Archivio mensile:settembre 2017

1430.- …SUONA A DESTRA UNO SQUILLO DI TROMBA

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Silvio Berlusconi, dopo la festa per l’81esimo compleanno, il volo a Mosca da Vladimir Putin: il loro piano

Ormai non ci sono dubbi, Silvio Berlusconi è tornato quello di una volta. Tra inferno e purgatorio il periodo nero è durato sei anni ma ora pare terminato per sempre, e non c’è stato bisogno neppure della sentenza di riabilitazione attesa da Bruxelles per porvi fine. Non sono le dichiarazioni trionfalistiche da campagna elettorale a provarlo ma i fatti. Uno per tutti. Il leader di Forza Italia oggi festeggerà gli 81 anni (auguri) a casa sua, ad Arcore. Niente di trascendentale, un pranzo in famiglia. Ma i festeggiamenti avranno una coda più movimentata. Il Cavaliere sta meditando infatti un viaggetto di svago e lavoro dall’amico Putin, che il 7 ottobre taglierà il traguardo delle 65 primavere. Partenza nei prossimi giorni, per celebrare insieme al leader russo i compleanni ravvicinati e lanciare un messaggio al capo della Lega Nord, Matteo Salvini, prima del loro incontro, programmato all’incirca tra due settimane: sono io l’italiano preferito dallo zar, casomai qualcuno se lo fosse scordato, e la competizione non mi spaventa.

Riportiamo la notizia non per il gusto di fare gossip ma perché la riteniamo rivelatrice del ritrovato entusiasmo di Berlusconi e le diamo un significato simbolico. Il Cavaliere fu il primo a puntare sull’ex funzionario del Kgb, intuendone il futuro da protagonista assoluto della politica internazionale. Non fu certo solo una questione di pelle, anche gli affari hanno giocato un ruolo decisivo, ma su questo si è fantasticato e scritto molto senza però arrivare a nessuna certezza. La cosa incontrovertibile, e che anche i detrattori gli riconoscono, è però che Berlusconi è stato un genio della politica estera italiana; meglio da statista internazionale che da premier e il rapporto privilegiato con Putin, che fece sedere al tavolo con Bush nel vertice di Pratica di Mare, ne è il fiore all’occhiello.

L’augurio è che il viaggio a Mosca, ancorché di piacere, restituisca alla comunità mondiale un Berlusconi protagonista, visto che, da quando il Cavaliere è sparito dai salotti del mondo, non ce n’è andata dritta una. I rapporti dell’Occidente con Mosca sono peggiorati. L’Europa si è illusa di far male alla Russia con le sanzioni per l’Ucraina e la Crimea, due iniziative che chiunque mastichi un po’ di politica internazionale e conosca la storia dell’ex impero sovietico ritiene più che legittime. Lo disse a Libero anche l’ex premier Lamberto Dini, un americano con la “k”, che nell’intervista rilasciataci un anno fa definì Putin «il più intelligente leader che avessi mai incontrato». Il risultato della linea dura con Mosca è stato un boomerang, specie per l’Italia, alla quale le sanzioni sono costate qualche decina di miliardi di mancato guadagno, mentre la Russia oggi sta benone, con il Pil che cresce del 2,5%, gli stipendi che salgono del 7% e lo zar al massimo della popolarità.

Sullo scenario mediorientale poi, è meglio stendere un velo pietoso. Se Obama, da buon americano, avesse dato retta al Cavaliere, leader di un Paese amico da 70 anni, anziché al comunista Napolitano e a Sarkozy, che di De Gaulle aveva l’ambizione ma non la statura – né fisica né personale -, ci saremmo risparmiati il disastro libico, quello egiziano e probabilmente anche quello siriano. Con quanto ne è seguito in termini di dramma dell’immigrazione e miliardi di euro spesi dal nostro Paese per gestire l’emergenza senza risolverla.

Forse l’ha capito perfino la Merkel, che dopo essersi fatta servire e riverire da Monti, il quale come prima mossa staccò un assegno italiano per salvare le banche tedesche, e aver buggerato Renzi garantendogli di chiudere un occhio sui nostri conti scassati a patto che ci facessimo carico di quasi tutti gli immigrati del mondo, ora invia i suoi emissari alla corte del Cavaliere. Il Ppe, che voleva espellerlo, ieri era in pellegrinaggio ad Arcore, con il capo dei merkeliani d’Europa, il francese Joseph Daul, che provava a convincere Berlusconi ad allearsi con Alfano anziché con Salvini e Meloni. Chissà cosa avrà pensato il Cavaliere, il quale anche se adesso non lo dice più per ragioni tattiche, attribuisce da sempre l’attacco all’Italia sullo spread nell’estate del 2011 e la sua caduta alle trame della Cancelliera, di Obama e della Francia, che si servirono dell’utile… Napolitano, allora capo dello Stato, mosso dall’odio atavico per Berlusconi più che dall’amore del Paese di cui era presidente. La colpa di Silvio era di non piegare la testa su banche, Medio Oriente, tasse. La storia gli ha dato ragione, e ora lui riparte da Putin.

di Pietro Senaldi

1429.- Siria, Putin ed Erdogan discuteranno di coordinamento azioni in zone cuscinetto

Erdogan è pronto a un altro tradimento? Quanto vale la politica dei neocon? L’importante per loro non è vincere, ma vendere.

 

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I motivi principali del riavvicinamento tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vertono sulla situazione in Siria, sul coordinamento delle azioni nel Paese in guerra nelle zone cuscinetto e, sopratutto, sui risultati del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno.

È quanto già si evinceva dalle note preparatorie della riunione fra i due leader.

Come tra energia, missili e guerra in Siria, Putin ed Erdogan tornano “amici”

Sono gli effetti della sconfitta USA in Siria, ennesima dimostrazione che la finanza sionista sa come guadagnare dalle guerre, ma non può fare politica estera. Nel Summit di Ankara, c’è l’intesa sulle truppe turche a Idlib.

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La Turchia ha dato uno schiaffo alla Nato e ha comprato il più sofisticato sistema anti-aereo dalla Russia, la grande rivale dell’Alleanza atlantica. Ma la crepa fra Ankara e Bruxelles, e Washington, riguarda soprattutto i curdi. È una sequenza di partite che si accavallano, come spesso in Medio Oriente: il referendum sull’indipendenza nel Kurdistan iracheno, l’avanzata dei guerriglieri dello Ypg nell’Est della Siria, il dialogo sempre più fitto fra Recep Tayyip Erdogan, Vladimir Putin, il presidente iraniano Hassan Rohani, e ora una scelta strategica che allontana i turchi dai loro alleati occidentali.

La decisione a favore del sistema S-400, quello che difende i cieli di Mosca, arriva dopo un lungo braccio di ferro con la Nato. Già nel 2015 Erdogan aveva annunciato un accordo con i cinesi, poi ripudiato sotto le pressioni occidentali. Ma questa volta il leader turco sembra inamovibile. Ieri, sull’aereo che lo portava ad Astana, in Kazakhstan, Erdogan ha detto che l’intesa «è fatta» e che la Turchia «ha già versato il primo acconto» per il pagamento, che in totale ammonterà a circa 2,5 miliardi di dollari.

Le prime componenti sarebbero «già arrivate in Turchia». Quanto alle obiezioni degli alleati, Erdogan è stato netto: «Ci occupiamo noi della nostra sicurezza, è affare nostro». Ma è anche un affare dell’Alleanza. I sistemi anti-aerei, assieme all’aviazione, sono un pilastro fondamentale delle forze armate occidentali. Scegliere un prodotto russo, molto difficile da integrare con quelli europei e americani, significa essere orientati a difendersi da soli.

Il sistema S-400 è certo fra i migliori al mondo, ritenuto persino superiore al Patriot americano. Può individuare e «ingaggiare» 80 obiettivi allo stesso tempo, sia aerei che missili balistici, fino a 400 chilometri di distanza, e li può abbattere a un’altezza di 30 chilometri. Un osso duro per i cacciabombardieri occidentali, che soltanto quelli «invisibili» di ultima generazione sono in grado di bucare. Ma la scelta di Erdogan più che tecnica sembra politica.

Il fallito golpe del 15 luglio 2016 ha accelerato il cambio di campo della Turchia. Il regime ha eroso le garanzie democratiche e civili, e in questi giorni si sta svolgendo un processo di massa a giornalisti del quotidiano Cumhuriyet accusati di appoggiare «il terrorismo». Le trattative per l’ingresso nell’Unione Europea si sono arenate. Il Parlamento Ue ha votato il 23 novembre scorso a favore della sospensione dei negoziati e vorrebbe mettere fine alla pantomima, anche se gli Stati membri sono divisi, con Austria e Germania che spingono più di tutti per un taglio netto, ufficiale.

Erdogan non vuol essere lui a rompere, l’Europa è ancora popolare fra i giovani delle grandi città, fra gli imprenditori, è il più importante sbocco per le esportazioni. Ma il leader turco sta spingendo la Germania in quella direzione. Gli scontri si susseguono. Prima il divieto ai parlamentari tedeschi di visitare la base Nato di Incirlik, poi il braccio di ferro sui comizi dei politici turchi in Germania, l’invito del raiss alla minoranza turca perché non voti i partiti della Merkel e di Schulz, gli arresti di reporter con cittadinanza tedesca per i loro reportage sui curdi, compreso quello del corrispondente della «Welt» Deniz Yucel.

Un’escalation che ha avuto come conseguenza, fra le altre, il blocco delle esportazioni di armi dalla Germania alla Turchia: nell’ultimo anno sono state bloccate dal governo di Berlino ben 11 richieste, per timore che vengano indirizzate «alla repressione interna o il conflitto curdo». Anche per questo Erdogan guarda alla Russia. Ma soprattutto si vuole «vendicare» dell’appoggio occidentale ai curdi. Fra 12 giorni nascerà un Kurdistan iracheno indipendente e quel che è peggio ne sta nascendo uno siriano sotto le bandiere dei guerriglieri dello Ypg, «cugini» del Pkk e fedeli al leader in carcere Abdullah Ocalan.

1428.- La guerra alle ombre del passato e la lotta contro il pensiero unico

 Stiamo assistendo a una storia scritta dalla nostra divisivita’. Ancora fra fascismo, comunismo, destre e sinistre.  I partiti del potere, anzichè dei nostri bisogni.

 

La guerra alle ombre del passato e la lotta contro il pensiero unico

Fonte: Diorama letterario

8e395921afd8a4f0980aa1b393f8cb59Si intitola “La guerra delle ombre” l’ultimo editoriale di Diorama Letterario, rivista diretta da Marco Tarchi, accademico dell’Università di Firenze: è una riflessione profonda sui rischi generati dalle tendenze liberticide che permeano lavori parlamentari e dalle strumentali visioni storico-politiche dei media mainstream

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L’ultimo episodio è stato certamente il più grottesco – lo scandalo di portata nazionale nato dalle trovate tra il goliardico e lo psicopatologico del bagnino nostalgico di una spiaggia di Chioggia, desideroso di esternare le sue opinioni sull’Italia in camicia nera con espedienti degni del Catenacci di “Alto gradimento”, trasmissione radiofonica cult dell’Italia anni Settanta – e lo si potrebbe a buon diritto giudicare, in sé, indegno di ispirare qualunque commento che varchi i confini della piccola cronaca del periodo balneare. Eppure, anche un episodio di così minuscola portata può, e deve, servire ad aprire una riflessione su un fenomeno ben più rilevante ed inquietante che è sotto i nostri occhi da molti anni, e non accenna a ridimensionarsi: quella vera e propria guerra delle ombre che si è insinuata nell’odierno scenario politico e metapolitico, quel revival di fantasmi di epoche trapassate che da più parti ci si sforza di riportare sulla scena per oscurare o sostituire i veri conflitti di fondo che attraversano la nostra epoca. Quel teatro degli spettri i cui protagonisti sono il fascismo e l’antifascismo.

fascismo-riassuntoNon è la prima volta che la questione si impone all’attenzione. Già una quindicina abbondante di anni fa qualche osservatore più attento della media si chiese come mai riaffiorassero alla superficie del dibattito pubblico, con un carico di veleni sorprendentemente elevato, tematiche che, affrontate a caldo cinquant’anni prima, non avevano mai suscitato altrettanti furori – se non nella ristretta platea di coloro che, dall’esserne coinvolti direttamente, avevano subito gravi torti – e si erano in breve tempo acquietate. Ci riferiamo alle vicende dalla guerra civile italiana del periodo 1943-1945, alle “colpe” della Rsi e alla conseguente “indegnità” dei suoi combattenti e sostenitori, nonché alla complicità del governo di Salò nella persecuzione degli ebrei, e, sul versante simmetrico, al furore repressivo delle vendette antifasciste (il “sangue dei vinti” evocato da Giampaolo Pansa in un libro destinato a uno straordinario e imprevedibile successo di vendite) e ai regolamenti di conti contro “fascisti e padroni” nel triangolo rosso emiliano. Non si trattava di vicende sconosciute, ma di fatti tragici su cui esistevano numerose inchieste giornalistiche e giudiziarie, atti di processi, volumi di memorie, dibattiti arroventati tra i sostenitori delle opposte parti che erano comunque passati in giudicato negli anni Cinquanta – e che erano tornati alla ribalta solo per un breve periodo quando il famoso caso Tambroni, con il determinante sostegno del Msi all’esecutivo e lo sconsiderato tentativo dello stesso partito di tenere il proprio congresso nazionale in una “città medaglia d’oro della Resistenza” avevano provocato i tumulti di Genova e i morti di Reggio Emilia. Perché quelle pagine venivano riaperte dopo mezzo secolo, e con toni immediatamente aspri?

