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2720.- LA COMPETIZIONE MONDIALE È ECOMICA. PUNTO.


Da l’Afghanistan, all’Iraq, da Gaza, alla Siria, alla Libia e, poi, all’Iran, Israele e Stati Uniti procedono affiancati in Medio Oriente. Intere nazioni sono ridotte in macerie, altre, come il Libano, ieri, la Svizzera del Medio Oriente, sono alla miseria ed è Israele a condizionare gli Stati Uniti e non viceversa. Dal Vietnam, in poi, la memoria mi riporta solo sconfitte per gli Stati Uniti, ma la loro industria bellica ha sempre stravinto. Netanyahu ha preso a Trump 38 miliardi di dollari in 10 anni, per armarsi di più. Dopo la caduta del muro, hanno ricreato la guerra fredda, riarmato la politica, poi, con il terrorismo hanno ottenuto uno stato di guerra, non dichiarata, ma permanente. La finanza sionista non sa fare e non sa cosa farsene della politica. Può, sa e vuole fare solo affari. Non sa unire e guidare l’Occidente, nel quale è cresciuta come un parassita. Può solo divorarlo e distruggerlo. Guardiamoci! Eravamo…! Col sudore e l’ingegno avevamo costruito una potenza. Ci hanno frizzato le banche centrali, imponendone una loro, privata e, ora, vogliono le Banche Centrali della Siria, dell’Iran. Vorrebbero quella della Russia. Così, la storia continua imponendo, senza remore, qualunque rischio: sempre in nome di falsi miti, con i quali entrambi, Israele e Stati Uniti devono abbindolare i loro popoli. Occorre un mito per scatenare la plebe e l’hanno sempre trovato, dalla falsa sorpresa di Pearl Harbor, alle Torri gemelle, che dovevano demolire, sono miti che puzzano di morte. Uno sguardo agli affari e uno alla politica interna. Il mito di oggi, per le presidenziali USA, sono i palestinesi. L’ex sindaco di New York ha mostrato solidarietà contro gli attacchi missilistici di Gaza pur sostenendo i diritti del movimento BDS, mentre l’ex governatore del Massachusetts si è vantato dei legami tecnologici del suo stato con Israele. Attualmente, tre dei quattro principali candidati democratici USA si sono mossi nella direzione dell’ala progressista, rimproverando l’establishment, dicendo che avrebbero preso in considerazione la possibilità di condizionare gli aiuti degli Stati Uniti a Israele, a meno che il governo israeliano adottasse una posizione meno falsa sui palestinesi. L’odio è seminato e ha attecchito. Parafrasando Donald Trump: “Neanche i palestinesi sono angeli”.

2479.- Da Mifsud alla Trenta, passando per Renzi-Gentiloni – di Maurizio Blondet

Da Mifsud alla Trenta passando per Renzi-Gentilonidi Maurizio Blondet

Chi è  Joseph Mifsud e perché è così importante? E’ stato un docente maltese della Link Campus,   una strana università  privata di Roma   con ampi agganci nazionali (l’ha fondata Vincenzo Scotti, ex ministro degli interni) e internazionali (ci lavorano agenti britannici);  ed  anche uno dei direttori dell’oscuro London Centre of International Law Practice LCILP):  dove lavorava come consulente  sui temi  energetici  George  Papadopulos, l’attivista pro-Trump e uno dei suoi   assistenti  arruolati nella campagna elettorale  di Trump, preso di mira come strumento inconsapevole del Russiagate.

George  Papadopulos
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump rinunciò a George Papadopoulos come attivista della sua campagna elettorale.

In questo centro di pratica legale internazionale, ricorda ora Papadoupolos, non avveniva nessuna pratica legale di nessun genere.  Ricorda anche che quando annunciò che avrebbe lavorato per la campagna di The Donald, uno dei direttori del  London Centre  lo rimproverò:  “Fai male a lavorare con Trump. È una minaccia per la società. È un razzista. È anti-musulmano”.

Il tono di ostilità però muta completamente quando un altro direttore dello LCILP gli annuncia che si unirà a lui per la conferenza di tre giorni che si terrà al Link Campus University di Roma. E’  lì che gli viene presentato “un accademico maltese sulla cinquantina,  elegantemente vestito, Joseph Mifsud”.

E’ il 14  marzo 2016. Nell’università “dello spionaggio” di Scotti e dove ha insegnato la Trenta,  sono presenti all’evento “ anche il renziano e clintoniano Gianni Pittella, il senatore del Copasir Giuseppe Esposito  (alfaniano) e il direttore della Polizia Postale (la cyber intelligence italiana) Roberto Di Legami. La stessa compagnia (Mifsud, Pittella, Di Legami, Esposito) di una precedente conferenza sulla sicurezza organizzata dalla Link al Senato l’11 settembre 2015″.

Gianni Pitella (al centro) con Mario Mauro e il presidente della Repubblia Giorgio Napolitano nel 2010
 Dal 2011, Link Campus University ha cessato l’attività come filiazione della University of Malta e si è organizzata in un singolo dipartimento. Propone corsi afferenti alle seguenti macro aree: Economia, Giurisprudenza, Comunicazione, Studi internazionali e ha attivato quattro centri di ricerca di area, quattordici centri di ricerca tematici e un centro di studio e ricerca internazionali.

Quello che Mifsud fa balenare  all’ingenuo  Papadopoulos è   di poterlo aiutare nella campagna di Trump, perché ha contatti con ambienti russi.  Alla fine di aprile infatti Mifsud lo invita in un ristorante di Londra e gli comunica: “Sono appena tornato dalla Russia. Dicono di avere materiale per sporcare  Hillary Clinton! Email di Clinton! Hanno migliaia di e-mail imbarazzanti”.

Sembra che Mifsud si atteggi ad agente  informale  di  Mosca. Mette  in contatto Papadopoulos con figure nell’orbita di Vladimir Putin come Ivan Timofeev, esponente del Russian International Affairs Council, un think tank fondato dal Cremlino.

“Gli presenta pure la nipote di Putin, che poi si rivelerà essere solo una stagista della Link senza alcun rapporto con la Russia”.

Il giovane consulente si monta la testa e,  nel  marzo 2016, in una riunione dei membri della campagna per Trump, nello International Hotel di Washington (proprietà di Trump(  si vanta di poter arrangiare un incontro fra Trump e Putin – evidentemente imbeccato da Mifsur e dai “russi” che gli ha presentato.

Ovviamente è quello che l’FBI di Mueller voleva sentire: parte l’inchiesta per dimostrare che Donald è  manovrato da Putin.

Da quel momento, Papadopoulos diventa oggetto di  incontri importanti  e curiosi. Un diplomatico australiano  di nome Alexander Downer che gli parla del materiale che gli danno i russi  fra un gin and tonic e  l’altro. Fatto singolare,  il diplomatico australiano dirige,  a tempo perso, una società d’intelligence privata a Londra, la Haklyut &  Co., che ha tra i collaboratori sir Richard Dearlove,  ex direttore dell’MI6.

Altri incontri  di Papadopoulos: un funzionario del ministero degli steri britannico non meglio identificato, lo porta al bar e gli pala della Russia. Infine “Stephan Halper, un vecchio agente della CIA divenuto professor a Cambridge (anche lui collaboratore della Hakliut & Co) , lo contatta di punto in bianco egli fa domande  sulla Russia”  cercando di fargli dire che lui lavora per i moscoviti. Non basta.

Di colpo compare un “uomo d’affari bielorusso, Sergei Millian” (J) che   gli offre – udite udite –  un contratto di consulenza a 30 mila dollari al mese,  in segreto,   alla sola condizione: che continui a lavorare per Trump.  Papadpoulos rifiuta. Si saprà dopo che questo Millian “era una delle fonti del dossier Steele,   il falso rapporto che era stato compilato dall’ex agente dell’intelligence britannico Christopher Steele e conteneva accuse salaci sui legami di Trump con Mosca”.

Non basta ancora. Ecco apparire un nuovo amico, l’uomo d’affari israeliano Charles Tawil, rumoroso, soverchiante,  vociante,  che  diventa amicone di Papadopoulos in illinois, lo rivede a Mikonos durante una vacanza, lo porta con sé  in Israele e, in un albergaccio di Tel Aviv, gli dà  10 mila dollari in contanti, come anticipo di una non precisata futura consulenza. Denaro che Papadopoulos accetta perché, dice, si sente  minacciato; ha avuto l’impressione che TAwil avrebbe potuto ucciderlo: lo ritiene, dice, un “agente di un servizio d’intelligence estero, non russo”.

Papadopoulos con l’agente israeliano Tawil. “Si  è vatato di aver  aiutato a intercettare  Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano. “Avremmo potuto ucciderlo in qualsiasi momento”, diceva. 
https://www.timesofisrael.com/israeli-named-by-trump-russia-probe-convict-dismisses-absurd-spy-allegations/

E’ il  luglio 2017.    Papadopoulos torna in Usa da Atene e mentre attende la coincidenza aerea, agenti dell’FBI  lo fermano.  Perquisiscono il suo bagaglio. “Allora mi viene in mente! Charles Tawil! Stanno cercando i 10 mila dollari in contanti non dichiarati! “

Torchiato da Mueller,  Papadopoulos è  minacciato di 25 anni per ostruzione alla giustizia e per essere “un lobbista non registrato a favore di Israele”:  ha fatto  delle conferenze (su temi petroliferi) allo Hudson Institute, un think tank  con sede a Washington  – dove ritroviamo   i famigerati falchi neocon che, dopo l’11 Settembre, spinsero alla guerra in Irak:  da Richard Perle a Douglas Feith (uno dei tre viceministri   ebrei al Pentagono quei giorni: gli altri sono Wolfowitz e Dov Zakheim), Meyrav  Wurmser , fondatore dell’organo di propaganda israeliano  MEMRI  –  per ciascuno di questi personaggi ci sarebbe da scrivere un libro-.

Mifsud (al centro) alla Link durante la summer school in collaborazione con l’Università di Mosca. È proprio a Roma, alla Link Campus, che il 14 marzo 2016 Mifsud e Papadopoulos si incontrano per la prima volta. E quando l’anno dopo, il 31 ottobre 2017, le carte dell’inchiesta diventano di dominio pubblico Mifsud era proprio alla Link – dove coordinava attività e rapporti con l’Università Lomonosov di Mosca – ma dal giorno successivo sparisce. Non risponde al telefono, non risponde alle mail. E insieme a lui scompare il suo nome dai siti delle organizzazioni e degli enti a cui era affiliato. In questo periodo di assenza lo cercano gli americani, i russi, anche la Corte dei conti italiana che l’ha condannato in contumacia per un danno erariale, ma nessuno sa dove sia. O meglio, qualcuno sa dove potrebbe essere, ma non lo dice. E si tratta proprio della Link Campus. 

Ma dobbiamo tornare a Papadopoulos.  Frastornato,   incapace a tutta prima di capire che cosa gli sta succedendo e  di essere stato incastrato, da chi,  di fronte a precisa domanda di Mueller nega di conoscere Mifsud: per questo viene condannato da Mueller a 14 giorni di carcere e  10 mila dollari di multa  –   esattamente la cifra che aveva ricevuto dall’israeliano e che il Deep State, si può dire, si riprende.

Ma il Mueller che incrimina e sbatte in galera con tanta facilità, invece non ha incriminato Mifsud, anche quando è appurato che si tratta del personaggio-chiave iniziatore della falsa trappola contro Trump? .  Glielo hanno chiesto durante l’audizione al Senato  in cui il procuratore speciale –  anche lui fallito nel suo scopo di incastrare Trump,  ha dato  risposte tipo: “Non posso entrare in merito a questo”.

Perché?  Anzitutto perché Mifsud  – è un cognome ebraico maltese –  è  un ebreo (Mifsud è un nome arabo. Negli ultimi tre o quattro secoli, sembra essere diventato più importante nella nazione insulare di Malta).

e sicuramente lavora non solo per lì intelligence britannica e i “Five Eyes”,  e  la fabbrica del fango  anti-Trump  dei democratici, ma anche per Israele.

Poi perché, evidentemente, Mueller  continua a credere a Mifsud, lo considera un prezioso informatore suo e del suo giro anti-Trump, e si sente in dovere di proteggerlo.

Infatti Mifsud “scompare” per mesi  – mesi in cui abiterà a  Roma, come ha scoperto Il Foglio (non l’FBI  né la polizia italiana), in un appartamento affittato dalla Link Campus di Scotti & C.  –  la quale sostiene di non aver avuto più apporti col “Professore” dal 2008…

L’introvabile Mifsud? Era nascosto a Roma.
Il Professore , elemento centrale del Russiagate, dopo la sparizione è stato per sette mesi in una palazzina romana. L’affitto? Lo pagava l’università preferita dal M5s, la Link Campus. E non manca anche una società in comune: la “Link International srl”. Qui, Mifsud (primo a sinistra) all’inaugurazione dell’anno accademico 2017 della Link, pochi giorni prima di sparire. A fianco il rettore Roveda, il presidente Scotti, l’allora sottosegretario Migliore.

Adesso  – sempre a piede libero e a distanza, in teleconferenze  –   l’ebreo maltese ha “accettato” di collaborare con i nuovi procuratori (Durham ed Horowitz) del ministero della Giustizia Usa  che indagano non più sulla collusione di Trump con Putin, bensì sulla  scandalosa e ramificata operazione dei servizi “occidentali” per far passare Trump per un burattino di Putin,  utilizzando materiale che sapevano falso come il rapporto Steele o “la nipote di Putin” che Mifsud presentò a Papadopoulos a Roma.  Insomma dirà quello che vuole e terrà per sé quello che vuole.
Ora bisogna chiedersi come mai in quella Link Campus, Mifsud ha tenuto lezioni ad altissimi elementi del controspionaggio italiano insieme ad una sua collega ed agente britannica come Claire Smith.

Link Campus è l’università dove il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio lo scorso anno ha presentato il programma di politica estera del M5s e dove ha pescato la sua classe dirigente: dalla Link Campus provengono il ministro della Difesa Elisabetta Trenta e la viceministro degli Esteri Emanuela Del Re.

