Archivi categoria: Storia d’Italia

5920.- La Resistenza rubata finisce e l’ANPI non la rappresenterà più.

Il ministro Valditara toglie (finalmente) all’Anpi il monopolio sulla Resistenza.

Da La -nuova Bussola Quotidiana, di Andrea Zambrano.

Il ministro della scuola toglierà all’Anpi il monopolio sulla Resistenza. Un’occasione per raccontare la guerra civile dando voce ai cattolici che lottarono contro i nazisti, ma caddero denunciando i crimini dei partigiani comunisti. 

Togliere (finalmente) all'Anpi il monopolio sulla Resistenza

Le parole di Valditara

Dicendo che l’Anpi non ha il monopolio della Resistenza, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara non solo ha toccato un nervo scoperto della nostra storia, ma ha anche detto qualcosa di rivoluzionario. Rivoluzionario rispetto alla vulgata che si è imposta da 80 anni secondo cui l’Anpi detiene il monopolio della verità sul tragico biennio che va dall’8 settembre ’43 al 25 aprile e per alcuni casi anche oltre.

Ma anche per il destinatario delle sue parole, la scuola, che nei suoi programmi, salvo iniziative personali di docenti coraggiosi, è rimasta ancora ad una lettura della Resistenza come un movimento privo di qualsiasi criticità, idealizzato e ideologizzato da sinistra.

L’occasione della sua presa di posizione è il mancato rinnovo della convenzione che il Ministero stipula da tempo immemore con l’Associazione di partigiani comunisti per parlare nelle scuole di quei fatti. Valditara è stato molto chiaro: «I valori dell’antifascismo sono anche i miei e la Resistenza è un valore prezioso, però l’Anpi non ha il monopolio della Resistenza». Così aprirà anche alle altre associazioni combattentistiche. 

Lo strepito indignato dei partigiani (leggi QUI le reazioni come se avesse bestemmiato) non è di particolare interesse perché, in fondo, prevedibile. Ma l’Anpi fa il suo mestiere che è quello di tenere viva la sirena dell’antifascismo senza accorgersi che esso – il fascismo – si è ormai spostato su altri lidi. Ma questa miopia deriva dal fatto che ormai, tra i suoi 141mila iscritti, i combattenti che diedero vita all’Anpi sono quasi tutti morti.

Quel che è interessante notare, piuttosto, è che per affrontare quel periodo storico, non può certo bastare una frase, ma sicuramente quella frase potrebbe aprire davvero una nuova pagina non nel senso dell’imposizione di una memoria dei vincitori, ma nella tanto agognata memoria accettata che dentro il movimento chiamato Resistenza si sono celati anche crimini.

Perché togliere all’Anpi il monopolio della Resistenza significa anzitutto dar spazio alla verità del movimento resistenziale, che non può essere disgiunta anche dai suoi errori. Il ministro si riferisce al fatto che dentro il movimento partigiano c’erano anche combattenti cattolici, liberali, azionisti e monarchici. E che fecero la Resistenza anche i soldati che continuarono a combattere i nazisti pur senza darsi alla macchia, ma pagando un prezzo altissimo in termini di libertà, ricordate Giovannino Guareschi?

La lettura critica della Resistenza che questo Paese si merita non può non prescindere anche da un fatto inequivocabile, ma volutamente taciuto nelle ricostruzioni ad uso scolastico e nelle commemorazioni e cioè che dentro il movimento partigiano, molti, non tutti fortunatamente, ma molti partigiani comunisti hanno combattuto due guerre in una: la liberazione dai nazisti e l’affermazione dell’ideologia comunista, in salsa stalinista, per imporre la quale non ci si è fatti scrupolo di passare per le armi con l’accusa di fascisti, semplici nemici di classe come imprenditori, medici, farmacisti, preti e funzionari perché visti come ostacolo all’affermazione del comunismo. Cittadini che non avevano aderito alla Gnr, ma che venivano comunque visti come nemici del popolo.

È questa la pagina più buia del nostro passato che è stata scritta, ma non è stata accettata del tutto. Il Triangolo della morte, per usare un celebre libro di Giorgio Pisanò, grida ancora il suo spazio di verità nel panorama culturale italiano e nei percorsi scolastici.

Ben venga dunque una maggior pluralità di voci nel raccontare la Resistenza agli studenti. Sarebbe l’occasione per far conoscere – finalmente – i grandi eroi della guerra di liberazione che sono stati cancellati perché semplicemente non comunisti.

Prendiamo ad esempio l’esperienza dei cattolici. Qui, la vulgata comunista ha soffocato ogni tipo di esperienza storica, per la verità aiutata anche da cattolici come Giuseppe Dossetti, a sua volta partigiano dell’ultim’ora – dopo essere stato fascista modello -, ma al quale il suo vescovo Giacomo Biffi rimproverava una cecità nel non riconoscere il martirio dei confratelli ad opera dei gappisti che condivisero con lui l’esperienza resistenziale.

Così facendo, gli studenti non hanno potuto conoscere figure di coraggio e abnegazione davvero esemplari. Pensiamo ad esempio al comandante Bisagno, per decenni sepolto dall’oblio perché cattolico. Oggi su di lui si è iniziato ad aprire uno squarcio importante, con la pubblicazione di libri e con la realizzazione di un film.

C’è anche chi, recentemente, ha scritto una canzone su di lui (ascoltala QUI, cantata dal giornalista reggiano Edoardo Tincani con la band Lookin4) mentre da più parti si spinge per la sua causa di beatificazione con il riconoscimento del martirio in odium fidei. Si tratta, dunque, di un protagonista completo della guerra di liberazione, che però, avendo avversato le angherie dei compagni di battaglia comunisti, è stato punito dalla storia con un oblio ingiusto.

Oppure, che dire del comandante Azor Mario Simonazzi, sappista delle Fiamme Verdi, che come noto erano cattoliche. Fu oggetto di un processo sommario due giorni prima della fine della guerra, quando l’ubriacatura ideologica di certi gappisti spingeva a eliminare quei compagni di viaggio che non condividevano la lotta per il Sol dell’avvenir.  

E di Giorgio Morelli, il Solitario, figura luminosa di cattolico e combattente, che avviò con il giornale La Penna la più coraggiosa attività di indagine giornalistica dei crimini commessi dai partigiani comunisti fino a pagare con il sangue la sua difesa della verità. Anche per lui, come per tutti gli altri che presero le distanze dai comunisti (la storia né è piena, dal comandante della Brigata Italia Ermanno Gorrieri al medico “francescano” Pasquale Marconi fino a don Domenico Orlandini, il partigiano Carlo) gli studenti dovrebbero conoscere le gesta.

Ma senza tacere che, oltre che un movimento di liberazione al quale essere grati, la Resistenza è anche stata una sanguinosa guerra civile.

La Resistenza contro i francesi. Tutti dicono che i francesi non ci amano? peggio !! Quando possono cercano di distruggerci

(di Augusto SINAGRA – parte prima).

Chi ama o difende la Francia è nemico della nostra patria!