Si poteva, allora, collegare quella resurrezione all’inaspettata fuoriuscita missina dal ghetto in cui lo aveva costretto la formula dell’arco costituzionale a seguito di Tangentopoli e, soprattutto, della decisione di Berlusconi di includere Fini e i suoi nella propria coalizione, trascinandoli al governo. Non potendo gli ex comunisti spingere più di tanto sul pedale dell’antifascismo, per non subirne, nell’immediato indomani del crollo dell’impero sovietico, l’effetto boomerang – ed anzi, non volendo farlo, essendo funzionale al loro accreditamento in prospettiva governativa il superamento delle opposte memorie –, si era aperta una finestra di opportunità per gli intellettuali di matrice azionista, i custodi dell’antifascismo più genuino e umorale per prenderne il posto e schierarsi all’avanguardia. Così come si erano create le condizioni, sul fronte avversario, per rispondere al tiro (pur con un arsenale assai più sguarnito) rispolverando le accuse a vecchi nemici che, all’epoca, non si erano risparmiati in ferocia, come i libri di Pansa, non certo un nostalgico, dimostravano ampiamente.

Il gioco aveva così innestato sottotraccia, nella “seconda repubblica”, quella retrodatazione dello scenario di scontro che tuttavia, stante l’ascesa di ex comunisti ed ex (neo)fascisti ad alcuni dei più alti scranni istituzionali, si era manifestata solo episodicamente in primo piano, e coinvolgendo per di più quasi solo ambienti marginali. Anche se – dato da non sottovalutare – l’immaginario della lotta antifascista, sia pur orientata contro un fantasma, molto più accattivante dell’opposizione ad un magnate della tv e delle costruzioni affetto da tardive ossessioni sessuali, si era diffuso e radicato nella galassia dei centri sociali, centri di raccolta di rabbie, frustrazioni e vocazioni alla violenza sempre pronti ad accendersi e a fornire squadre d’azione a gruppi in stile black bloc. Questo per parlare dell’Italia, perché all’estero l’antifascismo era rimasto all’interno del perimetro cerimoniale e giuridico definito dall’esito della seconda guerra mondiale, poiché il suo contraltare era ridotto quasi a presenza virtuale, sopravvivendo esclusivamente in gruppuscoli magari a tratti feroci nelle manifestazioni, come gli skinheads, o patetici nelle manifestazioni coreografiche, come le lillipuziane fazioni in divisa di ascendenza neonazista, ma politicamente del tutto ininfluenti.

Leader populisti

Le cose sono di nuovo cambiate, però, quando su diversi scenari europei hanno fatto ritorno, in vesti meno dimesse e abborracciate del passato, movimenti che si è convenuto – non senza valide ragioni – di chiamare populisti. Liquidate come bizzarrie le prime manifestazioni del fenomeno in Danimarca e in Norvegia, paesi considerati troppo benestanti, pacifisti e socialdemocratici per dar corpo a incubi, il campanello d’allarme è scattato con le prime esplosioni elettorali di metà anni Ottanta: il Front national nelle europee del 1984, sopra l’11%, la Fpö in Austria. Con l’ingresso di Jean-Marie Le Pen e Jörg Haider nel serraglio dei nuovi “uomini neri”, le presunte reincarnazioni di Hitler e Mussolini, si è aperto il capitolo di cui gli anni recenti ci stanno mostrando le pagine più sconcertanti.

In una prima fase, la trasformazione del conflitto tra populisti e sostenitori del quadro politico vigente (l’establishment) in revival degli “oscuri” anni Trenta ha visto in campo soltanto i secondi, dalle cui fila sono partiti gli strali e gli slogans miranti ad equiparare gli scomodi concorrenti alle formazioni fasciste dei tempi che furono.L’appetibile bersaglio ha offerto alle disperse schegge di un’ultrasinistra rapidamente disillusa dalla speranza di far breccia attraverso l’agitazione di piazza no global la possibilità di ritrovare un nemico identificante e costituire un fronte internazionalista, gli antifa, sfogandogli contro la mai sopita voglia di menar le mani e ribadire che Carl Schmitt, nel suo legare inscindibilmente la politica alla coppia amico/nemico, ha avuto piena ragione. Ma, molto più ampiamente, ha consentito a chi ne prosperava di ribadire la centralità dell’asse sinistra-destra, sovraccaricandolo di contenuti emotivi con l’evocazione di una minacciosa estrema destra, depotenziando l’intenzione populista di sostituirlo con l’asse alto/basso, cioè popolo contro classi dirigenti oligarchiche, considerato molto più aderente alla realtà dei fatti.

Non si può dire che questa mossa strategica abbia avuto pieno successo, perché parti cospicue degli elettorati di varie nazioni non sono cadute nella trappola e hanno orientato il proprio consenso verso i guastafeste populisti e i loro programmi rivendicativi. Tuttavia, su altri settori del potenziale ambito di sostegno delle formazioni populiste l’agitazione dello spauracchio di un nuovo fascismo ha avuto qualche presa, soprattutto là dove qualcuno dei partiti tradizionali non ha esitato ad impossessarsi di temi di campagna e proposte di soluzione branditi dagli avversari, annacquandoli e riproducendoli in versioni edulcorate, più digeribili per queste frange timorose della popolazione. La reazione di una quota non trascurabile degli elettori che nei sondaggi si dicevano intenzionati a votare Wilders o Le Pen al battage politico-mediatico che ha presentato la Brexit e il successo di Trump come pericolosissime aperture ad un’apoteosi dell’estremismo di destra sta a dimostrarlo.

Una giovane sostenitrice della candidatura patriottica di Marine Le Pen

Malgrado la costante e talvolta esasperata strategia di dé-diabolisation condotta ormai da oltre sei anni, Marine Le Pen ha visto scattare di nuovo, pur se in proporzioni decisamente ridotte, il meccanismo del richiamo antifascista che aveva travolto il padre nel secondo turno dell’elezione presidenziale del 2002. Tutti gli altri candidati, ad eccezione del sovranista Dupont-Aignan, le si sono schierati contro evocando la necessità di battere, ad ogni costo, l’“estrema destra”. E il grosso delle truppe li ha seguiti. C’è da prevedere che in Austria e in Germania l’espediente produrrà nel prossimo futuro frutti analoghi.

Il momentaneo arresto del ciclo ascendente dei movimenti populisti, però, non ha prodotto solo la compiaciuta constatazione del blocco di potere oggi egemone che le scelte fatte hanno pagato. Ha simmetricamente evocato delusioni e frustrazioni nelle frange più radicali della loro base di sostegno, già probabilmente a disagio di fronte allo stile dichiaratamente non violento (se non, a volte, sul piano verbale) di tali movimenti, rendendo probabili scissioni e creazioni di nuovi gruppuscoli estremisti. Già si vedono centinaia di attivisti prendere le distanze dall’“imborghesito” Jobbik, si leggono propositi oltre le righe negli scambi social fra delusi della piega presa dal Front national, si colgono qua e là altri segni di sconforto e compaiono su giornali e siti video e fotografie che ritraggono decine di ragazzi e ragazze in divise e pose paramilitari, inquadrati e schierati, intenti ad esibire in rituali di altra epoca la loro voglia di contestazione del clima culturale e sociale del mondo in cui vivono.

1499617290613.jpg--Il danno che queste manifestazioni di infantilismo possono recare, non solo e non tanto ai partiti e movimenti populisti quanto alla già ardua causa del contrasto dell’odierno “spirito del tempo” sul piano metapolitico della penetrazione delle idee nella mentalità collettiva, è potenzialmente enorme. Già in passato, in varie occasioni, la riattivazione strumentale del binomio conflittuale fascismo/antifascismo ha servito gli interessi dei fruitori dello status quo. Ha attizzato guerre per procura, suscitato odi, fatto versare sangue a profitto degli spettatori interessati degli scontri. E ha tenuto in vita la residua capacità di attrazione di quegli ambigui contenitori, svuotati ormai di contenuti in sintonia con le dinamiche del tempo presente, che sono le varie “destre” e la varie “sinistre”. Chi si presta a questo torbido gioco, foss’anche con le intenzioni più pure, e, cedendo al ricatto delle memorie, si presta alla penosa riproposizione sotto forma di farsa di eventi e soggetti che hanno già fatto la loro parte nella storia in un’epoca di tragedie, è un inconsapevole ma oggettivo complice degli odierni padroni delle coscienze. Gli unici ai quali la guerra tra spettri del passato che si va profilando può apportare sostanziosi utili.

di Marco Tarchi – via Arianna ed. – Fonte: Diorama letterario

1427.-La Siria per Hezbollah: chiusa una guerra se ne aprirà un altra

La Siria per Hezbollah: chiusa una guerra se ne aprirà un altra
Intervista. Parla Abu Mahdi al Shaabi, comandante militare del movimento sciita: assieme all’esercito governativo siriano abbiamo conseguito una vittoria, ora ci aspetta la guerra con le cellule jihadiste dormienti. Il ruolo della Russia mentre all’orizzonte si affaccia un nuovo conflitto con Israele.

BEIRUT Abu Mahdi al Shabi è uno dei comandanti della sicurezza militare del movimento sciita Hezbollah a Beirut. Nelle scorse settimane ha combattuto nel Qalamoun, dove, informalmente, Hezbollah e l’esercito siriano hanno partecipato all’offensiva “Alba di Juroud” lanciata dall’esercito libanese per liberare la frontiera tra i due Paesi dalla presenza dello Stato islamico. L’abbiamo intervistato nel suo ufficio a Bashura, un quartiere di Beirut a maggioranza sciita, sui nodi, anche politici, della guerra in Siria e sulla possibilità di un nuovo conflitto con Israele.
Lei è un comandante di unità combattenti. A suo giudizio il quadro bellico siriano è irreversibile come appare oggi
Le forze governative siriane e Hezbollah e gli altri combattenti della resistenza hanno ottenuto di una importante vittoria militare ma in Siria non c’è stabilità e ci sarà ancora guerra. Si è solo chiuso un capitolo e se ne aprirà un altro. Il nuovo conflitto sarà con le cellule jihadiste dormienti. Sappiamo che ci sono 4mila uomini pronti a colpire che non devono prendere ordini da nessuno e possono agire da soli. E regna l’incertezza politica e diplomatica. Trump e gli Stati uniti potrebbero tornare sui loro passi, sconfessare gli accordi con la Russia per la tregua in Siria e innescare una escalation. Senza dimenticare che il conflitto tra sunniti e sciiti, alimentato da forze esterne, ha avuto conseguenze sociali devastanti e ci vorranno anni per riparare i danni.
Alla luce di questa incertezza Hezbollah pensa di mantenere i suoi combattenti in Siria.
Hezbollah manterrà i suoi combattenti in Siria, per continuare la lotta contro il terrorismo. Si ritirerà solo se a chiederlo sarà la Russia.
E la Russia potrebbe farlo?
Mosca potrebbe decidere, nel quadro di una soluzione politica in Siria, che una milizia (Hezbollah) non può restare affiancata all’esercito siriano.
E come Damasco prenderebbe questa eventuale richiesta russa per il rientro in Libano dei combattenti di Hezbollah. Il vostro ruolo sui campi di battaglia in Siria è stato decisivo
La Russia oggi è il pilastro della Siria. Di fronte alla scelta tra la Russia e Hezbollah cosa potrebbero fare i vertici politici siriani? Sceglierebbero la Russia, è normale, ne siamo consapevoli.
Hezbollah come guarda alle zone di de-escalation in Siria frutto degli accordi tra Russia, Usa e altri attori regionali. Non crede che in qualche modo abbiano legittimato il controllo dei gruppi jihadisti su porzioni di territorio siriano. Come nella provincia di Idlib, nelle mani di an Nusra, il ramo siriano di al Qaeda
Le consideriamo per quelle che sono, ossia accordi di tregua temporanei. I gruppi armati insediati in varie aree presto o tardi riprenderanno i loro attacchi, possono contare su migliaia di uomini e non tarderanno ad usarli. Quindi non c’è nulla di definitivo. E questo vale anche per Idlib.
È vero che Israele ha chiesto alla Russia di imporre ai vostri combattenti e alle unità iraniane in Siria di arretrare a 40 km dal Golan, anche allo scopo di creare una zona cuscinetto. Mosca avrebbe rifiutato proponendo una distanza di 5 km
In una questione del genere non decide Hezbollah. La decisione prima di tutto è dell’Iran, uno Stato che si confronta con altri Stati, la Russia e naturalmente la Siria. Occorre guardare in faccia alla realtà. L’Iran a cinque chilomentri dalle postazioni israeliane sarebbe una svolta di eccezionale importanza che Israele però non accetterebbe. Tehran è un Paese che tiene conto degli equilibri regionali e manterrà su certe posizioni piuttosto di altre le sue unità che combattono nella Siria meridionale assieme all’esercito.
Israele ha alzato la voce più volte negli ultimi mesi e prosegue i suoi raid aerei contro le vostre postazioni. Il governo Netanyahu ha respinto a inizio luglio gli accordi di de-escalation in Siria sostenendo che favoriscono i piani dell’Iran e di Hezbollah e fa capire di essere pronto alla guerra per difendere la sua sicurezza. Qualche giorno l’esercito israeliano ha concluso imponenti esercitazioni militari al confine con il Libano che, secondo la stampa locale, hanno avuto lo scopo di preparare un nuovo ampio scontro armato proprio con voi di Hezbollah
Hezbollah non sottovaluta le minacce di Israele. Sappiamo che (Israele) è uno Stato militarmente molto potente, con una grande forza distruttiva, possiede missili a medio e lungo raggio di grande precisione e ha una importante forza aerea. Sappiamo di avere di fronte un nemico che se minaccia la guerra vuol dire che potrebbe scatenarla sul serio. E il fatto che parli delle capacità belliche dei suoi avversari, esagerandole, significa che sta già preparando la sua popolazione alla nuova guerra.
Anche Hezbollah però ha una grande forza militare, ormai paragonabile, si dice, a quella di un esercito. E possiede un imponente arsenale missilistico
Hezbollah non solo è cambiato, è cambiato radicalmente. È mille volte più forte di quanto non fosse già nel 2006. I nostri combattenti, dopo anni di guerra durissima in Siria, possiedono oggi un addestramento ampiamente superiore a quello di 11 anni fa quando si scontrarono con gli israeliani (nel Libano del sud). E sono molto meglio armati. Perciò anche Israele deve stare molto attento, perché Hezbollah ha grandi capacità militari e, se necessario, non esiterà ad metterle tutte in campo. Tuttavia la nuova guerra potrebbe innescarsi più facilmente nel sud della Siria (che nel Libano del sud, ndr). Israele vuole ottenere in quella parte di territorio siriano la realizzazione concreta sul terreno del suo piano, con l’appoggio pieno degli americani. E ciò tiene alta la tensione.
Oggi chi controlla le linee con Israele lungo il versante siriano del Golan occupato
Un tempo il controllo era nelle mani di al Qaeda (an Nusra) e questo faceva gli interessi di Israele. Ora ci sono un po’ tutti. In qualche parte ancora i qaedisti, poi l’esercito siriano, quindi i nostri combattenti e unità iraniane. Il futuro di questa striscia di terra e quello della Siria meridionale saranno il motivo principale della possibile nuova guerra.