Come mai il Movimento Cinque Stelle, al momento di accaparrarsi il ministero della Difesa, ci mette la signora Elisabetta  Trenta che è una insegnante della Link Campus e se ne vanta  (“Fino al 2018[2] è stata vicedirettore del Master in Intelligence and Security presso il Link Campus di Roma[1], scrive su Wikipedia)  e pure la viceministro degli esteri grillina, la Del Re, anche lei della Link Campus. Insomma si vorrebbe sapere quanti agenti coscienti o incoscienti dei “servizi britannici” e genericamente “Occidentali” stiamo, come contribuenti, pagando di tasca nostra.  Le prove del coinvolgimento del gruppo Renzi-Gentiloni -Mifsud nel fabbricare  il  Russiagate anti-Donald stanno arrivando:

Link Campus University: Tempesta in arrivo dagli USA sull’Italia di Renzi

A quando la scoperta di quanti nostri altissimi  dirigenti dello spionaggio o del ministero siano “asset” , magari alla Regeni, inconsapevoli  di Londra o  Herzlya? Anche perché  la nostra gloriosa e patriottica Marina militare ci sta riempiendo di nuovi “immigrati” che hanno pagato il biglietto agli scafisti per farsi “naufragare” e “salvare” dai nostri teneri ammiragli.   I quali proclamano di agire in spregio e sfida aperta al governo italiano vigente:   perché obbedisce a Bergoglio e all’umanità, certo.

Ma con tutti questi Regeni preparati dalla Link Campus di Mifsud,   si vorrebbe esser sicuri.

2345.- Libia, il Presidente Conte ha incontrato Fayez al Serraj

07 Maggio 2019

Sia Conte, sia Merkel aderendo alla richiesta dell’ONU, hanno chiesto, a loro volta, che “Ci sia tregua durante il Ramadan”. è chiaro che la proposta sarà accettata da entrambi i contendenti solo se le rispettive forze, dopo questo mese di combattimenti, saranno con l’acqua alla gola; ma perché la tregua sia efficace e, direi, possibile occorrerà una forza militare di interposizione intorno a Tripoli.

Il Comunicato di Palazzo Chigi:

“Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha incontrato ieri a Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio Presidenziale libico, Fayez al Serraj.
L’incontro ha fornito l’occasione per un aggiornamento degli sviluppi sul terreno e uno scambio di opinioni sulla situazione libica. Il Presidente del Consiglio ha ribadito il forte impegno del Governo italiano volto a rivitalizzare un processo politico efficace e sostenibile. Il Presidente Conte ha inoltre confermato la necessità di evitare ulteriori spirali di violenza per poter avviare un confronto tra le parti sotto l’egida delle Nazioni Unite e con il coeso supporto della Comunità internazionale, a beneficio del popolo libico, della stabilità del Paese e dell’intera regione.”

Giuseppe Conte ha anche detto che le divisioni all’interno del popolo libico non devono riprodursi e amplificarsi in campo internazionale. L’accento è andato sulla crisi umanitaria assolutamente da evitare per le conseguenze che avrebbe nel Nord Africa e in Medio Oriente, Comunque, se ci sarà una crisi umanitaria l’Italia saprà affrontarla.

L’offensiva di Haftar è ora Guerra Santa

Mentre continuano i combattimenti far le forze di terra e i raid delle opposte forze aeree, mntre Haftar ha chiamato alla guerra santa per evitare che il ramadan rallenti la sua offensiva, al Sarraj, alle corde, si è affidato a un tour disperato delle capitali di Italia, Germania, Francia e Gran Bretagna. La sensazione è che nessuno dei due leader contendenti né al- Sarraj né Haftar abbia la certezza di avere dalla sua il popolo libico. Al sarai è giunto con una delegazione che comprende i ministri degli Affari esteri e dell’Interno, il consigliere politico e quello per la sicurezza nazionale del presidente, il capo dell’organismo per la lotta contro il terrorismo, ufficiali delle Forze Armate e gli ambasciatori di Libia a Roma e presso l’Unione europea. Al-Sarraj, mentre gli ufficiali venivano ricevuti dai colleghi italiani dello Stato Maggiore, “si è appellato a Conte affinché gli amici italiani compiano maggiori sforzi, visto il peso internazionale e il posizionamento dell’Italia, per produrre un cambiamento positivo negli atteggiamenti esitanti di alcuni Stati europei e della regione, in modo da far cessare immediatamente questa aggressione” portata dalle forze del generale Khalifa Haftar.  Il colloquio tra i due presidenti è durato circa un’ora e mezza. Al termine non sono state rilasciate dichiarazioni. Quella di ieri a Roma è la prima tappa del mini-tour diplomatico delle capitali europee del capo del governo libico di unità nazionale. Serraj è, poi, volato a Berlino dalla cancelliera tedesca, Angela Merkel, mentre domani si recherà a Parigi dal presidente francese, Emmanuel Macron. Tra le tappe previste, anche una a Londra. Sono in gioco gli equilibri del mondo arabo e la leadership di Haftar è vista, nel Magreb, con preoccupazione.

Il presidente tunisino è allineato con l’Italia e con l’ONU, che ha richiesto una settimana di tregua umanitaria.

Conte: “Confido di incontrare presto il generale Haftar.

In tutti i miei colloqui sto continuando a insistere che l’opzione militare non porta ad alcuna soluzione stabile”. Lo ha detto il premier Conte, al termine della esercitazione militare con finalità di protezione civile a Pratica di Mare. “Oggi ho incontrato ilPresidente Al Sarraj. Non ci sono grossi movimenti sul territorio. La situazione l’abbiamo inquadrata, come Italia e come governo, da subito bocciando l’opzione militare. C’è una situazione di stallo ma lo scenario è critico e può evolvere in modo ancora più critico da un momento all’altro”, ha aggiunto Conte.

Al-Sarraj incontra Angela Merkel e, poi, a porte chiuse, Macron. Ultima sarà Theresa May.

Angela Merkel a Al Sarraj: “Ci sia tregua durante il Ramadan”.
Il premier libico ha chiesto a Berlino di unificare la posizione europea.

BERLINO – Il governo di accordo nazionale in Libia presieduto da Fayez al Sarraj e l’autoproclamato Esercito nazionale libico comandato dal generale Khalifa Haftar, tornino a negoziare e raggiungano un armistizio per tutto il Ramadan iniziato il 5 maggio e che durerà fino al 4 giugno: lo ha chiesto la cancelliera tedesca Angela Merkel durante l’incontro con Al Sarraj ieri sera a Berlino, a quanto riferisce il quotidiano tedesco “Handelsblatt”. Secondo Merkel, “la base per porre fine al conflitto in Libia” è l’accordo che Al Sarraj e Haftar hanno concluso a febbraio scorso ad Abu Dhabi sulla fine della transizione nel paese con la convocazione delle elezioni del parlamento nazionale. La cancelliera tedesca ha, infine, auspicato che in Libia “si torni al processo politico sotto l’egida delle Nazioni Unite”.

Dal canto suo Al Sarraj “ha auspicato che la Germania riesca a unificare la posizione europea” rendendola “ferma ed efficace nel rifiuto dell’aggressione contro Tripoli e dei crimini di guerra” perpetrati dalle forze del generale Kahlifa Haftar. Lo scrive in un post pubblicato nella notte su Facebook l’Ufficio stampa del capo del Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale libico.

Sarraj, punta alto, senza averne le forze ed è tornato a respingere in maniera indiretta la proposta di un cessate il fuoco in Libia per il Ramadan, affermando che “le forze del Governo di accordo e quelle che lo sostengono proseguiranno la guerra per difendere la capitale fino a costringere gli aggressori a ritirarsi e a ritornare alle loro basi”, sintetizza il post. Sarraj si è poi recato a Parigi, dove ha avuto un incontro a porte chiuse con il presidente Emmanuel Macron. Il tour di Sarraj, che è stato definito “tour della disperazione”, terminerà a Londra, dove incontrerà Theresa May.

2300.- Libia, Haftar riprende El Azizia poi la riperde. Onu: “13mila civili in fuga”


Conte: “Ho detto al generale: no a derive militari. Noi facilitatori di pace”. Sì ma…se Haftar non sfonda. Gli scontri proseguono violenti a ridosso della Capitale. Ed è guerra aerea: molto attive le forze aeree della Cirenaica.

Un carro armato e un’automitragliatrice del GNA, ieri, durante un bombardamento a Wadi Rabie, 30 km da Tripoli. Sale il numero delle vittime. Per respingere l’offensiva da sud, da Misurata, sono arrivati altri carri armati e batterie lanciarazzi. Lo riferiscono i media libici. (Photo by Mahmud TURKIA / AFP)

Tripoli, 13 aprile 2019 – Avanza l’offensiva di Khalifa Haftar in Libia. Dopo una notte di violenti scontri, le forze del maresciallo hanno rinforzato il fronte a sud di Tripoli, riprendendosi el Azizia, centro abitato a circa 50 chilometri dalla capitale. Nel pomeriggio l’LNA di Serraji avrebbe però ripreso la cittadina, che da alcuni giorni passa da una forza all’altra. Duri combattimentio sulla linea avanzata del fronte, a circa 25 chilometri da Tripoli, che il generale, da giorni, tenta di sfondare. 

E continua la guerra aerea: il generale a capo del Consiglio nazionale di transizione libico ha lanciato un raid contro un compound dell’esercito di unità nazionale a Ain Zara, 15 chilometri a sudovest di Tripoli. Secondo fonti della capitale, l’obiettivo è stato mancato. In compenso i caccia avrebbero invece colpito una scuola elementare, oggi fortunatamente chiusa.

Un bimotore americano Beechcraft, presumibilmente, della CIA, oggi, ha sorvolato ripetutamente l’area degli scontri, come vedete dalle rotte percorse. Seguendo i tracciati di Flightradar, è stato anche ricostruito un volo Ciampino – Bengasi – Ciampino del Falcon jet dei Servizi Segreti e un altro volo degli uomini di Khalifa Haftar, che, in base al monitoraggio, sembra siano atterrati nell’aeroporto di Orly giovedì 4 aprile per poi ripartire all’alba del giorno dopo. E l’Eliseo ha confermato al quotidiano italiano che “degli emissari di Haftar sono venuti”. L’Eliseo teme che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti abbiano preso il sopravvento sui piani del generale? Anche in questo caso, c’è chi parla di Saddam Haftar, il figlio del generale, quello che secondo le indiscrezioni sarebbe stato anche a Roma per incontrare il figlio del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ma c’è un altro aereo misterioso tracciato dai radar sulla rotta Francia-Libia: un jet decollato a un aeroporto secondario di Lione ed è atterrato a Bengasi dopo aver sorvolato per lungo tempo i cieli della Cirenaica: forse in missione di ricognizione. Repubblica riporta le parole di Michel Scarbonchi, “ex deputato europeo che si presenta come una sorta di ambasciatore di Haftar nella capitale francese” sono molto più realistiche: “Nessuno vuole dirlo, ma tutti sperano che il Generale prenda Tripoli e diventi l’ uomo forte capace di stabilizzare la Libia”. Anzi, lo stesso Scarbonchi rivela come oramai anche l’Italia abbia di fatto capito che l’unico con cui si può realmente interloquire è Haftar. Ma è evidente che i suoi uomini siano andati a Parigi per chiedere l’assenso alle operazioni. Mentre in Italia è venuto per garantire che non colpirà i nostri interessi.


Contrattacca l’aeronautica del governo di accordo nazionale di Tripoli guidato da Fayez al-Serraj che oggi ha bombardato una postazione di Haftar a sud di Garian, a un centinaio di chilometri da Tripoli e ha colpito a Tajoura.

Civili in fuga da Tripoli: l’Onu informa che è di oltre 13.500 il numero degli sfollati dall’inizio degli scontri armati. Solo nelle ultime ore le persone che hanno lasciato la propria casa sono 4 mila. Il bilancio dall’inizio dell’offensiva, il 4 aprile, è di almeno 121 morti, tra i quali 28 bambini e 561 feriti tra i quali 200 i bambini (e bambini-soldato), ha fatto sapere l’Organizzazione mondiale della Sanità in Libia. Decine e decine di famiglie sono bloccate tra due fuochi: moltissime le telefonate strazianti dalle zone di combattimento che arrivano ogni giorno al centro di emergenza di Tripoli. Soprattutto donne, che chiedono cibo, acqua oppure “qualcuno che ci venga a prendere”. 

Non sfonda l’offensiva di  Haftar. Il decimo giorno di combattimenti è stato segnato da violenti scontri lungo l’asse a sudovest della capitale. Dopo una notte di battaglia, le forze di Haftar hanno avanzato a sud di Tripoli, su  el Azizia, centro abitato a circa 50 chilometri dalla capitale preso, perduto, ripreso e, infine ancora perduto.

CONTE: HAFTAR MI HA SCRITTO, NOI FACILITATORI DI PACE – In Italia il premier Conte conferma di avere aperto un canale di comunicazione con Haftar. “Mi è stata consegnata una lettera personale del generale Haftar, a conferma della fiducia che ha nei miei confronti”, racconta oggi al Fatto Quotidiano. “Loro affermano di voler liberare il Paese dalle formazioni terroristiche e operare una unificazione delle forze armate e di sicurezza. Io ho ribadito la mia ferma opposizione a una deriva militare che farebbe ulteriormente soffrire la popolazione civile già provata”. 

Poi da Bari, dove inagura l’anno accademico del Politecnico, rivendica per la funzione di mediazione di Roma. “L’Italia vuole avere un ruolo in Libia come lo ha sempre avuto – dice il premier -. Che è quello di un Paese facilitatore per il processo di stabilizzazione pacificazione dell’intero territorio. È la ragione per cui, pur dialogando con tutti, ovviamente sosteniamo quella che è l’azione delle Nazioni Unite”.  Giuseppe Conte ha anche dichiarato: “Se ci sarà una crisi umanitaria in Libia l’Italia saprà affrontarla”. Come? Salvini, getta acqua sul fuoco di chi tifa per la guerra in Libya: “I nostri porti rimarranno chiusi. Le politiche migratorie non cambiano. In Italia ci si arriva col permesso, i barchini, i barconi, i gommoni o i pedalò nei porti italiani non ci arrivano”. Abbiamo la certezza che Conte li imbarcherà sugli aerei. Un Governo che con una guerra a 100 km si divide sulla politica estera è una parodia di governo.

