorità Palestinese, vista come una forza alleata che applichi misure di sicurezza interna in Cisgiordania e Gaza per conto di Israele.

La forma dei “due stati per due popoli”, pura e semplice, come premessa di una pace futura, prevede una obbligatoria “separazione dai palestinesi”, ma è, invece e in realtà, un luogo comune, che presuppone una rinuncia solenne e definitiva di entrambi, israeliani e arabi, a tutte le rivendicazioni sul territorio assegnato a ciascun altro dei due. Nelle trattative Israele ha sempre offerto e chiesto questa clausola “finale” fra le condizioni irrinunciabili e ha sempre ricevuto netti rifiuti. Per Israele questa “pace” sarebbe solo un armistizio svantaggioso. 

Qualcuno, nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, comincia a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Oggi, chiamando in causa problemi per la sicurezza, l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Friedman afferma che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele e per la Giordania”. In pratica, resuscita il progetto “Sicurezza dei due Stati”, cioè, la sicurezza prima di tutto – per Israele

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Questo progetto è stato elaborato dal Forum sulle Politiche di Israele (IPF), un gruppo di pressione con sede a New York fondato nel 1993 su iniziativa del Primo Ministro Yitzhak Rabin al fine di promuovere il processo di pace di Oslo. Poco dopo l’inizio del suo mandato nel 2009, il Presidente Obama adottò la “Roadmap” per il Medio Oriente dell’IPF. Lo abbiamo definito la definitiva colonizzazione della Palestina, perché, tra le raccomandazioni del piano, leggiamo la completa smilitarizzazione della Palestina nonostante essa venga definita un territorio “sovrano”, un’infrastruttura per la sorveglianza delle frontiere ed una presenza militare statunitense permanente che sorvegli il fiume Giordano, non molto distante dall’Iran, molto simile alla presenza USA fra i Curdi.

Friedman rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”.

David Friedman
David FriedmanJIM WATSON / AFP

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha dichiarato in un’intervista della CNN che gli Stati Uniti “non sono pronti a parlare dello stato palestinese” poiché costituirebbero una minaccia alla sicurezza esistenziale per Israele e Giordania.
Alla domanda della giornalista Christiane Amanpour se gli Stati Uniti sono impegnati in una soluzione a due stati, Friedman ha dichiarato: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno palestinese. Crediamo che l’autonomia dovrebbe essere estesa fino al punto in cui interferisce con la sicurezza israeliana “.
Citando preoccupazioni per la sicurezza, Friedman ha affermato che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele, per la Giordania”, sostenendo che sarebbe diventato un hub per i gruppi terroristici.

Trump non darà a Netanyahu la West Bank come regalo di rielezione. A causa dell’Iran

Friedman ha detto: “L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno stato palestinese fallito. In questo momento il governo palestinese è estremamente debole “, ha aggiunto, che l’amministrazione degli Stati Uniti vuole che i palestinesi abbiano un’economia e si governino da soli.

Friedman ha anche respinto una soluzione a stato unico composto da una unica cittadinanza e con pari diritti per tutti i residenti di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. “Non credo che qualcuno responsabile in Israele stia spingendo per una soluzione a uno stato unico… Non penso che ci sia un serio movimento politico in Israele per una soluzione a uno stato, e non credo che nessuno degli atti che Israele ha compiuto o che abbiamo deciso negli ultimi due anni ci sta portando a un tal punto “, ha detto.

 A giugno, l’inviato per il Medio Oriente di Friedman e del presidente Donald Trump Jason Greenblatt ha aperto un tunnel che corre sotto un villaggio palestinese a Gerusalemme est durante una cerimonia che inaugura un progetto archeologico di coloni. 

Sempre a giugno, Friedman ha dichiarato al New York Times che Israele ha il diritto (se lo dice lui! net) di annettere parti della Cisgiordania. Il commento segue la promessa elettorale del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere il territorio, su cui Israele ha mantenuto il controllo da quando è stato conquistato alla Giordania nella guerra del 1967.