di Michele Giorgio. Fonte: Il Manifesto. Via Arianna editrice

1426.- Per l’annullamento del Fiscal Compact

Dicevamo tre anni fa:

Da Stato sovrano a provincia di una dittatura finanziaria. Si parla tanto del fiscal compact e dei famosi parametri che stanno mettendo in ginocchio il nostro paese condannandolo all’austerity ed a uno stato di crisi permanente. Mi riferisco al vincolo del 3% su rapporto defici/pil, al pareggio di bilancio introdotto in costituzione e alla necessità per i paesi con un rapporto debito/pil superiore al 60% di ridurre entro un ventennio l’eccedenza. Nel caso dell’Italia con un debito pubblico al 130% è stato già calcolato che questo vincolo potrà essere raggiunto nei tempi imposti solo con una media di 40 miliardi di euro di tagli o tasse ogni anno per vent’anni.

Ma c’è un patto strettamente collegato al fiscal compact in quanto mirato proprio a contenere lo stock di debito e di spesa pubblica  per rientrare in quei parametri, che è una vera ghigliottina per i comuni ed è la causa principale della crisi delle aziende che lavorano con la pubblica amministrazione, della perdita di servizi erogati alla cittadinanza e del degrado di comuni, strade, scuole, nonché la causa di migliaia di licenziamenti, mancati pagamenti e chiusura di attività . Si chiama il patto di stabilità interno.

Sul sito della Camera leggiamo che: “ le regole del patto di stabilità interno sono funzionali al conseguimento degli obiettivi finanziari fissati per le regioni e gli enti locali quale concorso al raggiungimento dei più generali obiettivi di finanza pubblica assunti dal nostro paese in sede europea con l’adesione al patto europeo di stabilità e crescita (poi divenuto fiscal compact)”

http://leg16.camera.it/522?tema=104&Patto+di+stabilit%C3%A0+interno

Questi nuovi obiettivi finanziari hanno imposto alle autonomie territoriali a partire dal 2012 un ulteriore inasprimento dei vincoli per concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica dato che come riportato nel trattato “ a partire dal 2011 il risparmio richiesto alle regioni deve essere tale da coprire il taglio di risorse effettuato nell’ambito delle manovre finanziarie di risanamento dei conti pubblici.” Questo ha causato un calo di quasi il 40% di investimenti da parte degli enti locali dato che “ il mancato raggiungimento degli obiettivi posti dal patto di stabilità interno comporta l’applicazione di una serie di misure sanzionatorie come il divieto di ricorrere all’indebitamento per finanziare gli investimenti.”

Come si legge nella relazione dell’UPI (Unione Province Italiane) sul caso Marche dal titolo:Gli effetti depressivi del Patto di Stabilità sulle attività produttive: 600 milioni di euro di investimenti bloccati.

http://upimarche.it/rassegna_stampa/comunicato%20stampa%20Fabio%20Lo%20Savio.pdf

I meccanismi del patto di stabilità interno bloccano i pagamenti alle imprese e le manutenzioni dei beni pubblici e di fatto ci rende i peggiori committenti per le aziende.Sono 600 milioni di euro gli investimenti tenuti fermi nella sola Regione Marche. Non abbiamo potuto pagare lavori di emergenza che lo Stato ci ha chiesto di fare e diventiamo inattendibili. Solo modificando alcune regole vessatorie che riguardano il patto di stabilità probabilmente saremo in grado di pagare le imprese e commissionare qualche lavoro nuovo facendo fronte a qualche intervento di prevenzione per scongiurare danni ben più importanti”.

Ma dall’UPI fanno anche sapere che:

“La violazione del patto di stabilità come atto di forza per evitare il fallimento di alcune aziende del territorio è una via comunque non praticabile perché significherebbe avere penalizzazioni, non avere più trasferimenti per la quota eccedente e non poter effettuare nessuna nuova assunzione per quanto gli organici siano già ridotti all’osso. Il patto di stabilità interno pone alla spesa degli enti locali un sistema di vincoli che si aggiunge agli equilibri di bilancio definiti dal testo unico secondo cui le entrate accertate devono essere maggiori o uguali alle spese impegnate e le entrate correnti devono essere pari o uguali alle spese correnti più le quote capitale delle rate dei mutui.”

Ciò significa che se un’Amministrazione deve pagare una fattura relativa ad un lavoro finanziato con un mutuo  è obbligata a riscuotere, nello stesso esercizio un’entrata in conto capitale di pari importo. Ciò si traduce in un forte rallentamento dei pagamenti  alle imprese e in una pesante riduzione delle manutenzioni di competenza di Comuni e Province.

Si tratta di somme dovute alle imprese che in mancanza dei vincoli del patto si tradurrebbero in pagamenti nell’arco di pochi giorni.

L’impossibilità di effettuare i pagamenti determina di fatto un rallentamento nell’esecuzione dei lavori anche se regolarmente finanziati ed appaltati.  I meccanismi del patto rendono inutilizzabile l’avanzo di amministrazione per finanziare investimenti in quanto l’operazione non determina riscossioni.

Al momento attuale le priorità degli enti sarebbero date da manutenzioni straordinarie (riferite per esempio a strade e messa a norma di scuole) ma per effetto dei vincoli del patto gli avanzi di amministrazione sono destinati all’estinzione anticipata dei mutui.

Conclusioni:

I vincoli del patto di stabilità tengono ferma una massa di investimenti pari a:

per gli Enti Locali delle Marche 598.132.159

per gli Enti Locali della provincia di Ancona 180.847.835

Questo delle Marche è solo un esempio e  forse tra i meno tragici rispetto alla situazione riscontrata in diverse altre regioni a dimostrazione che nonostante i soldi ci siano, si lascia che le aziende falliscano, che i comuni dichiarino il dissesto e che gli imprenditori continuino a suicidarsi non vedendo soluzione.

Per rendere ancora più chiari i disagi provocati alle amministrazioni locali da quando è entrato in vigore questo patto europeo e per mettere in evidenza le assurdità e le anomalie del suo perverso funzionamento ho allegato un video intervista a diversi sindaci di alcuni piccoli comuni che raccontano concretamente gli effetti devastanti del patto di stabilità interno sulla vita delle amministrazioni pubbliche locali.

https://www.youtube.com/watch?v=b96A66X_4Uc

A questo punto, tenendo conto che tutto ciò avviene a causa dell’obbligo di mantenere con precisione maniacale il vincolo del  3% del rapporto deficit/pil. (Una misura straordinaria fu addirittura applicata l’anno scorso a danno degli enti locali quando l’Italia era al 3,1% e ci fu richiesto dall’Europa di rientrare subito di quel (0,1%) che consisteva in 1 miliardo e mezzo circa di tagli immediati)

Tenendo conto che:

Il vincolo che inchioda i paesi europei all’austerity, che blocca la spesa sociale, che non permette agli stati e ai comuni di poter spendere a deficit neanche nelle emergenze, il vincolo che ha causato l’aumento dell’iva, che ha impedito allo stato di pagare le aziende creditrici causando così la chiusura di centinaia di imprese colpevoli di aver generato crediti con la pubblica amministrazione e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro e il dilagare dei sucidi tra gli imprenditori, è stato deciso quasi 35 anni fa in meno di un’ora senza basi teoriche da un funzionario ai tempi non ancora trentenne del governo francese di Francois Mitterand per dei loro interessi interni.

(http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-01-29/parla-inventore-formula-3percento-deficitpil-parametro-deciso-meno-un-ora-102114.shtml?uuid=ABJHQ0s )

Tenendo conto che:

La Commissione Europea (entità che non rappresenta i cittadini europei) ha raccomandato al Consiglio Europeo (altra entità non investita da legittimità popolare)di prorogare i termini per la correzione del disavanzo eccessivo per sei paesi (Spagna, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Slovenia) escludendo senza motivo l’Italia da tale beneficio.

http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-13-463_it.htm

Tenendo conto che:

l’Italia è attualmente tra gli unici paesi europei a rispettare questo vincolo. La Francia nel 2012 era comodamente ferma al 4,7 – mentre l’Italia aveva già due punti di meno – ed è ancora ferma ben al di sopra del 4%. Il Portogallo nel 2012 era fermo al 5% per poi scendere di mezzo punto. Per non parlare della Spagna che nel 2012 era al 7% o dell’Irlanda al 8,3%.

http://www.soldionline.it/infografiche/infografica-il-fiscal-monitor-dell-fmi

Tenendo conto che:

Il famoso giurista di fama internazionale Giuseppe Guarino, professore emerito di Diritto amministrativo alla Sapienza di Roma e già Ministro delle Finanze e dell’Industria definisce il Fiscal compact e quindi il pareggio di bilancio incostituzionale ed illegittimo secondo gli stessi Trattati europei e lo fa documentando le motivazioni in un saggio di 76 pagine zeppe di riferimenti legislativi e rimandi giurisprudenziali evidenziando la necessità di farcadere con effetto immediato questo vincolo esigendo il rispetto del proprio diritto alla corretta ed integrale applicazione del Trattato, cioè dell’art. 104 C TUE, oggi 126 TFUE”.

Tenendo conto che:

Il fiscal compact è stato firmato da un presidente del Consiglio di un governo tecnico non eletto dai cittadini ma espressione dei vertici delle più spietate lobby finanziarie (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs, Brugel)

Tenendo conto che:

Nel primo decennio dell’euro (1999-2008) il debito pubblico tedesco è aumentato (dal 61% al 67% del Pil), al contrario di quello di molti Pigs, Italia compresa (il cui debito nello stesso periodo scendeva dal 113% al 106% del Pil) questo perché dal 2000 al 2005 (badate bene), prima dello scoppio della crisi del 2007 la spesa pubblica tedesca è aumentata di circa 120 miliardi di euro una cifra che fu allocata per circa 2/3 (90 miliardi di euro complessivi) in sussidi alle imprese e in politiche attive per il mercato del lavoro. Le spese per l’istruzione invece aumentarono di soli 8 miliardi e quelle per l’edilizia popolare di 3. In pratica la Germania che per 4 anni di seguito sforò la regola del 3% nel rapporto deficit/pil  aveva finanziato a deficit le proprie imprese in aperta violazione del Trattato di Maastricht spendendo soldi pubblici per rendersi competitiva con le scorrette riforme Hartz – che quindi vanno inquadrate come il classico aiuto di stato vietato dai trattati – che porteranno ad un abbattimento del costo del lavoro tedesco, a colpi di precarietà con la flexicurity e i mini job, che determinarono un declino dei salari nominali e reali tedeschi che scesero fra il 2003 e il 2009 di circa il 6%. Una svalutazione reale finanziata con sussidi diretti e indiretti al sistema produttivo tedesco. Queste azioni di vero e proprio dumping sociale avviate in Germania furono decise unilateralmente, senza consultare “i fratelli europei” violando palesemente l’articolo 119 del Trattato di Funzionamento dell’UE (TFUE).

Tenendo conto che:

Una banca pubblica tedesca creata nel dopoguerra dagli alleati per gestire i fondi del piano Marshall è diventata oggi il più importante strumento di politica industriale del paese ed una delle più grandi e potenti banche del mondo la Kreditanstalt fuer Wiederaufbau, (KfW) cioè Istituto di credito per la ricostruzione.

La KfW ha da decenni il ruolo di motore e finanziatore dello sviluppo, ossia quel ruolo che i falchi di Berlino e di tutta l’Eurozona non vogliono attribuire alla Banca Centrale Europea. A trarne vantaggio è il solo sistema tedesco. Il rating di questa banca è ottimo, pari a quello dei Bund tedeschi, per cui alla KfW non è difficile approvvigionarsi a tassi bassissimi quasi esclusivamente sui mercati mondiali dove negli ultimi anni ha realizzato in media emissioni per circa 80 miliardi di euro come riportato in un articolo di Repubblica del 11 Febbraio 2013.

http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2013/02/11/news/kfw_cos_funziona_il_motore_della_germania-52371618/

La KfW appartiene per l’80% alla Repubblica federale e al 20% ai Lander (ossia i 16 stati federati della Germania, sempre soggetti pubblici) e svolge molti compiti di finanziamento del settore pubblico non solo finanziando le piccole-medie imprese, ma rendendosi artefice di salvataggi di aziende e banche come nel caso della Ikb collassata a causa dei mutui subprime. Salvataggi che ad altri Paesi non sarebbero stati permessi ma che Berlino continua a far passare come interventi non pubblici, a dispetto della proprietà al 100% pubblica dell’istituto e sostenendo dei costi che restano al di fuori del perimetro del bilancio federale e che quindi non figurano nel debito pubblico tedesco.