1979.- È lo yuan la nuova ‘moneta africana. Ecco quanto l’Africa si sta indebitando con la Cina

“L’imperialismo è un sistema di sfruttamento che si verifica non solo nella forma brutale di chi viene a conquistare il territorio con le armi. L’imperialismo avviene spesso in modi  più sottili. un prestito, l’aiuto militare, il ricatto.”

Thomas Sankara

Cina-Africa

LA NIGERIA ABBANDONA IL DOLLARO: È LO YUAN LA NUOVA ‘MONETA AFRICANA’

Abuja (AsiaNews/Agenzie) – Abuja utilizzerà la valuta cinese per tutte le transazioni economiche. Dopo l’Angola e i “petroyuan”, anche la prima economia africana sceglie la Cina come principale partner commerciale. Si stima che il 22% del debito dell’Africa sia contratto con la Cina. La Nigeria ha firmato a marzo un accordo con la Icbc, la più importante banca cinese, con lo scopo di adottare lo yuan come moneta commerciale. Il Paese africano ha compiuto uno scambio di valuta dal valore di 2,5 miliardi di dollari in yuan. L’obiettivo è quello di facilitare gli scambi commerciali tra i due Paesi. La scelta della Nigeria indica una tendenza ormai assodata in Africa: a fine maggio quattordici Paesi africani e diciassette banche centrali si sono riunite nello Zimbabwe per adottare lo yuan come moneta di riserva.

La valuta cinese è la settima moneta utilizzata negli scambi commerciali: si tratta del 2% delle transazioni mondiali. La Nigeria ha abbandonato il dollaro in seguito al crollo del prezzo del greggio del 2014. In quell’occasione il Paese africano era stato costretto a vendere i propri dollari sul mercato interbancario per aumentare la liquidità della naira nigeriana (la moneta nazionale).

D’altra parte l’introduzione della yuan è una mossa utile per la Nigeria anche per ripagare il suo debito con la Cina. Si stima che Il 22% del debito pubblico dell’Africa sia contratto con Pechino. Adottando la moneta cinese si azzerano i rischi derivati dal cambio e dalla fluttuazione dei valori monetari.

L’accordo con la Nigeria arriva dopo due anni di negoziazioni. In questo modo lo yuan diventerà la seconda moneta commerciale della Nigeria, tra le prime economie dell’Africa. Il patto arriva dopo un altro importante accordo siglato dalla Cina con l’Angola. Quest’ultima è il primo partner della Cina per quanto riguarda l’importazione di petrolio. Nel 2015 a Shanghai i due Paesi hanno siglato un accordo per cui la Cina può pagare in yuan il petrolio dell’Angola, il cosiddetto “petroyuan”. La Cina è il primo Paese al mondo importatore di greggio, con nove milioni di barili al giorno.

Infine, la Banca centrale cinese ha siglato con le autorità nigeriane un accordo triennale per lo scambio di valute per un valore di 15 miliardi di yuan, pari a 2,3 miliardi di dollari. Lo ha annunciato oggi in un comunicato lo stesso istituto centrale di Pechino, secondo cui l’operazione punta a facilitare il commercio e gli investimenti e a salvaguardare la stabilità dei mercati finanziari di entrambi i paesi. La Cina è uno dei principali investitori in Nigeria. Il mese scorso il gigante delle costruzioni China Gezhouba Group Corp ha iniziato i lavori di costruzione di una centrale idroelettrica in Nigeria del valore di 5,792 miliardi di dollari. Il progetto rappresenterà la più grande infrastruttura del paese africano e il più grande impianto idroelettrico che le imprese cinesi hanno mai costruito all’estero. La costruzione di quattro dighe e l’installazione di dodici generatori saranno completate entro 87 mesi per raggiungere una capacità produttiva di 4,7 miliardi di chilowatt di energia elettrica ogni anno.

In sintesi: Ai cinesi le ricchezze e a noi i migranti.

 

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ECCO QUANTO L’AFRICA SI STA INDEBITANDO CON LA CINA

L’analisi di Alessia Amighini, docente di Politica economica, sulle relazioni Africa-Cina

 

All’indomani del 7° Forum sulla cooperazione sino-africana, la Cina estende il suo peso in Africa, attraverso finanziamenti destinati a infrastrutture e attività estrattive. Il rapporto diventa così ancora più sbilanciato, a favore del gigante asiatico.

I RISULTATI DEL FORUM CINA-AFRICA

La cronaca dal 7° Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac), svoltosi a Pechino il 3 e 4 settembre, ha sottolineato i profondi legami tra la Cina e l’Africa (53 su 54 paesi) e il ruolo propulsore che la Cina ha assunto nello sviluppo africano. Dal 2000 il Forum formalizza le relazioni tra Pechino e il continente africano e di fatto istituzionalizza la presenza crescente di imprese, capitali, lavoratori e merci cinesi in Africa; quest’anno il presidente Xi ha promesso altri 60 miliardi di dollari di prestiti in varie forme, che si aggiungono ai 136 miliardi già elargiti negli ultimi 17 anni a un alto numero di governi e imprese di stato.

IL RUOLO DELLA CINA

La Cina è la fabbrica manifatturiera del mondo ma non dispone di sufficienti materie prime per sostenere il suo sviluppo industriale. E così Pechino da qualche anno usa il suo supporto politico ed economico all’Africa sub-sahariana, ricca di materie e povera di capitali, per assicurarsi gli approvvigionamenti di molte materie prime, tra cui il petrolio. Secondo i dati del Sais (School of Advanced International Studies, divisione della John Hopkins University), il primo paese ricevente è l’Angola, con quasi un terzo (42,2 miliardi), seguito dall’Etiopia con 13,7 miliardi e dal Kenya con 9,8.

IL PESO CINESE IN AFRICA

La Cina estende così il suo peso nei finanziamenti all’Africa (il primo donatore/creditore sono ancora gli Stati Uniti), destinati soprattutto a infrastrutture e attività estrattive. La maggior parte dei fondi, infatti, è sotto forma di crediti commerciali, crediti all’esportazione, crediti di fornitura (il primato dell’Angola, per esempio, dipende da 19 miliardi di prestiti commerciali, non prestiti agevolati).

LA COOPERAZIONE

La cooperazione cinese in Africa contribuisce in parte all’assistenza umanitaria e allo sviluppo tramite progetti di responsabilità sociale d’impresa, istruzione, formazione, sanità, sicurezza, ma resta sempre strettamente legata agli obiettivi economici e commerciali di Pechino. Da qui il vasto numero dei paesi beneficiari, pochi dei quali però ottengono gran parte delle risorse (a loro volta concentrate su pochi settori produttivi).

RESTA LO SQUILIBRIO

La cooperazione economica e commerciale è volta a facilitare soprattutto gli scambi sino-africani. Peccato però che lo squilibrio commerciale sia uno dei temi più preoccupanti nelle relazioni sino-africane e non si vede come un ulteriore aumento dell’interscambio possa favorire l’Africa, che negli ultimi 15 anni ha importato sempre di più dalla Cina, ma ha esportato sempre meno.

LE ESPORTAZIONI DELLA CINA IN AFRICA

Il problema è che le esportazioni cinesi verso l’Africa consistono soprattutto di macchinari e manufatti, mentre le esportazioni africane verso la Cina sono dominate dal petrolio. Questo tipo di interscambio risponde alla consueta logica del vantaggio comparato: la Cina esporta in Africa i prodotti che le costano di meno (macchinari e manufatti) e importa quelli che le costano di più (materie prime).

GLI EFFETTI DELL’INTERSCAMBIO

Ma a lungo andare tale interscambio rischia di fossilizzare la concentrazione produttiva dell’Africa e rende volatili i proventi dall’export, che seguono le stesse oscillazioni del prezzo del greggio. La sensibile riduzione delle esportazioni africane verso la Cina dal 2015 dipende dal calo del loro valore pur con volumi stabili o crescenti.

IL BENEFICIO CINESE

In questo contesto, porsi obiettivi “comuni” di interscambio totale e non di riduzione del disavanzo africano è il segnale di una forte ed efficace manipolazione degli obiettivi africani a beneficio degli interessi cinesi. Solo 5 dei 60 miliardi promessi sono destinati a un fondo speciale per promuovere l’importazione dall’Africa di prodotti diversi dalle risorse naturali.

LE RETI INFRASTRUTTURALI

Anche la cooperazione della Cina con l’Unione africana per creare reti infrastrutturali e commerciali che promuovano il commercio e l’integrazione regionale e internazionale rischia di avvantaggiare soprattutto le logiche cinesi. Il commercio intra-regionale è da sempre limitato in Africa, rispetto agli altri continenti, certamente per la mancanza di infrastrutture, ma anche per la scarsa complementarietà delle economie. Solo se le reti commerciali e di trasporto che la Cina ha interesse a costruire in Africa serviranno ad aumentare anche la capacità di esportazione dei paesi africani, oltre che a potenziare le rotte e destinazioni delle esportazioni cinesi, il risultato porterà benefici reciproci.

I NUMERI ANNUNCIATI DA XI

Xi ha annunciato anche che 10 dei 60 miliardi di prestiti saranno sotto forma di investimenti di imprese. Per le grandi imprese cinesi, l’Africa è un mercato in crescita. Nel 2016, i ricavi annui lordi di quelle impegnate in progetti di costruzione sono stati di 50 miliardi di dollari. La metà dei quali in soli cinque paesi: Algeria, Etiopia, Kenya, Angola e Nigeria. Sono gli stessi in cui si è registrato un forte aumento di lavoratori cinesi, in totale oltre 227 mila alla fine del 2016. La formazione che la Cina si impegna a finanziare in Africa, sempre nei paesi che più le interessano, potrebbe essere un segnale positivo verso una maggiore integrazione del mercato del lavoro locale, ma i risultati ancora non si vedono.

IL PESO DEL DEBITO

Infine, in alcuni paesi riceventi il peso marginale del debito nei confronti della Cina è molto alto, per esempio a Gibuti, il caso più eclatante, con la quasi totalità del debito estero (80 per cento del Pil) dovuto alla Cina, ma anche in Kenya e in Etiopia. Alla dipendenza economica e finanziaria si aggiunge quella politica dal creditore principale.

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L’analisi è pubblicata su Lavoce.info. Dalle Newsletter di Start mag. 

1209.- Foreign Policy: la Germania sta silenziosamente costruendo un esercito europeo sotto il suo comando

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Hitler è risorto nel silenzio dei media…Germania pronta a reclutare volontari in tutti i Paesi UE.

 

 Dal crollo del Muro di Berlino, venuta meno la minaccia sovietica, le forze armate tedesche sono state costantemente ridimensionate in numero e investimenti, tanto che nel 2014 un’indagine parlamentare ne denunciava la scarsa operatività. Ma, diventata il nuovo egemone europeo grazie alla crisi dell’euro e spronata dagli alleati, USA inclusi, ad assumere un maggiore ruolo militare, negli ultimi anni la Germania ha aumentato gli investimenti nella difesa e, per accelerare il recupero delle capacità militari, grazie ad una propria iniziativa all’interno della NATO, ha iniziato a integrare nel proprio esercito alcune divisioni di paesi alleati satelliti, con rapporto di mutuo beneficio per i partecipanti. Così, mentre a Berlino si discute anche della possibilità di dotarsi dell’atomica, silenziosamente la Germania sta costruendo il potenziale nucleo di una futura forza armata dell’Unione Europea, ovviamente sotto il suo comando.

di Elisabeth Braw, 22 maggio 2017 –  Foreign Policy.

Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’UE torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della NATO.

Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo  avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito UE, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate.

L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca. Così facendo, seguiranno le orme di due brigate olandesi, una delle quali è già entrata a far parte della Divisione delle Forze di Risposta Rapida mentre l’altra è stata integrata nella Prima Divisione Blindata della Bundeswehr. Secondo Carlo Masala, professore di politica internazionale presso l’Università della Bundeswehr a Monaco di Baviera, “il governo tedesco si sta dimostrando disposto a procedere verso l’integrazione militare europea” – anche se altri paesi del continente ancora non lo sono.

Il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha ripetutamente ventilato l’idea di un esercito dell’Unione europea, solo per ricevere in risposta derisione o un imbarazzato silenzio. È così anche adesso che l’UK, eterno nemico dell’idea, sta uscendo dall’unione. C’è poco accordo tra i rimanenti Stati membri su come dovrebbe essere organizzata esattamente una simile forza ed a quali  competenze le forze armate nazionali dovrebbero conseguentemente rinunciare. E così il progresso è stato lento.

A marzo di quest’anno, l’Unione europea ha creato un quartier generale militare congiunto – ma ha soltanto la responsabilità dell’addestramento delle missioni in Somalia, Mali e Repubblica Centrafricana e ha un magro personale di 30 unità. Sono state progettate anche altre forze multinazionali, come il Gruppo da Battaglia del Nord, una piccola forza di reazione rapida di 2.400 militari formata dagli Stati baltici, da diversi paesi nordici e dai Paesi Bassi, e la Forza Congiunta di Spedizione della Gran Bretagna, una “mini NATO” i cui membri includono gli Stati baltici, la Svezia e la Finlandia. Ma in assenza di adeguate opportunità di schieramento, questi gruppi operativi potrebbero anche non esistere.

Tuttavia sotto la blanda etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato a qualcosa di molto più ambizioso: la creazione di quella che sostanzialmente è una rete di mini-eserciti europei, guidata dalla Bundeswehr.

“L’iniziativa è scaturita dalla debolezza della Bundeswehr“, ha dichiarato Justyna Gotkowska, analista di sicurezza dell’Europa settentrionale presso il think tank polacco Centro per gli Studi Orientali. “I tedeschi hanno capito che la Bundeswehr doveva colmare le lacune delle sue forze terrestri … per guadagnare influenza politica e militare all’interno della NATO“.

Un aiuto da parte dei partner potrebbe essere la carta migliore a disposizione della Germania per rinforzare rapidamente il suo esercito – e i mini-eserciti a guida tedesca potrebbero essere l’opzione più realistica per l’Europa, se deve considerare seriamente la sicurezza comune. “È un tentativo per impedire che la sicurezza comune europea fallisca completamente“, ha detto Masala.

