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5768.- L’umanità perduta. Affondata perché si muovevano, con 100 bambini stipati nella stiva.

Mentre c’è chi progetta di seminare di bombe mina a grappolo la terra europea, a giugno, un peschereccio carico di migranti è affondato al largo delle coste greche, nei pressi di Cutro. In Grecia, tutti sapevano e nessuno ha fatto niente. Fra morti e dispersi, quasi 500 hanno perso la vita. Sono in molti a temere che il numero delle vittime possa essere ancora più alto: 600 – 700, forse, in gran parte donne e bambini. Le questioni centrali poste dall’Italia al Consiglio europeo e che poggiano sulla dimensione esterna del problema immigrazione sono state condivise, lasciando gli Stati liberi di legiferare sulla dimensione interna.

Tuttavia, la guardia costiera greca ha detto che il peschereccio era stato individuato la sera prima del naufragio proprio dai mezzi di Frontex e dalle autorità italiane, che avevano avvertito Atene del pericolo. Due navi hanno infine offerto assistenza al barcone mentre si trovava in acque internazionali. I migranti, riferiscono le autorità elleniche, avrebbero però rifiutato preferendo continuare la navigazione verso l’Italia. Una scelta che si è rivelata fatale, dal momento che poche ore dopo, con la guardia costiera ancora nelle vicinanze, il peschereccio si è rovesciato al largo della città di Pylos. L’articolo che segue è di Francesca Sabella, per Il Riformista e si rivolge a noi tutti.

Naufragio dell’umanità in Grecia, tutti sapevano e nessuno ha fatto niente: quei cento bimbi stipati nella stiva

Da Il Riformista, di Francesca Sabella — 16 Giugno 2023

Naufragio dell’umanità in Grecia, tutti sapevano e nessuno ha fatto niente: quei cento bimbi stipati nella stiva

Sul fondo del mare greco riposano, solo così hanno trovato la pace, 80 persone. Li chiamano migranti. Itaca, come sei lontana adesso. Ulisse, in questa storia, non ti raggiungerà mai e del cantore Omero rimane solo una parola: Odissea. Sul fondo del mare è sprofondata l’umanità. Mentre su, in superfice galleggiano mesti, mesti i resti di una barca, un giubbetto di salvataggio che è venuto meno al suo compito, dei vestiti, frammenti di vita quotidiana che sono rimasti a galla mentre nel naufragio dell’umanità tutto andava perso.

Non sapremo mai di chi erano le cose che sono rimaste a galla, che si sono salvate dalla furia del mare e da quella della politica. Mentre si cercano le parole, si cercano pure centinaia di “dispersi”, si temono cinquecento morti. Cinquecento. Erano a bordo del peschereccio affondato intorno alle 2 di notte del mercoledì a 47 miglia nautiche da Pylos. Pare che dopo una protesta a bordo dei naufraghi, il trafficante – capitano abbia abbandonato la nave con una scialuppa. Poi il buio e la barca che va a fondo. Sono persi in un mare che li ha inghiottiti.

Troppo tardi, forse. Eppure, tutti sapevano. Tutti sapevano e nessuno ha fatto niente. L’allarme è stato lanciato nel pomeriggio di martedì. C’era tutto il tempo per salvare chi a sua volta tentava disperatamente di salvarsi dal suo Paese e da un destino già scritto, il finale poteva essere cambiato solo con la fuga. Che quel peschereccio lungo trenta metri stesse affondando lo sapevano tutti. Secondo la versione della Grecia, inizialmente Alarm Phone era stata contattata per segnalare un’imbarcazione in difficoltà. Anche un aereo dell’agenzia europea Frontex aveva avvistato il peschereccio nella tarda mattinata di martedì, e successivamente due motovedette.

Le autorità elleniche si sono giustificate spiegando che i migranti “hanno rifiutato qualsiasi assistenza e hanno dichiarato di voler proseguire il viaggio verso l’Italia”. Insomma, avrebbero scelto arbitrariamente di morire annegati. Poi c’è la versione di Alarm Phone che smentisce la ricostruzione fornita dalla Grecia, sostenendo che la Guardia costiera ellenica era “stata allertata alle 16.53”, così come “le autorità greche e le altre europee”. Quindi, spiegano, “erano ben consapevoli di questa imbarcazione sovraffollata e inadeguata” ma “non è stata avviata un’operazione di salvataggio”.

Come per Cutro, così per Pylos. E non chiamatelo destino. C’è stata una ecatombe nel Mar Ionio, la più grande strage nel Mediterraneo dal 2005 a oggi. E non c’entra, nelle righe che leggete, la legge, la destra e la sinistra, le regole, i confini e i muri. C’entra solo una cosa: l’umanità perduta. Perché al di là di ogni cosa, ragionevole o meno, c’è un fatto: non siamo più umani. Siamo politici o militari, guardia costiera o parlamentari, ma non più umani.

Non siamo più madri, padri e figli. Nelle parole che raccontano il naufragio, ci sono cento bambini nascosti nella stiva. Cento piccoli che si sono affidati alla loro mamma e al mare. Dove sono? Nel naufragio dell’umanità resta una storia non scritta, la storia di chi è morto, di chi è disperso e di chi non crescerà. E un giorno vi si chiederà conto di tutto questo.

5434.- Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice di Monteforte.

Non solo gasdotti e non solo oleodotti, anche le reti e i sistemi informativi che vedete richiedono misure di prevenzione dagli atti terroristici e dai danneggiamenti dei cavi a causa della pesca a strascico e ancoraggio nelle zone vietate

Nel Potere Marittimo la sommatoria funzionale delle componenti è, come sempre, maggiore, o comunque differente, delle medesime parti prese singolarmente. La capacità di protezione delle infrastrutture sottomarine strategiche nel Mediterraneo che garantiscono il trasporto delle informazioni e l’approvvigionamento energetico italiano è una di queste componenti. L’Italia ha recepito la direttiva europea Network and Information Security, Nis, per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi e la Guardia Costiera e la Terna SpA hanno implementato un protocollo di collaborazione. Il controllo del Canale di Sicilia e la cooperazione con le marine della costa africana e di tutto il Mediterraneo si pongono fra i cardini del sistema difesa Italia e rappresentano un invito ulteriore a ricercare la comunanza fra i Paesi rivieraschi attraverso il mare. Il futuro dell’Italia “è” nel Mediterraneo.

Da Formiche.net, di Gaia Ravazzolo | 09/10/2022 – 

Così difendiamo le infrastrutture sottomarine. Il punto dell’amm. Sanfelice

Le Forze armate tornano a guardare al dominio marittimo e alla sua sicurezza, anche in risposta alla crescente vulnerabilità delle infrastrutture strategiche sottomarine preposte a provvedere all’approvvigionamento energetico. Per proteggere tali infrastrutture “bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido” secondo l’ammiraglio Sanfelice di Monteforte

L’attenzione delle Forze armate sta tornando sulla dimensione marittima e sottomarina. Dopo il danneggiamento del Nord Stream è stato lanciato un allarme globale sulla vulnerabilità delle reti energetiche subacquee, accolto anche dal nostro Paese. Proprio la scorsa settimana infatti l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, capo di Stato maggiore della Difesa, ha parlato di un piano lanciato in accordo con il ministro Lorenzo Guerini per aumentare le misure di tutela a protezione delle infrastrutture strategiche nel Mediterraneo che garantiscono l’approvvigionamento energetico italiano, a partire dal Canale di Sicilia. Impegno ribadito anche nei dibattiti del Trans-regional seapower symposium di Venezia. Ne abbiamo parlato con l’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici.

Il nostro Paese riconosce il Mediterraneo allargato quale principale area di riferimento strategico. Quale ritiene dovrebbero essere le priorità nazionali per permettere all’Italia di assumere un ruolo da protagonista nella regione? 