La Francia storicamente, e anche nella attualità, infatti è sempre stata il nemico dell’Italia più impietoso, subdolo e malvagio e che contrasta i nostri interessi territoriali confinari.

L’aggressione voluta da Sarkozy per impossessarsi del petrolio libico e impedire la moneta unica panafricana voluta da Gheddafi, è cosa nota. Ma c’è di peggio!

Al tavolo della pace nel 1919, come poi nel 1947, la Francia fu il nostro peggiore nemico tra gli Stati vincitori.

La Francia è quella che nel marzo-aprile 1945 voleva annettersi la Val d’Aosta e fu respinta dai Soldati della Divisione “Littorio” della RSI che combatterono unitamente a formazioni partigiane della Divisione “Garibaldi”.

La Francia è sempre quella che, bombardò le nostre coste liguri e toscane prima ancora della nostra dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940. Ed osa parlare di una “pugnalata alla schiena” da parte dell’Italia.

È sempre quella che, debellata facilmente dalle Armate tedesche nel 1941, ebbe il suo governo fantoccio asservito ai tedeschi, a Vichy, presieduto dal Maresciallo Philippe Pétain. Governo di Vichy che rastrellava gli ebrei per mandarli a morire in Germania con maggiore zelo degli stessi tedeschi. Governo di Vichy che ebbe come suo Sottosegretario Francois Mitterand, poi divenuto il democraticissimo Presidente della Repubblica francese.

È sempre la Francia, finto difensore dei diritti umani, che continua a dare asilo politico ad assassini e terroristi italiani.

La Francia è un Paese tanto prepotente quanto fortunato: sconfitta nella seconda guerra mondiale e con un governo biecamente collaboratore dei nazisti (altro che governo della RSI!), fu ritenuta sorprendentemente Stato vincitore.

La presa di coscienza di molti Stati africani dopo più di 60 anni dalla finta indipendenza del 1960, ha posto fine allo sfruttamento coloniale francese. Oggi la Francia viene letteralmente cacciata a pedate dall’Africa.

È vero che anche l’Italia fu cacciata dalle sue Colonie, ma per volontà di forze estranee e non per volontà degli abitanti di quei territori che ancora ricordano con gratitudine e rimpianto la pur breve presenza italiana.

Specialmente dopo i fatti del Niger e dopo una situazione sociale interna ai limiti della guerra civile, la Francia ancora non si rassegna e pretende di continuare il suo sanguinoso sfruttamento coloniale.

La Francia è quella che nel 1980 abbattè il nostro aereo civile dell’Itavia causando 87 morti !

Di Alessandro Pagano

Partigiani della Garibaldi, Granatieri della 2ª Divisione granatieri “Littorio” e artiglieri della divisione alpina Monterosa, insieme, a difesa della Val d’Aosta

La 2ª Divisione granatieri «Littorio», una delle 4 della RSI, schierava 18.500 uomini, di cui 3.000 quadri. Terminato l’addestramento in Germania, rientrò in Italia tra il 20 ottobre e il 1º novembre 1944 e fu schierata a ridosso della Linea Gotica, nell’Oltrepò Pavese, alle dipendenze del LXXV Armeekorps tedesco in funzione anti-guerriglia, ma il Comandante di Divisione, il generale Agosti, riuscì a ottenere di spostarla sul fronte occidentale al confine francese, fra il colle di Tenda e il Piccolo San Bernardo. Per mesi la divisione resistette a tutti i tentativi dei franco-americani miranti a occupare territori italiani, riuscendo anzi nel contrario, perché alla fine era in possesso di alcune teste di ponte in territorio francese. Il 27 aprile 1945, dopo una strenua difesa dei confini dalle forze francesi e americane, con la fine della Repubblica Sociale Italiana, quando l’unità era ancora in possesso di alcuni territori francesi, il generale Agosti promulgò l’ordine di scioglimento della divisione, venendo poi catturato dagli Alleati, ma gli alpini dei battaglioni «Varese» e «Bergamo» del Reggimento alpini della divisione e gli obici della 12ª Batteria del Gruppo «Mantova» del 1º Reggimento artiglieria della 4ª Divisione alpina «Monterosa”» affiancarono le Fiamme Verdi del CLNAI fino all’8 maggio, e contribuirono a fermare il tentativo di annessione della Valle d’Aosta alla Francia, in un’insolita alleanza tra partigiani italiani e soldati della RSI.

Dopo la cattura il generale Agosti fu rinchiuso nel campo di concentramento di Coltano e accusato di aver commesso crimini di guerra. Mentre si trovava rinchiuso nel carcere militare di Forte Boccea a Roma, però, preferì suicidarsi piuttosto che essere giudicato da una giuria che egli riteneva parziale e «traditrice».

Il principe Valerio Borghese, nel 1945, fece chiedere al re, a Brindisi, di schierare la X MAS a difesa di Trieste, Pola e Fiume. Fu un No!

Il “re senza onore” intratteneva rapporti con Josip Broz Tito, con cadenza mensile e respinse l’iniziativa della X MAS. É bene ricordare che il nostro re, fra il 26 aprile e il 3 maggio 1915 era stato contemporaneamente alleato e nemico sia della Triplice che dell’Intesa e che sul buon fine della “fuga di Pescara”, nel settembre 1943, consentita stranamente da Kesserling, ci sono più certezze che dubbi.

Giorgio Pisanò: “Durante tutto il periodo seguente all’armistizio, fra la Decima MAS della Repubblica Sociale e Mariassalto del Regno d’Italia si mantennero comunque stretti rapporti segreti, volti in particolare a evitare che i due reparti potessero scontrarsi direttamente sul fronte, a gestire i prigionieri dell’una e dell’altra parte all’insaputa dei comandi rispettivamente tedeschi e angloamericani, e infine a coordinare un ipotetico tentativo di sbarco di truppe regie in Istria con il supporto dei reparti locali della Decima repubblicana per evitare l’invasione della Venezia Giulia da parte dei partigiani comunisti di Tito.” Sua Maestà non approvò.

Dopo l’incontro nella torrida estate 1944 nella reggia di Caserta tra Churchill e Tito, Londra decise di tralasciare ogni ipotesi di restaurazione monarchica della Jugoslavia e abbandonare al loro destino i cetnici. L’instaurazione di una dittatura bolscevica a Belgrado, la concessione della Dalmazia e dell’Istria italiana (e magari il Friuli sino al Tagliamento) sembrarono a Churchill il giusto compenso per il nuovo pittoresco alleato.

5873.- L’eroe francese degli italiani: Joseph Marie Garibaldì


Sal D. D’Agostino

Da FB. Questa è la “lettera scritta” da Giuseppe Garibaldi, o per meglio dire Joseph Marie Garibaldì, che 2 giorni prima di morire inviò al professor Carlo Lorenzini, meglio conosciuto come Carlo Collodi. È tratta dal romanzo “Le confessioni di Joseph Marie Garibaldì”, di Francesco Luca Borghesi.