“Lacune” della Bundeswehr è un eufemismo. Nel 1989, il governo della Germania Occidentale spendeva il 2,7% del PIL per la difesa, ma nel 2000 questa spesa era scesa all’1,4%, dove è rimasta per anni. Infatti, tra il 2013 e il 2016, la spesa per la difesa è rimasta bloccata all’1,2% – lontano dal livello di riferimento del 2% della NATO. In un rapporto del 2014 al Bundestag, il Parlamento tedesco, gli ispettori generali della Bundeswehr hanno presentato un quadro imbarazzante: la maggior parte degli elicotteri della Marina non funzionava e dei 64 elicotteri dell’esercito solo 18 erano utilizzabili. E mentre la Bundeswehr della Guerra Fredda era composta da 370.000 soldati, la scorsa estate era forte soltanto di 176.015 tra uomini e donne.

Da allora la Bundeswehr è cresciuta a più di 178.000 soldati attivi; l’anno scorso il governo ha aumentato i finanziamenti del 4,2%, e quest’anno la spesa per la difesa crescerà dell’8%. Ma la Germania è ancora molto lontana dalla Francia e dall’UK come forza militare. E l’aumento della spesa per la difesa non è immune da polemiche in Germania, dato che il paese è consapevole della propria storia come potenza militare. Il ministro degli Esteri Sigmar Gabriel ha recentemente affermato che è “completamente irrealistico” pensare che la Germania raggiunga il riferimento di spesa per la difesa della NATO del 2% del PIL – anche se quasi tutti gli alleati della Germania, dai più piccoli paesi  europei agli Stati Uniti, la stanno sollecitando ad avere un ruolo militare più importante nel mondo.

La Germania può non avere ancora la volontà politica di espandere le sue forze militari alle dimensioni che molti sperano – ma ciò che ha avuto dal 2013 è il Framework Nations Concept. Per la Germania, l’idea è di condividere le sue risorse con i paesi più piccoli in cambio dell’uso delle loro truppe. Per questi paesi più piccoli, l’iniziativa è un modo per far sì che la Germania sia più coinvolta nella sicurezza europea, evitando la difficile politica dell’espansione militare tedesca.

“È un passo verso una maggiore indipendenza militare europea“, ha detto Masala. “L’UK e la Francia non sono disposte a prendere la guida della sicurezza europea” – l’ UK è in un via di collisione con i suoi alleati dell’UE, mentre la Francia, un peso massimo militare, ha spesso mostrato riluttanza verso le operazioni multinazionali della NATO. “Resta solo la Germania“, ha detto.

Operativamente, le risultanti unità bi-nazionali sono maggiormente dispiegabili perché sono permanenti (la maggior parte delle unità multinazionali fino ad ora sono state temporanee). Questo amplifica in modo determinante il potere militare dei paesi partner. E se la Germania decidesse di schierare un’unità integrata, potrebbe farlo solo con il consenso del partner minoritario.

Naturalmente, dal 1945 la Germania è stata straordinariamente riluttante a dispiegare il suo esercito all’estero, addirittura  fino al 1990 ha vietato alla Bundeswehr di schierarsi fuori dai confini. In effetti, i partner minoritari – e quelli potenziali – sperano che il Framework Nations Concept farà assumere alla Germania più responsabilità nella sicurezza europea. Finora, la Germania e i suoi mini-eserciti multinazionali non sono altro che delle iniziative su piccola scala, ben lontane da un vero esercito europeo. Ma è probabile che l’iniziativa cresca.

I partner della Germania hanno sfruttato i vantaggi pratici dell’integrazione: per la Romania e la Repubblica Ceca, significa portare le proprie truppe allo stesso livello di addestramento delle forze tedesche; per i Paesi Bassi, ha significato riconquistare competenze coi carri armati (gli olandesi avevano venduto l’ultimo dei loro carri armati nel 2011, ma le truppe della 43a Brigata Meccanizzata, che sono in parte acquartierate con la Prima Divisione Blindata nella città tedesca occidentale di Oldenburg, ora guidano i carri armati tedeschi e potrebbero utilizzarli se schierati con il resto dell’esercito olandese). Il colonnello Anthony Leuvering, comandante della 43a Meccanizzata di base a Oldenburg, mi ha detto che l’integrazione ha avuto veramente pochi intoppi: “La Bundeswehr ha circa 180.000 unità, ma i tedeschi non ci trattano come l’ultima ruota del carro“. Si aspetta che altri paesi si uniscano all’iniziativa: “Molti, molti paesi vogliono collaborare con la Bundeswehr“. La Bundeswehr, a sua volta, ha in mente un elenco di partner secondari,ha dichiarato Robin Allers, un professore tedesco, associato presso l’Istituto norvegese per gli Studi sulla Difesa, che ha visto l’elenco dell’esercito tedesco. Secondo Masala, i paesi scandinavi, che già utilizzano una grande quantità di apparecchiature tedesche, sarebbero i migliori candidati per il prossimo ciclo di integrazione nella Bundeswehr.

Finora, l’approccio empirico di basso profilo del Framework Nations Concept è andato a vantaggio delle Germania; poche persone in Europa hanno obiettato all’integrazione di unità olandesi o rumene con le divisioni tedesche, in parte perché potrebbero non averla notata. E’ meno chiaro se ci saranno ripercussioni politiche nel caso in cui  più nazioni dovessero unirsi all’iniziativa.

Al di fuori della politica, il vero test sul valore del Framework Nations Concept sarà il successo in combattimento delle unità integrate. Ma la parte più complessa dell’integrazione, sul campo di battaglia e fuori, potrebbe rivelarsi la ricerca di una  lingua franca. Le truppe dovrebbero imparare le lingue gli uni degli altri? O il partner minoritario dovrebbe parlare tedesco? Il Colonello Leuvering, olandese di lingua tedesca, riferisce che la divisione bi-nazionale di Oldenburg si sta orientando verso l’uso dell’inglese.

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Siamo alle porte di una NATO Bis, con chissà quali conflitti e di un balzo avanti rispetto all’Eurogendfor del Trattato di Velsen.

Germania pronta a reclutare volontari in tutti i Paesi UE. 

L’europarlamentare Borghezio, preannunciando un’interrogazione, ha denunciato che, fra gennaio e febbraio, vi sono state, ad opera di navi sospette, moltissime consegne di merce in Europa dopo che le stesse avevano fatto sosta, spegnendo accuratamente i radar, in zone controllate dall’Isis e da Al Queda e si domanda: “Se oggi l’UE non è in grado di contrastare questi traffici, che valore possiamo dare al vasto programma sulla sicurezza e la difesa europea?”

Borghezio osserva non esserci una politica estera dell’Europa degna di questo nome, che definisca chi sono gli amici e i nemici, laddove è invece chiaro che oggi la minaccia viene dal terrorismo islamico e, ultimamente, dalla Turchia che prossima nuovamente a farci invadere.

Per quanto riguarda il progetto di ‘esercito europeo’, Borghezio sottolinea che “c’è già un Paese – la Germania -, la cui Bunderswehr si appresta a reclutare volontari in tutti i Paesi europei come si legge nel nuovo Libro Bianco del Dipartimento della Difesa tedesco”. E conclude osservando: “La Germania, dunque, dopo 70 anni si appresta a guidare l’Europa anche sul piano militare…” Così, l’On. Mario Borghezio – Deputato Lega Nord al P.E.

Marine Le Pen, allora candidata del Front National francese alle presidenziali, aveva accusato l’Unione europea di “deriva autoritaria” perché sta lavorando a un “progetto oscuro” di un esercito europeo che ha l’obiettivo di “tenere a bada il popolo con le armi”.

“Oggi il ‘sistema’ cerca di venderci l’idea assurda, stupida di un esercito europeo – aveva dichiarato Le Pen parlando a 1.500 persone durante un comizio in una sala mezza vuota – “L’Europa dal punto di vista della realtà politica e umana sarà sempre una moltitudine di popoli, di stati e di interessi. Quindi mi chiedo ancora, a che serve un esercito europeo?”. E la risposta che diede la candidata del Fn fu: “Forse per mettere a tacere tutte le velleità di indipendenza degli stati e finalmente tenere a bada il popolo con le armi?”. E ancora: “Questo costituirebbe una minaccia intollerabile per le libertà fondamentali dei popoli europei”E, per l’A.N.P.I. di Smuraglia, Marine Le Pen incarnerebbe il neo-fascismo!

1076.- A SAN PIETROBURGO SI MUORE, MA PERCHE’?

14 morti e almeno 45-50 feriti.

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Paolo Becchi‏ scrive poche ore fa: “L’ attacco terroristico a San Pietroburgo ha un unico obiettivo: indebolire Putin dopo tutti i successi che ha avuto, non solo in Siria.” E’ stato trovato un secondo ordigno inesploso e, secondo la procura, “e’ terrorismo”. Son state, sì, diffuse le immagini di un sospetto: “Akbarjon Djalilov, nato nel 1995”, ma l’uomo si è presentato alla polizia, scagionandosi. L’uomo compariva in alcuni fermi immagine, che i media descrivevano come provenienti dalle telecamere di sorveglianza, e appariva di mezza età, con la barba scura, vestito di nero e con un cappello dello stesso colore. Il portavoce dei servizi di sicurezza kirghisi, Rakhat Saulaimanov ha dichiarato: “Il kamikaze nella metro di San Pietroburgo era il cittadino kirghiso Akbarjon Djalilov (…), nato nel 1995”. Nelle scorse ore, i servizi di sicurezza avevano parlato di un cittadino kazako, membro di un’organizzazione terroristica islamista messa al bando nel Paese, “un 23enne nativo dell’Asia Centrale”, che avrebbe celato l’ordigno in uno zaino” e, per i media: c’era stato un solo kamikaze e del Kazakhstan. Con il che, il Terrorismo islamico sarebbe giunto nel cuore della Russia e, per giunta, facendo 14 morti e almeno 45-50 feriti, durante la visita di Putin alla sua città natale.
Qui, noto due cose: un solo attentatore, ma due ordigni in luoghi diversi e, poi, per non escludere nulla a priori, che i Paesi Baltici e la NATO sono a soli 100 km da San Pietroburgo. Infine, il Terrorismo islamico è nato, ufficialmente, negli USA con le Twin Towers e, con il conseguente ricorso all’art. 5 del Trattato Nord Atlantico, ha generato uno stato di minaccia e di guerra e, quindi, di difesa permanente, intorno alla potenza militare egemone, che ha ricostruito quell’atmosfera di pericolo incombente venuta meno con la caduta del muro di Berlino. Non mi stupirebbe che quel terrorismo diventasse, ora, lo strumento per giustificare un riavvicinamento fra Russia e Stati Uniti, in vista della espansione cinese, inarrestabile in ogni settore. In tale eventualità, per nulla nuova alle logiche della politica, sarebbe una vera disgrazia se l’Europa non riacquistasse rapidamente la sua coesione morale e non potesse, perciò, garantire la sua partecipazione a questo auspicabile Nuovo Occidente, svolgendovi una funzione equilibratrice fra le due massime potenze, assolutamente necessaria. Ciò, a mio sommesso avviso, potrebbe avvenire soltanto troncando alla radice dei trattati l’utopica Unione mercantile ordoliberista e rifondandola intorno ai principi degli Stati sociali, sovrani. Pace ai morti di San Pietroburgo.

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Le condoglianze di Donald Trump

Il presidente americano Donald Trump ha telefonato a Putin per offrire le condoglianze alle famiglie delle vittime. A comunicare la notizia è stato il Cremlino, mentre la Casa Bianca ha inizialmente mantenuto il riserbo sul colloquio. Secondo la versione russa Trump avrebbe chiesto a Putin di manifestare il suo sostegno al popolo russo. Il leader russo ha ringraziato per la solidarieta’. I due hanno condiviso la convinzione che “il terrorismo e’ un male che deve essere combattuto congiuntamente”.     In seguito anche la Casa Bianca ha reso noto la telefonata di condoglianze di Trump a Putin.    Nel colloquio il presidente usa ha offerto “il pieno sostegno degli stati uniti nel rispondere all’attacco e nel portare davanti alla giustizia i responsabili”.    I due leader, aggiunge la Casa Bianca, “hanno concordato che il terrorismo deve essere sconfitto in modo decisivo e rapido”.    Consiglio sicurezza Onu: “Vile terrorismo”     Il consiglio di sicurezza delle nazioni unite condanna “nei termini piu’ forti l’attacco terroristico barbaro e vile” di san pietroburgo.   I membri del consiglio “hanno espresso la loro profonda solidarieta’ e cordoglio alle vittime di questo atto atroce di terrorismo; alle loro famiglie, al popolo e al governo della federazione russa – si legge in un comunicato dell’onu.  I responsabili, gli organizzatori, i finanziatori e gli sponsorizzatori di questi atti riprovevoli” devono essere portati davanti alla giustizia.

Il segretario generale della Nato Stoltenberg: profondo cordoglio Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha espresso la sua vicinanza alle persone colpite dall’esplosione nella metropolitana di San Pietroburgo. “Profondo cordoglio per le persone colpite dall’esplosione della metropolitana di #SanPietroburgo, i loro cari e il popolo russo”.

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968.-Nel mirino di Putin … o di chi?

TIRA BRUTTA ARIA

Il Libro bianco della difesa di questo 2017 ha voluto por termine a molti equivoci. Il ministro  ha dichiarato: “È un documento pensato per rendere più moderne ed efficienti le nostre Forze Armate e che per tre anni ha visto la collaborazione di esperti, think tank, università, centri studi, Parlamento e anche ONG. Un metodo totalmente nuovo rispetto al passato, che ci ha permesso di immaginare un modello di difesa e sicurezza capace di rispondere ai sempre nuovi rischi nazionali e internazionali.” Abbiamo più volte deriso la dicitura “Missioni di Pace” ed era ora di fare chiarezza; ma nella chiarezza è venuto meno qualcosa del vincolo sia morale sia giuridico che l’art. 11 della  Costituzione, dicendo “ l’Italia ripudia” e non solo rinuncia alla guerra, poneva ai governi. Insomma, il vincolo resta ma è solo giuridico. 