La massima priorità, affinché il Paese conservi il proprio livello di benessere, è la salvaguardia del commercio internazionale marittimo. Insieme al commercio ci sono le infrastrutture marittime quali oleodotti, gasdotti, cavi sottomarini legati alla connettività ecc. Il desiderio italiano è di voler giocare un ruolo da protagonisti in quest’area e per farlo c’è un solo modo: adottare la strategia del “fratello maggiore”. Dunque, essere benevoli verso tutti e favorire le sinergie nella regione, come si fece una quindicina di anni fa favorendo lo scambio di informazioni virtuali per tutta l’area del Mediterraneo, organizzato proprio dalla Marina militare italiana. Ne è un esempio il caso dell’Algeria, che abbiamo supportato per anni e che ora ci sostiene a sua volta attraverso le forniture energetiche. Parallelamente a questo, vi sono le riunioni periodiche a carattere biennale del Trans-regional seapower symposium proprio per conoscere e riunire insieme i capi delle Marine militari dell’area, per cercare di instaurare nuove collaborazioni e sinergie, in un’ottica di scambio reciproco.

La centralità del Mediterraneo è un elemento strategico non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa e la Nato. Ci sarà bisogno di implementare sinergie con gli alleati. L’Italia può ambire a una posizione di leadership di queste probabili iniziative future, e come?

Nell’ambito europeo l’Italia è già una potenza in questo senso. Mentre nella cornice Nato occupiamo una posizione più defilata. Questo perché disponiamo di un livello di forze nelle tre dimensioni – terrestre, aerea, marittima – che è considerato dai nostri alleati inferiore rispetto a quello che potremmo esprimere, non in senso qualitativo ma quantitativo. Quindi, nell’Alleanza Atlantica siamo ancora un po’ “al traino” degli altri. Mentre in Europa possiamo influenzare in modo più significativo la politica comunitaria. Ciò nonostante, vi è da fare una precisazione. Ultimamente con questa nuova attenzione al dominio marittimo prevale un sentimento di giusto orgoglio nazionale e il conseguente desiderio di avere una posizione preminente rispetto agli altri. Tuttavia, ad oggi quello che dovrebbe prevalere è il sentimento e la voglia di sopravvivenza economica, e non solo fisica.

Al recente simposio di Venezia, il capo di Stato maggiore della Marina, Enrico Credendino, ha parlato della necessità di un approccio olistico per garantire la sicurezza delle vie marittime. C’è necessità di superare una sorta di sea-blindness che colpisce il sistema Italia. Che ruolo dovranno avere le forze navali nazionali in questo senso?

Il ruolo delle forze navali nazionali è da una parte quello di prevenire le crisi e sedarle, e dall’altra proteggere sia il commercio sia le infrastrutture strategiche. Questo fa parte di un approccio olistico perché le Forze armate, e in particolare le Forze della Marina militare, non sono più occupate solo nel portare avanti battaglie navali ma sono impegnate a creare una situazione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile.

Quali sono gli strumenti a disposizione del nostro Paese e della Marina militare per provvedere alla protezione di cavi e pipeline in modo da continuare a garantire la connettività e l’approvvigionamento energetico?

Sono 1.500 km di cavi sottomarini che saranno sorvegliati dalla Guardia Costiera e da Terna SpA

In primo luogo è necessaria una sorveglianza particolare nelle zone di passaggio di tali infrastrutture critiche, che dovrà inevitabilmente essere ampliata e ingrandita nella sua portata. Per adesso stiamo puntando alle infrastrutture subacquee più vicine e quindi si dovrà pensare e provvedere un po’ a tutte quelle infrastrutture che esistono nell’area. In secondo luogo bisognerà, in accordo con le industrie, creare via via dei sistemi di intervento rapido. Siccome non è possibile prevenire le minacce in modo completo al 100%, si dovranno creare delle capacità di intervento rapido per fermare eventuali conseguenze e ripercussioni dovute a sabotaggi o guasti.

Di fronte alla crescente rilevanza della dimensione marittima e sottomarina, è importante puntare sull’innovazione. Che ruolo può giocare in questa dimensione la componente unmanned?

Le Marine dispongono e impiegano la componente unmanned ormai da vent’anni, non è qualcosa di nuovo. Tuttavia, solo nell’ultimo periodo si sta ampliando ed espandendo sempre di più. Innanzitutto, la componente unmanned è stata usata, e viene usata ancora oggi, per la “guerra di mine”. Così da sminare le aree di mare che sono state minate in passato. Poi vi sono degli altri sistemi subacquei, di più recente introduzione al servizio, quali i sommergibili, che possono lanciare dei droni a guida remota e non solo. In questo quadro bisogna però considerare anche i sistemi che possono agire ed essere sopra la superficie, dal momento che finalmente si stanno sviluppando i droni lanciabili e recuperabili dal mare. Dunque, la componente unmanned per la Marina non è certamente una novità, ma ricopre un ruolo molto rilevante. D’altronde è molto più pratico mandare un mezzo unmanned a sorvegliare le aree che ospitano infrastrutture critiche, piuttosto che dispiegare un elicottero con quattro persone a bordo.

4515.- Un piano strategico per il Mediterraneo è la risposta ai flussi migratori.

Stiamo dicendo che sia l’Unione europea sia questo decantato Governo Draghi, sia la sua opposizione, stanno affrontando separatamente i problemi dello sviluppo dei Paesi africani del Fianco Sud allargato, cioè, del Mediterraneo e del Sahel e i flussi migratori. Draghi, partendo dalle politiche agricole, anche quelle comuni dell’Ue, dovrebbe proporre un confronto fra Italia, Francia e Spagna e, poi, almeno con Grecia, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, per cooptare, infine, Israele, Turchia, Libano e – se Dio vuole – Libia. L’obiettivo potrebbe essere un’area mediterranea di Libero Scambio. Questo quadro consentirebbe di dare un senso e coordinare le politiche economiche ed energetiche del Mare Mediterraneo facendo fronte alle prossime aperture delle rotte commerciali dell’Artico. Consentirebbe anche di affrontare meglio l’azione di penetrazione della Cina.

Niente di nuovo!

Roma è ancora un cammino da seguire.

Verso l’area euromediterranea di produzione e di libero scambio

Il mercato comunitario è il primo importatore mondiale di prodotti agricoli e rappresenta l’obiettivo commerciale delle grandi aree di produzione agricole.
Il mercato comunitario è il primo riferimento di destinazione dell’export agricolo sia per l’Italia che per i Paesi terzi mediterranei (PTM). Entrambi subiscono la concorrenza delle aree emergenti. L’impatto della liberalizzazione potrebbe quindi essere consistente sotto il profilo dell’accesso ai mercati.

L’apertura di un’area di Libero Scambio fra i mercati mediterranei fa crescere le nostre e le loro economie; crea opportunità di investimento nei Paesi africani ed è l’unico vero contrasto possibile all’immigrazione incontrollata e sempre più incontrollabile, come gli avvenimenti di oggi sulle coste italiane e sui confini della Grecia e della Polonia dimostrano. Le cause della migrazione sono numerose e vanno da sicurezza, demografia e diritti umani fino al cambiamento climatico, ma ciò porta gli africani a emigrare è, senz’altro la mancanza di opportunità che fa capo all’attuale sistema di sostegni e di sfruttamento del Fondo Monetario Internazionale: un handicap per le economie africane, che ne limita lo sviluppo. L’Europa possiede le risorse tecnologiche e l’Africa è una terra ricca. Dobbiamo crescere! e l’Italia si faccia capofila di una politica Ue di stretta collaborazione sul piano diplomatico, militare ed economico fra i Paesi mediterranei. Solo una politica attiva dell’UE di libero scambio, di investimenti e di partenariato, attuata fra gli Stati dell’area mediterranea può raggiungere questo obiettivo.

Sbaglia chi vuole blindare ancor di più l’Unione Europea e chiede il blocco navale. Il blocco, sostenuto da alcune parti politiche, è inattuabile, guarda all’emergenza, ma non risponde a una visione aperta in tutti i sensi.