Compiti e operazioni che, invece, in altri Paesi figurerebbero nei conti statali incidendo nel rapporto debito/pil in maniera considerevole infatti, conteggiando le spese di questa che può essere definita la Cassa depositi e prestiti tedesca, la Germania sfiorerebbe il 100% nel rapporto deficit/Pil come ha fatto notare l’economista Alberto Bagnai su “il Fatto” quotidiano dove ha spiegato che “questa operazione è consentita dai criteri contabili Esa95, che escludono dal computo del debito pubblico quello delle società pubbliche che coprono i propri costi per oltre il 50% con ricavi di mercato. La KfW rientra in questo criterio, ma ciò non toglie che se qualcosa le andasse storto, sarebbe il governo federale a garantire le sue obbligazioni, esattamente come gli altri Bund.”

(http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/23/germania-solo-berlino-puo-truccare-conti-eurozona-terra-di-disuguaglianza/718024/ )

Tenendo conto che:

dal secondo trimestre del 2007 ossia quando è ufficialmente scoppiata la crisi dei subprime e delle banche che negli anni successivi hanno chiesto aiuto agli Stati facendo quindi incrementare il debito pubblico che nell’Eurozona è passato dal 60 all’80% l’Italia è stato il paese che ha visto crescere meno di tutti, nell’area euro, il debito pubblico nominale (quello che comprende anche il tasso di inflazione).

Se a metà 2007 era a 1.628 miliardi, a metà  2013 era a quota 2.076 miliardi. Si tratta di un incremento del 27%. Nello stesso periodo il debito pubblico della Germania dove, come abbiamo visto, non viene conteggiata l’ingente quota della KfW è comunque passato da 1.597 miliardi a 2.146 miliardi (+34%). Questo nonostante negli stessi anni la Germania abbia generato un’inflazione inferiore di cinque punti rispetto all’Italia e abbia pagato tassi sul debito molto più bassi rispetto al nostro paese (da qui lo spread). E la Francia? Nel frattempo ha visto crescere lo stock di debito del 57%, anch’esso vicinissimo ai 2 mila miliardi di euro. Ha mantenuto un elevato e continuo sforamento del vincolo del 3% senza subire una procedura d’infrazione.

(http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-12-03/il-debito-pubblico-e-peccato-originale-italia-dati-dicono-che-cresce-meno-tutti-paesi-euro-mentre-pil–110537.shtml?uuid=ABDnIYh )

Tenendo conto che:

proprio la Germania che intima agli altri paesi di rispettare i parametri europei ha mantenuto un ampio surplus di conto corrente durante tutta la crisi finanziaria dell’area dell’euro, eccedendo la soglia [del 6%] ogni anno a partire dal 2007. Addirittura nel 2012 il surplus nominale di conto corrente della Germania era maggiore di quello della Cina ignorando ogni raccomandazione a ridurlo e a stimolare lo sviluppo della domanda interna per contribuire a portare gli altri paesi fuori dalla crisi. Inaccettabile è che la critica a tale operato sia arrivata dal governo degli Usa e da ambienti di ricerca e non dalla Commissione Europea sempre pronta a bacchettare il nostro paese dimostrando palesemente come queste procedure seguano una ingiustificata logica asimmetrica e totalmente arbitraria.

Tenendo conto che:

la Germania non ha fatto altro che sfruttare a danno di altri paesi gli enormi vantaggi avuti dalla moneta unica, una moneta troppo forte per i paesi come l’Italia che hanno quindi perso competitività nei confronti della Germania che invece ha giovato anche del regime di cambi fissi evitando che proprio il tasso di cambio  riflettesse il suo ampio surplus considerato un freno per la ripresa dei paesi dell’Eurozona che infatti fronteggiano un corrispondente deficit commerciale.

Tenendo conto che:

la Germania si è battuta per fare in modo che i paesi in crisi dell’area euro non potessero ricevere neanche gli aiuti dalla Banca Centrale provando a bloccare con un ricorso il piano degli Omt ossia l’acquisto straordinario da parte della BCE di titoli di stato dei paesi in difficoltà definendola un’operazione che va oltre il mandato di politica monetaria della Banca centrale europea.

Tenendo conto del

palese piano di dominio della Germania con la complicità della nostra classe politica che trova evidenza nel fato che i maggiori acquirenti di aziende italiane, indebolite dalla recessione e dal credit crunch sono proprio le imprese tedesche, che al contrario di quelle tricolori nuotano nella liquidità per le ragioni che abbiamo ampiamente spiegato.

Come ha riportato il Financial Times, “sono ben 23 le Pmi italiane passate in mani tedesche nel 2013, dopo le 20 acquisizioni registrate nel 2012. E quasi sempre si tratta di gioiellini con conseguente perdita di posti di lavoro in Italia e l’addio definitivo a pezzi strategici della struttura industriale italiana. Con pesanti conseguenze, nel lungo termine, per il nostro Paese”.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-02-02/ecco-perche-germania-sta-facendo-incetta-migliori-pmi-italiane-a-prezzi-saldo-161240.shtml?uuid=ABaILzt )

Tenendo conto che:

La Bundesbank elude il divieto di acquisto di titoli di Stato sul mercato primario.

http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/leccezione-tedesca-nel-collocamento-dei-titoli-di-stato/#.UzMMJPl5Oao

Chiediamo nell’immediato:

1)    di denunciare il Governo tedesco nella persona della cancelliera Angela Merkel per le violazioni sopra citate.

2)    sospendere da subito i vincoli del fiscal compact invitando il Governo italiano a spendere a deficit oltre il limite del 3% fino al raggiungimento della soglia media del rapporto deficit/pil dei paesi europei (oltre il 4%) in modo da avere liquidità immediatamente disponibile per uscire dall’emergenza in attesa di rendere possibile la rescissione di tali trattati e l’uscita dalla moneta unica.

3)    Sospendere il patto di stabilità interno agli enti locali invitandoli a spendere da subito per la popolazione i fondi bloccati a causa dei vincoli del patto stesso.

Promuoveremo a tale scopo una manifestazione di sindaci e cittadini fuori alle sedi diplomatiche tedesche.

Invitiamo giuristi ed esperti di diritto internazionale a formalizzare tale denuncia.

Invitiamo i cittadini ad aderire e a farsi carico attivamente di coinvolgere i propri rappresentanti locali.

 Francesco Amodeo

Per info: Comitato Italiano Popolo Sovrano

http://www.popolosovrano.eucipopolosovrano@libero.it; 320.095.27.62

Francesco Amodeo

Francesco Amodeo

1425.- VOGLIONO GUERRA. ALLORA RICORDIAMO CHI CI TRASCINO’ NELLE ALTRE

Maurizio Blondet: Il nostro Parlamento, bipartisan, ha aumentato le nostre spese militari da 70 a 100 milioni al giorno:  + 43%.  Gli eventi in corso tra Irak, Siria e Iran  mi inducono a riproporre questo mio testo:

Benjamin Freedman  (1890 – 1984) è stato  un uomo d’affari di successo (era il proprietario della Woodbury Soap Co.), ebreo di New York, patriota americano.  Era anche  stato membro della delegazione americana al Congresso di Versailles nel 1919, dunque un “insider”. Ruppe con l’ebraismo organizzato e i circoli sionisti dopo il 1945, accusandoli di aver favorito la vittoria del comunismo in Russia.

              Benjamin Freedman

 

Da quel momento, dedicò la vita e le sue ragguardevoli fortune (2,5 milioni di dollari di allora)
 a combattere e denunciare le trame dei suoi correligionari (1).
  Benjamin Freedman tenne, nel 1961, al Willard Hotel di Washington ad un’influente platea, riunita dal giornale americano Common Sense, il seguente discorso.

«Qui negli Stati Uniti, i sionisti e i loro correligionari hanno il completo controllo del nostro governo.
Per varie ragioni, troppo numerose e complesse da spiegare qui, i sionisti dominano questi Stati Uniti come i monarchi assoluti di questo Paese.

Voi direte che è un’accusa troppo generale: lasciate che vi spieghi quel che ci è accaduto mentre noi tutti dormivamo.

Che cosa accadde?
 La Prima Guerra Mondiale scoppiò nell’estate del 1914.

Non sono molti a ricordare, qui presenti.
In quella guerra, Gran Bretagna, Francia e Russia erano da una parte; dalla parte avversa, Germania, Austria-Ungheria e Turchia.
Entro due anni, la Germania aveva vinto quella guerra.
 Non solo nominalmente, ma effettivamente.

I sottomarini tedeschi, che stupirono il  mondo, avevano fatto piazza pulita di ogni convoglio che traversava l’Atlantico.

La Gran Bretagna era priva di munizioni per i suoi soldati, e poche riserve alimentari, dopo cui,
la prospettiva della fame.

L’armata francese s’era ammutinata: aveva perso 600 mila giovani nella difesa di Verdun sulla Somme.

L’armata russa stava disertando in massa, tornavano a casa, non amavano lo Zar e non volevano più morire.
 L’esercito italiano era collassato.

“Non un colpo era stato sparato su suolo tedesco.
Non un solo soldato nemico aveva attraversato la frontiera germanica.
Eppure, in quell’anno [1916] la Germania offrì all’Inghilterra la pace.
Offriva all’Inghilterra un negoziato di pace su quella base, che i giuristi chiamano dello ‘status quo ante‘.
 Ciò significa: ‘Facciamola finita, e lasciamo tutto com’era prima che la guerra cominciasse’.
 L’Inghilterra, nell’estate del 1916, stava seriamente considerando quest’offerta.
 Non aveva scelta.
 O accettava quest’offerta magnanima, o la prosecuzione della guerra avrebbe visto la sua disfatta.

In questo frangente, i sionisti tedeschi, che rappresentavano il sionismo dell’Europa Orientale, prendono  contatto col Gabinetto di Guerra britannico – la faccio breve perché è una lunga storia,
ma ho i documenti che provano tutto ciò che dico – e dicono: ‘Potete ancora vincere la guerra. Non avete bisogno di cedere. Potete vincere se gli Stati Uniti intervengono al vostro fianco’.
 Gli Stati Uniti non erano in guerra, allora».

«Eravamo nuovi; eravamo giovani; eravamo ricchi; eravamo potenti.
Essi dissero all’Inghilterra:Noi siamo in grado di portare gli Stati Uniti in guerra come vostro alleato, per battersi al vostro fianco, se solo ci promettete la Palestina dopo la guerra. […].

Ora, l’Inghilterra aveva tanto diritto di promettere la Palestina ad altri quanto gli Stati Uniti hanno il diritto di promettere il Giappone all’Irlanda.

 

“!Guerra a morte contro tutte le persone tedesche!”. Oggi, sostituire a  “tedeschi” la parola “russi”.

“E’ assolutamente assurdo che la Gran Bretagna, che non aveva mai avuto alcun interesse o collegamento con quella che oggi chiamiamo Palestina, potesse prometterla come moneta in cambio dell’intervento americano.

Tuttavia, fecero questa promessa, nell’ottobre 1916 [con la Dichiarazione Balfour, ndr.].

E poco dopo – non so se qualcuno di voi lo ricorda – gli Stati Uniti, che erano quasi totalmentepro-germanici, entrarono in guerra come alleati della Gran Bretagna.

“Dico che gli Stati Uniti erano quasi totalmente filotedeschi perché i giornali qui erano controllati dagli ebrei, dai nostri banchieri ebrei – tutti i mezzi di comunicazione di massa – e gli ebrei erano filotedeschi. 
Perché molti di loro provenivano dalla Germania, e anche volevano vedere la Germania rovesciare lo Zar; non volevano che la Russia vincesse.

Questi banchieri ebrei tedeschi, come Kuhn Loeb e delle altre banche d’affari negli Stati Uniti, avevano rifiutato di finanziare la Francia o l’Inghilterra anche con un solo dollaro.
Dicevano: ‘Finché l’Inghilterra è alleata alla Russia, nemmeno un centesimo!’. 
Invece finanziavano la Germania; si battevano con la Germania contro la Russia.

Ora, questi stessi ebrei, quando videro la possibilità di ottenere la Palestina, andarono in Inghilterra e fecero l’accordo che ho detto.

“Tutto cambiò di colpo, come un semaforo che passa dal rosso al verde.
Dove i giornali erano filotedeschi, […] di colpo, la Germania non era più buona.
Erano i cattivi.
Erano gli Unni.
Sparavano sulle crocerossine.
Tagliavano le mani ai bambini.
Poco dopo, mister Wilson [il presidente Woodrow Wilson, ndr.] dichiarava guerra alla Germania.
I sionisti di Londra avevano spedito telegrammi al giudice Brandeis (2): ‘Lavòrati il presidente Wilson. Noi abbiamo dall’Inghilterra quello che vogliamo. Ora tu lavorati il presidente Wilson e porta gli USA in guerra’.
Così entrammo in guerra.
Non avevamo interessi in gioco.

Non avevamo ragione di fare questa guerra, più di quanto non ne abbiamo di essere sulla luna stasera, anziché in questa stanza.
Ci siamo stati trascinati perché i sionisti potessero avere la Palestina.

Questo non è mai stato detto al popolo americano.

Manifesto di propaganda anti-tedesca.

 

“Appena noi entrammo in guerra, i sionisti andarono dalla Gran Bretagna e dissero: ‘Bene, noi abbiamo compiuto la nostra parte del patto. Metteteci qualcosa per iscritto come prova che ci darete la Palestina’.
 Non erano sicuri che la guerra durasse un altro anno o altri dieci.
 Per questo cominciarono a chiedere il conto.
La ricevuta.
 Che prese la forma di una lettera, elaborata in un linguaggio molto criptico, in modo che il resto del mondo non capisse di che si trattava.