La partecipazione dell’Italia alle azioni militari è consentita nell’ambito della solidarietà e della giustizia internazionale, come strumento di difesa della libertà e dei diritti degli altri popoli, nel rispetto dei vincoli stabiliti nella Carta delle Nazioni Unite.

Opportunamente, l’ Articolo 11 non ha subito modifiche volte a legittimare le azioni di forza, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Anche se tali azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale, le emergenze sono risultate, a volte, strumentali al conseguimento di finalità economiche, di potere, di conquista e di offesa alla libertà dei popoli. Così, almeno, nella ex Yugoslavia, in Iraq e in Libia.

La costituzionalizzazione della possibilità di consentire alle limitazioni della sovranità, a condizioni di reciprocità ed uguaglianza con gli altri Stati, per un verso, segna la preminenza dell’interesse per la pace e la giustizia tra i popoli rispetto alla sovranità stessa, per un altro verso, legittima le limitazioni così motivate, escludendo ogni ipotesi di cessione.

Tuttavia, l’adesione a istituzioni sovranazionali che hanno per scopo un’integrazione via vai maggiore tra i popoli, porta con se l’ampliamento progressivo di queste limitazioni.. Così, attraverso una lettura deviata dell’Art. 11, si è passati dall’ingresso dell’Italia nell’Organizzazione delle Nazioni Unite al processo di integrazione europea, dove la mancanza di vigilanza della giustizia costituzionale ha condotto alla cessione della sovranità.

Personalmente, vedo implicazioni, gravissime, anzi a prima vista, direi, lesive della procedura di revisione costituzionale, scaturire dal Libro Bianco della Difesa sottoscritto il 10 febbraio dal ministro Pinotti, nei riguardi del principio pacifista recato dalla Costituzione, art. 11 in particolare. Perciò, all’allargamento del concetto di difesa della Patria, fino alla difesa di generici interessi nazionali in tutto il mondo e alla concomitante dislocazione dei nostri soldati nei Paesi baltici, alla frontiera russa, può fare eco questo bell’articolo di Matteo Zola, direttore di East Journal, dal titolo “Nel mirino di Putin”; un po’ orientato verso le tesi sostenute in ambito NATO. Matteo Zola apre dicendo: “Per l’Europa orientale, l’idea di NATO finora proposta da Trump è la peggiore notizia possibile” . Sappiamo come i paesi baltici abbiano fatto un caposaldo, tutto loro, dell’acquiescenza alla politica USA; ma la verità su quanto accade alle frontiere Nord della NATO, e anche dell’Unione europea, sta, a mio parere, in questo sottotitolo del testo: “ La NATO potrebbe rinunciare a futuri allargamenti a est, lasciando Ucraina e Georgia sotto la tutela russa, come contropartita per gli interessi americani in Medio Oriente.” Come dire, abbiamo perso in Siria e cerchiamo di rifarci, soffiando venti di guerra in Europa. 

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ADAM BERRY/GETTY

Quando nel 1862 Friedrich Reinhold Kreutzwald – umile figlio di servi della gleba – scrisse il Kalevipoeg non pensava di inventare una nazione. Egli voleva, certo, seguire le orme di MacPherson e dei suoi Canti di Ossian, dotando di un’epica la sua piccola patria baltica, l’Estonia, allora dominata dalla lingua tedesca. Ma la saga, che usava la povera lingua delle campagne, visse presto di vita propria e, benché nata dalla sola fantasia di Kreutzwald, venne unanimemente ritenuta antica, medievale testimonianza della vetustà della cultura estone, e assurta al rango di epos nazionale. Finalmente, grazie al Kalevipoeg (Il figlio di Kaleva, in italiano) anche gli estoni potevano vantare radici culturali remote e unirsi alle altre nazioni che, sulla scorta di epiche anticate, ma assai moderne, rivendicavano un proprio destino nel mondo. Il destino degli estoni venne presto messo alla prova quando, tra il 1918 e 1920, il paese dovette difendersi dalla doppia invasione tedesca e sovietica.

Il 23 giugno del 1919 l’esercito baltico sconfisse i due nemici, guadagnandosi l’indipendenza: sul campo di battaglia echeggiavano i versi del Kalevipoeg unendo così il sangue della battaglia a quello dell’eroe mitico. Da allora il 23 giugno è il Võidupüha, il giorno della Vittoria, ricorrenza che gli estoni hanno potuto tornare a festeggiare solo dal 1992, al termine della cattività sovietica. La parata cerimoniale è organizzata, come da tradizione, dalle Giovani Aquile, il corpo che raccoglie i ragazzi e le ragazze della Eesti Kaitseliit, la Lega per la Difesa estone, organizzazione paramilitare che ha il compito di difendere l’indipendenza del paese. Ogni 23 giugno i figli della patria sfilano con le bandiere in mano, fieri e impettiti nella loro divisa: non si tratta, però, di un gioco. La Eesti Kaitseliit conta più di venticinquemila volontari ben addestrati e armati dallo stato. Nel corso del 2016 il loro numero ha raggiunto i massimi storici, segnando alcune novità nell’addestramento quali l’apprendimento di tecniche di guerriglia e la costruzione di bombe fatte in casa utili a difendersi in caso di invasione da parte di un esercito regolare.

Da mesi l’Estonia vive infatti nell’incubo, e nella paranoia, di un’aggressione militare da parte russa. Gli eventi in Ucraina e l’annessione della Crimea hanno generato il panico nelle società baltiche, risvegliando antiche paure. Paure che, tuttavia, sono alimentate anche dalle recentissime notizie legate al nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, il quale ha dichiarato che la NATO, sotto la sua guida, valuterà caso per caso se soccorrere stati membri che abbiano subito un’aggressione militare. L’Estonia, anche alla luce della sintonia che sembra esserci tra Putin e Trump, teme per il proprio futuro e corre ai ripari come può. Così giovani studenti e studentesse, artigiani e maestre, impiegati e operai arruolatisi nella Eesti Kaitseliit si trovano a essere moderni “figli di Kaleva”, chiamati a salvare l’indipendenza della patria ma impegnati in una partita che, a guardarla bene, è molto più grande di loro.

Il Baltico alla prova del Trumpismo
Non solo in Estonia: in tutte le tre repubbliche baltiche si respira un clima di tensione e incertezza. La Lettonia ha più volte invocato un maggiore impegno da parte della NATO ottenendo, al summit dell’Alleanza Atlantica tenutosi a Varsavia lo scorso luglio, il dispiegamento di forze armate di diverse nazionalità a presidio dei suoi confini. A partire da quest’anno saranno dislocate nel paese forze militari canadesi, italiane, portoghesi e polacche. In Estonia saranno inviati militari britannici mentre in Lituania saranno presenti forze armate tedesche. In Polonia la presenza militare NATO sarà formata da militari statunitensi. La presenza italiana al confine russo sarà particolarmente rilevante e, dal 2018, l’Italia sarà nazione guida nel VJTF, una task force di azione ultrarapida, “punta di lancia” in grado di intervenire in cinque giorni in caso di emergenza. Saranno quindi i soldati italiani a rispondere a un’eventuale – quanto improbabile – invasione russa del Baltico. L’incremento di militari NATO nel Baltico, per quanto limitato nei numeri, rappresenta il maggiore rafforzamento militare nell’area da venticinque anni a questa parte. Non può, e non deve, essere visto solo come un fatto simbolico.

polonia-putin-1Immagine: la punta di lancia della NATO è formata da soldati provenienti da 23 paesi NATO: nella foto, soldati polacchi, estoni e slovacchi. Sean Gallup/Getty.

I timori baltici non sono infatti del tutto infondati. Secondo il capo delle forze armate lettoni, Raimonds Graube, dal 2014 le attività militari della Russia ai confini sono notevolmente aumentate. Le manovre navali russe nel mar Baltico e il passaggio – illegale e costante – di aerei militari di Mosca nei cieli lettoni, inquieta il governo di Riga che ha approvato a fine febbraio modifiche alla legge sulla sicurezza nazionale rafforzando e semplificando le procedure in caso di minaccia. Una di queste misure prevede che le istituzioni del paese non possano vietare all’esercito di combattere in caso di attacco militare in territorio nazionale. Insomma, il parlamento ha deciso di dare più poteri all’esercito, un chiaro segnale di irrequietezza.

Inoltre, la recente “legge sulla lealtà” rischia di dare il via a pericolose epurazioni di insegnanti, docenti universitari, dirigenti scolastici, che si dimostrino “sleali” verso lo stato. Approvata lo scorso 2 dicembre insieme alla legge sull’educazione, è il frutto delle psicosi della società lettone. Come scritto dalla slavista Laura Luciani: “In un paese tradizionalmente diviso su questioni di ordine storico, sul lascito dell’epoca sovietica e sul rapporto alla lingua e all’identità nazionale, una legge che prescrive la ‘lealtà’ allo stato è sintomo – più che della volontà di proteggere la sicurezza nazionale – di un approccio politico che ancora rifiuta di superare una certa diffidenza nei confronti di parte della popolazione”. Ovvero della minoranza russa del paese che rappresenta il 27% circa della demografia.

Secondo il capo delle forze armate lettoni, Raimonds Graube, dal 2014 le attività militari della Russia ai confini sono notevolmente aumentate (Vuol dire tutto e niente, ma da chi viene detto? ndr).

Una piccola parte di loro è senza cittadinanza, si tratta dei cosidetti nepilsoņi, persone che dopo l’indipendenza della Lettonia, nel 1991, non hanno superato il test linguistico necessario per diventare cittadini lettoni. Benché siano appena 400mila, i nepilsoņi sono diventati lo strumento principale della propaganda filorussa nel paese. Il partito Par Dzimto Valodu! (letteralmente, Per la lingua madre!) guidato dall’attivista russofilo Vladimirs Lindermans, si batte da anni per il riconoscimento dei diritti politici dei nepilsoņi e per l’indipendenza del Latgale, regione orientale del paese a maggioranza russa. Il partito ha goduto dell’appoggio del Cremlino per alcuni anni, fin quando la crisi ucraina e l’annessione della Crimea hanno ridotto al minimo la tolleranza nei confronti di potenziali “nemici” interni. La magistratura lettone è quindi intervenuta nel febbraio scorso dichiarando illegale il partito e imponendone lo scioglimento.

A seguito della sentenza, Vladimir Putin intervenne impegnandosi a “difendere la minoranza russa del Latgale” confermando implicitamente i timori di ingerenza russa nel paese. In particolare i sospetti che Mosca possa alimentare una sollevazione nella regione – o crearne una ad arte – al fine di intervenire militarmente, come già in Crimea, sono diventati sempre più concreti per gli osservatori locali. Le preoccupazioni sono decisamente aumentate dopo l’elezione di Donald Trump. Quel che si teme è che la NATO non reagisca a un’eventuale ingerenza russa. Intanto, l’arrivo di forze armate internazionali al confine lettone ha suscitato indignazione tra la popolazione russofona del Latgale che le percepisce come truppe di occupazione, mandate lì per controllare loro piuttosto che il confine. Il rischio maggiore, per la Lettonia e per il Baltico, è che la paura per l’invasione diventi una self-fulfilling prophecy, una profezia che si auto-avvera.

I missili a Kaliningrad
Quando Immanuel Kant diede alle stampe Per la pace perpetua, nel 1795, non poteva certo immaginare che la barbarie della Seconda guerra mondiale avrebbe trasformato la sua Königsberg in un cumulo di macerie dalle quali sarebbe sorta – in ottemperanza ai dettami del realismo sovietico – la nuova Kaliningrad, avamposto russo della guerra nucleare. L’enclave di Kaliningrad ospita infatti alcune batterie di missili nucleari Iskander-M, recentemente dislocate malgrado i trattati internazionali vietino espressamente lo spiegamento di missili nucleari entro i 500 chilometri dal confine dell’Unione Europea. I governi di Varsavia e Vilnius sono subito entrati in fibrillazione, accusando Mosca di voler aumentare la tensione sul confine orientale.

La NATO potrebbe rinunciare a futuri allargamenti a est, lasciando Ucraina e Georgia sotto la tutela russa, come contropartita per gli interessi americani in Medio Oriente.

Tuttavia quella dei missili è una partita che si gioca da anni, cominciata con lo “scudo spaziale” voluto da George W. Bush e portata avanti, seppur in tono minore, dall’amministrazione Obama. Una partita che ha visto anzitutto il dispiegamento di missili americani Patriot in Repubblica Ceca e Polonia – paesi tradizionalmente antirussi – e successivamente in Romania. Mosca rispose allora alla provocazione installando missili nucleari nel suo avamposto prussiano. La situazione si normalizzò solo nel 2010, con la firma del Trattato “New Start”, che prevedeva una riduzione delle testate nucleari e l’accantonamento del progetto di “scudo antimissile” americano. La distensione non è durata molto e la crisi ucraina ha riacceso la competizione tra Russia e Occidente. Una competizione che non giova alla pace e in molti sperano proprio nel nuovo presidente americano per trovare una soluzione alle tensioni tra Mosca e Washington.

La speranza è un fungo velenoso, diceva Bukowski, ma è sempre meglio di un fungo atomico, così non resta che fare affidamento proprio su Trump, il quale – qualora la sua amicizia con il Cremlino vada oltre le cortesie mediatiche e le premure degli hacker – potrebbe favorire il disarmo. Speranze forse mal risposte se diamo credito al recente tweet prenatalizio con cui Donald J. Trump ha gelato gli animi delle cancellerie internazionali: “Gli Stati Uniti devono espandere il proprio arsenale nucleare”. Così, in attesa che qualche ordigno ‘fine-di-mondo’ torni a scaldare il clima politico, non resta che attendere di vedere quali saranno le reali azioni del nuovo presidente il quale dovrà, giocoforza, affrontare il vero vulnus dell’Europa orientale, il conflitto ucraino.