Questo non sta avvenendo, complice l’ignoranza che grava sulla politica. Per governare i flussi migratori dai paesi africani, infatti, è necessario comprendere le cause che li determinano. Quindi, va bene contenere il fenomeno migratorio, ma guardando alle cause e alle possibili soluzioni. L’apparente cecità dei governi europei, invece, avvantaggia i forti interessi delle multinazionali occidentali, ma anche della Cina che, dai primi anni Duemila, è diventato il principale attore in Africa, mirando a un approccio molto concreto: vale a dire, risorse naturali in cambio di infrastrutture essenziali, come strade, dighe, ferrovie, porti, investimenti negoziati a condizioni rischiose per chi li riceve. Va da sé che lasciare che la Cina si impossessi delle risorse e delle infrastrutture africane è un suicidio per l’Africa e per l’Europa.

Se dicessimo che i paesi europei e più in generale i paesi occidentali hanno un impatto sull’economia africana e, perciò, dobbiamo rimodulare le nostre economie coordinandole con quelle africane, saremmo sul giusto binario. Guardando al bilancio Ue, una buona metà è dedicata al sostegno all’agricoltura. Questo costituisce di fatto un freno alle esportazioni africane. Se ora dicessimo che gli agricoltori italiani, francesi, spagnoli devono limitare le loro produzioni per fare spazio a quelle dell’Africa bianca, saremmo accusati di eresia. L’obiettivo da proporsi, allora, è: “Portare gli imprenditori agricoli europei a investire sulle coste africane”. Gli imprenditori italiani hanno dimostrato di saperlo fare, e bene, al tempo delle colonie. L’importante è che, oggi, non arrivino per ultimi. Il Mediterraneo è la nostra storia.

“Aiutiamoci a casa loro”

Lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” non sia soltanto un auspicio mosso dalla solidarietà tra stati, o dal mero interesse di ridurre i flussi migratori: impossibile! Lo slogan deve essere “Aiutiamoci a casa loro”. Bisogna e sottolineo “bisogna”, che i “canali” attraverso i quali devono essere gestiti questi aiuti (e i come) non devono essere intergovernativi perché la crescita si rivelerebbe sicuramente fragile, molto legata all’andamento dei mercati, sopratutto, a quelli delle materie prime (Ho presenti le condizioni del Mali, primo produttore mondiale di cotone); sarebbe facilmente frenata da fattori politici.

Bruxelles deve soltanto creare le condizioni affinché gli imprenditori europei, insieme alle istituzioni finanziarie, possano investire le loro risorse in partenariato con gli africani, con obiettivi comuni e con reciproco vantaggio. Ciò dovrebbe segnare il futuro dell’area mediterranea e del Sud Europa, ricordando che i processi di sviluppo sono, per loro natura, lunghi e complessi.

4180.- L’Italia può guidare la soluzione della crisi in Tunisia. L’analisi di Dentice (CeSI)

Ultimo aggiornamento 27 luglio 2021

L’Italia è in Mediterraneo come nessun altro e Africa bianca e Unione europea hanno un futuro in comune. La crisi politico-economica e, poi, sanitaria della Tunisia, le elezioni di dicembre in Libia e l’instabilità del Mediterraneo Orientale chiamano Draghi a rivestire ruoli propositivi per l’Italia e per l’Unione. In questo quadro, assume importanza la necessità di ridimensionare la politica della Turchia, anche offrendole opportunità più attuali.

L’analisi di Fabio Ghia

27 luglio. Cosa penso di quanto in corso in Tunisia? Non è da considerare come un colpo di Stato neanche lontanamente! Bensì solo una sospensione di 30 giorni dell’attività legislativa e la “destituzione” per inadempienze (prima fra tutti la situazione anti pandemia – (solo il 7% della popolazione è stato vaccinato?) del Presidente del consiglio, che a me appare piú che giustificata unitamente all’esautorizzazione in totale di ben sette Ministri. Con tutti i casini che non sono riusciti a controllare: dalla monnezza napoletana e corruzioni relative, al Covid e alle silenziose direttive di non uniformarsi alle norme anticovid di El Mahdha, la sospensione di Ghannuchi (Capo del Parlamento!), già stata annunciata più volte e sollecitata dalle opposizioni proprio perché faceva fare al Governo quello che gli pareva senza il minimo supporto di atti parlamentari! Cioé io me lo aspettavo da tempo! ….. Se poi tra 30 giorni … nulla cambia, allora dovremo aspettaarci che l’esercito scenda in campo. Da quel momento lo spauracchio della guerra civile, DIVENTERÀ REALTÀ. Ma non credo che la comunità internzaionale (Italia e Francia in testa) lo consentirà …. VIVA LA TUNISIA LIBERA E DEMOCRATICA!

L’articolo di Emanuele Rossi | 26/07/2021 – Esteri

L’Italia può guidare la soluzione della crisi in Tunisia. L’analisi di Dentice (CeSI)

Secondo il direttore del Mena Desk del CeSI, la crisi che si è innescata in Tunisia può evolversi in diversi scenari su cui l’Italia ha l’opportunità di giocare un ruolo di mediazione e spingere le politiche dell’Ue sul Mediterraneo

“Quello che succede in Tunisia racconta una crisi istituzionale profonda che si somma a quella della vicina Libia e del Libano segnando un fronte di instabilità all’interno dell’arco di interessi della politica estera italiana nel Mediterraneo”. Lo spiega a Formiche.net Giuseppe Dentice, Head del Mena Desk del CeSI.

Il presidente Kais Saied ha licenziato il primo ministro Hichem Mechichi dal suo incarico, citando l’articolo 80 della costituzione che consente questo tipo di misure in caso di “pericolo imminente”. Il Parlamento è stato messo in una sorta di stand by, il Paese è di nuovo senza un governo.

Per Dentice ci sono diversi scenari, che possono arrivare anche alla “deriva autoritaria in senso puro, ossia portare a un presidenzialismo forte in stile egiziano, con la differenza però che in Egitto i militari sono attori centrali, mentre in Tunisia sono più marginali”. Seppure i militari sono stati protagonisti in queste ore caotiche, intervenuti in difesa del Parlamento, hanno poi compiuto un’operazione di polizia sgomberando la sede di al Jazeera, che è una televisione di proprietà del Qatar e considerata vicina alle istanze degli islamici di Ennahda – ispirati all’Islam politico della Fratellanza – mentre il presidente Saied è più collegabile al mondo dei conservatori dello status quo sunnita. Negli ultimi mesi, il principale interlocutore del presidente di Tunisi è stato l’egiziano Abdel Fattah al Sisi.

Un altro scenario evocato dall’esperto del think tank italiano è quello della cosiddetta “dittatura costituzionale”, dove sotto la spinta di una possibile riforma della costituzione, il presidente avoca a sé i maggiori poteri e governa in maniera incontrastata. Terzo, infine, le parti dopo i trenta giorni della durata prefissata della crisi “si mettono a lavorare con consapevolezza e prendono quanto successo come una pausa. Ma è possibile che tutto questo si porti dietro comunque dei problemi creando un precedente rischioso”.

Quanto sta accadendo (va detto in costante evoluzione) manda un messaggio all’Europa. Per Dentice la responsabilità dell’Occidente sta nel non aver salvaguardato la democratizzazione tunisina del 2011 e nel non aver aiutato il processo nel Paese, dopo i segnali già critici emersi nella stagione 2013-2014, quando la tensione sociale e politica era anche allora fortissima. Le fasi successive, le votazioni e la nuova costituzione erano state comunque un tentativo, tuttavia finito in stallo. E qui ci troviamo adesso, punto da cui occorre realisticamente ripartire”.

I segnali della crisi tunisina erano evidenti da diverso tempo, sia sul quadro economico che su quello sociale e istituzionale. Il tutto è stato peggiorato dal Covid. Cosa serve fare? “La Tunisia ha bisogno dell’Europa, e l’Italia deve essere in testa in questa assistenza. Detto questo, a Tunisi serve supporto politico ed economico. Il condizionamento degli aiuti economici alle riforme rischia per altro di essere debole: spesso il quadro macro-economico non porta benefici alla popolazione media, serve essere consapevoli sul dove si va a intervenire e delle complessità”.

In questo contesto è ineccepibile che ci siano interessi per l’Italia. Basta pensare al tema dell’immigrazione: se i flussi riprendono dalla Tunisia è perché si sono create condizioni all’interno del Paese tali da portare alcuni cittadini a fuggire, a cercare fortuna altrove. “L’immigrazione è in effetti un sintomo finale”, aggiunge Dentice.