1814.- Consultazioni, le trattative per il governo sono saltate. Chi ha fallito, il tentativo Conte o Mattarella?

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A questo punto siamo. La Merkel, Juncker, Draghi, o chi di loro, possono decidere di quali ministri devono far parte del governo della Repubblica Italiana e dare ordini al Presidente della Repubblica.
Le vicenda Savona ha assunto il significato di uno scontro sull’idea che la politica economica dei Paesi euro sia o meno totalmente asservita al gradimento di mercati e delle strutture tecnocratiche. Non deve sorprendere che anche a sinistra il veto su di lui faccia problema. Ma è stata bloccata la maggioranza parlamentare e il Presidente della Repubblica ha preso il potere. Su questa strada si trasformano le prossime elezioni in un referendum sull’euro. Ma, visto come ci si arriva, sarà contemporaneamente un referendum sulla sovranità del voto popolare rispetto ai vincoli esterni.
È il peggiore degli esiti possibili, ma necessario. Le medaglie hanno sempre due facce.
Intanto, il Presidente spiega le ragioni del “no” all’incarico a Conte e “Sulle elezioni? “Decido io, nelle prossime ore assumerò un’iniziativa” e ha convocato Cottarelli per domattina. Non certo così, all’improvviso. Conterai non lo voterà nessuno. Forse che Mattarella prepara la strada a Draghi? Mario Draghi è il nemico giurato di Paolo Savona.
Il capo della Bce, VICINISSIMO A SERGIO MATTARELLA anche IN QUESTI GIORNI, è il più fiero oppositore all’entrata dell’economista. Tra i due non corre buon sangue anche per questioni personali. Sarà lui il nostro boia? O chi?
Senza più democrazia, è inutile parlare di nuove elezioni.

Il Quirinale certifica il fallimento: Conte rimette l’incarico. Salvini attacca Mattarella e si chiama fuori per “i veti dalla Ue” su Savona. Sia lui che di Maio nel pomeriggio sono saliti al Colle

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Salta tutto. Il tentativo di Giuseppe Conte è miseramente fallito. Alle 20 in punto esce dalla porta della sala della vetrata del Quirinale il segretario generale Ugo Zampetti e rilascia alla stampa uno stringato comunicato: “Il presidente del consiglio incaricato rinuncia e rimette l’incarico esplorativo nelle mani del presidente della Repubblica Sergio Mattarella”. Epilogo scontato di una giornata convulsa.

Si era già capito nelle ultime ore prima della salita al quirinale di Conte. Livido in volto Luigi Di Maio, all’uscita dal colle dove è salito per un ultimo, estremo tentativo, aveva già capito che era finita. Nello stesso momento Matteo Salvini da Terni fa un discorso incendiario che anticipa il fallimento del tentativo di fare il governo, scaricando sul Colle la responsabilità. E, aprendo, di fatto la campagna elettorale.

“Se ci sono ministri che vanno ai tavoli europei e che difendono interessi e salute degli italiani parte il governo, se parte condizionato dalle minacce dell’Europa, il governo non parte perché abbiamo una sola parola, la Lega non ci sarà”, dice Salvini nel comizio umbro. “O si può lavorare bene per dare futuro al paese – prosegue – oppure se siamo in democrazia resta solo una cosa da fare, restituire la parola agli italiani per un mandato pieno per fare quello che vogliamo fare, vie di mezzo e minestroni non ne vogliamo”.

E ancora: “Mi sto convincendo che non siamo un paese libero e che siamo a sovranità limitata. Se il professor Savona non può fare il ministro perché ha il difetto di difendere i cittadini italiani mettendo in discussione le regole europee, allora io se vado al governo ci porto il prof Savona”.