L’Ucraina e i destini siriani
A fare le spese dell’amicizia tra Trump e Putin sarà probabilmente l’Ucraina. Il conflitto nel Donbass, regione orientale del paese, è uscito dalle pagine dei giornali ma non ha smesso di seminare morte. Gli scontri si riaccendono periodicamente, talvolta in modo circoscritto, talaltra attorno a obiettivi militari sensibili, come lo snodo ferroviario di Debaltsevo, con massicci dispiegamenti di forze. Si calcola che dall’agosto scorso la tregua sia stata interrotta ben 350 volte. A farne le spese è la popolazione civile. Gli accordi di Minsk, nella loro seconda edizione del febbraio 2015, prevedevano la cessazione delle ostilità in attesa di una riforma costituzionale che garantisse autonomia alle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, consentendo infine all’Ucraina di riprendere il controllo delle regioni contese. Tuttavia il governo di Kiev ha finora evitato qualsiasi riforma in tal senso ritenendola – non a torto – la premessa “legale” per una futura dichiarazione di indipendenza delle regioni orientali. Inoltre gli accordi di Minsk non stabilivano le sorti della Crimea, illegalmente occupata dai russi.

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Immagine: T72 filorussi in riposo a Torez, nella regione di Donetsk. Aleksey Filippov/AFP/Getty.

A fronte dell’immobilismo che regna sul fronte ucraino, la soluzione della crisi sembra passare necessariamente da Damasco. L’intervento russo a fianco di al-Assad ha fatto del conflitto in Donbass un evento secondario per le cancellerie internazionali, eppure legato ad esso. L’intreccio tra le crisi siriana e ucraina è soprattutto geopolitico: alla Russia interessa il possesso della Crimea, quale sbocco sul Mediterraneo, tanto quanto il controllo del porto di Tartus, in Siria, che al-Assad aveva messo nelle disponibilità di Mosca. A Tartus i russi progettano di costruire una base navale permanente ma già oggi i russi usano Tartus a scopi militari, benché la destinazione d’uso ufficiale sia quella di “punto di supporto tecnico”.

Tartus è un approdo fondamentale per Mosca poiché consente di aggirare lo storico ostacolo del Bosforo: dai capisaldi di Sebastopoli e Tartus dipende quella proiezione sul Mediterraneo che i russi cercano da almeno due secoli. Solo dopo che si sarà trovata una soluzione per la Siria, e alla luce dei rapporti di forza che tale soluzione produrrà, sarà possibile immaginare un esito per l’Ucraina. Ed è possibile che sul piatto della bilancia siriano ci finisca anche Kiev, quale contropartita per una pacificazione che veda l’uscita di scena di al-Assad o una federalizzazione della Siria. E di nuovo entra in scena la NATO che, sotto la guida di Donald Trump, potrebbe rinunciare a futuri allargamenti a est, lasciando Ucraina e Georgia sotto la tutela russa, avendo come contropartita una garanzia per gli interessi americani in Medio Oriente.

Nonostante le aperture nei confronti del paese, i vertici UE continuano a ripetere che “non è stata fatta alcuna promessa” in merito a una futura adesione della Moldavia all’Unione.

Tuttavia, se la situazione nel Donbass sembra destinata a trovare una soluzione, diversi sembrano essere i destini della Crimea. “Con l’annessione alla Russia, la questione della Crimea aumenta il proprio livello di intrattabilità – scrive Davide Denti, ricercatore dell’Università di Trento – passando dalla fase di stato a limitato riconoscimento (come i vicini post-sovietici di Transnistria, Abcasia, e Ossezia del Sud) alla fase di espansione territoriale di uno stato tramite uso o minaccia illegale della forza ed occupazione militare, come nel caso del Sahara Occidentale occupato dal Marocco, dei territori palestinesi occupati da Israele, o di Cipro Nord occupato dalla Turchia. Questo sviluppo è contrario ai più fondamentali principi del diritto internazionale (ius cogens, o norme perentorie/imperative), e pertanto tutti gli altri stati ONU sono legalmente obbligati a non riconoscerne gli effetti giuridici”. Nel migliore dei casi la Crimea resterà russa de facto ma rappresenterà sempre un oggetto di contesa, un casus belli per futuri conflitti, con il rischio di trasformarsi nel lungo periodo in una spina nel fianco di Mosca. L’avvento di Trump, che ha definito l’ONU un “club dove si fanno solo chiacchiere”, potrebbe aprire una fase di minore attenzione alla legalità internazionale, favorendo gli interessi russi sulla Crimea e congelando la situazione; tuttavia, Trump non sarà presidente a vita, né potrà comportarsi da padrone del mondo. La questione della Crimea è solo rimandata.

La Moldavia contesa
Nel 1987 un pasciuto signore, mentre sedeva assopito alla sua scrivania, con una bottiglia di vodka nel cassetto, si vide recapitare una missiva con il timbro della direzione centrale dell’Elektromaš, azienda energetica dell’Unione Sovietica. È una promozione, ma anche un trasferimento dalla centrale idroelettrica di Nova Kachovka, in Ucraina, dove ricopriva il ruolo di assistente direttore, a Tiraspol, in Moldavia, con il compito di dirigere la sezione locale del gruppo Elektromaš. Così, l’ingegnere Igor Nikolaevich Smirnov, fa di nuovo le valigie. Lui, che proveniva da Petropavlovsk-Kamčatskij, remota città all’estremo oriente della Russia, fondata da Bering due secoli prima, ne aveva fatta di strada: figlio di un “nemico del popolo”, trascorse un’infanzia difficile che solo la morte di Stalin rasserenò, reintegrando la famiglia nella collettività sovietica. Diplomatosi all’istituto meccanico, fece carriera all’Elektromaš guadagnandosi l’appellativo di “sceriffo” per il suo fare rude.

Giunto a Tiraspol entrò a far parte della nomenclatura locale, tutta di origine russa. La Moldavia è infatti un paese di lingua romena che, nel periodo sovietico, fu oggetto di una lenta e costante russificazione. I quadri locali del partito erano tutti russi, come russa era la classe dirigente. Tiraspol, città industriale, era una città quasi totalmente russa, con una massiccia presenza di ucraini. Il pasciuto e rude sceriffo Smirnov si trovò a essere presto un feudatario di provincia, e in soli due anni divenne presidente del soviet cittadino. Da quella posizione, nel 1991, proclamò l’indipendenza della regione al di là del Dniestr (Transnistria, appunto). Ne scaturì una guerra con la Moldavia, che nel frattempo si era dichiarata indipendente dall’URSS. Lo scontro fu impari: il 14° battaglione dell’Armata Rossa, che nella città di Tiraspol controllava il più grosso arsenale d’armi del continente, si schierò a difesa degli indipendentisti transnistriani ed ebbe vita facile contro l’inesperto esercito moldavo.

Le ragioni dello scontro furono principalmente etniche. Il processo di unificazione ed identificazione nazionale della Moldavia passa storicamente attraverso un’omologazione culturale e linguistica imposta dalle élites russe. L’idioma moldavo fu letteralmente inventato nel 1924, quando, in seguito all’occupazione dei territori della Bessarabia da parte dei sovietici, venne imposto l’uso dei caratteri cirillici in sostituzione di quelli latini, per sottolinearne le differenze con il romeno, ed enfatizzare l’influsso letterario e linguistico russo. In realtà non esiste differenza tra romeno e moldavo, se non un diverso segno grafico, una forte influenza della lingua russa maturata durante un periodo d’occupazione che si è protratto per quasi 70 anni, e un’ossessione ideologica imposta a rimarcare la superiorità sulla cultura romena.

Tuttavia la Moldavia è stata, insieme alla Valacchia, il nucleo originario della nazione romena e questo spiega da un lato la vicinanza (se non identità) culturale con la Romania e, dall’altro, il forte tentativo di russificare la regione durante il regime comunista. L’identità romena della Moldavia è sopravvissuta durante il regime sovietico e verso la fine degli anni Ottanta il governo della Repubblica Socialista Sovietica Moldava, sempre più libero dal giogo di Mosca, decise di dare un taglio al passato e ripristinare l’utilizzo dei caratteri latini. Fu il segno che qualcosa stava cambiando e che i russi, minoranza nel paese ma da sempre al potere, stavano perdendo la presa sul paese. Fu allora che un gruppo di industriali di origine russa, capeggiati proprio da Igor Smirnov, decise di scendere in piazza e proclamare lo sciopero generale e l’indipendenza della regione.

Da allora la Transnistria è lì, riconosciuta solo da Mosca, con le truppe russe a garantirne la sovranità e la falce e martello sulla bandiera. Lungo le rive del fiume Nistro corre oggi una frontiera che separa due mondi e due epoche. Da un lato la Moldavia, che guarda all’Unione Europea e cerca di avvicinarsi, persino di annettersi, alla Romania; dall’altro la Transnistria, con le sue kommunalki scalcinate, le vecchie automobili Dacia ammaccate dal tempo, le bandiere rosse alle fermate degli autobus. La frontiera è garantita da una buffer zone di 50 chilometri ma ogni tanto qualche sparatoria riaccende gli animi. Inevitabilmente, le politiche a stelle e strisce nei confronti dell’Ucraina avranno ricadute significative anche qui.

Interessata dalla nuova competizione tra Mosca e Washington è tutta la fascia che un tempo separava mondo sovietico ed Europa, dove i conflitti latenti e le questioni irrisolte (se qualcuno vuole.ndr) possono facilmente diventare strumenti di disordine e instabilità.

Oggi la Moldavia si trova stretta tra due poli di attrazione, Russia e UE, mostrando tuttavia una tiepida preferenza verso l’integrazione europea che l’ha portata a siglare, nel 2014, un Accordo di associazione con Bruxelles dal quale sperava di risanare almeno in parte la propria disastrata economia. L’avvicinamento moldavo all’Unione Europea ha subito allarmato Mosca, i cui malumori nei confronti dell’Accordo di associazione e di libero scambio non hanno tardato a farsi sentire. La stipula dell’accordo, infatti, è stata interpretata dal Cremlino come un tentativo dell’UE di aggiudicarsi l’esclusiva sulla Moldavia, rivelando ancora una volta il forte interesse russo nel mantenere il controllo dello spazio post-sovietico. La pessima gestione dei partiti liberali al governo, di marca filo-europea, unitamente alle ruberie e agli scandali giudiziari della classe politica, hanno spinto l’elettorato verso “uomini nuovi” strettamente legati al Cremlino, come Igor Dodon, fresco Presidente della Repubblica, la cui immagine mentre stringe la mano a Vladimir Putin ha campeggiato grandiosamente su tutti i manifesti elettorali mostrando chiaramente quali fossero i destini del paese in caso di una sua vittoria. Una volta eletto, Dodon ha promesso di stracciare l’Accordo di associazione con l’UE e risolvere l’annoso problema della Transnistria. Commentando la vittoria di Trump, il presidente Dodon ha dichiarato che “finalmente gli americani hanno messo fine all’imperialismo liberale” e che “una nuova stagione di rapporti con la Russia deve aprirsi”.

Preda di una grave crisi economica, la Moldavia è un paese conteso tra Occidente e Russia, in cui la società è divisa tra il progetto europeo e quello euroasiatico. I destini europei della Moldavia potrebbero essere messi fortemente in discussione qualora l’amministrazione americana targata Trump decidesse di ritirarsi dall’Europa orientale. L’Unione Europea, da sola, non sembra possedere adeguati strumenti di persuasione nei confronti dell’opinione pubblica moldava, e l’immagine appannata di Bruxelles non attrae più come un tempo. Anche da parte europea c’è freddezza e il cammino della Moldavia verso l’UE resta una prospettiva lontana. Nonostante le aperture nei confronti del paese, i vertici UE continuano a ripetere che “non è stata fatta alcuna promessa” in merito a una futura adesione della Moldavia all’Unione. La cautela europea è d’obbligo, visti i passi falsi compiuti in Ucraina, ma è anche il segno dell’incertezza che l’avvento di Trump ha diffuso nel vecchio continente.

Georgia, la tensione corre sul filo
Un enorme cartellone accoglie chi entra a Tbilisi dalla Kakheti Highway, arteria d’asfalto che collega il centro città all’aeroporto. Moderni soldati armati fino ai denti campeggiano sul manifesto, alle loro spalle sventolano la bandiera georgiana e quella della NATO. A pochi chilometri si trova infatti la base militare di Vaziani dove, dal 2008, truppe americane addestrano i malandati militari georgiani. La collaborazione militare tra Stati Uniti e Georgia si è intensificata a seguito della guerra osseto-georgiana del 2008, durante la quale l’esercito georgiano crollò sotto i poderosi colpi delle truppe russe che, in soli cinque giorni, arrivarono alla porte di Tbilisi. Dal 2014, a seguito degli accordi presi al vertice NATO tenutosi in Galles nello stesso anno, le truppe NATO hanno sostituito quelle americane allo scopo di compiere esercitazioni militari congiunte nell’area caucasica.

Durante lo stesso summit venne anche firmata un’intesa con l’Ucraina, dimostrando ancora una volta quanto lo scacchiere dell’Europa orientale sia importante per l’Alleanza Atlantica. Georgia e Ucraina hanno condiviso gran parte delle vicende politiche degli ultimi anni: entrambi i paesi sono stati teatro di una rivoluzione colorata, entrambi i paesi hanno cercato di uscire dalla sfera di Mosca ed entrambi i paesi sono stati invasi da truppe russe. Infine, sia Tbilisi che Kiev, hanno siglato un Accordo di associazione con l’UE, creando un’area di libero scambio con l’Europa. Come nel caso moldavo e ucraino, anche la Georgia si trova amputata di una parte del proprio territorio: l’Abcasia e l’Ossezia del Sud sono repubbliche indipendenti de facto, controllate dal Cremlino, che le usa come strumento per destabilizzare lo stato georgiano.

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I preparativi per l’arrivo del senatore John McCain al Centro di addestramento e valutazione NATO-Georgia a Krtsanisi, poco lontano da Tbilisi. Vano Shlamov/AFP/Getty.

In particolare il confine con l’Ossezia del Sud è oggetto di continue provocazioni da parte russa: spostando nottetempo la frontiera, le forze russo-ossete inglobano lentamente ma inesorabilmente case, pascoli, persino interi villaggi. Una provocazione cui l’esercito georgiano non può rispondere, consapevole che sarebbe la miccia per una nuova escalation militare. Durante la guerra del 2008, la Georgia ha capito di non poter contare sull’aiuto di Washington in caso di conflitto, ed è probabile che con l’avvento dell’amministrazione Trump si troverà a doversela cavare da sola. La politica di allargamento della NATO verso il Caucaso era stata infatti portata avanti da Hillary Clinton nel suo ruolo di Segretario di Stato, in un disegno politico e diplomatico che sembra essere all’opposto di quello prefigurato da Trump.