Questa fu chiamata la Dichiarazione Balfour» (3). […]

La dichiarazione Balfour. Lord Balfour promise agli ebrei la Palestina. In cambio, gli ebrei portarono gli USa nella prima guerra mondiale.

 

«Da qui cominciano tutti i problemi. […]
Sapete quello che accadde.

Quando la guerra finì, la Germania andò alla Conferenza di Pace di Parigi nel 1919 [nella delegazione USA] c’erano 117 ebrei, a rappresentare gli Stati Uniti, capeggiati da Bernard Baruch (4).

C’ero anch’io, e per questo lo so.

“Che cosa accadde dunque? 
Alla Conferenza di Pace, mentre si tagliava a pezzi la Germania e si spezzettava l’Europa per darne parti a tutte quelle nazioni che reclamavano il diritto a un certo territorio europeo, gli ebrei presenti dissero: ‘E la Palestina per noi?’, ed esibirono la Dichiarazione Balfour.

Per la prima volta essa venne  a conoscenza dei tedeschi.

Così i tedeschi per la prima volta compresero: ‘Ah, era questa la posta! Per questo gli Stati Uniti sono entrati in guerra’.

“Per la prima volta i tedeschi compresero che erano stati disfatti, che subivano le tremende riparazioni che gli erano imposte dai vincitori, perché i sionisti volevano la Palestina ed erano decisi   ad averla ad ogni costo.
Qui è un punto interessante.

“Quando i tedeschi capirono, naturalmente cominciarono a nutrire rancore.

Fino a quel giorno, gli ebrei non erano mai stati meglio in nessun Paese come in Germania. C’era Rathenau là, che era cento volte più importante nell’industria e nella finanza di Bernard Baruch in questo Paese. C’era Balin, padrone di due grandi compagnie di navigazione, la North German Lloyd’s e la Hamburg-American Lines. C’era Bleichroder, che era il banchiere della famiglia Hohenzollern.

Cerano i Warburg di Amburgo, i grandi banchieri d’affari, i più grandi del mondo.
 Gli ebrei prosperavano davvero in Germania .
E i tedeschi ebbero la sensazione di essere stati venduti, traditi.

Fu un tradimento che può essere paragonato a questa situazione ipotetica: immaginate che gli USA siano in guerra con l’URSS.  
E che stiamo vincendo.
E che proponiamo all’Unione Sovietica: ‘Va bene, smettiamola. Ti offriamo la pace’.
E d’improvviso la Cina Rossa entra in guerra come alleato dell’URSS, e la sua entrata in guerra ci porta alla sconfitta.

Una sconfitta schiacciante, con riparazioni da pagare tali, che l’immaginazione umana non può comprendere.
Immaginate che, dopo la sconfitta, scopriamo che sono stati i cinesi nel nostro Paese, i nostri concittadini cinesi, che abbiamo sempre pensato leali cittadini al nostro fianco, a venderci all’URSS, perché sono stati loro a portare in guerra la Cina contro di noi.

Cosa provereste, allora, in USA, contro i cinesi?

Non credo che uno solo di loro oserebbe mostrarsi per la strada; non ci sarebbero abbastanza lampioni a cui impiccarli.
 Ebbene: è quello che provarono i tedeschi verso quegli ebrei.
 Erano stati tanto generosi con loro: quando fallì la prima Rivoluzione russa (5) e tutti gli ebrei dovettero fuggire dalla Russia, ripararono in Germania, e la Germania diede loro rifugio.
  Li trattò bene.

Dopo di che, costoro vendono la Germania per la ragione che vogliono la Palestina come ‘focolare ebraico’».

«Ora Nahum Sokolow, e tutti i grandi nomi del sionismo, nel 1919 fino al 1923 scrivevano proprio questo: che il rancore contro gli ebrei in Germania era dovuto al fatto che sapevano che la loro grande disfatta era stata provocata dall’interferenza ebraica, che aveva trascinato nella guerra gli USA.

“Gli ebrei stessi lo ammettevano.
[…] 
Tanto più che la Grande Guerra era stata scatenata contro la Germania senza una ragione, una responsabilità tedesca.

Non erano colpevoli di nulla, tranne che di avere successo. 
Avevano costruito una grande nazione.
 Avevano una rete commerciale mondiale.

Dovete ricordare che la Germania al tempo della Rivoluzione francese consisteva di 300 piccole città-stato, principati, ducati e così via.

“E fra l’epoca di Napoleone e quella di Bismarck, quelle 300 microscopiche entità politiche separate si unificarono in uno Stato.

Ed entro 50 anni la Germania era divenuta una potenza mondiale.

La sua marina rivaleggiava con quella dell’Impero britannico, vendeva i suoi prodotti in tutto il mondo, poteva competere con chiunque, la sua produzione industriale era la migliore.

Come risultato, che cosa accadde?
 Inghilterra, Francia e Russia si coalizzarono per stroncare la Germania […].

“Quando la Germania capì che gli ebrei erano i responsabili della sua sconfitta, naturalmente nutrì rancore.

Ma a nessun ebreo fu torto un capello in quanto ebreo.

Il professor Tansill, della Georgetown University, che ha avuto accesso a tutti i documenti riservati del Dipartimento di Stato, ne cita uno scritto da Hugo Schoenfeldt, un ebreo che Cordell Hull inviò in Europa nel 1933 per investigare sui cosiddetti campi di prigionia politica, e riferì al Dipartimento di Stato USA di avere trovato i detenuti in condizioni molto buone.
Solo erano pieni di comunisti.

E una quantità erano ebrei, perché a quel tempo il 98% dei comunisti in Europa erano ebrei.

“Qui, occorre qualche spiegazione storica.
 Nel 1918-19 i comunisti presero il potere in Baviera per qualche giorno, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ed altri, tutti ebrei.

Infatti a guerra finita il Kaiser scappò in Olanda perché i comunisti stavano per impadronirsi della Germania e lui aveva paura di fare la fine dello Zar.

Una volta schiacciata la minaccia comunista, gli ebrei ancora lavorarono […] erano 460 mila ebrei fra 80 milioni di tedeschi, l’1,5% della popolazione, eppure controllavano la stampa, e controllavano l’economia perché avevano valuta estera e quando il marchio svalutò comprarono tutto per un pezzo di pane».

«Gli ebrei tengono nascosto questo, non vogliono che il mondo comprenda che avevano tradito la Germania e i tedeschi se lo ricordavano.
I tedeschi presero misure contro gli ebrei.

Li discriminarono dovunque possibile.

Allo stesso modo noi tratteremmo i cinesi, i negri, i cattolici, o chiunque in questo Paese  che ci avesse venduto al nemico e portato alla sconfitta.

“Ad un certo punto gli ebrei del mondo convocarono una conferenza ad Amsterdam.

E qui, venuti da ogni parte del mondo nel luglio 1933, intimarono alla Germania:

‘Mandate via Hitler, rimettete ogni ebreo nella posizione che aveva, sia comunista o no. Non potete trattarci in questo modo. Noi, gli ebrei del mondo, lanciamo un ultimatum contro di voi’.

Potete immaginare come reagirono i tedeschi.

Nel 1933, quando la Germania rifiutò di cedere alla conferenza mondiale ebraica di Amsterdam, Samuel Untermeyer, che era il capo della delegazione americana e presidente della conferenza, tornò in USA, andò agli studios della Columbia Broadcasting System (CBS) e tenne un discorso radiofonico in cui in sostanza diceva:

‘Gli ebrei del mondo dichiarano ora la Guerra Santa contro la Germania. Siamo ora impegnati in un conflitto sacro contro i tedeschi. Li piegheremo con la fame. Useremo contro di essi il boicottaggio mondiale. Così li distruggeremo, perché la loro economia dipende dalle esportazioni’ (6).

“Non comprate beni nazisti!”. Boicottaggio delle merci tedesche in USA, 1933.

“E di fatto i due terzi del rifornimento alimentare tedesco dovevano essere importati, e per importarlo dovevano vendere, esportare, i loro prodotti industriali.
All’interno, producevano solo abbastanza cibo per un terzo della popolazione.
Ora in quella dichiarazione, che io ho qui e che fu pubblicata sul New York Times del 7 agosto 1933, Samuel Untermeyer dichiarò audacemente che ‘questo boicottaggio economico è il nostro mezzo di autodifesa.

Il presidente Roosevelt ha propugnato la sua adozione nella Nation Recovery Administration’, che, qualcuno di voi ricorderà, imponeva il boicottaggio contro qualunque Paese non obbedisse alle regole del New Deal, e che poi fu dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema.

“Tuttavia, gli ebrei del mondo intero boicottarono la Germania, e il boicottaggio fu così efficace che non potevi più trovare nulla nel mondo con la scritta ‘Made in Germany’.

Un dirigente della Woolworth Co. mi raccontò allora che avevano dovuto buttare via milioni di dollari di vasellame tedesco; perché i negozi erano boicottati se vi si trovava un piatto con la scritta ‘Made in Germany’; vi formavano davanti dei picchetti con cartelli che dicevano ‘Hitler assassino’ e così via.

In un magazzino Macy, di proprietà di una famiglia ebraica, una donna trovò calze con la scritta ‘Made in Germany’
Vidi io stesso il boicottaggio di Macy’s, con centinaia di persone ammassate all’entrata con cartelli che dicevano ‘Assassini’, ‘Hitleriani’, eccetera».

«Va notato che fino a quel momento in Germania non era stato torto un capello sulla testa di un ebreo.
Non c’era persecuzione, né fame, né assassini, nulla.
Ma naturalmente, adesso i tedeschi cominciarono a dire:

‘Chi sono questi che ci boicottano, e mettono alla disoccupazione la nostra gente e paralizzano le nostre industrie?’.

Così cominciarono a dipingere svastiche sulle vetrine dei negozi di proprietà degli ebrei […]

Ma sono nel 1938, quando un giovane ebreo polacco entrò nell’ambasciata tedesca a Parigi e sparò a un funzionario tedesco, solo allora i tedeschi cominciarono ad essere duri con gli ebrei in Germania.

Allora li vediamo spaccare le vetrine e fare pestaggi per a strada.

Io non amo usare la parola ‘antisemitismo’ perché non ha senso, ma siccome ha un senso per voi, dovrò usarla.

La sola ragione del risentimento tedesco  contro gli ebrei era dovuta al fatto che essi furono i responsabili della Prima Guerra mondiale e del boicottaggio mondiale.

In definitiva furono responsabili anche della Seconda Guerra mondiale, perché una volta sfuggite le cose dal controllo, fu assolutamente necessario che gli ebrei e la Germania si battessero in una guerra per questione di sopravvivenza.

Nel frattempo io ho vissuto in Germania, e so che i tedeschi avevano deciso che l’Europa sarebbe stata comunista o ‘cristiana’: non c’è via di mezzo.

E i tedeschi decisero che avrebbero fatto di tutto per mantenerla ‘cristiana’.

Nel novembre 1933 gli Stati Uniti riconobbero l’Unione Sovietica.

“L’URSS stava diventando molto potente, e la Germania comprese che ‘presto toccherà a noi, se non saremo forti».

E’ la stessa cosa che diciamo noi, oggi, in questo Paese.
Il nostro governo spende 83-84 miliardi di dollari per la difesa.
Difesa contro chi?
Contro 40 mila piccoli ebrei a Mosca che hanno preso il potere in Russia, e con  le loro azioni tortuose, in molti altri Paesi del mondo.[…]
Che cosa ci aspetta?»

«Se scateniamo una guerra mondiale che può sboccare in una guerra atomica, l’umanità è finita.
Perché una simile guerra può avvenire?
Il fatto è che il sipario sta di nuovo salendo.
Il primo atto fu la Grande Guerra, l’atto secondo la Seconda guerra mondiale, l’atto terzo sarà la Terza guerra mondiale. 
I sionisti e i loro correligionari dovunque vivano, sono determinati ad usare di nuovo gli Stati Uniti perché possano occupare permanentemente la Palestina come loro base per un governo mondiale.

Questo è vero come è vero che sono di fronte a voi.

Non solo io ho letto questo, ma anche voi lo avete letto, ed è noto a tutto il mondo. […]

Io avevo una idea precisa di quello che stava accadendo: ero l’ufficiale di Henry Morgenthau Sr. nella campagna del 1912 in cui il presidente [Woodrow] Wilson fu eletto.
Ero l’uomo di fiducia di Henry Morgenthau Sr., che presiedeva la Commissione Finanze, ed io ero il collegamento tra lui e Rollo Wells, il tesoriere.

In quelle riunioni il presidente Wilson era a capo della tavola, e c’erano tutti gli altri, e io li ho sentiti ficcare nel cervello del presidente Wilson la tassa progressiva sul reddito e quel che poi divenne la Federal Reserve, e li ho sentiti indottrinarlo sul movimento sionista.

Il giudice Brandeis e il presidente Wilson erano vicini come due dita della mano.
  Il presidente Wilson era incompetente come un bambino.

Fu così che ci trascinarono nella Prima guerra mondiale, mentre tutti noi dormivamo. […]

Quali sono i fatti a proposito degli ebrei?

Li chiamo ebrei perché così sono conosciuti, ma io non li chiamo ebrei.
Io mi riferisco ad essi come ai ‘cosiddetti ebrei’, perché so chi sono.

Gli ebrei dell’Europa orientale, che formano il 92% della popolazione mondiale di queste genti che chiamano se stesse ‘ebrei’, erano originariamente Kazari.

Una razza mongolica, turco-finnica.

Erano una tribù guerriera che viveva nel cuore dell’Asia.

Ed erano tali attaccabrighe che gli asiatici li spinsero fuori dall’Asia, nell’Europa orientale.

Lì crearono un grande regno Kazaro di 800 mila miglia quadrate.

A quel tempo [verso l’800 dopo Cristo, ndr] non esistevano gli USA, né molte nazioni europee […]. Erano adoratori del fallo, che è una porcheria, e non entro in dettagli.