“L’Italia – spiega l’analista del CeSI – ha l’opportunità di muovere la politica sul Mediterraneo in modo abbastanza chiaro in questo momento anche prendendo le redini di queste crisi. Roma ha l’opportunità di porsi come attore di mediazione. La mediazione non è uno strumento di debolezza, ma è un elemento in grado di dare forza alla politica. E questo lo dimostra anche la situazione attuale in Libia, dove per dirimere il nodo sulle elezioni di dicembre i libici preferiscono venire a parlare a Roma, piuttosto che andare ad Ankara o in altre capitali coinvolte nel dossier”.

Secondo Dentice, l’Italia deve guardare al Mediterraneo in una cornice europea: “L’economia per esempio è certamente un fattore utile per attenuare la crisi tunisina o libica, ma poi c’è bisogno della politica per evitarne altre, e in questo senso l’Italia ha modo e opportunità per aprire forme di dialogo con cui evitare l’innesco di derive complicate, e guidare con Bruxelles le politiche di vicinato nel Mediterraneo”.

La Farnesina ha diffuso una nota sulla situazione: “L’Italia segue con grande attenzione l’evolvere della situazione in Tunisia. La portata e la natura delle decisioni assunte nelle scorse ore dovrà essere attentamente valutata. L’Italia esprime altresì preoccupazione per la situazione e per le sue potenziali implicazioni e rivolge un appello alle istituzioni tunisine affinché venga garantito il rispetto della Costituzione e dello stato di diritto.
In un momento in cui la crisi politico-economica nel Paese è esacerbata dal recente deterioramento del quadro epidemiologico, l’Italia conferma il proprio sostegno a favore della stabilità politica ed economica della Tunisia e ribadisce la propria sincera vicinanza all’amico popolo tunisino”.

3382.- Quattro ONG (fra cui la Sea Watch) accusate di traffico di esseri umani – dai servizi greci.

di Maurizio Blondet, tratto dai giornali greci, con traduzione automatica.

Documenti segreti rivelano giochi di “spionaggio” a Lesbo: le due donne e l’intelligence in Turchia. Lo scorso maggio, due agenti dell’intelligence greca si sono recati in Turchia, facendosi  come migranti clandestini. Iniziava così  l’operazione Alcmena dei servizi.   I due agenti  sono riusciti ad entrare in contatto con chi si occupava del traffico delle persone e hanno fatto il tragitto per l’isola di Lesbo a bordo di una nave.Le indagini sono ora contenute in un voluminoso fascicolo, che è un atto d’accusa legale contro  33 membri di quattro  ONG con sede in Germania, Austria e Norvegia;  dove vengono  v menzionati dati e movimenti di due persone specifiche, che avevano persino accesso diretto anche  siti web “chiusi” del  governo turco, ossia che richiedono codici speciali  per entrarvi.Si tratta di due donne, una cittadina austriaca e una norvegese,  che hanno  vissuto sulle coste della Turchia negli ultimi 2 anni e coordinato  i flussi migratori illegali verso il nostro paese.  La loro colpevolezza è , secondo la polizia ellenica, “pienamente  chiarito”.

Soltanto la connivenza dei governi può tenere in piedi questo orrendo mercato

Le 2 imputate  reclutavano sulla costa turca  migranti  che non erano riusciti a raggiungere le isole greche, a causa della forte presenza di navi della Guardia Costiera greca e di Frontex. Un  loro scopo era quello di ottenere dai migranti fotografie delle navi greche sia della Marina militare che della Guardia Costiera ma anche di Frontex, che hanno inviato a Lesbo, ai membri delle altre tre ONG accusate, in modo che potessero sapere in qualsiasi momento se queste navi erano ormeggiate o di pattuglia in mare.Tipico è il caso di due afgani reclutati da ONG e che scattavano continuamente foto nel porto di Mitilene. Le indagini della NSA e dell’Antiterrorismo sono iniziate progressivamente dal 23/05/2020 e sono culminate con l’incendio doloso del quartier generale di Moria, dove hanno cominciato a venire alla luce chiari segnali di coinvolgimento, fino all’istigazione dell’incendio doloso del campo delle 4 ONG.La svolta nelle indagini è avvenuta il 5 settembre quando i funzionari della sicurezza di Lesbo e gli ufficiali della guardia costiera  coordinati  con i funzionari della NSA e dell’antiterrorismo, hanno svolto una ricerca su un  cabinato  attraccato a Mitilene  (il capoluogo di Lesbo),che era stato acquistato da una specifica ONG con sede in Germania.  Da quella  nave, attraverso un apposito software, venivano  intercettate le conversazioni della Guardia Costiera, tramite una specifica ONG che era attiva anche a Lesbo. Lì sono state trovate prove incriminanti  sull’azione di 33 persone, tutti membri delle 4 Ong che sono addirittura accusate di spionaggio:  19 tedeschi, 2 svizzeri, un francese, un bulgaro e uno spagnolo. Tra queste prove trovate sulla nave, il fascicolo  menziona  in particolare i codici attraverso i quali fornivano informazioni ai migranti sulla costa turca dal telefono di bordo  della nave, lo stretto rapporto con un sito web specifico che direttamente informava i migranti  sugli spostamenti dei greci e FRONTEX sulle coste turche,  dati sui flussi migratori, mappe dei porti di  Chios, Lesbo e Samos, mappe con punti di partenza dei migranti dalla Turchia, istruzioni ai migranti in modo che attraverso il sito web dell’AP accesso diretto ai loro punti di guida ai porti naturali di Lesbo e allo stesso tempo comunicazione diretta con i membri delle ONG per la fornitura di informazioni.Le autorità hanno trovato le istruzioni per eseguire il sito Web AP che fungeva anche da telefono Internet. In effetti, è stato scoperto che questo sito web è stato uno dei primi a far circolare le fake news turche su presunti immigrati uccisi sul fiume  Evros dalla scariche della polizia greca. Le quattro ONG  sono: la ben nota Sea Watch,  Mare Liberum, FFM e Josoor. [Quest’ultima una discussa ONG americana creata da migranti siriani che ha base a Izmir, sotto la protezione della polizia di Erdogan]. Tutte e quattro le ONG hanno utilizzato la piattaforma “Alarm Phone”. 2 delle suddette ONG hanno sede a Berlino, nello stesso indirizzo.

L’incendio finale doloso

12.700 in fuga verso la città di Mitilene, ma la Grecia ha un governo.

Il 15 settembre  scorso, il grande campo-profughi allestito mell’isola di Lesbo, Moria,  e riempito così sistematicamente e  spietatamente dalle ONG, è stato incendiato. La natura dolosa dell’incendio è comprovata: la polizia ha arrestato quattro afgani  praticamente sul fatto; altri non sono stati arrestati perché  minorenni. Come effetto di questa deliberata distruzione, 12 mila profughi sono senza riparo: e  la Germania si guarda bene di prenderseli, li vuole scaricare a Ungheria, Polonia… Questo incendio corona significativamente questa azione spietata, ostinata, ben finanziata con cabinati acquistati e stipendiati  regolari  sulle coste turche e greche , e telefoni satellitari,  sostenuta contro il popolo greco.

Il campo profughi dopo la sua distruzione per incendio doloso.

Nulla di caritatevole  e umanitario; questa  è la spudorata  manifestazione dell’imperialismo germanico spilorcio,   del disprezzo di una cancelliera che che dopo aver spogliato il paese per assicurare i lucri delle sue banche,  gli infligge le decine di migliaia di immigrati, e   suo carico, del popolo che ha saccheggiato.  Non escluderei che l’incendio sia stato programmato  perché, essendo stata smantellata l’organizzazione, l’operazione era diventata impossibile.