«Illustrissimo professore Carlo Lorenzini,

Scrivo con rispetto e gratitudine a Voi che decideste di farmi cosa grata riportando le mie memorie al popolo di una penisola che mai amai come avrei potuto, che mai difesi come avrebbe meritato.

Una penisola che non fu mai e mai sarà la mia patria.

Una penisola meravigliosa che io non solo non unificai, se non unicamente al nome, ma che addirittura divisi, e, per mia colpa, divisa sarà per sempre.

[…] codesto giorno, trentuno maggio ottantadue del secolo milleottocento, sono a ricordare la mia vita trascorsa, in attesa che venga definitivamente compiuto il mio destino […] forse non temo neppure: diciamo che attendo che presto sia fatta giustizia e chi mai può sapere se dopo la morte vi sarà giustizia?!

Voi infatti penserete che io sia felicemente italiano: se così fosse le sorprese non vi mancheranno.

Se vi aspettavate un patriota, troverete un avventuriero.

Se vi aspettavate un probo, troverete un dissoluto.

La spedizione dei mille fu realmente la più vile porcata che il suolo della penisola possa aver mai vissuto e, a questo punto, spero che mai sia costretta a rivedere.

La mia vita era rivolta alla ricerca di fama e ricchezza: mi venne in mente di unificare l’Italia in quanto sarei potuto diventare potente e ricco.

Cercai appoggi, soldi e falsi ideali su cui far leva e trovai qualcuno che, dopo avermi usato, mi mise da parte.

Diciamo subito e senza giri di parole: il patriottismo in Italia non è mai esistito.

Mi ricordano tutti come il patriota Giuseppe Garibaldi, ma queste sono voci, magari leggende, ma certamente menzogne.

Mi chiamo Joseph Marie Garibaldi e, contrariamente, a quanto pensano molti, sono e mi sento francese.

* VA PRONUNCIATO COSI: Joseph Marie Garibaldì (accento sulla i finale)

La verità su Garibaldi. Sempre saputo ! e mai rispettato. È stato la rovina dell’Italia. 5301.

Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.(Indro Montanelli)

Garibaldi era di corporatura bassa, alto 1,65, ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lunghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso (Secondo una diversa narrazione, portava i capelli lunghi per coprire l’orecchio mozzato, pena dei messicani per i ladri di cavalli.). Era un avventuriero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree. 

In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie. 

Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi, equivalente oggi a molti milioni di dollari (I Rothschild avrebbero pagato il nolo del Piemonte e del Lombardo).

Il Regno delle Due Sicilie, seconda potenza industriale, con la sua flotta, costituiva un problema per la Gran Bretagna. La libertà di navigazione attraverso il Canale di Sicilia, essenziale per il potere marittimo della Gran Bretagna, sarebbe stata compromessa se Napoli avesse occupato anche la sponda tunisina. La Tunisia, allora, era popolata per il 75% da siciliani. 

In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, proprio dopo “l’incontro di Teano”: “… come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile né cosí onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.

5664.- Michelangelo e Leonardo da Vinci andavano d’accordo? Si sono mai incontrati?

Mettiamo a letto per un giorno Biden, Zelensky, Meloni. Rimas Ikrak ha scritto su Quora, in inglese: 

How did Michelangelo and Leonardo da Vinci get along, did they ever meet each other and what did they think of each other’s work?

Come scrisse Vasari, Michelangelo mostrò “uno sdegno molto grande” verso Leonardo. Così, in tre incidenti:

Incidente 1

Un giorno Leonardo stava camminando con un amico in una delle piazze centrali di Firenze indossando una delle sue caratteristiche tuniche rosa. C’era un piccolo gruppo che stava discutendo un passo di Dante, e chiesero a Leonardo la sua opinione sul suo significato. In quel momento arrivò Michelangelo, e Leonardo suggerì che poteva essere in grado di spiegarlo. Michelangelo si offese, come se Leonardo si stesse prendendo gioco di lui. “No, spiegalo tu”, ribatté. “Tu sei quello che ha modellato un cavallo da fondere in bronzo, non è stato in grado di farlo, ed è stato costretto a rinunciare al tentativo per la vergogna“. Poi si voltò e se ne andò. In un’altra occasione, quando Michelangelo incontrò Leonardo, si riferì di nuovo al fiasco del monumento al cavallo degli Sforza, dicendo: “Quindi quegli idioti milanesi credevano davvero in te?”

Incidente 2

A Michelangelo fu commissionato di trasformare un massiccio e imperfetto pezzo di marmo bianco in una statua dell’uccisore di Golia, David. Lavorando con la sua solita segretezza, all’inizio del 1504 aveva prodotto la statua più famosa mai scolpita.

I dirigenti di Firenze si trovarono quindi di fronte alla questione di dove collocare questo colosso sorprendente. La questione era così controversa che ci furono persino dei lanci di pietre da parte di alcuni contestatori. Essendo una repubblica, Firenze formò un comitato. Una trentina di artisti e leader civili furono convocati per discutere la questione, tra cui Filippino Lippi, Perugino, Botticelli e naturalmente Leonardo.

Michelangelo originariamente sperava che la sua statua stesse fuori dall’ingresso della cattedrale in Piazza del Duomo, ma presto si rese conto che era meglio come simbolo civico di Firenze e sollecitò che fosse collocata nella piazza di fronte al Palazzo della Signoria. Giuliano da Sangallo, che era uno dei migliori architetti e scultori di Firenze, favorì un sito sotto l’ampia Loggia della Signoria, un edificio all’angolo della piazza. Lui e i suoi sostenitori sostenevano che infilare il David lì lo avrebbe protetto meglio, ma questa scelta avrebbe avuto anche l’effetto di renderlo meno prominente, dominante e visibile. “Andremo a vederlo, e non faremo in modo che la figura venga a vedere noi”, disse un altro sostenitore della posizione della loggia.

Non sorprende che Leonardo si sia schierato dalla parte di nasconderla all’interno del portico. Quando fu il suo turno di parlare, disse: “Sono d’accordo che dovrebbe essere nella Loggia, come ha detto Giuliano, ma sul parapetto dove si appendono gli arazzi”. Chiaramente, preferiva che la statua di Michelangelo fosse messa in uno spazio poco appariscente. Tuttavia, fu Michelangelo a vincere.

Incidente 3

Non appena la sua statua del David fu collocata nel punto più prominente della piazza civica di Firenze, Michelangelo fu incaricato di dipingere una scena di battaglia che avrebbe fatto compagnia a quella di Leonardo nella grande sala. Per la Signoria e il suo capo Soderini, la decisione fu uno sforzo cosciente di giocare con la rivalità tra i due più grandi artisti dell’epoca.

Leonardo fu incaricato di dipingere una scena di battaglia nel 1503. Tuttavia, nel 1504, anche Michelangelo ricevette una commissione per dipingere nello stesso luogo. ( foto- Palazzo Vecchio (che si chiamava Palazzo della Signoria) dove furono incaricati di dipingere)

Nel cercare di completare questo dipinto e farlo aderire al muro quell’estate del 1505, Leonardo poteva sentire la presenza di un uomo più giovane che gli guardava le spalle, sia letteralmente che figurativamente. A dipingere un murale nella stanza c’era anche l’astro nascente del mondo dell’arte di Firenze, Michelangelo Buonarroti.