Ma era questa la loro religione, come era anche la religione di molti altri pagani e barbari».

«Il re Kazaro finì per disgustarsi della degenerazione del proprio regno, sì che decise di adottare una fede monoteistica – il cristianesimo, l’Islam, o quello che oggi è noto come ebraismo, che è in realtà talmudismo.

Gettando un dado, egli scelse l’ebraismo, e questa diventò la religione di Stato.

Egli mandò inviati alle scuole talmudiche di Pambedita e Sura e ne riportò migliaia di rabbini, aprì sinagoghe e scuole, e il suo popolo diventò quelli che chiamiamo ‘ebrei orientali’.

Non c’era uno di loro che avesse mai messo piede in Terra Santa.
  Nessuno!

Eppure sono loro che vengono a chiedere ai cristiani di aiutarli nelle loro insurrezioni in Palestina  dicendo: ‘Aiutate a rimpatriare il Popolo Eletto da Dio nella sua Terra Promessa, la loro patria ancestrale, è il vostro compito come cristiani… voi venerate un ebreo [Gesù] e noi siamo ebrei!’.

Ma sono pagani Kazari che si sono convertiti.

E’ ridicolo chiamarli ‘popolo della Terra Santa’, come sarebbe chiamare 53 milioni di cinesi musulmani ‘Arabi’.

Ora, immaginate quei cinesi musulmani a 2.000 miglia dalla Mecca, se si volessero chiamare ‘arabi’ e tornare in Arabia.
   Diremmo che sono pazzi.

Ora, vedete com’è sciocco che le grandi nazioni cristiane del mondo dicano: ‘Usiamo il nostro potere e prestigio per rimpatriare il Popolo Eletto da Dio nella sua patria ancestrale’.

C’è una menzogna peggiore di questa?

Perché loro controllano giornali e riviste, la televisione, l’editoria, e perché abbiamo ministri dal pulpito e politici dalla tribuna che  dicono le stesse cose, non è strano che  crediate in questa menzogna.
Credereste che il bianco è nero se ve lo ripetessero tanto spesso.

Questa menzogna è il fondamento di tutte le sciagure che sono cadute sul mondo.

Sapete cosa fanno gli ebrei nel giorno dell’Espiazione, che voi credete sia loro tanto sacro?

Non ve lo dico per sentito dire…
Quando, il giorno dell’Espiazione, si entra in una sinagoga, ci si alza in piedi per la primissima preghiera che si recita.
Si ripete tre volte, è chiamata ‘Kol Nidre’».

«Con questa preghiera, fai un patto con Dio Onnipotente che ogni giuramento, voto o patto che farai nei prossimi dodici mesi sia vuoto e nullo (7).
  Il giuramento non sia un giuramento, il voto non sia un voto, il patto non sia un patto. 
Non abbiano forza.
  E inoltre, insegna il Talmud, ogni volta che fai un giuramento, un voto o un patto, ricordati del Kol Nidre che recitasti nel giorno dell’Espiazione, e sarai esentato dal dovere di adempierli.

Come potete fidarvi della loro lealtà?

Potete fidarvi come si fidarono i tedeschi nel 1916.
Finiremo per subire lo stesso destino che la Germania ha sofferto, e per gli stessi motivi».

E’ la profezia di Benjamin Freedman .
Ci riguarda.

Maurizio Blondet

Note

1) Freedman fondò tra l’altro la «Lega per la pace con giustizia in Palestina», e collaborò con l’americano «Istituto per la revisione storica», il centro promotore di tutto ciò che viene chiamato «revisionismo storico». E’ scomparso nel 1984.

2) Louis Dembitz Brandeis, influentissimo giudice della Corte Suprema, acceso sionista, fu il consigliere molto ascoltato di W. Wilson. Brandeis apparteneva alla setta ebraica aberrante fondata nella Polonia del ‘700 da Jacob Frank: essa predicava che la salvezza si consegue attraverso il peccato. Confronta il mio «Cronache dell’Anticristo».

3) Il 2 novembre 1917 il ministro degli Esteri britannico, lord Arthur Balfour, scrisse a Lord Rotschild una lettera in cui dichiarava: «Il governo di Sua Maestà vede con favore la nascita in Palestina di un focolare nazionale per le genti ebraiche, e userà tutta la sua buona volontà per facilitare il raggiungimento di questo obbiettivo. Si intende che nulla dovrà essere fatto per pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti popolazioni non ebraiche in Palestina». Era la «Dichiarazione Balfour», che decretava di fatto la nascita dello Stato d’Israele. Lord Balfour, spiritista e massone, fondatore della Loggia «Quatuor Coronati» (la Loggia-madre di tutte le Massonerie di obbedienza «scozzese») credeva fra l’altro che agevolare il ritorno degli ebrei in Palestina avrebbe accelerato il secondo avvento di Cristo. Il punto è che la terra che Sua Maestà prometteva agli ebrei non era sotto dominio britannico, ma parte dell’impero Ottomano. Per dare attuazione al «focolare ebraico», il governo britannico non esitò a distogliere centinaia di migliaia di soldati dal pericolante fronte europeo, per spedirli alla conquista di Gerusalemme.

4) Bernard Baruch (1876-1964), potente finanziere ebreo, nato in Texas, fu il consigliere privato di sei presidenti, da Woodrow Wilson (1916) a D. Eisenhower (1950).  Nella prima come nella seconda guerra mondiale, Baruch promosse la creazione del War Industry Board, l’organo di pianificazione centralizzata della produzione bellica. Di fatto, fu una sorta di «governo segreto» degli Stati Uniti, che praticò ampiamente i metodi del socialismo, compreso il controllo della stampa e il sistema di razionamento alimentare. Dopo la seconda guerra mondiale Baruch e i banchieri ebrei americani gestirono i fondi del Piano Marshall. Ne affidarono la distribuzione a Jean Monnet, loro fiduciario. Secondo le istruzioni ricevute, per dare i fondi, Monnet esigeva la cessione da parte degli Stati europei di sostanziali porzioni di sovranità: così fu creata la Comunità Europea.

5) Si tratta della «rivoluzione dekabrista» del 1905, in realtà un putsch di giovani ufficiali zaristi, tutti ebrei. La comunità ebraica russa la sostenne, e i suoi figli vi parteciparono con inaudita violenza. Futuri capi della successiva rivoluzione bolscevica, come Trotsky e Parvus, furono l’anima dei dekabristi, e dovettero riparare all’estero dopo il fallimento.

6) Freedman allude qui al vero e proprio rito magico di maledizione, detto Cherem o scomunica maggiore, celebrato al Madison Square Garden il 6 settembre 1933. «Furono ritualmente accesi due ceri neri e si soffiò tre volte nello shofar [il corno di ariete], mentre il rabbino B.A. Mendelson pronunciava la formula di scomunica» contro la Germania. Samuel Untermeyer, membro del B’nai B’rith, ripeterà il 5 gennaio 1935 la dichiarazione di embargo totale contro le merci tedesche «a nome di tutti gli ebrei, framassoni e cristiani» (Jewish Daily Bulletin, New York,
6 gennaio 1935).

7) E’ la preghiera centrale dello Yom Kippur. Eccone la formula: «Di tutti i voti, le rinunce, i giuramenti, gli anatemi oppure promesse, ammende o delle espressioni attraverso cui facciamo voti, confermiamo, ci impegniamo o promettiamo di qui fino all’avvento del prossimo giorno dell’Espiazione, noi ci pentiamo, in modo che siano tutti sciolti, rimessi e condonati, nulli, senza validità e inesistenti. I nostri voti non sono voti, le nostre rinunce non sono rinunce, e i nostri giuramenti non sono giuramenti». Secondo il rabbino Jacob Taubes, con questa formula il popolo eletto si scioglie dalla comunità del resto del genere umano – dalle sue leggi, dalle sue lealtà alle istituzioni e allo Stato – per dedicarsi solo a Dio. In realtà, il Kol Nidre fonda l’antinomismo radicale della religione ebraica: il «popolo di Dio» non è tenuto ad obbedire ad alcuna norma.
Per Taubes, il popolo ebraico è dunque il popolo dissolutore, il contrario del «kathecon» (Ciò che trattiene l’Anticristo, in San Paolo, ossia il diritto naturale adottato da Roma) (Jacob Taubes, «La Teologia Politica di San Paolo», Adelphi, pagina 71).

Fonte: Estratto, da «Israele, USA, il terrorismo islamico» ,  Maurizio Blondet, EFFEDIEFFE, 2005, pagine 161-171.

Da Wikipedia:

Benjamin Harrison Freedman (New York, 4 ottobre 1890maggio1984) è stato un politico statunitense. Era di confessione ebrea ashkenazita poi convertitosi al cristianesimo. Divenne un acceso polemista critico del giudaismo e del sionismo. Tenne molte conferenze e discorsi e scrisse anche alcuni articoli su questo tema.

Freedman fu l’assistente di Bernard Baruch nella campagna presidenziale dei 1912. Egli assicurava i collegamenti tra Rolla Wells che era il governatore della Federal Reservedi St.Louis e Sir. Henry Morgenthau. Fu spesso presente a riunioni con il futuro presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson nel seno del Comitato Democratico Nazionale dove conobbe anche Samuel Untermyer. Fu presente assieme a altri centodiciassette ebrei sionisti guidati da Bernard Baruch alla conferenza di Versailles che porto al trattato di Versailles, nel quale vennero concretizzati gli impegni presi dagli inglesi due anni prima nella Dichiarazione Balfour. Tra le sue relazioni si possono annoverare: Franklin Roosevelt, Joseph Kennedy e il figlio John F. come altre persone molto influenti degli Stati Uniti di quegli anni H.L.Hunt e figlio e Nelson Bunker. Negli anni venti collaborò alla gestione di un istituto democratico e fu il principale azionista della società Woodbury. Questo gli assicurò una discreta fortuna personale, con la quale nel 1946 poté fondare con un patrimonio di cinque milioni di dollari la Lega per la pace e la giustizia in Palestina.

di Maurizio Blondet

1424.-RUSSIA: La crisi nordcoreana secondo Mosca

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La situazione mondiale ha i suoi equilibri, necessari alla finanza e malgrado la crisi degli Stati sovrani e delle loro alleanze. Un equilibrio d’importanza fondamentale per l’Asia è dato dalla divisione fra le due Coree, utile e necessaria alla Cina e al suo piano di espansione a Ovest, non meno che all’India; non solo, ma attraverso le interessenze della Cina negli USA e la loro decadenza, anche a questi ultimi. Appare evidente che la potenzialità delle due Coree unite creerebbe un gigante economico contro il quale la stessa Cina potrebbe difficilmente competere. Non stupirà, neppure, che il ras di Pyongyang, Kim Jong trovi anch’egli utile questa strategia della tensione. E’ indubbio, infatti, che difficilmente potrebbe conservare la sua supremazia ed esercitare la sua follia in una grande Corea unita. ecco, dunque, che un missile al mese, un botta e risposta di minacce alla settimana aiutano a mantenere gli equilibri utili sopratutto al mercato globale. Sia Kim Jong sia Trump non si fanno pregare e i missili, un po’ ucraini, un po’ coreani sorvolano il Mar del Giappone, che, per i medesimi motivi, si unisce soddisfatto al coro. Putin, diventato nemico della NATO, ma innocente, ha tutto da guadagnare da un assetto tutto sommato equilibrato e copre politicamente, a sua volta, i missili di Teheran, sua confinante e si giostra con Pyongyang. Un esempio sono state le sanzioni alla Corea del Nord volute da Washington, come piatto forte ormai usuale del paniere diplomatico USA. Benché, per Mosca, le sanzioni non siano da considerarsi una valida alternativa – le sopporta anch’essa facilmente – , tuttavia, due settimane fa, al Consiglio di Sicurezza, la Federazione russa ha votato a favore del nuovo pacchetto punitivo elaborato su iniziativa di Washington. A dimostrazione di questa nostra tesi, le sanzioni sono de facto aggirabili e la contraddittorietà del Cremlino è, in pratica, priva di effetto, almeno quanto le minacce di Washington. L’atteggiamento russo è dunque altalenante in apparenza, ma dettato dalle opportunità e sia la crisi scatenata dai lanci di Pyongyang, sia le minacce di Trump nel suo primo discorso all’ONU e sia i moniti della Cina sono considerati dal Cremlino come le mosse di una partita – e qui condivido l’autore di questo articolo – con opportunità, appunto, tanto maggiori quanto maggiore è la tensione. 
Ora che la vittoria russo-siriana sta ponendo fine a quella guerra, la strategia della tensione sta puntando sulla Corea del Nord e sull’Iran: i nuovi stati canaglia e, qui, si aggiunge, veramente foriero di pericoli il timore di Israele di vedere, non solo annullati i suoi piani di dominio sul Medio Oriente, ma anche le sue frontiere messe in pericolo, sopratutto, dagli Hezbollah. L’assassinio di Valeri Asapov non può bastare. Insomma, prestiamo orecchio a tutti, ma teniamo gli occhi puntati sugli Sciiti e su Tel Aviv. Mario Donnini
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 Pyongyang North Korea Vintage Architecture Photo Essay by Raphael Olivier
Leggiamo cosa scrive 

La frenesia missilistica di Kim Jong-un spadroneggia nei media italiani. Il contesto è ben noto, ma la sua portata si è recentemente aggravata. In un crescendo di ostilità, la Corea del Nord si è spinta fino a sorvolare con i propri missili la giapponese isola di Hokkaido. Per ben due volte Tokyo e il mondo hanno temuto che le minacce sinora paventate da Kim potessero infine tradursi in realtà.

Tutti i principali attori internazionali sono intervenuti in merito alla questione. Nonostante l’iniziale reticenza al rilascio di dichiarazioni, anche la Russia di Putin si è resa sempre più presente sulla scena. Le scelte di Mosca, tuttavia, sembrano comporre un quadro d’azione contraddittorio – o almeno così pare in superficie.