Maurizio Blondet, 7 ottobre 2020

3274.- La guerra del gas

le dispute in materia di diritti minerari nel Mar Egeo hanno acuito le dispute fra Ankara Atene sulle isole del Mare Egeo e del Dodecaneso, in particolare. Il braccio di ferro fra Grecia, Cipro e Turchia, sui giacimenti sottomarini, vede Erdogan proiettarsi fino alla Libia e in contrapposizione al’Unione europea. A conferma della determinazione turca, gli F-16F turchi sorvolano, non autorizzati, lo spazio aereo greco. A breve, la nave da ricerca turca Oruc Reis effettuerà sondaggi esplorativi in cerca di idrocarburi nel Mediterraneo orientale in un’area che Ankara ritiene parte della sua piattaforma continentale. Ma la Grecia protesta. Il 14 luglio,  il ministro degli Esteri di Atene, Nikos Dendias ha chiesto ai partner dell’Unione Europea che sia compilata una lista di sanzioni economiche severe, “rovinose”per la Turchia, da adottare, qualora quest’ultima perseveri nelle attività di esplorazione di giacimenti di gas e petrolio al largo delle isole greche di Creta, Rodi e Karpathos. Dendias ha aggiunto che se la Grecia dovesse subire un attacco armato turco, invocherà il trattato sull’Unione europea del 2009 che contiene l’obbligo per gli Stati membri di fornire soccorso e assistenza a un altro Paese dell’UE che debba affrontare un’aggressione armata. In questo quadro di tensione tra i due Paesi, si inquadra il tentativo di mediazione compiuto da Angela Merkel, mentre navi da guerra francesi navigano nelle acque che vedono fronteggiarsi le fregate turche e le greche. Merkel ha sottolineato che l’Europa ha bisogno di una strategia coerente nei confronti della Turchia, ma, a condizionare l’azione diplomatica dell’Ue restano la gestione spregiudicata dei flussi migratori dalla Turchia verso l’Europa e la memoria del recente incidente tra la fregata francese Courbet (F-712) e la fregata turca Oruç reis (F-245), avvenuto al largo della Libia lo scorso 17 giugno. 

La fregata turca Oruç reis (F-245), stesso nome della nave da ricerca.
La nave Oruç Reis (IMO: 9675470, MMSI: 271044654) è una nave Research Vessel di 4.789 tonn. di stazza lorda, costruita nel 2017, che naviga attualmente sotto bandiera della Turchia e, attualmente, 22 luglio 2020, è all’ancora ad alcune miglia a Est di Antalya.

    “Lo scorso 30 maggio, Ankara, in virtù del Memorandum siglato con la Libia, aveva pubblicato in Gazzetta ufficiale i 24 blocchi per cui la compagnia petrolifera di Stato turca, la TPAO, aveva richiesto la licenza per avviare le esplorazioni energetiche. Insieme al disegno delle aree di competenza, in Gazzetta è stata inserita anche la richiesta da parte ella TPAO di condurre esplorazioni in tutti i blocchi occidentali della mappa, i quali si trovano nei pressi delle isole della Grecia. La pubblicazione dei blocchi in Gazzetta ufficiale confermava le intenzioni della Turchia di portare avanti l’implementazione dell’accordo siglato lo scorso 27 novembre con la Libia, nonostante le Nazioni Unite non abbiano ancora approvato i confini marittimi decisi dai due Paesi”. 

La stazione di Antalya Navtex (Avvisi ai Naviganti) ha avvisato che è pianificata un’indagine sismica della Turchia a Sud e a Est dell’isola greca di Kastellorizo, dal 21 luglio al 2 agosto. La nave di esplorazione sismica di Ankara Oruç Reis dovrebbe arrivare nell’area a breve. A sua volta, la Grecia ha trasmesso un Navtex che nega quello turco.

Grecia in “allerta intensificata”.

In Grecia è corsa agli armamenti, mentre dispiega navi per rispondere alle attività di esplorazione della Turchia. Atene sta procedendo ad acquisti di armamenti dalla Francia, dagli Stati Uniti, e dagli stessi competitori di Ankara: Israele, Egitto e Arabia Saudita. Per Ankara, le rivendicazioni di Atene sono illegittime. Si fronteggiano, da parte greca, la sovranità territoriale delle acque delle proprie isole. Da parte turca, invece, il diritto di esplorazione della piattaforma continentale turca, definita dalle Nazioni Unite. Per ora, è guerra di Avvisi ai Naviganti. Flotte NATO a confronto?

Grecia in “allerta intensificata” dispiega navi per le attività di esplorazione della Turchia. Ankara: “Rivendicazioni di Atene illegittime”

L’ammiraglia della Türk Deniz Kuvvetleri, LHD“Tcg Anadolu” (L-400), nave d’assalto anfibio di 28.000 t. p.c., lunga 225 m., derivata dal Juan Carlos I (L-61), è stata interamente prodotta in Turchia. sarà pronta ad aprile 2021 e i lavori per la sua costruzione sono in corso dal 2016 nel cantiere navale Sedef di Istanbul. Come portaerei leggera, sarà in grado di operare fino a 12 velivoli da combattimento multiruolo STOVL F-35B, oltre a 12 elicotteri CH47F e 2 overcraft. Un buon motivo per non poter rinunciare al caccia USA.

La Turchia cerca gas nel Mediterraneo e provoca la Grecia. Erdogan: “Non ci serve il permesso di nessuno”

La Turchia cerca gas nel Mediterraneo e provoca la Grecia. Erdogan: “Non ci serve il permesso di nessuno”
Turchia e Grecia, entrambi membri NATO, si contrastano su diversi temi, dalla divisione di Cipro alla situazione delle comunità greco-ortodosse che vivono in Turchia, alla disputa sui confini delle acque territoriali e dello spazio aereo nell’Egeo, alla delimitazione della piattaforma continentale dell’Egeo, ai diritti di pesca. La NATO, nella sua attuale configurazione, era già finita, prima che la politica spregiudicata di Recep Tayyip Erdogan lo decretasse.

Ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Hami Aksoy:

“Non può essere razionale e compatibile con il diritto internazionale che un’isola con un’area di 10 chilometri quadrati, che si trova a due chilometri dall’Anatolia e a 580 chilometri dalla costa greca possa generare una piattaforma continentale di 40 mila chilometri quadrati. Le realtà non possono essere oscurate da reazioni massimaliste, esagerate e infervorate”, ha sostenuto su Twitter il viceministro degli Esteri turco Yavuz Selim Kiran, riferendosi appunto a Kastellorizo (l’italiana Castelrosso, teatro di un oscuro episodio della seconda Guerra Mondiale). Questa frontiera marittima fra Turchia e Grecia corre in un braccio di mare di circa 4.000 metri ed è stata sempre contestate da Ankara. La nota turca conferma inoltre che la nave da ricerca sismica Oruc Reis effettuerà sondaggi esplorativi in cerca di idrocarburi nel Mediterraneo orientale in un’area che Ankara ritiene parte della sua piattaforma continentale, come aveva fatto già negli anni scorsi nella stessa area la nave Barbaros Hayrettin Pascià. “La Turchia, ribadendo i suoi appelli al dialogo con la Grecia, ripetuti fino a oggi a tutti i livelli in diverse occasioni – ha concluso Aksoy -, continuerà allo stesso tempo a difendere i propri diritti e interessi legittimi derivanti dal diritto internazionale”.

Anche la Marine Nationale è presente in Egeo.

3190.- Zee, che cosa hanno deciso Italia e Grecia

di Marco Dell’Aguzzo

Zee turco-libica

L’articolo di Marco Dell’Aguzzo sull’accordo fra Italia e Grecia per la delimitazione dei confini marittimi, le Zee (Zone economiche esclusive)

… è stata una giornata storica, ha detto il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias per commentare la firma – insieme al suo omologo italiano Luigi Di Maio – dell’accordo fra Roma e Atene per la delimitazione dei confini marittimi. L’accordo amplia l’intesa del 1977 e risolve alcune dispute sui diritti di pesca nel mar Ionio, ma possiede in realtà un significato ben maggiore. Va ad inserirsi, infatti, in un quadro geopolitico particolarmente rilevante per gli interessi italiani: il Mediterraneo orientale, sede di grandi giacimenti di gas, rappresenta un’opportunità di sviluppo economico e politico per il nostro Paese. Ma le ambizioni italiane si scontrano con quelle della Turchia, che rivendica come propri alcuni tratti di mare in questa regione e che non vuole perdere la propria centralità energetica.