Entrambi non riuscirono a completare il loro lavoro. I loro dipinti andarono persi, ma le loro copie sopravvivono. Il primo è la famosa Battaglia di Anghiari di Da Vinci.

E Michelangelo dipinse la Battaglia di Cascina.

Leonardo raramente criticava altri pittori, ma dopo aver visto i nudi di Michelangelo denigrò ripetutamente quello che chiamava il “pittore anatomico”. Riferendosi chiaramente al suo rivale, derise coloro che “disegnano le loro figure nude che sembrano di legno, prive di grazia, in modo che si potrebbe pensare di guardare un sacco di noci piuttosto che la forma umana, o un fascio di ravanelli piuttosto che i muscoli delle figure.” La frase “un sacco di noci” lo divertiva; la usò più di una volta nei suoi attacchi ai nudi di Michelangelo. “Non dovresti rendere tutti i muscoli del corpo troppo vistosi . . . altrimenti produrrai un sacco di noci piuttosto che una figura umana“.

La critica più ampia di Leonardo a Michelangelo era la sua argomentazione che la pittura è una forma d’arte superiore alla scultura. In un passaggio scritto subito dopo la resa dei conti nella sala fiorentina, Leonardo sostenne:

La pittura abbraccia e contiene in sé tutte le cose percepibili in natura, cosa che la povertà della scultura non può fare, come mostrare i colori di tutte le cose. Il pittore dimostrerà le varie distanze attraverso la variazione di colore dell’aria interposta tra gli oggetti e l’occhio. Dimostrerà come le specie di oggetti penetrano con difficoltà la nebbia. Dimostrerà come le montagne e le valli si vedono attraverso le nuvole. Dimostrerà la polvere stessa, e come i combattenti sollevano un trambusto in essa.

– Leonardo da Vinci

Leonardo, naturalmente, si riferiva alle sculture di Michelangelo, ma a giudicare dalle copie esistenti la sua critica si applicava anche alla Battaglia di Cascina di Michelangelo e persino ad alcuni dei suoi dipinti finiti. In altre parole, dipingeva come uno scultore. Michelangelo era bravo a delineare le forme con l’uso di linee nette, ma mostrava poca abilità con le ombreggiature, le visuali morbide, le sottigliezze delle sfumature o il cambiamento delle prospettive dei colori. Ammise liberamente che preferiva lo scalpello al pennello.

Fonte dei testi – Leonardo da Vinci di Walter Isaacson

5578.- Il maiale francese gen. Alphonse Juin e il corpo d’armata francese nella guerra di liberazione in Italia

L’esercito italiano non aveva previsto una guerra alla Francia. Su quel fronte, sul confine fra il Regno d’Italia e la Repubblica francese, mancava di tutto e si macchiò di ridicolo nei 4 giorni della roboante battaglia delle Alpi Occidentali, voluta da Mussolini, da un giorno all’altro, tra il 10 e il 25 giugno 1940. 20 francesi e 631 italiani vi persero la vita. I francesi savoiardi tennero chiusi in recinti, nei campi, senza riparo alcuno gli italiani della Savoia; spaccavano la testa, a colpi di remo, ai superstiti dei bombardieri italiani abbattuti su Tolone, ma quello che fece il corpo d’armata francese del gen. Alphonse Juin in Italia nel 1944 è difficile da raccontare. E i soldati marocchini e gli africani erano soltanto il 60% degli effettivi.

I soldati americani ebbero l’ordine di sparare alle truppe marocchine che stupravano le donne italiane

Di fronte alle violenze commesse dalle truppe coloniali il comando Usa ordinò di non avere remore a uccidere prima i francesi e poi i tedeschi. L’orrore delle “Marocchinate” fu raccontato nel film di Vittorio De Sica “La Ciociara” con Sophia Loren tempo di lettura: 4 min

Stupri di guerra marocchinate ciociaria usa francesi
© AGF – La Ciociara

AGI – Le truppe alleate erano a conoscenza degli stupri di guerra meglio conosciuti come ‘Marocchinatè avvenuti in Ciociaria e nel resto del Lazio nel maggio del 1944. A rendere noto il fatto è stato il ricercatore storico e presidente dell’associazione nazionale vittime delle marocchinate, Emiliano Ciotti, che ha rinvenuto nell’archivio dello Stato Maggiore Italiano un documento che prova come le violenze compiute dalle truppe coloniali francesi, ai danni della popolazione civile italiana, erano conosciute dagli Alleati.

Il rapporto della sezione controspionaggio della 5^ Armata, firmato dal Maggiore dei Carabinieri Reali Cesare Faccio, è datato 22 giugno 1944 e tratta delle violenze e dei soprusi commessi dai soldati marocchini e il contegno tenuto dalle truppe americane in quelle occasioni. Il documento inizia riportando la violenza ai danni di una donna, accaduta dopo tre giorni dell’occupazione di Vetralla, in provincia di Viterbo. La donna chiese la protezione di un sergente della Polizia Militare americana che si recò presso il comando francese per fare delle rimostranze. Gli ufficiali d’Oltralpe gli risposero, invitandolo “ad astenersi dall’interessarsi di cose che riguardavano esclusivamente il comando francese, in quanto ognuno faceva la guerra a modo suo”.

Il sottufficiale a questo punto relazionò al proprio comando, che diramò una disposizione ai militari americani “di far uso delle armi, qualora si fossero trovati presenti a violenze commesse dai marocchini“. Inoltre, il contro spionaggio italiano aveva appreso da un funzionario del Cic, Counter Intelligence Corps, il servizio di intelligence dell’esercito degli Stati Uniti, che “soldati americani, successivamente presenti ad altro tentativo di violenza da parte di soldati marocchini, ne avevano uccisi sei, determinando le proteste del comando francese”. 

Il comando americano a tali rimostranze aveva risposto che “fin quando i francesi avessero usato quei sistemi nei confronti della popolazione civile, i soldati americani avrebbero sparato prima contro i marocchini poi contro i tedeschi.” Lo stesso funzionario Usa, aveva confidato che “se il governo italiano avesse chiesto alle Nazioni Unite di sostituire le truppe francesi con quelle italiane, tale richiesta sarebbe stata accolta”.

“E’ un documento sconvolgente – dichiara Emiliano Ciotti, presidente dell’Anvm – dal quale si evincono diverse verita’ finora nascoste. Innanzitutto, gli Alleati e il contro spionaggio italiano erano a conoscenza delle violenze perpetrate ai danni della popolazione civile italiana dai coloniali inquadrati nell’esercito francese. Inoltre, i comandi Usa ordinarono alle proprie truppe che in caso di violenze dovevano sparare prima ai magrebini francesi e poi ai tedeschi. Infine, che lo scempio delle marocchinate poteva essere interrotto ritirando dal fronte italiano le truppe coloniali. Questo purtroppo non avvenne subito – conclude Ciotti – e le donne e gli uomini italiani dovettero subire ancora per diversi mesi le bramosie sessuali di questi militari francesi“.