Le fasi alterne del comportamento russo

Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha condannato i lanci missilistici nordcoreani, definendoli una violazione sia del diritto internazionale, sia di diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alla stesso tempo, però, Mosca prende le distanze anche dalla linea statunitense. Secondo Putin, la “retorica insultante” e le pressioni militari di Washington non porteranno ad altro che al fallimento dei tentativi di riconciliazione, precipitando le ostilità in guerra.

Se qualsiasi intervento militare è da escludersi, le sanzioni non sono però da considerarsi una valida alternativa per Mosca. Nonostante siano state in vigore per lungo tempo, pare che esse non abbiano ridimensionato in alcun modo le velleità di Pyongyang. Come ha dichiarato Putin a latere dell’ultima conferenza dei paesi BRICS, i nordcoreani “mangeranno erba ma non fermeranno il proprio programma [nucleare] finché non si sentiranno al sicuro”. Certamente, il parere russo non è disinteressato: oltre ad essere essa stessa vittima di sanzioni, Mosca intrattiene consistenti relazioni commerciali con Pyongyang. Ma il volume di queste ultime non è tale da costituire il centro degli interessi russi nella crisi nordcoreana.

Se le sanzioni sono ritenute inutili, ci si potrebbe allora aspettare che la Russia osteggi qualsiasi nuova risoluzione che ne imponga di nuove. Sbagliato. L’11 settembre scorso, infatti, il rappresentante della Federazione russa al Consiglio di Sicurezza ha votato a favore del nuovo pacchetto punitivo elaborato su iniziativa di Washington. Sanzioni da molti considerate cosmetiche e de facto aggirabili, ma pur sempre in contrasto con la retorica dispiegata in precedenza da Mosca.

L’altalenante atteggiamento russo è infine guarnito da proposte poco credibili elaborate con Pechino circa la soluzione della crisi, da dubbie rivendicazioni riguardo allo stato dei diritti umani in Corea del Nord e frecciatine agli Stati Uniti mascherate da ponderate interpretazioni delle azioni di Kim come applicazione della “lezione imparata” dall’Iraq di Saddam – schiacciato da Washington perché privo di garanzie nucleari.

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Un solo obiettivo: prestigio

Tuttavia, l’incostante tattica politica moscovita non è da confondersi con la mancanza di un disegno strategico. Anzi, tutt’al contrario, essa è riconducibile ad una visione di lungo periodo che ruota intorno a un obiettivo ben preciso. In questo caso come in altri (in Siria, ad esempio), l’obiettivo per Mosca è quello di “esserci” e contare al tavolo negoziale.

In tal senso, non è la risoluzione della crisi nordcoreana a muovere l’agenda del Cremlino, quanto piuttosto la partecipazione alla sua risoluzione. Tramite una tattica d’azione coerente nella sua flessibilità – capace di mutare in base alle sfumature assunte di volta in volta dalla situazione e alle possibili contromosse altrui – la Russia si propone come interlocutore indispensabile. In questo modo, Mosca appare non tanto come colei con la quale si possa risolvere una crisi, ma come attore senza il quale non è affatto possibile raggiungere una soluzione.

La “strategia della presenza” della Federazione russa è insomma tesa a convertire la presenza al tavolo negoziale (nordcoreano) in benefici sul piano del prestigio internazionale, a loro volta reindirizzabili a vantaggio di Mosca in contesti anche molto diversi – in base al principio del do ut des.

Invece che un bacino di rischi sempre maggiori, la crisi scatenata da Pyongyang è considerata dal Cremlino come una sede di grandi opportunità – tanto maggiori quanto maggiore la tensione. E’ per tale ragione che potremo aspettarci anche in futuro un atteggiamento apparentemente contraddittorio da parte di Mosca. Utilizzando una locuzione recentemente impiegata dal professor Carlo Pelanda, le scelte russe sono da ricondursi ad un “realismo pragmatico” che mira a rimandare i rischi della crisi nel tempo – non risolverli. Tanto più essi permarranno, infatti, tanto più la Russia riuscirà a sfruttarli come fonti di accrescimento della propria statura politica internazionale.

Questo studioso di East Journal è un esempio di cosa potrebbero e possano fare i giovani italiani. Nato nel 1993, è Dottore Magistrale in Interdisciplinary Research and Studies on Eastern Europe (MIREES). Già Segretario Generale della sezione di Milano della UN Youth Association, è stato intern presso l’Ambasciata d’Italia a Tallinn e ricercatore presso l’Institute of International Relations di Praga. Si interessa principalmente di sicurezza e cultura strategica, nonché di Russia e spazio post-sovietico. Parla inglese, tedesco, francese, russo. Ricordo che in Albania gli uffici pubblici e privati erano mandati avanti dalle ragazze e che parlavano tutte più lingue, imparandole dai programmi televisivi europei. Almeno per le lingue: Chi vale vuole, chi non vuole non vale!

1423.- L’Iran mette le pastoie a USA e Israele

 

 

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Il nuovo ministro della Difesa iraniano, il generale Amir Hatami ha detto: “L’Iran non chiederà il permesso di nessun Paese per produrre missili di vario tipo e armi di difesa terrestre, navale e aerea”. “Finché la retorica di alcuni costituirà una minaccia – ha aggiunto Hatami facendo riferimento alle dichiarazioni del presidente americano Donald Trump -, il rafforzamento del potere di difesa dell’Iran proseguirà”.

L’annuncio di Teheran sulla riuscita prova di un missile balistico con gittata di 2000 chilometri e capace di trasportare più testate belliche per colpire diversi obiettivi, muta notevolmente l’equilibrio militare in Medio Oriente. Israele e le circa 45000 truppe statunitensi dispiegate in Medio Oriente, Giordania (1500 truppe), Iraq (5200), Quwayt (15000), Bahrayn (7000), Qatar (10000), EAU (5000) e Oman (200), rientrano nella gittata del missile iraniano. L’Iran ha dimostrato una deterrenza che priverà Stati Uniti e Israele dell’opzione militare.

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L’Iran ha testato con successo il suo nuovo super-missile Khoramshahr, con una gittata di oltre duemila chilometri e capace di trasportare più testate. Il missile era stato mostrato al mondo durante la parata militare in occasione della “Settimana della Difesa Sacra”.

Il test del missile è una sfida strategica di Teheran agli Stati Uniti, dopo le scandalose osservazioni del presidente Donald Trump contro l’Iran nel discorso all’ONU. Da questo punto, Trump deve prestare molta attenzione nel strappare l’accordo nucleare con l’Iran. Tale atto da Trump o dal Congresso (imponendo nuove sanzioni) può essere usato da Teheran per riprendere il programma nucleare, con implicazioni di vasta portata, date le sue capacità missilistiche.

 

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Ecco Donald Trump nel suo primo discorso all’ONU, fatto di minacce e di frasi fatte. Dopo aver concluso con la Corea, minacciando di distruggerla, riferendosi all’accordo con l’Iran, promosso da Obama, che ha favorito dopo 50 anni il disgelo nei rapporti con l’Occidente, ha detto: “È imbarazzante per gli Usa far parte dell’accordo con l’Iran”. Ma l’Iran, ha detto Trump, ha paura: “Oltre al potere militare enorme degli Usa, ci teme, ha paura di noi, per questo il governo ha eliminato internet, per questo non consente le proteste studentesche. Ma noi non possiamo accettare i regimi. Mi appello affinché gli ostaggi, chi è lì contro il suo volere, sia immediatamente rilasciato”. L’Iran, ha spiegato, “sotto la democrazia nasconde un governatore violento. Uno stato canaglia che esporta violenza, sangue e caos”, e che inoltre “invoca la distruzione degli americani e dello stato di Israele”. Le milizie di hezbollah “minacciano anche i Paesi arabi pacifici”. Pertanto “non possiamo rispettare un accordo” con un Paese, non “se acconsente all’implementazione di un programma nucleare”. L’Occidente “deve porre fine al regime di Teheran”.

Il Presidente Hasan Ruhani ha adottato la linea dura dopo essere tornato da New York, avvertendo che se Trump viola l’accordo nucleare, “ci opporremo e tutte le opzioni saranno riconsiderate”. Il Ministro degli Esteri Mohammed Javad Zarif ha detto al New York Times che se gli Stati Uniti vorranno rinegoziare l’accordo nucleare, Teheran insisterà sulla rinegoziazione di ogni singola concessione fatta, “Siete disposti a restituirci 10 tonnellate di uranio arricchito?” Ruhani espose un discorso rigoroso alla sfilata militare a Tehran del 22 settembre, osservando che l’Iran non ha bisogno di alcun permesso per rafforzare la sua capacità missilistica, aggiungendo: “La nazione iraniana è sempre stata per la pace e la sicurezza nella regione e nel mondo e difenderà i popoli oppressi yemenita, siriano e palestinese, che piaccia o meno”. “Finché alcuni parlano minacciando, il rafforzamento della difesa del Paese continuerà e l’Iran non cercherà l’autorizzazione da alcun Paese per produrre vari tipi di missili”, dichiarava il Ministro della Difesa Amir Hatami.

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L’Iran ha fatto sfilare in parata il nuovo super-missile Khoramshahr

Ciò che emerge è la determinazione dell’Iran a consolidare l’influenza in Siria. Gli Stati Uniti dovranno valutare attentamente le ripercussioni prima di qualsiasi intervento (cui Israele preme). Ancora una volta, l’Iran può stabilire una presenza a lungo termine in Siria. La milizia sciita sostenuta dall’Iran in Iraq e in Siria è un esercito di 100000 unità e l’Iran può scacciare le forze statunitensi da Iraq e Siria. L’amministrazione Trump deve considerare con la massima serietà le minacce velate del comandante del Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica Mohammad Ali Jafari (in risposta al discorso di Trump all’ONU), “È giunto il momento di correggere gli errori statunitensi. Ora che gli Stati Uniti mostrano pienamente la propria natura, il governo deve utilizzare tutte i mezzi per difendere gli interessi della nazione iraniana. Adottare una posizione decisa contro Trump è solo l’inizio e ciò che è strategicamente importante è che gli Stati Uniti ricevano risposte dannose con azioni, comportamento e decisioni che l’Iran adotterà nei prossimi mesi”. Il test del missile balistico veniva eseguito 3 giorni dopo la minaccia del Gen. Jafari. Allo stesso modo, la tempistica del test si staglia sullo sfondo del referendum previsto per il 25 settembre dei curdi dell’Iraq settentrionale, che vogliono un Kurdistan indipendente. Teheran non ha dubbi che il piano curdo sia un’iniziativa statunitense e israeliana per creare una base permanente nella regione per destabilizzare l’Iran e minarne l’avanzata regionale in Siria e Iraq. Non sorprende che Israele sia furioso per il test missilistico iraniano. Il ministro della Difesa Avigdor Liberman l’ha definito “provocazione e schiaffo a Stati Uniti ed alleati” e tentativo di sondarli. “Chiaramente, Israele è spaventato dall’Iran che costantemente, ma inesorabilmente, lo sovrasta come prima potenza regionale del Medio Oriente. Tuttavia, al di là della retorica, Israele non può fare molto verso il ruolo iraniano. Israele ha ingannato scioccamente Trump provocando Teheran proprio in questa fase, quando a malapena può affrontare la crisi nell’Asia nordorientale. La strategia del contenimento dell’Iran non è più fattibile. La saggezza va a un’amministrazione Trump che impegni l’Iran con spirito costruttivo nell’influenzare la politica regionale. Le minacce non hanno mai funzionato con l’Iran, e spesso si sono dimostrate controproducenti. MK Bhadrakumar, Indian Punchline, Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Dalla provincia di Kermanshah, nell’Iran occidentale,  nella notte del 19 giugno 2017, i pasdaran iraniani lanciarono alcuni missili contro le postazioni dell’Isis nella cittadina di Deir el zor, nell’est della Siria.  Il lancio avvenne in rappresaglia all’attacco sferrato a Teheran e a Qom dallo Stato Islamico alcuni giorni prima. Ma “tra i principali destinatari di questo messaggio ci furono anche i sauditi e gli americani”, come dichiarò il generale Ramazan Sharif.

 

1422.- Legge elettorale: arriva il Rosatellum-bis

Legge-elettorale

Il testo del Rosatellum bis dimostra una volta di più che questa Costituzione è stata scritta dai partiti, per i partiti e non è in grado di fargli rappresentare lo strumento idoneo, perché essenziale, per la partecipazione alla politica dei cittadini. Dicendo cittadini, stiamo parlando del cosiddetto “ Popolo Sovrano”. Ribadisco che non aderirò a nessun movimento, comitato o partito, anche di fatto, che si prefigga come progetto politico l’attuazione della Costituzione fino a quando in essa non si conterranno i principi cui tutte le formazioni intermedie devono attenersi per consentire quella partecipazione alla politica secondo trasparenza, onestà, alternanza che non si è realizzata scrivendo semplicemente nel testo dell’art. 49 “con metodo democratico”. Ma dicendo di partecipare alla politica attraverso i partiti, non ritengo che i costituenti abbiano voluto porre un limite, ma che abbiano identificare le formazioni intermedie attraverso le quali è normale partecipare alla politica. Come e obbedendo a quali Principi, non l’ha detto ed è mera utopia pensare di delegare questo compito ad una legge ordinaria, di una qualunque maggioranza. Rebus sic stantibus, la Costituzione è la responsabile del difetto di partecipazione degli italiani alla politica, come dimostra l’assenteismo.