Lo scontro per la Casa Bianca tra Donald Trump e Hillary Clinton è stato vissuto, nell’Europa orientale, come un passaggio epocale, un appuntamento con il destino. Un destino cinico e baro che – con la vittoria di Trump – obbliga gran parte della regione a rivedere la propria politica estera e le proprie priorità. Tuttavia, l’eventuale ritiro degli Stati Uniti e della NATO dall’Europa orientale potrebbe dare la stura ai mai sopiti nazionalismi, favoriti dalle retoriche dell’accerchiamento e della difesa della patria, creando le premesse per nuove tensioni politiche e militari nella regione con l’effetto collaterale di complicare ulteriormente la vita all’Unione Europea, che già fatica a contenere i revanscismi polacco e ungherese.

Un ribollire di inquietudini
A essere interessata dalla nuova competizione tra Mosca e Washington è tutta la fascia che un tempo separava mondo sovietico ed Europa, dove i conflitti latenti e le questioni irrisolte possono facilmente diventare strumenti di disordine e instabilità.

Dal Baltico al mar Nero è un ribollire di inquietudini, uno sbuffare di pressioni, un vociare querulo e isterico che si agita sotto una calma del tutto apparente. Le vecchie fratture sociali, le irrisolte disuguaglianze economiche, le eredità del periodo sovietico, le memorie della russificazione, i separatismi latenti, i riscoperti epos nazionali, sono tutti elementi pirici – solitamente inerti – ma esplosivi se agitati da fattori esterni. La tensione crescente trova riscontro anche nell’acquisto di armi che, dal 2014 ad oggi, ha segnato nell’Europa orientale un incremento di spesa pari a 12 milioni di dollari, a fronte di una contenimento nell’Europa occidentale (SIPRI). Non abbastanza per parlare di corsa agli armamenti ma sufficiente a testimoniare il clima di inquietudine della regione.

Questo è lo scenario su cui si affaccia la nuova amministrazione americana made in Trump. L’augurio è che trionfino lucidità e realismo politico, e che gli allarmismi che si sono accompagnati all’elezione del nuovo presidente americano si dimostrino infondati. Gli Stati Uniti hanno dimostrato, specialmente dal dopoguerra in poi, una forte continuità in politica estera ed è lecito attendersi che, malgrado i proclami, l’amministrazione Trump prosegua sulla linea tracciata. Una linea che può anche passare da una distensione con Mosca ma che difficilmente accetterebbe arretramenti sui fronti aperti. L’avvento di Trump rappresenta forse la più grande incognita politica degli ultimi venticinque anni, ovvero dalla caduta del Muro, e non solo per l’Europa orientale. Prima di scandire il penitenziagite bisognerà dare il tempo al nuovo presidente di mostrare le sue vere intenzioni. Certo l’Europa orientale ha bisogno di stabilità, e una distensione con Mosca non potrà che giovare: l’importante è che la sovranità politica e l’indipendenza dei piccoli paesi di confine non venga sacrificata sull’altare di una spartizione del mondo mascherata da pacificazione.

Matteo Zola, direttore responsabile di East Journal

942.- MOGHERINI E TUSK TRACOTANTI CONTRO TRUMP. PERCHE’, SE LO POSSONO PERMETTERE?

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Soddisfatto per le decisioni prese nel vertice UE: Il primo ministro polacco Donald Tusk segue il belga Herman van Rompuy (al centro) già presidente del Consiglio dell’UE, detto mister Euro e il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini. Mogherini è responsabile della politica estera dell’Unione europea.

C’è qualcosa di intollerabile, oltre che inquietante e comico, nelle dichiarazioni tracotanti “di guerra” a Trump da parte dei nostri burattini “europei” che nessuno ha eletto. Dichiarazioni di guerra vera e propria fatte a nostro nome. La Mogherini ha convocato il parlamento europeo per dichiarare: “L’Europa ha il dovere di essere chiara in caso di disaccordo soprattutto se questo riguarda i nostri valori fondamentali. E certamente siamo in disaccordo con l’ordine esecutivo emanato dal presidente degli Stati Uniti il 27 gennaio. Anche molti in America sembrano non essere d’accordo”.

Donald Tusk, il polacco presidente del Consiglio europeo che sta per lasciare il posto a un maltese, ha proclamato da Tallin che “gli Stati Uniti sotto la presidenza Trump” sono “una minaccia esterna all’Unione Europea come Cina, Russia, terrorismo islamico”.

 

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Donald Tusk attuale Presidente del Consiglio europeo. È stato primo ministro della Polonia dal 2007 .

Dopo un ventennio di complicità con tutti i delitti dell’amministrazione Bush jr. e Obama, gli eurocrati si ergono a nemici del terzo presidente appena insediato. Gente non eletta gli dà lezioni, sporgendo il petto, in nome “dei nostri valori”. E’ abbastanza chiaro che delirano per la paura di perdere il loro potere e l’ordine oligarchico in cui si sono accomodati: Tusk ha incolpato noi, i sudditi europei, “tanti stanno diventando apertamente anti-europei o euroscettici”, cosa che ha imputato ai dubbi crescenti, in questi sudditi ingrati, “sui valori fondamentali della democrazia liberale” (il non-eletto da nessuno chiama democrazia liberale l’oligarchia burocratica che ci opprime).

E poiché “la nuova amministrazione è sul punto di mettere in discussione 70 anni di politica estera americana” (ossia di volonterosa soggezione europea), Donald Tusk ci avverte, noi sudditi “egoisti”, che “la disintegrazione dell’Unione Europea non porterà alla restaurazione della mitica sovranità degli stati membri, ma alla loro dipendenza concreta da Stati Uniti, Russia, Cina. Solo insieme possiamo essere indipendenti”. Sì, è proprio paura folle, sragionano. Hanno paura che Trump diventi il liberatore di noi europei.

Ridicolo ma anche arrogante in modo insopportabile Francois Hollande – che nessuno voterà mai più – il quale ha voluto lasciare agli atti che “l’amministrazione Trump è una sfida per l’Europa” – naturalmente uscendo da un colloquio con la Merkel. Comico e tracotante il ministro degli esteri Steinmeier: “Con l’elezione di Donald Trump il mondo del ventesimo secolo è finito per sempre”. Il capo della CSU bavarese, Seehofer: “Non sono d’accordo con nessuna delle decisioni di Trump”. Nessuna. Un inedito coro ha interrotto l’atmosfera formale della riunione dei ministri degli Esteri Nato in Turchia, ad Antalya. Dopo la cena alla fine del meeting, in cui si è parlato di Ucraina e Isis, l’orchestra ha proposto ai ministri Nato di cantare una canzone per la pace. I ministri non si sono tirati indietro e sono saliti sul palco intonando “We are the world”, la canzone della pace per eccellenza, del gruppo “USA for Africa”, di cui facevano parte nomi come Michael Jackson, Bruce Springsteen e Tina Turner. Ad esibirsi sul palco, il ministro turco Mevlut Cavusoglu, quello greco Nikos Kotzias e il capo della diplomazia europea Federica Mogherini. È delirio, certo.

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Alla cena Nato i ministri degli Esteri cantano “We are the World”. 

Questa è gente che nel maggio 2015, al vertice della NATO in Turchia, cantava in coro, come ubriaca di potere”, “We are the World”, noi siamo il mondo. Questi ridicoli parlano a nome di un’Europa punteggiata di centinaia di basi Usa (contro cui non hanno mai obiettato), e d’improvviso minacciano, fanno la voce grossa, si ribellano in nome dei “valori”, dichiarano l’America “una minaccia”. Siccome sono dei vili, questa improbabile e improvvisa manifestazione di coraggio deve avere qualche motivo. Si vede che credono di potersi permettere l’insubordinazione. Puntano su un ritorno rapido allo status quo, per qualche motivo?

Herman van Rompuy,  detto mister Euro, chi è?
Il 19 novembre 2009 Van Rompuy fu scelto all’unanimità dal Consiglio europeo per essere il primo presidente permanente del Consiglio europeo. Entrò in carica il 1 ° dicembre 2009 (entrata in vigore del Trattato di Lisbona) per un mandato di 2 anni e mezzo. Nel marzo 2012 il Consiglio europeo ha scelto di confermare Van Rompuy per un secondo mandato di 2 anni e mezzo.
L’alternativa più quotata per la posizione era l’ex primo ministro britannico Tony Blair. Con la scelta di Van Rompuy, i capi di stato e di governo dell’Unione europea privilegiarono una personalità di minore profilo internazionale, ma nota per le sue capacità di mediazione. Van Rompuy è stato infatti elogiato per le sue qualità di negoziatore e definito l’orologiaio dei compromessi impossibili. Descrisse il suo ruolo di presidente di un organo composto da 27 capi di Stato e di governo (e il compito di trovare un consenso tra loro) come quello “né di uno spettatore, né di un dittatore, ma di un facilitatore”, e dichiarò:
« Ogni paese dovrebbe uscire vittorioso dai negoziati. Un negoziato, che si concludesse con la sconfitta di una delle parti non è mai una buona trattativa. Prenderò in considerazione gli interessi e le sensibilità di tutti. Se la nostra unità rimane la nostra forza, la nostra diversità rimane la nostra ricchezza »
La stampa turca criticò la nomina di Van Rompuy, poiché egli in passato aveva assunto una posizione contraria all’adesione della Turchia all’Unione europea.
Poco prima o durante i primi mesi della sua presidenza Van Rompuy ha visitato tutti gli Stati membri dell’UE. L’11 febbraio 2010 Van Rompuy organizzò una riunione informale dei capi di stato e di governo dell’UE alla Biblioteca Solvay di Bruxelles, per discutere la direzione futura della politica economica della UE, il risultato della conferenza di Copenaghen e l’allora recente sisma di Haiti.
Di fatto, l’incontro fu incentrato sulla crescente crisi del debito sovrano (a quel tempo, della Grecia), che sarebbe diventato il marchio saliente del primo anno di Van Rompuy come presidente. Con gli stati membri che hanno assunto posizioni divergenti su questo tema, Van Rompuy ha dovuto trovare compromessi, non ultimo tra la Francia e la Germania, in successive riunioni del Consiglio europeo e dei vertici dei capi di Stato e di governo della zona euro, che hanno portato alla definizione dell’European Financial Stability Mechanism triennale e del Fondo europeo per la stabilità finanziaria nel maggio 2010 al fine di fornire prestiti a Grecia (e più tardi Irlanda) per contribuire a stabilizzare i costi dei prestiti, ma soggetti a condizioni rigorose.
Il Consiglio europeo gli ha inoltre affidato il compito di presiedere una Task Force sulla governance economica, composto di rappresentanti personali (per lo più ministri delle finanze) dei capi di governo, che ha terminato i lavori a ottobre 2010. La sua relazione, che ha proposto un maggiore coordinamento macro-economico all’interno dell’UE in generale e della zona euro in particolare, oltre ad un irrigidimento del patto di stabilità e di crescita, è stata approvata dal Consiglio europeo. Quest’ultimo l’ha anche incaricato di preparare, entro dicembre 2010, una proposta di limitata modifica ai trattati necessaria per consentire la stabilità del meccanismo di stabilità finanziaria. Il suo primo anno è stato segnato anche dal ruolo di coordinamento delle posizioni europee sulla scena mondiale in occasione dei vertici del G8 e del G20 e vertici bilaterali, come il teso Vertice UE-Cina del 5 ottobre 2010.
Il suo progetto – per un’aggiunta all’articolo 136 del TFUE, che modifica l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri dell’Eurozona – è stato approvato dal Consiglio europeo nella riunione di dicembre 2010. Per meglio comprendere l’antidemocraticità dell’Unione, leggiamo il testo della decisione.

DECISIONE DEL CONSIGLIO EUROPEO

del 25 marzo 2011

che modifica l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro

(2011/199/UE)

IL CONSIGLIO EUROPEO,
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo 48, paragrafo 6,
visto il progetto di modifica dell’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sottoposto al Consiglio europeo dal governo belga il 16 dicembre 2010,
visto il parere del Parlamento europeo (1),
visto il parere della Commissione europea (2),
previo parere della Banca centrale europea (3),
considerando quanto segue:
(1)
L’articolo 48, paragrafo 6, del trattato sull’Unione europea (TUE) consente al Consiglio europeo, che delibera all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, della Commissione e, in taluni casi, della Banca centrale europea, di adottare una decisione che modifica in tutto o in parte le disposizioni della parte terza del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Tale decisione non può estendere le competenze attribuite all’Unione nei trattati e la sua entrata in vigore è subordinata alla previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
(2)
Nella riunione del Consiglio europeo del 28 e 29 ottobre 2010, i capi di Stato o di governo hanno convenuto sulla necessità che gli Stati membri istituiscano un meccanismo permanente di gestione delle crisi per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo insieme e hanno invitato il presidente del Consiglio europeo ad avviare consultazioni con i membri del Consiglio europeo su una modifica limitata del trattato necessaria a tal fine.
(3)
Il 16 dicembre 2010 il governo belga ha presentato, in conformità dell’articolo 48, paragrafo 6, primo comma, TUE, un progetto di modifica dell’articolo 136 TFUE consistente nell’aggiunta di un paragrafo ai sensi del quale gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme e che stabilisce che la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità. Al tempo stesso, il Consiglio europeo ha adottato conclusioni sul futuro meccanismo di stabilità (punti da 1 a 4).
(4)
Il meccanismo di stabilità costituirà lo strumento necessario per affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera zona euro come quelle verificatesi nel 2010 e contribuirà dunque a preservare la stabilità economica e finanziaria dell’Unione stessa. Nella riunione del 16 e 17 dicembre 2010, il Consiglio europeo ha convenuto che, poiché detto meccanismo è destinato a salvaguardare la stabilità finanziaria dell’intera zona euro, l’articolo 122, paragrafo 2, TFUE ( riguardo all’aiuto garantito dal bilancio dell’Unione per un ammontare massimo di 60 miliardi di EUR. ndr) non sarà più necessario a tale scopo. I capi di Stato o di governo hanno pertanto convenuto che non debba essere usato per tali fini.
(5)
Il 16 dicembre 2010 il Consiglio europeo ha deciso di consultare il Parlamento europeo e la Commissione in merito al progetto, in conformità dell’articolo 48, paragrafo 6, secondo comma, TUE (vedi nota in calce. ndr). Ha altresì deciso di consultare la Banca centrale europea. Il Parlamento europeo (1), la Commissione (2) e la Banca centrale europea (3), rispettivamente, hanno adottato pareri sul progetto.
(6)
La modifica riguarda una disposizione contenuta nella parte terza del TFUE e non estende le competenze attribuite all’Unione nei trattati,
HA ADOTTATO LA PRESENTE DECISIONE:
Articolo 1

All’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è aggiunto il paragrafo seguente:
«3. Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità.»
Articolo 2

Gli Stati membri notificano senza indugio al segretario generale del Consiglio l’espletamento delle procedure richieste dalle rispettive norme costituzionali per l’approvazione della presente decisione.
La presente decisione entra in vigore il 1o gennaio 2013, a condizione che tutte le notifiche di cui al primo comma siano pervenute o, altrimenti, il primo giorno del mese successivo al ricevimento dell’ultima delle notifiche di cui al primo comma.
Articolo 3

La presente decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
Fatto a Bruxelles, il 25 marzo 2011.
Per il Consiglio europeo
Il presidente
H. VAN ROMPUY
(1) Parere del 23 marzo 2011 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale).
(2) Parere del 15 febbraio 2011 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale).
(3) Parere del 17 marzo 2011 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale).