5468.- Perché Mattarella può chiamarci Paese e non Nazione.

Aggiornato 5 novembre 2022

Parlare di Nazione italiana è un atto di fede. Gli italiani sono, furono e saranno sempre divisi su tutto, politicamente, ma non solamente. L’unità d’Italia si compì, è stata accompagnata e si concluderà fra eroi, patrioti, massoni, faccendieri, traditori e venduti, incapaci, banditi, ma al prezzo di sangue, sudore di molti e, così, sta terminando la sua storia.

Dal tradimento del generale Enrico Morozzo della Rocca, a Custoza (che, a sera, era stata vinta dalla 9a divisione del gen. Govone), agli errori dell’ammiraglio Conte di Carlo Pellion di Persano, a Lissa, dal tradimento del suo re  Francesco II delle Due Sicilie da parte del generale Francesco Landi a Calatafimi, alla sconfitta causata da Badoglio a Caporetto (ordinò all’artiglieria di non sparare senza suo ordine e si ritirò a fare il porco nella villa di una signora).

Abbiamo citato gli incapaci. A Lissa, la pirofregata “Ancona” avvistata la pirofregata corazzata austroungarica Erzherzog Ferdinand Max”, di Tegetthoff, che speronava il “Re d’Italia” l’attaccò, ma i cannonieri, eccitati, spararono i cannoni con la solo polvere, senza aver inserito i proiettili in canna. Subito dopo investì il “Re di Portogallo”. 

La Seconda Guerra Mondiale ha proseguito questa tradizione con altri eroi, altri filo inglesi, come il Capo Ufficio Spionaggio della Marina Max Ponzo (Matapan) e altri disubbedienti, come a Sidi Rezegh, in Marmarica, con Ettore Bastico, Gastone Gambara, Sandro Piazzoni, che lasciarono aperta la via di fuga alla brigata corazzata neozelandese, l’ultima rimasta, per sabotare la vittoria del tedesco. Rommel non vinse, ma l’Italia perse la Libia, la guerra, il petrolio e la sovranità.

Infine, a suggellare la tradizione, la fuga del re e imperatore Vittorio Emanuele III, i massacri dei dalmati e la guerra civile. Altro sangue, stragi di Stato e altri eroi hanno accompagnato il dopoguerra e ricordiamo fra loro: Enrico Mattei, Aldo Moro, Carlo Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, vittime, spesso, di interessi stranieri e, sempre, di altri traditori.

Se, oggi, davanti all’altare del Milite Ignoto, assistiamo alla rivincita dei valori della nostra tradizione, vediamo, purtroppo e tuttavia, una parte della politica e delle istituzioni desiderose di cancellarli, addirittura dalla memoria. Con la nostra civiltà abbiamo permeato i popoli europei e siamo gli unici che li vogliono dimenticati in nome di una Unione europea, che unione non è. Tutti questi mali erano già presenti fin dal Risorgimento. La povera Annita Garibaldi morì perché perse il bambino, costretta alla fuga dalle spiate dei contadini alla polizia.

E veniamo, così, ai Mille. Nel successo dell’impresa dei Mille contò sicuramente l’attendismo fatalista del Borbone, ma c’è traccia di un finanziamento di diecimila piastre turche arrivato alle camicie rosse dalla massoneria inglese, con cui fu possibile corrompere baroni e generali napoletani.

L’omaggio del Ministro Guido Crosetto al Milite Ignoto.

Quora: “Quando Samuel Colt venne a sapere dell’impresa dei Mille, messa insieme dalla massoneria e dall’Eroe dei due Mondi, prese una decisione: fece dono al condottiero e ai suoi uomini di un centinaio di armi tra pistole e fucili a tamburo Colt. Tra quelle donate e quelle comprate le armi giunte furono circa 200 e sembra che arrivarono non con i Mille, ma con la successiva spedizione Medici, in tempo per la battaglia di Milazzo e non per Calatafimi. Ma al contrario delle pistole, che furono apprezzate anche dai garibaldini oltre che dai cow boy e da tutto il mondo, le armi a canna lunga a tamburo, revolver, si rivelarono poco pratiche se non pericolose per chi sparava dato che era facile che al momento dello sparo ci si ustionasse la mano che per forza doveva reggere il fucile davanti al tamburo e a volte partiva pure un colpo dalla camera sbagliata del tamburo e la povera mano veniva colpita. Per questo nel West insieme alle pistole Colt si diffusero le carabine a leva, Spencer, Henry e infine Winchester, e non i fucili Colt.” Lo sbarco a Marsala fu agevolato da due fregate inglesi,  l’HMS Argus e l’HMS Intrepid; il nolo dei due vapori dei Mille, battezzati Piemonte e Lombardo, fu finanziato da Rothschild. Chi pagò le Colt?

L’arma che vinse a Calatafimi, però, fu una cambiale spacciata per una di 14 o 16 mila ducati (16 se ben ricordo) data da Garibaldi o dal suo tesoriere, colonnello Ippolito Nievo, al generale Francesco Landi dell’esercito napoletano. In cambio, Landi disperse o non fece intervenire il grosso del suo esercito, di molto superiore ai garibaldini, ritirandosi a Palermo, ma, quando andò a incassarla e gli dissero che c’era scritto soltanto 16 e non 16 mila, il generale traditore ebbe un colpo apoplettico e andò all’inferno. Si noti che gli ordini di Landi non erano stati censurati dal suo superiore generale Ferdinando Lanza. Quindi? A volte, anche chiamarci Paese e non Nazione, può sembrare troppo.

Vedremo innanzi come, al termine della campagna, il vapore Ercole, che portava a Napoli (non a Genova) il tesoriere Nievo con tutti i registri, libri contabili, pezze d’appoggio delle mazzette pagate, inspiegabilmente, andò a fondo, forse esplose, comunque, affondò al largo di Capri o di Amantea. Così, i piemontesi fregarono i napoletani, il loro re e la loro eroica regina, sorella di Sissi, che, a Gaeta, visto morto un artigliere, sparava lei stessa il cannone.

Regina Maria Sofia di Baviera – Wikipedia

 Maria Sofia di Baviera, ultima Regina di Napoli, fu moglie e patriota eroica.