E’ opportuno sapere come funziona il testo base della nuova legge elettorale depositato il 22 settembre in Commissione Affari costituzionali alla Camera dal deputato del PD Emanuele Fiano. “Bis” perché una precedente proposta, piuttosto simile (e che fu chiamata “Rosatellum” dal nome del capogruppo PD Ettore Rosato) era stata presentata la scorsa primavera: introduceva un sistema misto, con il 50% dei deputati (e dei senatori) eletti in collegi uninominali maggioritari e l’altro 50% con metodo proporzionale. Quella proposta fu poi modificata in senso “tedesco” quando fu raggiunto il famoso accordo a 4 che teneva insieme i “big” (PD, Forza Italia, Lega Nord e M5S) e che penalizzava i piccoli partiti (con lo sbarramento al 5%). Ma quello stesso accordo cadde sotto i colpi dei franchi tiratori durante le prime votazioni in Aula e lì sembrò che ogni speranza di cambiare la legge elettorale fosse svanita.

Un misto maggioritario-proporzionale (più proporzionale che maggioritario)

Ora i partiti ci riprovano: la nuova proposta abbandona l’impianto puramente proporzionale del “simil-tedesco” e riprende quello misto del Rosatellum, ma con importanti differenze: la quota di eletti nei collegi uninominali si riduce drasticamente: dal 50 passa al 36 per cento. Saranno quindi 231 i collegi alla Camera e 102 al Senato, ampiamente compensati da un 64% di seggi distribuiti proporzionalmente tra le varie liste.

Si voterà su una scheda unica, simile a quella per le elezioni amministrative nei comuni superiori: gli elettori potranno tracciare un segno sul nome del candidato del collegio uninominale oppure su una delle liste che lo sostengono, o entrambe le cose. Se si vota solo la lista, il voto si estende anche al candidato di collegio; se si vota solo quest’ultimo, i suoi voti totali andranno ad accrescere il “peso” della coalizione di liste che lo sostiene in sede di distribuzione proporzionale dei seggi. Non sarà possibile il voto disgiunto (cioè dare il proprio voto sia ad un candidato di collegio che ad una lista che sostiene un altro candidato di collegio).

Il caos delle circoscrizioni (e delle soglie di sbarramento)

Alla Camera la ripartizione dei seggi proporzionali avverrà su base nazionale tra le liste che avranno superato il 3% dei voti; il totale dei seggi spettanti a una coalizione sarà calcolato sulla somma dei voti raccolti dalle liste di quella coalizione, ma questa somma terrà conto solo di quelle liste che superano l’1% nazionale (in modo da evitare la proliferazione di “liste farlocche” come avveniva ai tempi del Porcellum) e solo a condizione che la coalizione così considerata superi il 10% nazionale: se così non sarà, le liste saranno conteggiate singolarmente, esattamente come le liste non coalizzate.

Al Senato il meccanismo sarà simile: per avere seggi bisognerà aver ottenuto almeno il 3% e si considereranno solo quelle coalizioni con più del 10%, in entrambi i casi a livello nazionale; ma sono previste (come anche per la Camera) delle eccezioni per le liste in rappresentanza di minoranze linguistiche o che ottengano comunque il 20% in una regione. Un’importante novità riguarda l’introduzione delle circoscrizioni sub-regionali al Senato: la legge precedente (il Porcellum modificato dalla sentenza della Consulta di fine 2013) prevedeva delle circoscrizioni coincidenti con i confini regionali, e quindi in alcuni casi estremamente ampie.

(Pluri)candidature, preferenze e quote di genere

Fin qui sembra tutto molto complicato. Lo diventa di meno quando si passa alle regole che riguardano le candidature. Qui per gli aspiranti deputati e senatori il discorso è piuttosto semplice: possono candidarsi in un solo collegio uninominale. Ma, in aggiunta o in alternativa al collegio uninominale, possono anche candidarsi in più di una circoscrizione proporzionale, fino a tre. In questo modo, sarà possibile esprimere delle vere e proprie candidature “blindate”: se anche si venisse sconfitti nel collegio uninominale, sarà ben improbabile non risultare eletti nelle tre circoscrizioni proporzionali.

E non si dovrà nemmeno faticare a raccogliere preferenze: le liste saranno infatti bloccate. Coerentemente con quanto affermato dalla Corte costituzionale, queste liste saranno molto brevi: da 3 a 6 nomi, stampati direttamente sulla scheda, di fianco ai simboli dei partiti. Viene tutelata la parità di genere: nessuna lista infatti potrà presentare più del 60% di candidati appartenenti allo stesso sesso.

A chi conviene il Rosatellum-bis?

Rispetto al sistema attualmente in vigore (ossia l’Italicum alla Camera e il Porcellum al Senato, debitamente “rimaneggiati” dalle sentenze della Corte costituzionale) questa nuova proposta riapre la porta alle coalizioni, quindi danneggia quelle forze politiche non coalizzabili (per volontà propria o altrui) come il Movimento 5 stelle – che infatti ha già bollato questa proposta come “incostituzionale” rifiutandosi anche solo di prenderla in considerazione.

Non danneggia i piccoli partiti, in teoria: anzi, consente loro di “riagganciare” un partito più grande in una coalizione alla Camera, magari contrattando delle candidature nei collegi uninominali (come avveniva con il Mattarellum); inoltre rende loro la vita più facile anche al Senato, persino nell’ipotesi in cui restino fuori da qualsiasi coalizione: con la legge in vigore invece dovrebbero superare ben l’8% regionale per ottenere seggi.

La contrarietà di MDP e di Fratelli d’Italia si può invece spiegare in altro modo: essendo già certi di superare le soglie di sbarramento vigenti, contavano su un sistema per cui ciascun partito si misura da sé con il voto e dopo le elezioni può far pesare i suoi consensi; un sistema in cui vi siano (anche solo parzialmente) i collegi uninominali costringe entrambi a un coordinamento pre-elettorale con partiti più grandi con cui i rapporti potrebbero essere tutt’altro che benevoli (è il caso di MDP nei confronti del PD) oppure col rischio di raccogliere le briciole in una competizione riservata ad altri (ad esempio tra Lega e FI, a scapito di Fratelli d’Italia).

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Forze politiche al lavoro sul “Rosatellum bis“. Il nuovo testo è stato depositato dal relatore della legge elettorale, Emanuele Fiano (Pd) in commissione Affari costituzionali della Camera. Il nuovo Rosatellum 2.0 (che prende il nome dal capogruppo dei deputati Pd alla Camera Ettore Rosato), è un sistema su base proporzionale con un correttivo maggioritario.

Il testo è stato poi depositato anche al Senato dai democratici Andrea Marcucci, Roberto Cociancich, Stefano Collina, Franco Mirabelli e Giorgio Pagliari.

Il sistema del Rosatellum 2.0

Il nuovo sistema prevede il 36% di collegi uninominali e il 64% di ripartizione proporzionale, con il divieto di voto disgiunto.

La soglia di sbarramento è del 3% per i singoli partiti e del 10% per le coalizioni. Viene stabilita la quota di genere nella proporzione di 60 a 40, nel senso che nei collegi nessuno dei due generi potrà essere rappresentato in misura superiore al 60%. E i listini nei collegi plurinominali non potranno comprendere più di quattro nomi.

Mai più voto disgiunto

Eliminata l’ipotesi del voto disgiunto, rispetto al Mattarellum che prevedeva due schede diverse per il maggioritario e per il proporzionale. Il Rosatellum prevede una sola scheda: accanto al nome del candidato nel collegio ci saranno i simboli dei partiti che lo sostengono. Mettendo la croce sul simbolo del partito il voto andrà al candidato del collegio e al partito per la parte proporzionale.

Le coalizioni

Col Rosatellum bis tornano attuali le coalizioni. Anche se non si tratta di vere alleanze come era stato per il Mattarellum. In quel caso il simbolo della coalizione era vicino al candidato. Adesso ogni simbolo di partito ha il suo candidato al collegio, il cui nome quindi si ripeterà accanto ad ogni partito che lo sostiene. E non succederà, come per il Porcellum, di prevedere l’indicazione del capo della coalizione.

1421.- Attenti: hanno “normalizzato” Trump

Nessun leader può fermare i personaggi della finanza mondiale accomunati da un legame vecchio di millenni. Non cederanno mai. piuttosto sceglieranno l’olocausto atomico. I Farisei hanno portato il livello etico della nostra civiltà ai minimi termini. Solo il popolo americano, se vorrà, potrà sconfiggerli!

Verrebbe da dire: c’era una volta Trump.

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C’era, fino a poche settimane fa, un presidente che prometteva un’America diversa da quella di Obama ma anche di Bush, di Clinton, di Bush padre. Un’America intenzionata a rompere nettamente con la dottrina neoconservatrice, che in nome della lotta al terrorismo  e di un mondo migliore ha ottenuto, dal 2001 ad oggi esattamente l’opposto: più instabilità in tutto il Medio Oriente, più fondamentalismo islamico, la nascita dell’Isis e una serie di attentati nelle capitali europee. Quell’America si proponeva di non essere più il poliziotto del mondo e pareva ansiosa di fare la pace con Putin.

Non fatevi ingannare dal rumore mediatico degli ultimi mesi: a disturbare l’establishment americano e quello Stato Profondo (Deep State) che in realtà governa l’America e che accomuna repubblicani e democratici, non era solo la persona di Donald Trump, quanto, soprattutto, le sue idee, quel progetto di America.

Quanto avvenuto la notte scorsa in Siria segna un cambiamento radicale nello spirito e nelle intenzioni di Trump. Cinque mesi di campagna martellante contro il presidente eletto hanno prodotto, evidentemente , gli effetti auspicati. E non mi riferisco solo alle manifestazioni di piazza, all’opposizione isterica della stampa, alle sentenze dei giudici (a proposito: ricordate l’articolo di Kupchan? Era profetico). Trump non è stato capace di resistere al boicottaggio che proveniva dall’interno delle istituzioni e dall’apparato dell’intelligence e della difesa. E chissà a quali altre pressioni e minacce. Si è lasciato avvinghiare, inghiottire da quel mondo che prometteva di combattere. Tutto in appena due mesi e mezzo dal giorno del suo insediamento.

L’errore più grande lo ha commesso quando ha accettato che uno dei suoi consiglieri più fidati, Flynn, si dimettesse. Un commentatore acuto e davvero indipendente quale Paul Craig Roberts lo aveva capito subito: quel cedimento era devastante, perché spaccava il fronte dei fedelissimi ma soprattutto perché rompeva la posizione di Trump sul “caso Russia”, che poteva diventare così un caso nazionale. Della serie: Se Flynn si dimetteva c’era qualcosa da nascondere. E allora via con le pressioni. Ancora oggi mancano prove concrete sulle ipotetiche collusioni con Mosca per condizionare il voto, ma il “deep state” lo ha fatto diventare il Caso Nazionale con toni maccartisti, paventando persino un impeachment nell’arco di qualche mese. Un impeachment sul nulla, ma questo era secondario.

Flynn era la mente della nuova politica estera e di sicurezza dell’Amministrazione Trump. Un’Amministrazione che si è via via riempita di ministri, consiglieri ed esperti appartenenti alla vecchia guardia. All’inizio quelle nomine, poco coerenti, parevano una concessione obbligata al Partito repubblicano che controlla il Congresso, nella supposizione che le redini sarebbero rimaste nelle mani del presidente. Ma si è rivelata una falsa speranza.  E quando, l’altro ieri, l’altro suo più fedele collaboratore, lo stratega politico Bannon è stato estromesso dal Consiglio di sicurezza nazionale, l’accerchiamento si è concluso. Il segretario di Stato Tillermann si è rapidamente allineato all’establishment e ora a guidare la politica estera e di difesa, a consigliare il presidente sono gli esperti della Washington di sempre.

siria2E si vede: la distensione con il Cremlino appare sempre più lontana; anzi proprio i ministri della nuova amministrazione alimentano la retorica antirussa con le stesse argomentazioni e lo stesso tono di Obama. Il Trump di qualche mese fa avrebbe preteso la verità sull’uso del gas in Siria, quello di oggi, invece, ha proclamato – senza ombra di dubbio – che molte linee rosse erano state superate. Proprio come Obama nel 2013. Peccato che allora, in seguito, si scoprì che a usare il sarin erano stati i “ribelli” moderati per far cadere la colpa su Assad e provocare l’intervento della Nato. Sarin la cui consegna sarebbe stata autorizzata da Hillary Clinton. Ed è molto verosimile che anche la strage dell’altro giorno sia stata provocata dai “ribelli” per fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire.

Solo che nel 2013 Obama si fermò all’ultimo minuto, il Trump di oggi no. Ha fatto tutto in fretta, senza riscontri oggettivi sulle responsabilità di Assad, evidentemente mal consigliato. O consigliato benissimo, dipende dai punti di vista. Intanto l’Isis e i fondamentalisti islamici  che combattono Assad ringraziano: la distruzione della base siriana avrà un solo effetto concreto, quello di indebolire l’esercito siriano e dunque di rimettere in discussione una vittoria che sembra certa. E’ così che si combatte lo Stato Islamico? Non ci prendano in giro: così lo si favorisce,perché l’obiettivo di Washington è il cambio di regime a Damasco anche a costo di vedere trionfare in Siria il peggior integralismo islamico.

Non è un caso che a salutare l’interventismo della Casa Bianca siano stati proprio Hillary Clinton e John McCain. L’impressione è che l’agenda Trump sia già stata sconfessata a beneficio di quella irresponsabile e interventista portata avanti negli ultimi 15 anni dai neoconservatori.

Se ciò fosse vero, significherebbe che Trump è stato “normalizzato”. E per la pace nel mondo sarebbe una pessima notizia.

Resta una sola flebile speranza: che si tratti di un riposizionamento transitorio e non di una resa. Che l’uomo sia capace di riscattarsi. Ma probabilmente, a questo punto, più che una speranza è un’illusione.

Marcello Foa
Marcello Foa, a lungo firma de Il Giornale, ora dirige il gruppo editoriale svizzero Corriere del Ticino-Media Ti ed è docente di Comunicazione e Giornalismo.