È un negoziato franato ben prima della salita di Conte al Quirinale. Perché alla casella dell’Economia non è mai stato proposto un nome alternativo a Savona. Punto. È l’85esimo giorno di crisi, la più lunga nella storia della Repubblica. E torna l’eventualità del voto anticipato. Savona o morte, questo il messaggio dei partiti. L’intera operazione per “forzare” e superare le perplessità del Colle o, ad essere maliziosi, per preparare l’esplosione della Santa Barbara in caso di persistenza del veto, ruota attorno a lungo e articolato comunicato che il professor Savona ha pubblicato su Scenarieconomici.it. Coincidenze: lo stesso sito (della Link Campus University) sul quale fu pubblicata la Guida pratica per l’uscita dall’euro, bibbia del sovranismo economico salviniano.

È una dichiarazione, all’apparenza, rassicurante: “Voglio un’Europa più forte ma più equa”. Chi può dire di no? Semmai qualcuno lo facesse, sarebbe tacciato di volere un’Europa iniqua e matrigna che tante sofferenze ai popoli ha inferto in nome dell’ortodossia rigorista. Dichiarazione, comunque condivisibile, che agli occhi del Colle non basta, perché la frase cruciale non c’è. In nessun passaggio viene esclusa l’uscita dall’euro e negato il famoso “piano B”. Anzi, il comunicato mantiene integralmente l’intera impostazione del “piano B”. Questa: per la stabilità serve la crescita, per la crescita occorre fare debito, il che porta a un piano di riforme in deficit, a costo di far volare lo spread, fino a un momento in cui si pone la questione del “piano B”, di uscita dall’euro, come scritto nel documento analizzato dall’HuffPost. Perché Savona non esclude il “piano B” di uscita dall’euro.

È questo il punto su cui di rottura su un nome che, ormai, è diventato sinonimo di “rischio Italia” per i mercati. Si consuma prima del colloquio, nei contatti informali tra Quirinale e partiti.

Da Alessandro De Angelis, vice direttore di Huffington Post

1253.- La guerra del 1967. I sei giorni che fecero grande Israele

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In bianco/giallo Israele prima della guerra dei sei giorni, in arancione chiaro i territori acquisiti dopo la guerra dei sei giorni. In rosso il territorio occupato dall’Egitto dopo la Guerra del Kippur, in grigio il territorio occupato da Israele dopo la Guerra del Kippur.
Data 5-10 giugno 1967
Luogo Sinai, Cisgiordania

La Guerra dei sei giorni, iniziata il 5 giugno 1967 con un attacco aereo israeliano a sorpresa a larga scala, poteva dirsi conclusa già il 9, essendo ormai sopraggiunto il cessate il fuoco con Giordania ed Egitto, grazie alla mediazione dell’ONU. Alle 3 del mattino la Siria aderì anch’essa al cessate il fuoco, ma il Ministro della Difesa Israeliano Moshe Dayan decise di approfittare della situazione politico-strategica, e diede di sua iniziativa il via all’offensiva sul Golan.

Prima le alture furono pesantemente bombardate dall’aviazione e dall’artiglieria, quindi toccò alle brigate corazzate di intervenire. Nonostante le difficoltà e le ingenti perdite le forze dello Tsahal riuscirono a conquistare le alture. L’aviazione siriana, che nel frattempo aveva perso due terzi dei suoi velivoli, non riuscì a fornire alcun supporto alle brigate a difesa delle fortificazioni, scompigliate dai bombardamenti israeliani ed a corto di ufficiali. Tra la sera del 9 e la mattina del 10 il Golan rimase in mano israeliana mentre l’esercito siriano si ritirava verso Damasco, perdendo gran parte dei suoi armamenti. Israele dichiarò, pertanto, chiuse le ostilità avendo ottenuto una vittoria netta su tutti i fronti. La Siria venne fuori dalla guerra mutilata dalle Alture del Golan, una specie di balcone che domina il Nord di Israele e da dove era facile sparare sui kibbutz sulle sottostanti rive del Lago di Tiberiade. La Giordania dovette rinunciare alla sponda occidentale del fiume Giordano, alle sue città, da Hebron a Betlemme e alla parte est di Gerusalemme, compresi i luoghi sacri per le tre religioni. Fu chiamata la Guerra dei 6 giorni, ma dopo 50 anni, deve ancora finire.