L’ACCORDO TRA ITALIA GRECIA E LE CONSEGUENZE REGIONALI

Siglato durante una visita ad Atene di Di Maio – ma lui e Dendias si erano già incontrati a Roma a febbraio per discutere di come approfondire la collaborazione energetica –, l’accordo di lunedì delimita le zone economiche esclusive (ZEE) di Italia e Grecia, ossia le aree marittime sulle quali ciascuna nazione possiede i diritti di esplorazione e sfruttamento delle risorse contenutevi.

L’intesa è importante per la Grecia perché rappresenta una risposta al trattato sulle ZEE firmato alla fine di novembre fra la Turchia e il governo libico di Fayez al-Sarraj. Un trattato che secondo Atene viola il diritto del mare – e che anche Roma ha definito inaccettabile – perché le rivendicazioni marittime turche si sovrappongono a quelle greche. Che il patto con l’Italia contenga anche un messaggio ad Ankara è evidente: il ministro Dendias lo ha esplicitamente paragonato all’accordo turco-libico che, al contrario di quello italo-ellenico, sarebbe stato raggiunto con metodi non validi.

Dendias ha anche dichiarato che la Grecia ha intenzione di raggiungere accordi per la delimitazione dei confini marittimi con tutti i suoi vicini; un articolo di Ekathimerini sostiene che il trattato con l’Italia apra la porta ad uno simile con l’Albania. Intanto, il 18 giugno Dendias andrà in visita al Cairo proprio per riprendere i negoziati sulle ZEE con l’Egitto.

LA QUESTIONE EASTMED

Italia, Grecia, Egitto e Turchia – ma anche Israele e Cipro – sono tutti legati nel grande gioco energetico che prosegue da anni nel Mediterraneo orientale, dove sono stati scoperti importanti giacimenti di gas. Considerata la vicinanza tra questi depositi e la loro ricchezza, si è da subito iniziato a discutere di come gestire l’esportazione del gas estratto verso l’Europa.

Una delle ipotesi prese in considerazione è quella del gasdotto EastMed. L’opzione, benché costosa, piace all’Unione europea perché le consentirebbe di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico e ridurre così la dipendenza dal gas russo. E piace, all’incirca per lo stesso motivo, anche agli Stati Uniti: l’EastMed diminuirebbe l’influenza di Mosca sul Vecchio continente (al contrario del Nord Stream 2 tra Russia e Germania, al quale Washington infatti si oppone).

EastMed non piace invece alla Turchia, che non vuole cedere ad Italia e Grecia il ruolo di hub energetico, di “intermediario” fra il Medio Oriente (dove si produce il gas) e l’Europa (dove lo si consuma). L’accordo sulla ridefinizione delle ZEE con la Libia serve allora al governo di Recep Tayyip Erdogan per rallentare l’avanzata del progetto, che dovrebbe passare per tratti di mare rivendicati da Ankara.

Oltre a questo, la Turchia non vuole venire esclusa dallo sfruttamento degli idrocarburi nelle acque del Mediterraneo orientale: una questione che si collega alle dispute territoriali fra la Turchia da un lato; Cipro, la Grecia e l’Egitto dall’altro.

Nonostante possieda un valore geopolitico per Bruxelles, l’EastMed si è rivelato un progetto costoso e potrebbe per questo venire accantonato in favore di opzioni più convenienti. Come ad esempio il trasporto del gas dalle coste israeliane a quelle egiziane, dove verrebbe liquefatto ed esportato via metaniere: un’opzione che potrebbe comunque soddisfare l’Italia, visto che l’impianto nella città di Damietta è di proprietà, in parte, di Eni.

Tripoli si è alleata saldamente con Ankara con un accordo che minaccia la stabilità in tutto il Mediterraneo orientale e coinvolge Grecia, Cipro, Egitto e Israele.
In dispregio all’Alleanza Atlantica, la politica espansiva di Erdogan vorrebbe fare della Turchia una grande potenza, che assolutamente non è. Dal suo canto, l’Italia, in Mediterraneo, non è rappresentata al livello che le compete, ma c’è ancora l’ENI.

2967.- Immigrazione clandestina, pugno duro in Grecia: 4 anni di carcere a chi entra illegalmente. Altro che Italia

rassegneitalia.info, 3 Marzo, 2020

Di Federico Giuliani – Pugno duro della Grecia sull’immigrazione: il governo di Atene è pronto a condannare a quattro anni di carcere chiunque entri illegalmente sul proprio territorio. Secondo quanto riferito dall’agenzia Agi un tribunale greco ha condannato i primi migranti fermati per aver attraversato il confine terrestre greco-turco senza avere l’autorizzazione. Per i trasgressori è scattata una stangata non da poco: quattro anni di galera più una multa dal valore di 10mila euro.

Dall’alba di sabato scorso sono state arrestate un totale di 183 persone: le stesse che erano riuscite ad attraversare la frontiera con la Turchia. Nello stesso periodo la polizia e le forze armate hanno anche impedito l’ingresso nel Paese ad altre 24.203 persone.

Il governo greco ha inoltre fatto sapere che la sospensione del processo di asilo per un mese è in linea e in regola con il diritto internazionale perché Atene deve fronteggiare massicci arrivi di migranti e non singoli ingressi. L’esecutivo ha spiegato in una dichiarazione che il “massiccio” tentativo di “cittadini di Paesi terzi” di attraversare “le frontiere terrestri e marittime” della Grecia con la Turchia, che “secondo tutti gli indicatori” è guidato e diretto da Ankara, costituisce una “minaccia alla sicurezza nazionale“.

È importante ricordare come la dichiarazione sottolinei anche che il diritto internazionale ed europeo preveda anche l’adozione di misure eccezionali di fronte a situazioni di emergenza. La Grecia ha poi dichiarato che è altrettanto legale, secondo un parere della Corte europea dei diritti umani, rimpatriare soggetti che sono entrati illegalmente nel Paese senza essere autorizzate a presentare domande di asilo.

Le reazioni dell’Unhcr e di Sassoli

Dura la reazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che ha criticato le misure del governo greco ritenendo che essere “non abbiano una base giuridica”. “Né la convenzione del 1951 sullo status di rifugiato né il diritto comunitario dell’Ue forniscono una base legale per sospendere l’esame delle domande di asilo“, ha concluso l’Unhcr in una nota.

Dal canto suo il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, a margine di una conferenza stampa a Bruxelles ha sottolineato come la Grecia sia stata lasciata sola da tempo ad affrontare i flussi migratori. “La situazione nelle isole greche è così da tanto – ha detto Sassoli – Abbiamo richiamato anche le altre istituzioni ad una maggiore attenzione. Noi dobbiamo accoglierli e proteggerli non lasciando sola la Grecia”.

“La Grecia – ha concluso Sassoli – è un Paese europeo e vogliamo sostenerla nella sua azione. Anche qui serve una politica europea più forte. Avevamo detto che chi arriva in Grecia arriva in Europa, ma anche su questo richiamo è calato il silenzio da parte degli Stati membri. Per tante questioni che riguardano la vita dei nostri cittadini, come l’immigrazione o c’è più Europa, oppure questi problemi non si risolvono“.

2617.- Quei clandestini che Atene non vuole vedere

di sébastien daycard-heid, alcuni anni fa; ma attuale.

Atene è divenuta il capolinea di numerose migrazioni. La comunità albanese, la più numerosa, è anche la più stigmatizzata. Storia di un malinteso.

Piazza Omonia, gli striscioni e i piccoli gruppi si uniscono. Gli ateniesi, abituati alle manifestazioni, non vi prestano neppure attenzione. Gazmend Elezi, un albanese di 30 anni venuto da Exarchia, il quartiere studentesco alla moda, si dimostra tuttavia determinato. Dieci anni fa decise di venire in Grecia attraversando le montagne a piedi, mentre suo fratello scelse l’Italia. «Era più vicina e meno cara, non c’era bisogno di passatori, soltanto di attraversare le montagne» racconta.