Marie Sophie Amalie von Wittelsbach, Herzogin in Bayern , nota in italiano come Maria Sofia di Baviera ( Castello di Possenhofen , 4 ottobre 1841 – Monaco di Baviera , 19 gennaio 1925 ), nata Duchessa in [1] Baviera , fu l’ultima Regina consorte delle Due Sicilie . Nata il 4 ottobre 1841 nel castello di Possenhofen , in Baviera , Maria Sofia Amalia era la terza figlia del duca Massimiliano Giuseppe in Baviera e della principessa Ludovica di Baviera , quest’ultima figlia di Massimiliano I , re di Baviera . Sorella della ben più nota Elisabetta di Baviera , detta “Sissi”, la sua figura era «alta, slanciata, dotata di bellissimi occhi di color azzurro-cupo e di una magnifica capigliatura castana; Maria Sofia aveva un portamento nobile ed insieme maniere molto graziose» [2] . Nel 1858 fu promessa in sposa, diciassettenne, a Francesco , erede al trono delle Due Sicilie , inizialmente conosciuto solo attraverso l’immagine di una miniatura . Il matrimonio serviva a rafforzare il legame tra la corona d’Asburgo e i Borbone-Napoli . [4] Il fidanzamento ufficiale avvenne il 22 dicembre 1858 e il matrimonio fu celebrato per procura l’8 gennaio 1859. [5] Dopo qualche giorno Maria Sofia fu accompagnata a Trieste , dove era attesa dalle navi borboniche Tancredi e Fulminante , a bordo delle quali arrivò a Bari il 1º febbraio 1859, dove infine incontrò suo marito Francesco e il suocero, il re Ferdinando II , ammalatosi durante il viaggio verso il capoluogo pugliese. [4] [5] Il 7 marzo i reali ripartirono via nave per Napoli e le condizioni di Ferdinando si aggravarono ulteriormente. Medaglia del 1861, in argento, coniata in Germania ad opera di Friedrich Brehmer in omaggio a Maria Sofia; Ricciardi 275; D’Auria 289 Il 22 maggio successivo il re morì e Maria Sofia divenne la regina consorte di Francesco II , allora ventitreenne, poi passato alla storia con il nomignolo di Franceschiello . Fu regina delle Due Sicilie fino alla capitolazione di Gaeta del 13 febbraio 1861. Acquistò popolarità durante l’ assedio della piazzaforte di Gaeta , dove la corte si era rifugiata il 6 settembre 1860 per tentare un’ultima resistenza alle truppe piemontesi. Ella cercò di incoraggiare i soldati borbonici, distribuendo loro medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, indossò un costume di taglio maschile e prese a recarsi in visita ai feriti negli ospedali di guerra. Quando, poi, a Gaeta la situazione peggiorò sempre più a causa della scarsità di cibo, della diffusa epidemia di tifo e del freddo, il marito la invitò a lasciare la roccaforte, ma la regina Maria Sofia fu irremovibile e volle restare. Così, infatti, riferisce re Francesco II in una lettera rivolta a Napoleone III: «Ho fatto ogni sforzo per persuadere S.M. la Regina a separarsi da me, ma sono stato vinto dalle sue tenere preghiere e dalle sue generose risoluzioni. Ella vuol dividere meco, sin alla fine, la mia fortuna, consacrandosi a dirigere negli ospedali la cura dei feriti e degli ammalati.

Nave “Ercole”: il suo naufragio è la prima strage di Stato italiana?

Il naufragio della nave “Ercole” è un mistero. Si suppone che ci si trovi al cospetto della prima “strage di Stato” nella storia d’Italia.

 Di Diletta Fileni

Nave

Era il 1° Marzo del 1861 quando un battello a vapore della Real Marina, salpato dal molo di Palermo, scomparve al largo di Capri. Naufragò portando in fondo al mare 78 persone e 232 tonnellate di merce. Si trattava della nave “Ercole”. Il piroscafo sul quale viaggiava Ippolito Nievo con alcuni collaboratori garibaldini. Sulla vicenda del naufragio dell’ “Ercole” tornò il giornale Omnibus. Quando il 30 marzo del 1861 diede una notizia clamorosa. C’era un superstite! Ma quali altri misteri custodisce la nave “Ercole”in fondo al mare?

Nave “Ercole”: qual è il motivo del naufragio?

Del piroscafo “Ercole”, già pirofregata, letteralmente svanito, e scomparso, e che il mare non aveva restituito nulla, come non fosse mai esistito, non si seppe più nulla. Come pure del superstite di cui parlava Omnibus. Dunque, un mistero avvolto nel mistero. Si trattò di una falsa informazione, un’invenzione giornalistica, o di una persona che era stata convinta a tacere? Non lo sapremo mai. Vista l’assenza di un qualunque materiale da esaminare. Ma un pronipote di Ippolito, Stanislao Nievo, nel libro “Il prato in fondo al mare“, vincitore nel 1975 del Premio Campiello, giunge ad una conlusione. Un sabotaggio deciso dalla Destra governativa per liquidare la Sinistra garibaldina. Praticamente la prima “strage di Stato” nella storia d’Italia.

La caldaia ritrovata nel 2020, presumibilmente della nave Ercole scomparsa davanti alla Calabria, nelle acque di Amantea.

Quali documenti scottanti erano a bordo della nave “Ercole”?

In una cassa Ippolito Nievo, trasportava, soldi, ricevute. Fatture, e lettere. E tutto quello che riguardava la gestione dell’ingente patrimonio garibaldino. Nonchè di quello “trovato” nelle banche siciliane. Ma c’era chi aveva interesse, per opposte ragioni, ad impedire che quella cassa arrivasse a Torino. Dove era in atto uno scontro tra due fazioni. Da un lato i cavouriani che intendevano gettare discredito sulla spedizione garibaldina. Tentando di dimostrare una gestione truffaldina dei fondi. Dall’altro lato la sinistra. Che sosteneva il contrario. Ma, soprattutto, tutti avevano interesse a tenere nascosto un finanziamento di 10mila piastre turche. Circa 15milioni di euro attuali, che era arrivato a Garibaldi dalla massoneria inglese. Lo scopo anglosassone era quello di colpire il Papato, con l’aiuto del generale Garibaldi. Noto antipapista. Agevolando la formazione di uno stato protestante.

All’epoca, la popolazione tunisina era per il 70% siciliana. La Gran Bretagna, attenta al suo potere marittimo, vedeva di cattivo occhio il riaffermarsi in Sicilia del re Francesco II, quindi, nel Canale di Sicilia, con una marina da guerra e una cantieristica all’avanguardia. La prima nave a vapore napoletana, battezzata Ferdinando I in onore del re, scese in mare il 24 giugno 1818, tre anni prima della prima nave a vapore inglese. La macchina del Ferdinando I era, comunque, di costruzione inglese. ndr

La tesi di Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito

La sparizione di quei documenti faceva quindi, comodo a tutti. Quel rendiconto non doveva vedere la luce. Perché avrebbe rivelato la pesante ingerenza del governo di Londra. E dei circoli massonici inglesi nella caduta del Regno delle Due Sicilie. Quei soldi, in piastre d’oro turche, erano serviti in gran parte per corrompere generali e notabili borbonici. Pertanto, la conclusione a cui giunge Stanislao Nievo pronipote di Ippolito, dopo accurate indagini, e, che se il battello fosse giunto a destinazione, le sorti della neonata nazione sarebbero potute cambiare. O si sarebbero svelate intrighi, interessi, finanziamenti e abusi che avevano costituito il lato oscuro dell’impresa garibaldina.