Il 5 giugno di cinquant’anni fa la guerra che ridisegnò confine ed equilibri del Medio Oriente: un attacco preventivo contro le minacce di Nasser, divenne una disfatta per Egitto, Giordania e Siria

Il generale Motta Gur e le sue truppe scrutano la Città Vecchia di Gerusalemme prima di sferrare l'attacco (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Il generale Motta Gur e le sue truppe scrutano la Città Vecchia di Gerusalemme prima di sferrare l’attacco (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Prima di quel 5 giugno di 50 anni fa, le prime truppe egiziane erano già penetrate nel Sinai, esigendo il ritiro dei caschi blu dell’Onu dalle sue frontiere. Dopo la crisi del canale di Suez nel 1956 la penisola, come la Striscia di Gaza, era stata occupata dall’esercito israeliano, per passare poi sotto il controllo di un contingente delle Nazioni Unite. La notizia di un presunto concentramento di truppe israeliane al confine con la Siria, dopo un duello aereo sul lago di Tiberiade fra l’aviazione israeliana e quella di Damasco, era l’artificiosa motivazione. Una seconda provocazione era stata l’annuncio, davanti al segretario generale delle Nazioni Unite U Thant giunto subito al Cairo per una mediazione, della chiusura dello stretto di Tiran e quindi del Golfo di Aqaba agli israeliani. “Sharm el-Sheik significa lo scontro con Israele”, aveva dichiarato il 26 maggio Nasser. La strategia del rais del Cairo era di isolare Israele per dimostrare platealmente di comandare l’intera regione. Nella sostanziale incuranza delle cancellerie occidentali, il 30 maggio la Legione araba giordana si pone sotto il comando egiziano, come pochi giorni più tardi faranno lo stesso gli iracheni: l’incursione via terra in Israele sembrava già pronta.

Nasser, pensano oggi in molti, in realtà non vuole la guerra, ma semmai dimostrare di essere il leader capace di catalizzare i sentimenti anti-sionisti degli arabi. Israele vive in quei mesi – complice la ripresa della guerriglia palestinese – in un clima di isteria provocato dal timore dell’accerchiamento e di un nuovo olocausto. Questo persuase la maggioranza del governo, e soprattutto il “falco” Moshe Dayan, ministro della Difesa, a muovere un attacco preventivo, nonostante la riluttanza del premier Levi Eshkol.

Così alle 7 e 10 del 5 giugno in Israele prende avvio l’”Operazione Focus”. Israele lascia appena una decina di caccia a difesa del suo territorio e in sole tre ore annienta a terra l’aviazione egiziana assicurandosi il controllo dei cieli mentre le truppe di Tzahal irrompono nel Sinai.

Truppe israeliane avanzano nel sud della Penisola del Sinai nel giugno 1967 (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Truppe israeliane avanzano nel sud della Penisola del Sinai nel giugno 1967 (Ufficio stampa del Governo israeliano)

In neanche due ore gli aerei israeliani, sorvolando il Sinai a bassissima quota in diverse direzioni, distruggono oltre la metà dei 420 aerei egiziani e un terzo dei piloti del Cairo. Solo nove velivoli israeliani abbattuti in una dimostrazione di superiorità tecnica e tattica schiacciante. “L’aviazione egiziana è distrutta”, afferma la mattina di quello stesso 5 giugno il generale Yitzhak Rabin. L’attacco a sorpresa di Israele nel Sinai scatena la reazione di Siria, Giordania e Iraq. Amman bombarda la Cisgiordania e Gerusalemme Est: quello che doveva essere un attacco a sorpresa, con lo scopo di allentare la morsa egiziana, ha scatenato una nuova guerra arabo-israeliana dalle imprevedibili conseguenze politiche.