Critiche
Nel febbraio 2011 Van Rompuy venne criticato da quasi tutti i gruppi politici al Parlamento europeo per il suo atteggiamento nei confronti dei governi tedesco e francese, ritenuto troppo debole e accondiscendente e incapace di assicurare un approccio comunitario e trasparente alle questioni di interesse comune.

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Violazione dei trattati UE per l’istituzione del MES

Per istituire il meccanismo europeo di stabilità che poi oltre ad essere un meccanismo si è rivelato essere un Fondo, ergo, un istituto vero e proprio, le istituzioni europee hanno violato gli stessi trattati europei, modificando un articolo, l’articolo 136 del TFUE, con procedura di consultazione semplice, e non con la procedura richiesta per i casi di modifica dei trattati, ossia l’organizzazione di una conferenza intergovernativa.

Questo perché l’articolo 48, comma 6 del TUE prevede la possibilità di modificare le disposizioni della terza parte del Trattato sul funzionamento dell’UE con la procedura semplificata unicamente se ciò non estende le competenze attribuite all’Unione, e solo se la decisione di modifica delle disposizioni è approvata dagli Stati membri secondo le loro rispettive norme costituzionali.

La questione è a tal punto delicata che sono state sollevate delle questioni pregiudiziali nel merito, prima contro alla Corte europea di giustizia, nell’ambito di un appello di una deputata irlandese contro il governo irlandese per l’approvazione della modifica dell’articolo 136 del TFUE. La sentenza della Corte europea di giustizia del 27 novembre 2012 è naturalmente scontata (cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A62012CJ0370 ).

Ecco il testo della decisione del Consiglio europeo che modifica l’articolo 136 del TFUE.

6.4.2011  IT

Gazzetta ufficiale dell’Unione europea

L 91/1

DECISIONE DEL CONSIGLIO EUROPEO

del 25 marzo 2011

che modifica l’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro

(2011/199/UE)

IL CONSIGLIO EUROPEO,

visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo 48, paragrafo 6,

visto il progetto di modifica dell’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sottoposto al Consiglio europeo dal governo belga il 16 dicembre 2010,

visto il parere del Parlamento europeo (1),

visto il parere della Commissione europea (2),

previo parere della Banca centrale europea (3),

considerando quanto segue:

(1)

L’articolo 48, paragrafo 6, del trattato sull’Unione europea (TUE) consente al Consiglio europeo, che delibera all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo, della Commissione e, in taluni casi, della Banca centrale europea, di adottare una decisione che modifica in tutto o in parte le disposizioni della parte terza del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Tale decisione non può estendere le competenze attribuite all’Unione nei trattati e la sua entrata in vigore è subordinata alla previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali.

(2)

Nella riunione del Consiglio europeo del 28 e 29 ottobre 2010, i capi di Stato o di governo hanno convenuto sulla necessità che gli Stati membri istituiscano un meccanismo permanente di gestione delle crisi per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo insieme e hanno invitato il presidente del Consiglio europeo ad avviare consultazioni con i membri del Consiglio europeo su una modifica limitata del trattato necessaria a tal fine.

(3)

Il 16 dicembre 2010 il governo belga ha presentato, in conformità dell’articolo 48, paragrafo 6, primo comma, TUE, un progetto di modifica dell’articolo 136 TFUE consistente nell’aggiunta di un paragrafo ai sensi del quale gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme e che stabilisce che la concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità. Al tempo stesso, il Consiglio europeo ha adottato conclusioni sul futuro meccanismo di stabilità (punti da 1 a 4).

(4)

Il meccanismo di stabilità costituirà lo strumento necessario per affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera zona euro come quelle verificatesi nel 2010 e contribuirà dunque a preservare la stabilità economica e finanziaria dell’Unione stessa. Nella riunione del 16 e 17 dicembre 2010, il Consiglio europeo ha convenuto che, poiché detto meccanismo è destinato a salvaguardare la stabilità finanziaria dell’intera zona euro, l’articolo 122, paragrafo 2, TFUE non sarà più necessario a tale scopo. I capi di Stato o di governo hanno pertanto convenuto che non debba essere usato per tali fini.

(5)

Il 16 dicembre 2010 il Consiglio europeo ha deciso di consultare il Parlamento europeo e la Commissione in merito al progetto, in conformità dell’articolo 48, paragrafo 6, secondo comma, TUE. Ha altresì deciso di consultare la Banca centrale europea. Il Parlamento europeo (1), la Commissione (2) e la Banca centrale europea (3), rispettivamente, hanno adottato pareri sul progetto.

(6)

La modifica riguarda una disposizione contenuta nella parte terza del TFUE e non estende le competenze attribuite all’Unione nei trattati,

HA ADOTTATO LA PRESENTE DECISIONE:

Articolo 1

All’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è aggiunto il paragrafo seguente:

«3. Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità.»

Articolo 2

Gli Stati membri notificano senza indugio al segretario generale del Consiglio l’espletamento delle procedure richieste dalle rispettive norme costituzionali per l’approvazione della presente decisione.

La presente decisione entra in vigore il 1o gennaio 2013, a condizione che tutte le notifiche di cui al primo comma siano pervenute o, altrimenti, il primo giorno del mese successivo al ricevimento dell’ultima delle notifiche di cui al primo comma.

Articolo 3

La presente decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

Fatto a Bruxelles, il 25 marzo 2011.

Per il Consiglio europeo

Il presidente

H. VAN ROMPUY

(1) Parere del 23 marzo 2011 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale).

(2) Parere del 15 febbraio 2011 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale).

 

 

940.- La visita di Putin in Ungheria: ci sarà un fronte anti-Soros?

 

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Gli schieramenti internazionali cui l’opinione pubblica è stata abituata a fare riferimento sono una copertura dei centri di potere finanziari che gestiscono la vita dei popoli. Il fallimento della globalizzazione sta a dimostrare che la politica non è cosa che possa sottostare alla finanza. Questa è rimane uno strumento e tutte le volte che ha tentato di dettare le linee guide alla politica, ha fallito. La discesa in campo della Russia in Siria e l’elezione di Donald Trump hanno rappresentato il segnale che stiamo andando incontro a una nuova epoca, che vedrà ridisegnarsi gli equilibri dei poteri mondiali. Guardandoci, vediamo che sia l’Unione europea sia l’Italia e sia gli assetti finanziari imposti all’Africa francofona con il CFA e all’Europa con l’euro non sono politicamente adeguati a questi scenari. L’Europa sarà russocentrica e l’Italia, senza uno statista, potrà solo sperare di soggiacere al dollaro. La Russia di Putin e la politica di Trump dovranno prenderci a rimorchio; ma c’è un interrogativo che preme su di noi e per il quale, al momento, non trovo risposte: l’Africa e, segnatamente, la Libia e l’Africa sub-sahariana, con la sua emigrazione indotta e voluta dai finanzieri sconfitti, ma non abbastanza. Nell’Africa e nell’Artico è in corso la competizione per l’accaparramento delle materie prime fra l’Occidente e la Cina. Guardando a questi scenari, non possiamo non ripensare agli assassini di Lumumba, Gheddafi e di Saddam e alle politiche di sviluppo del continente africano di questi statisti, spazzati via dalla logica dei finanzieri e delle multinazionali. Saranno dei Soros le scelte vincenti? Dal Sito Aurora, leggiamo le note di  Ruslan Ostashko, nella traduzione di Alessandro Lattanzio.

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La visita di Vladimir Putin a Budapest smuove media europei e ucraini. Prima di tutto, ognuno è offeso dal fatto che il presidente russo sia tranquillamente sbarcato in un Paese appartenente a UE e NATO, trovando comprensione e supporto completi. In secondo luogo, la Russia potrebbe offrire ai Paesi dell’UE condizioni per una cooperazione molto vantaggiose che potrebbero superare tutti i discorsi sulla solidarietà europea contro la Russia. Come sempre, viene improvvisamente riscoperto che le ricchezze dovute alla collaborazione con la Russia trionfano sul male. Inoltre, il Primo ministro ungherese Viktor Orban sabota la “giovane democrazia ucraina” affermando che il transito del gas dall’Ucraina non è affidabile, e che l’Ungheria supporta la diversificazione delle fonti. Tradotto dal linguaggio diplomatico ungherese, semplicemente suona così: “Ucraina e Naftogaz sono fuori, sosteniamo Nord Stream 2 attraverso cui Putin ha promesso di fornirci il gas”. Ora l’Ucraina ha la sfortuna di perdere ancora un altro Paese europeo a sostegno di Nord stream 2. In questo contesto, la risoluzione presentata alla Verkhovna Rada per ridurre i diritti delle minoranze russa e ungherese in Ucraina sembra di grande attualità. Farà ulteriormente infuriare Budapest, che per tradizione protegge ferocemente i diritti delle minoranze ungheresi negli altri Paesi. Qui è necessario dire qualcosa sul premier ungherese il cui comportamento ha così sconvolto i media europei e ucraini, per non parlare di Angela Merkel. Viktor Orban è un “Poroshenko al contrario”. Per esempio, invece di servire Fondo monetario internazionale, Commissione europea, Hillary Clinton e George Soros, li ha sempre affrontati in modo aspro uscendone sempre vincitore. Il primo ministro ungherese non è Che Guevara, e conosce perfettamente i limiti, ma ha comunque semplicemente scacciato la delegazione del FMI da Budapest e chiuso le fondazioni di Soros, nonostante l’Ungheria sia sempre stata considerata fondamentalmente proprietà di tale miliardario statunitense. Fu anche sempre ai ferri corti con Hillary Clinton per divergenze ideologiche, e non esitò ad ignorare la Commissione europea quando avanzava pretese dall’Ungheria, che sempre l’ignorava al massimo quando si trattava di assegnare fondi europei per il Paese. Nonostante il comportamento chiassoso e i diversi tentativi di organizzare rivoluzioni colorate in Ungheria, Orban è da molti anni al potere, e l’Ungheria rimane nell’UE; esempio di come proteggere correttamente gli interessi nazionali. Forse il successo degli ungheresi è legato al fatto che l’Ungheria ha un’élite nazionalista e non un’oligarchia cleptocratica come l’Ucraina. Purtroppo, l’Ungheria difficilmente pone il veto sull’estensione delle sanzioni UE contro la Russia. Il prezzo sarebbe troppo costoso, e Orban è prima di tutto un pragmatico. I 6,5 miliardi di dollari che l’Ungheria perde ogni anno per le sanzioni sono meno di quanto l’Ungheria si priverebbe dall’Unione Europea. Tuttavia, in primo luogo l’Ungheria potrebbe sostenere alcuni pesi massimi europei sulla questione, ad esempio se dei nuovi governi francesi o italiani si opponessero al rinnovo delle sanzioni. Ma l’Ungheria ha uno scopo leggermente diverso.
Con l’esempio della cooperazione tra Ungheria e Russia, con la costruzione di una centrale nucleare ultramoderna, si distruggono i miti sulla Russia. In primo luogo, sarà chiaro che cooperarvi è vantaggioso. In secondo luogo, la Russia non è un distributore di benzina con un’economia “a pezzi”, ma un esportatore di alta tecnologia a prezzi accessibili. In terzo luogo, con la Russia si può collaborare anche in una sfera complessa come l’energia nucleare. Questo è veramente vantaggioso, ma ovviamente non interessa i clintoniani ottusi pagati da Soros nell’eurocommissione, ma funziona meravigliosamente presso le élite imprenditoriali europee e quei politici per cui gli interessi dei loro Paesi sono più importanti dell’ideologia di Victoria Nuland. E, infine, con l’ascesa di Donald Trump al potere vi è l’opportunità, per coloro che vogliono e devono urgentemente e radicalmente riformare l’Unione europea, d’iniziare finalmente a lavorare per i cittadini comunitari, non per il pugno di oligarchi sovranazionali di cui parlava Vladimir Putin a Valdaj. I politici europei coltivati nei laboratori della CIA e del dipartimento di Stato chiedono ora che l’Europa solidarizzi di fronte alla minaccia del “putinismo” e del “trumpismo”, che potrebbe distruggere l’Unione europea. Il caso dell’Ungheria dimostra che non ci sarà tale “solidarietà”. Putin e Trump mineranno la burocrazia europea dall’esterno, mentre gente come Orban, Beppe Grillo, Marine Le Pen e Geert Wilders dall’interno, fin quando sarà completamente distrutta. Ho detto spesso che ogni impero che comprenda l’Ucraina alla fine sparisce. Questa volta, l’Unione europea crollerà anche se all’Ucraina, che lo voleva sul serio, ma non è stato permesso entrare. La storia ha un buon senso dell’umorismo.