5301.- Vile storia dell’unità d’Italia

Aria di famiglia in questo riassunto della storia garibaldina, con il bisnonno Giuseppe Panascì farmacista dell’ambulanza generale garibaldina e alcuni parenti nel suo esercito: i fratelli Fazzari, di Catanzaro, di cui Achille con il grado di generale, amico intimo di Garibaldi e dei suoi figli Menotti e Ricciotti.

La verità su Garibaldi. Sempre saputo ! e mai rispettato. È stato la rovina dell’Italia

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona

Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.(Indro Montanelli)

Garibaldi era di corporatura bassa, alto 1,65, ed aveva le gambe arcuate. Era pieno di reumatismi e per salire a cavallo occorreva che due persone lo sollevassero. Portava i capelli lunghi perché, avendo violentato una ragazza, questa gli aveva staccato un orecchio con un morso (Secondo una diversa narrazione, portava i capelli lunghi per coprire l’orecchio mozzato, pena dei messicani per i ladri di cavalli.). Era un avventuriero che nel 1835 si era rifugiato in Brasile, dove all’epoca emigravano i piemontesi che in patria non avevano di che vivere. Fra i 28 e i 40 anni visse come un corsaro assaltando navi spagnole nel mare del Rio Grande do Sul al servizio degli inglesi che miravano ad accaparrarsi il commercio in quelle aree.

In Sud America non è mai stato considerato un eroe, ma un delinquente della peggior specie.

Per la spedizione dei mille fu finanziato dagli Inglesi con denaro rapinato ai turchi, equivalente oggi a molti milioni di dollari (I Rothschild avrebbero pagato il nolo del Piemonte e del Lombardo).

Il Regno delle Due Sicilie, seconda potenza industriale, con la sua flotta, costituiva un problema per la Gran Bretagna. La libertà di navigazione attraverso il Canale di Sicilia, essenziale per il potere marittimo della Gran Bretagna, sarebbe stata compromessa se Napoli avesse occupato anche la sponda tunisina. La Tunisia, allora, era popolata per il 75% da siciliani.

In una lettera, Vittorio Emanuele II ebbe a lamentarsi con Cavour circa le ruberie del nizzardo, proprio dopo “l’incontro di Teano”: “… come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo – questo personaggio non è affatto docile né cosí onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il danaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui che s’è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.

SBARCO DI MARSALA: fu, di proposito, “visto” in ritardo dalla marina duosiciliana (Ammiraglio Guglielmo Acton), i cui capi erano già passati ai piemontesi, e fu protetto dalla flotta inglese, che con le sue evoluzioni impedí ogni eventuale offesa.

II nolo dei due vapori, Piemonte e Lombardo era stato pagato dai Rothschild all’armatore Raffaele Rubattino, ma i mille finsero di prenderle d’assalto. Garibaldi lasciò Quarto scortato dalla marina sabauda (Ammiraglio Persano, diretto a Palermo). Navigava segretamente, ma «regolarmente munito di patente per Malta». e Malta era un territorio inglese. Due fregate inglesi, l’HMS Argus e l’HMS Intrepid, provenienti da Palermo, per ordine del contrammiraglio George Rodney Mundy, comandante della Mediterranean Fleet, incrociavano al largo di Marsala e diedero fondo all’imboccatura del porto della città siciliana intorno alle dieci, circa tre ore prima della comparsa del Piemonte e del Lombardo. Il comandante duosiciliano Guglielmo Acton, sopraggiunto con tre navi: fregata Partenope, Stromboli e Capri, quando già il Piemonte aveva iniziato lo sbarco, fece chiedere all’HMS Argus se fossero loro gli uomini sul molo. L’HMS Argus rispose “No, ma i nostri comandanti sono a terra”. e Acton tornò a Palermo.

C’era, come scusa, a Marsala una comunità britannica delle cantine Woodhouse e Ingham, produttori ed esportatori di vino Marsala per il mercato del Regno Unito. 

Tra i famosi “mille”, che lo stesso Garibaldi il giorno 5 dicembre 1861 a Torino li definí “Tutti generalmente di origine pessima e per lo piú ladra ; e tranne poche eccezioni con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto”, sbarcarono in Sicilia, francesi, svizzeri, inglesi, indiani, polacchi, russi e soprattutto ungheresi, tanto che fu costituita una legione ungherese utilizzata per le repressioni piú feroci. Al seguito di questa vera e propria feccia umana, sbarcarono altri 22.000 soldati piemontesi appositamente dichiarati “congedati o disertori”.

CALATAFIMI: contrariamente a quanto viene detto nei libri di storia, il Garibaldi fu messo in fuga il giorno 15 maggio dal maggiore Sforza, comandante dell’8° cacciatori, con sole quattro compagnie. Mentre inseguiva le orde del Garibaldi, lo Sforza ricevette dal generale Landi l’ordine incomprensibile di ritirarsi. Il comportamento del Landi risultò comprensibilissimo quando si scoprí che aveva ricevuto dagli emissari garibaldini una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. Landi qualche mese piú tardi morí di un colpo apoplettico quando si accorse che la fede di credito era falsa: aveva infatti un valore di soli 14 ducati.

PALERMO: il Garibaldi, il 27 maggio, si rifugiò in Palermo praticamente indisturbato dai 16.000 soldati duosiciliani che il generale Lanza aveva dato ordine di tenere chiusi nelle fortezze. Il filibustiere cosí poté saccheggiare al Banco delle Due Sicilie cinque milioni di ducati ed installarsi nel palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. In Palermo i garibaldini si abbandonarono a violenze e saccheggi di ogni genere. A tarda sera del 28 arrivarono, però, le fedeli truppe duosiciliane comandate dal generale svizzero Von Meckel. Queste truppe, che erano quelle trattenute dal generale Landi, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva piú vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché … era stato fatto un armistizio, che in realtà non era mai stato chiesto.

L’8 giugno tutte le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per imbarcarsi, tra lo stupore e la paura della popolazione che non riusciva a capire come un esercito cosí numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un caporale dell’8° di linea che, al passaggio del Lanza a cavallo, uscí dalle file e gli gridò “Eccellé, o’ vvi quante simme. E ce n’aimma’í accussí ?”. Ed il Lanza gli rispose : “Va via, ubriaco”. Lanza, appena giunse a Napoli, fu confinato ad Ischia per essere processato.

I garibaldini nella loro avanzata in Sicilia compirono efferati delitti. Esemplare e notissimo è quello di Bronte, dove “l’eroe” Nino Bixio fece fucilare quasi un centinaio di contadini che, proprio in nome del Garibaldi, avevano osato occupare alcune terre di proprietà inglese.

MILAZZO: Il giorno 20 luglio vi fu una cruenta battaglia a Milazzo, dove 2000 dei nostri valorosissimi soldati, condotti dal colonnello Bosco, sgominarono circa 10.000 garibaldini. Lo stesso Garibaldi accerchiato dagli ussari duosiciliani rischiò di morire. La battaglia terminò per il mancato invio dei rinforzi da parte del generale Clary e i nostri furono costretti a ritirarsi nel forte per il numero preponderante degli assalitori. Nello scontro i soldati duosiciliani, ebbero solo 120 caduti, mentre i garibaldini ne ebbero 780. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morí durante un assalto.Episodi di tradimento si ebbero anche in Calabria, dove nel paese di Filetto lo sdegno dei soldati arrivò tanto al colmo che fucilarono il generale Briganti, che il giorno prima, senza nemmeno combattere, aveva dato ordine alle sue truppe di ritirarsi.