Oggi protesta assieme ad altri albanesi contro «il furto dello Stato che pretende 150 euro per un permesso di soggiorno che consegna quando ormai non è più valido». «Un vero problema – spiega – perché rimango senza documenti. Non posso ritornare in Albania a far visita alla mia famiglia sotto la minaccia di non poter più far ritorno in Grecia.» Stanco, Gazmend ha lasciato perdere i contratti in nero per iscriversi all’università. «L’estrema complessità della procedura e la lentezza della burocrazia scoraggiano le persone a regolare la propria situazione» afferma Vassilis Chronopoulos, membro dell’Associazione Socrates, che si occupa di aiutare gli immigranti nei rapporti con la pubblica amministrazione greca. «Un altro problema è il lavoro nero, molto diffuso e che crea questi clandestini. La maggior parte di loro non può dichiarare un salario né beneficiare dalla previdenza sociale. Non possono provare di aver lavorato e quindi non possono rinnovare il permesso di soggiorno.»

Oggi vivono in Grecia circa 600mila albanesi: rappresentano i due terzi del numero totale degli immigrati presenti nel Paese. Sono arrivati qui dopo la caduta del regime comunista e il fallimento del sistema dei fondi d’investimento piramidali in vigore in Albania negli anni Novanta.

Anche Matilda Kouramano, 19 anni, è albanese, ma possiede la nazionalità greca. Viene da Sarandë, una città costiera nell’”Epiro del Nord”, il nome dato dai greci a quel sud dell’Albania popolato dalle comunità greche. Croce ortodossa appesa al collo, Matilda ammette di non aver incontrato le stesse difficoltà dei suoi vecchi compatrioti: «Sono partita nel 1997, durante la guerra civile. Nella mia città tutti i giovani vogliono partire» confida. «Mi sono rapidamente integrata grazie all’origine greca di mio padre e di mia madre».

Integrazione più facile per gli immigrati “di sangue greco”

Nel Paese convivono di fatto due realtà migratorie: quella di origine greca – proveniente da Albania, Georgia, Armenia e Kazakistan – e quella non greca, proveniente anch’essa dall’Albania oltre che dalla Bulgaria, dal Pakistan o dalla Nigeria. «Nei confronti dei greci c’è una discriminazione positiva perché nel Paese si continua a privilegiare il diritto di sangue» afferma Anna Triandafyllidou, studiosa dei flussi migratori presso l’Istituto di ricerca Eliamep.

Ma ai non greci risulta più difficile integrarsi. Le norme sono ancora molto severe. «I bambini non greci, per esempio, devono richiedere un permesso di soggiorno dopo aver compiuto 18 anni. Poco importa che siano nati in Grecia» spiega la studiosa. «Il problema diventa allora quello di rinnovarlo perché in due anni bisogna accumulare 400 giorni di lavoro».

Altra difficoltà: la cattiva preparazione della Grecia, tradizionalmente paese di emigrazione, ad affrontare l’immigrazione. «Nel 1992 il Paese ha invitato i suoi cittadini a far ritorno in patria. Il governo si è rapidamente reso conto che questa non era una buona idea, poiché ha dato origine a consistenti flussi di popolazione e a una competizione su chi sia il più greco» spiega ancora Anna Triandafyllidou.

I media hanno presentato questi arrivi di massa come una vera e propria invasione. Poi come un vivaio di organizzazione criminali perché anche alcuni detenuti usciti dalle carceri albanesi hanno attraversato la frontiera. Quindi si è detto che gli albanesi facevano abbassare i salari. Recentemente ha destato scandalo un video che mostra due albanesi maltrattati da alcuni poliziotti.»

«Non si può più andare avanti così»

Se si chiede ad Anna Triandafyllidou un parere in merito alla politica sull’immigrazione, la sua risposta è franca, netta. «Non si può più andare avanti per ondate di regolarizzazione, come nel 1998, 2001, 2005. Ogni volta che devono rinnovare il permesso di soggiorno si ricade nella stessa spirale. L’immigrazione in Grecia esiste ormai da vent’anni: è tempo di reagire».

Ilias Bellou è un albanese di Voskopolje arrivato in Grecia, anche lui, viaggiando a piedi. Oggi è un avvocato che difende i diritti degli immigrati albanesi. È favorevole a una «politica dell’immigrazione per i prossimi due decenni». Per lui complicare la vita agli immigranti genera soltanto ingiustizie e miseria umana, un terreno su cui prosperano poi altri. «Il lavoro nero continua a essere diffuso. Rafforza la competitività della Grecia ma fa perdere molto denaro allo Stato. Gli albanesi o i bulgari non accettano più di lavorare per dei salari inferiori e pretendono il rispetto dei loro diritti. Queste persone lavorano, producono ricchezza in Grecia, ma non beneficiano di alcuna assicurazione sociale. Bisogna quindi organizzare l’immigrazione».

Liliana Tsourdi, che si batte per difendere i diritti dei richiedenti asilo in Grecia, condivide questo parere. «Alcuni anni fa – ricorda – la Grecia era uno dei peggiori paesi in materia di diritto di asilo: non eravamo considerati neppure un paese sicuro secondo i criteri dell’Alto Commissariato per i Rifugiati. Oggi, invece, abbiamo in merito un vero programma grazie al recepimento delle direttive europee. Ma per garantire i diritti bisogna ancora rafforzare la formazione dei funzionari e della polizia. Sono convinta che l’Unione Europea dovrebbe sviluppare una politica comune anche in materia di immigrazione».

In via Sophocleous continuano a insediarsi i nuovi arrivati. Cinesi, pakistani, bangladesi, africani, approdati in Grecia sulla rotta per l’Europa occidentale. Sistemano la loro mercanzia nelle strade, rimpiazzati, una volta scesa la notte, dalle prostitute nigeriane. «Volete un arco? O una faretra?» propongono i colossi africani in Piazza Monastiraki in pieno centro ad Atene. Altri vendono oggetti decisamente più utili nel centro città come i dvd.

Ma come gli albanesi che lavorano in nero nell’edilizia e nell’agricoltura, o i bulgari nel turismo, questi clandestini fanno girare l’economia informale che, secondo la Borsa Internazionale del Turismo (Bit), rappresenterebbe tra il 30 e il 35% del Pil della Grecia. Il livello più alto nell’Unione Europea. Il vero problema del Paese.

Il ritorno dei discendenti

«Avvenne dopo la guerra in Asia Minore, nel 1920. Dopo la disfatta, Venizelos e Mustapha Kemal si erano accordati per uno scambio di popolazioni. Tutti i greci, commercianti discendenti dei contabili greci dell’antichità e dell’epoca bizantina, quelli del Mar Nero e dell’Egeo, sono dovuti partire. I nonni di mio padre abitavano nella provincia turca di Trebisonda. Arrivarono in Grecia in macchina e decisero di stabilirsi nei territori del Nord della Grecia, da poco riconquistati, vicino a Edirne. Qui mio padre incontrò mia madre, i cui genitori stavano tornando dalla Tracia turca ».

Pavlos Giannoulidis conosce questa storia per frammenti. Come numerosi altri greci, è uno dei discendenti dei 2 milioni di «piedi neri» dell’Asia Minore, venuti negli anni Venti e che hanno ancora i loro quartieri ad Atene, come “Néa Smyrni”(la nuova Smirne).

Oggi i greci venuti dall’estero – dall’Albania ma anche dall’ex Unione Sovietica, dalla Georgia, dalla Armenia, dalla Russia del Kazakistan – ritornano nella madrepatria dove ottengono facilmente la naturalizzazione. «Complessivamente circa 150mila greci stranieri hanno fatto ritorno dopo la caduta del muro di Berlino» confida la studiosa Anna Triandafyllidou. Molti hanno trovato un posto, grazie a un programma dello Stato, nel Nord, vicino al confine turco, in quella zona estremamente variegata che è la Tracia greca. Ma in questa regione, la più povera del Paese e con il più alto tasso di disoccupazione, questo trattamento di favore ha creato delle tensioni con la importantissima comunità turca. Parlando male il greco, per molti è difficile integrarsi e far ritorno ad Atene.»

Vorrei ringraziare molto calorosamente Elina, Olga e Pavlos senza i quali questa indagine non sarebbe stata possibile.