Prigionieri egiziani catturati dai soldati israeliani vicino ad al Arish nel Sinai (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Prigionieri egiziani catturati dai soldati israeliani vicino ad al Arish nel Sinai (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Sul terreno la campagna di Israele prosegue con incredibile facilità: il secondo giorno di guerra il Sinai è praticamente tutto nelle mani di Israele, con il generale egiziano Amer che ordina la ritirata oltre il canale di Suez.

Al mattino del 9 giugno l’intero Sinai è diventato israeliano, con gli egiziani in fuga che avevano abbandonato più di 600 carri armati, lasciando sul terreno circa 10mila morti e 12mila prigionieri. Nasser, dopo aver accusato l’Occidente per il sostegno a Israele, usa la parola “Naksa”, disfatta, per descrivere la sua sconfitta e dare le dimissioni.

Prigionieri egiziani catturati vicino a Sharm el Sheikh nel Sinai meridionale, 8 giugno 1967 (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Prigionieri egiziani catturati vicino a Sharm el Sheikh nel Sinai meridionale, 8 giugno 1967 (Ufficio stampa del Governo israeliano)

Manca un vero coordinamento fra i vari fronti arabi e ben presto anche Amman batte in ritirata. L’esercito israeliano entra facilmente in Cisgiordania, conquista Gerico e Gerusalemme Est. Verso le 10 di mattina del 7 giugno il generale israeliano Motta Gur dichiara alla radio: “Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”. Le lacrime di commozione di numerosi soldati segnarono il momento simbolicamente più importante di quella campagna militare. La Giordania firma la resa mentre il ministro della Difesa Dayan e il capo di Stato maggiore Rabin visitano la città vecchia.

Soldati israeliani di fronte al Muro Occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme nel giugno 1967: il Muro fu conquistato nella Guerra dei Sei Giorni (ministero della Difesa di Israele)

Soldati israeliani di fronte al Muro Occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme nel giugno 1967: il Muro fu conquistato nella Guerra dei Sei Giorni (ministero della Difesa di Israele)

Resta da sconfiggere solo la Siria, con le sue truppe asserragliate nell’altipiano del Golan. Un nemico ostico anche per il forte legame con l’Urss, tanto che un falco come Dayan preferisce porre il veto a questa offensiva. Ma la pressione degli abitanti dei kibbutz di frontiera e dei militari è decisiva anche in questo attacco, nonostante Damasco abbia già accettato un cessate il fuoco dell’Onu. L’offensiva del Golan inizia il 9 giugno e nel pomeriggio del 10 l’altopiano è conquistato, mentre Tzahal ferma la sua avanzata a Quneitra, a 60 chilometri da Damasco.

La sera stessa di quel 10 giugno, richiesto con insistenza dal Consiglio di Sicurezza, il cessate il fuoco è effettivo sui tre fronti. Il piccolo Israele, come Davide, al prezzo di 676 molti e quasi 3mila feriti aveva sconfitto i Golia egiziani, giordani e siriani che lasciavano sul terreno circa 15mila uomini, centinaia di carri, la quasi totalità della loro aviazione e conquistato oltre 42mila chilometri quadrati di territori. Gerusalemme “riunificiata” ufficialmente annessa dalla Knesset il 29 giugno, diventava il simbolo di una pace che ora si vuole cercare più con la diplomazia che con le armi. Una trattativa ancora aperta, come quella sullo status di Gerusalemme, ma in un Medio Oriente che dopo quei sei giorni di 50 anni fa ha cambiato volto.

Il generale Ariel Sharon (a sinistra) con Menahem Begin (al centro) e il generale Avraham Yoffe nel deserto del Sinai il 14 giugno 1967 (Ansa)

Il generale Ariel Sharon (a sinistra) con Menahem Begin (al centro) e il generale Avraham Yoffe nel deserto del Sinai il 14 giugno 1967 (Ansa).

Luca Geronico venerdì 2 giugno 2017