Translated from Ces clandestins qu’Athènes ne veut pas voir

2002.- EUROPA: CHI STA CON GLI STATI SOCIALI E CON LA CRISTIANITA’ E CHI NO

Unknown

La Macedonia dice no all’Europa: fallisce il referendum per cambiare in FYROM il nome del Paese. Il tanto atteso referendum, consultivo e non vincolante, sull’accordo con la Grecia per il nuovo nome del Paese ex jugoslavo (Macedonia del nord) non ha raggiunto il quorum: il presidente nazionalista Ivanov aveva invitato al boicottaggio perché l’accordo è una «flagrante violazione della sovranità» nazionale macedone e una capitolazione di fronte agli interessi greci. Il presidente nazionalista Gjorgje Ivanov aveva dichiarato: «Questa è la Macedonia, qui vivono i macedoni, la nostra identità è quella macedone, la nostra lingua è il macedone, i nostri antenati erano macedoni». Per l’approvazione delle modifiche costituzionali legate all’accordo con la Grecia per il nuovo nome è richiesta la maggioranza dei due terzi, che attualmente il governo non ha. L’affluenza alle urne non ha raggiunto il 50% più uno. L’ultimo dato diffuso dalla commissione elettorale parlava di una partecipazione di appena sopra il 34% alle 18.30, mezz’ora prima della chiusura dei seggi. A metà dei voti scrutinati, oltre il 90,8% dei votanti aveva scelto il cambio di nome, rispetto al 6,18% dei no. Da Bruxelles – che aveva posto la soluzione sul nome conteso con la Grecia come condizione al cammino di adesione all’Ue – anche il Commissario all’allargamento Johannes Hahn ha invitato in un tweet «tutti i partiti» a tenere conto «con grande senso di responsabilità» della «notevole maggioranza di voti a favore» dell’accordo, nonostante non si sia raggiunto il quorum.

Il problema esiste da quando nel 1991 la Macedonia dichiarò la sua indipendenza dalla Jugoslavia scegliendo il nome “Repubblica di Macedonia”, lo stesso nome che aveva quando faceva parte della federazione jugoslava. Diversi politici greci accusarono il nuovo paese di essersi appropriato di un nome e di un’identità culturale e storica appartenente a un’area geografica e una storia – quella dell’antico regno macedone – di tradizione prevalentemente greca. Secondo questa tesi, la Repubblica di Macedonia si era appropriata di figure come Alessandro Magno e altri simboli antichi. Il loro uso è percepito come una scorrettezza e una minaccia per la regione più settentrionale della Grecia (che infatti si chiama Macedonia): per questo motivo la Grecia ha sempre posto il veto all’ingresso della Macedonia nell’UE o nella NATO, spiegando che prima andava risolta la questione del nome e dell’eredità dell’antico regno macedone.

Per evitare problemi nel 1993 le Nazioni Unite accettarono la Macedonia a patto che il suo nome ufficiale fosse FYROM,“Former Yugoslav Republic of Macedonia” . Nel 1995 il contenzioso tra Grecia e Macedonia arrivò alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja: nel 2011 la Corte diede ragione alla Macedonia, che ha infatti continuato a chiamarsi con il nome scelto nel 1991. Ma la Grecia ha comunque continuato ad opporsi all’entrata della Macedonia nell’Unione Europea e nella NATO.

Il referendum chiedeva proprio ai cittadini di rispondere alla domanda «Sei favorevole a entrare nella NATO e nella Unione Europea, e accetti l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?». Il principio di accordo era stato firmato a giugno da Zaev e dal primo ministro greco Alexis Tsipras, dopo un voto favorevole da parte del parlamento greco.

La disputa con la Grecia dura da 27 anni, ma una è la Macedonia ed è quella del Nord.

macedonia

Londra fuori, Turchia e Macedonia dentro. Europa, fatti una domanda… titola il Secolo d’Italia.

Il referendum in Macedonia sull’ingresso del Paese balcanico nell’Unione europea e sul cambio del nome per contrasti con la Grecia, “ha riportato” all’attenzione dell’Europa lo stato disastroso della Ue. Il Paese poverissimo nato dalla frantumazione della Jugoslavia vorrebbe entrare nella ricca Ue (ha presentato domanda di adesione nel 2004), allo scopo di ricevere sostanziosi finanziamenti per “progetti” di sviluppo, mentre. ad esempio, la Serbia, molto più ricca ed evoluta della Macedonia, è ostacolata con ringhioso sospetto dagli eurocrati di Bruxelles. E questo a causa della guerra di Bosnia, nel corso della quale Onu, Ue e Usa hanno preso smaccatamente parte contro Belgrado e a favore dei musulmani. Il risultato finale della guerra di Bosnia è stato che ora abbiamo due Stati musulmani piantati nel cuore dell’Europa. Dei sei Stati in cui si è polverizzata la Jugoslavia solo due, Croazia e Slovenia, sono stati accolti. Diverso il discorso della Turchia, che geograficamente neanche fa parte dell’Europa, che ha presentato domanda nel lontanissimo 1987, e la cui candidatura è stata sostenuta per anni dalla sinistra europea, Italia compresa. Sembrava cosa fatta, se non che la Turchia, membro della Nato, ha iniziato una deriva fondamentalista che ha raffreddato gli animi e aperto gli occhi ai popoli europei sulla presidenza Erdogan. Senza contare le proteste sanguinose, i disordini, la repressione, ricordiamo che le truppe di Ankara (assegnate alla NATO, cui contribuiamo pesantemente in denaro e con una batteria di missili a difesa di Ankara. ndr) hanno invaso militarmente uno Stato sovrano, la Siria, senza che le sedicenti organizzazioni internazionali, Onu, Ue, Nato, dicessero nulla, mentre quando la Serbia fece esattamente lo stesso per proteggere l’unità del Paese, fu addirittura bombardata dagli Stati “democratici”. La Turchia inoltre continua a perseguitare i curdi, forte minoranza etnica nel Paese (si stima intorno a 20 milioni la popolazione curda in Turchia) e a effettuare arresti politici indiscriminati. Su Ankara inoltre pesa il genocidio degli Armeni del 1915 che si rifiuta di ammettere nonostante la mole di prove. Candidate all’ingresso nella Ue anche Albania e Montenegro, mentre Romania e Bulgaria già sono dentro. Se si considera che il Regno Unito, uno dei Paesi più ricchi e civili del mondo, è liberamente uscito con il referendum della Brexit e se si considera che la Norvegia, altro Paese estremamente civile ed evoluto, non è mai neanche voluta entrare, e se si considera infine che la civilissima Islanda ha addirittura ruitirato la propria candidatura nel 2015, non ci si può sottrarre dal porci qualche domanda su questa Unione europea. Come mai gli Stati più ricchi, evoluti e a più antica tradizione di libertà fuggono e quelli più poveri – meglio se musulmani – premono per entrare? E’ evidente che la logica suicida di Bruxelles è una logica pauperista tesa a portare al ribasso gli standard di vita degli europei, non adeguandoli a quelli inglesi ma abbassandoli a quelli macedoni, in un’ottica di livellamento quasi sovietico e cinese della popolazione. I governi sedicenti liberali e di sinistra che negli ultimi anni hanno governato la Ue hanno scelto la strada suicida della povertà e della antidemocrazia, per rendere gli europei schiavi ai diktat di Bruxelles, forzando questa strategia con l’ingresso indiscriminato nel continente di milioni di africani e asiatici di religioni diverse da quella europea, allo scopo di annichilire il vecchio continente. La fuga di Londra dovrebbe aprirci gli occhi. Ma c’è ancora una speranza per l’Europa, prima che sia tardi: i movimenti sovranisti e identitari stanno facendo prendere coscienza della situazione ai popoli europei, che iniziano a ribellarsi alle lobbies finanziarie che foraggiano le ong, ai potentati economici che armano i terroristi che stanno insanguinando l’odiata Europa. Ma che ci odino gli estremisti islamici è quasi comprensibile, quello che non è comprensibile è che alcuni europei odino i loro compatrioti.

Antonio Pannullo

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