NAPOLI: Il giorno 9 settembre arrivarono a Napoli i garibaldini. Mai si vide uno spettacolo piú disgustoso. Quell’accozzaglia era formata da gente bieca, sudicia, famelica, disordinata, di razze diverse, ignorante e senza religione. Occuparono all’inizio Pizzofalcone, poi nei giorni seguenti si sparsero per la città, tutto depredando, saccheggiando ogni casa. Furono violentate le donne e assassinato chi si opponeva. Furono lordati i monumenti, violati i monasteri, profanate le chiese. Il giorno 11 il Garibaldi con un decreto abolí l’ordine dei Gesuiti e ne fece confiscare tutti i beni. Furono incarcerati tutti quei nobili, sacerdoti, civili e militari che non volevano aderire al Piemonte, mentre furono liberati tutti i delinquenti comuni. Il Palazzo Reale fu spogliato di tutto quanto conteneva. Gli arredi e gli oggetti piú preziosi furono inviati a Torino nella Reggia dei Savoia. Il filibustiere con un decreto confiscò il capitale personale e tutti beni privati del Re dal Banco delle Due Sicilie, che fu rapinato di tutti i suoi depositi. Napoli in tutta la sua storia non ebbe mai a subire un cosí grande oltraggio, eppure nessun libro di storia “patria” ne ha mai minimamente accennato.

CAPUA, VOLTURNO, GARIGLIANO, GAETA: eliminati i generali traditori i soldati duosiciliani dimostrarono il loro valore in numerosi episodi. La vittoriosa battaglia sul Volturno non fu sfruttata solo per l’inesperienza dei nostri comandanti militari. In seguito, la vile aggressione piemontese alle spalle costrinse il nostro esercito alla ritirata nella fortezza di Gaeta, dove il giovane Re Francesco II e la Regina Maria Sofia, di soli 19 anni, diventata poi famosa con l’appellativo di “eroina di Gaeta” (Caricava il cannone al posto di un artigliere caduto) , si coprirono di gloria in una resistenza durata circa 6 mesi. Gaeta non poté mai essere espugnata dai piemontesi, ma solo bombardata. Con la resa di Gaeta (13.2.61), di Messina (14 marzo) e di Civitella del Tronto (20 marzo), il Regno delle Due Sicilie cessò di esistere. I Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri vennero deportati in campi di concentramentoin Piemonte. Di questi soldati, morti per la loro Patria, oggi non c’è nemmeno una segno che li ricordi e non meritavano l’oblio cui li ha condannati la leggenda risorgimentale.

PLEBISCITO. Il giorno 21 ottobre 1860 vi fu a Napoli e in tutte le provincie del Regno la farsa del Plebiscito. A Napoli, davanti al porticato della Chiesa di S. Francesco di Paola, proprio di fronte al Palazzo Reale, erano state poste, su di un palco alla vista di tutti, due urne: una per il Sí ed una per il NO. Si votava davanti ad una schiera minacciosa di garibaldini, guardie nazionali e soldati piemontesi. Il giorno prima erano stati affissi sui muri dei cartelli sui quali era dichiarato “Nemico della Patria” chi si astenesse o votasse per il NO. Votarono per primi i camorristi, poi i garibaldini, che erano per la maggior parte stranieri, e i soldati piemontesi. Qualcuno dei civili che aveva tentato di votare per il NO fu bastonato, qualche altro, come a Montecalvario, fu assassinato. Poiché non venivano registrati quelli che votavano per il Sí, la maggior parte andò a votare in tutti e dodici comizi elettorali costituiti in Napoli. Allo stesso modo si procedette in tutto il Regno, dove si votò solo nei centri presidiati dai militari con ogni genere di violenze ed assassini.

FONTE PRINCIPALE:

LE CONFESSIONI DI JOSEPH MARIE GARIBALDÍ. Autore: Francesco Luca Zagor Borghesi Garibaldi racconta la vera storia dell’unificazione d’Italia.

LA LETTERA DI GARIBALDI A CARLO COLLODI.Giuseppe Garibaldi, qualche giorno prima di morire, scrive una lunga lettera allo scrittore Carlo Lorenzini, noto come Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio.Si dichiara francese, a partire dal nome, Joseph Marie Garibaldì (accento sulla i finale). Mostra rimorso verso tutte le ingiustizie che vennero perpetrate nel nome di un’Italia che mai venne ad essere una nazione unita. Il protagonista ricorda, con dovizia di particolari, l’infanzia, la giovinezza, ma soprattutto l’evoluzione della propria coscienza. Confessa con sincerità le molte debolezze, prime, tra le tante, il sogno di ricchezza, le donne, il potere.Garibaldì si accorge troppo tardi di aver procurato, direttamente o indirettamente, male e dolore a tante persone. Anche per colpa sua, generazioni future conosceranno ancora privazioni. Ammette di aver servito diversi Stati e quindi di non essere patriota. Conferma di aver amato decine di donne, a volte per una notte a volte per qualche anno. Sottolinea di aver abbandonato i figli e quindi di non essere simbolo dell’unione neppure per la famiglia.

La Spedizione dei mille e il Risorgimento. Per conoscere la vera storia dell’unificazione d’Italia ci vuole un testimone veritiero. Borghesi utilizza Garibaldi per evidenziare una verità ormai nota ai più. Un punto di vista sui protagonisti dell’Unità d’Italia. Piemonte, Inghilterra, Regno di Napoli, Stato Pontificio. Questi gli attori di un intreccio che portò il ricco Sud ad essere invaso da un Nord in cattive acque.“Le confessioni di Joseph Marie Garibaldì” è un romanzo storico, frutto di studi accurati e non di semplici tradizioni, riportate per interesse. Fatti immodificabili sui quali accendere la luce della verità. Ovviamente si tratta di una storia non agiografica, che si discosta in modo deciso dalle versioni ufficiali sull’Unità d’Italia e la Spedizione dei Mille. Una interpretazione degli eventi che getta una luce nuova, che costringe a riflettere. Un revisionismo che, se non stridesse con gli interessi attuali, sarebbe degno di esami e valutazioni oggettive. Il nostro, spogliatosi della veste d’eroe, chiede giustizia alle vittime tramite Collodi, confessandosi ad uno dei parlamentari del nuovo Stato unificato. La giustizia potrà essere dunque una meticolosa ricostruzione di ciò che fu e che non doveva essere. La storia chiede giustizia. Il libro, pur se scritto con la snellezxza della narrativa, è a pieno titolo parte del nostro catalogo di libri di storia. Borghesi è appassionato cultore delle vicende umane. I suoi libri Sangue misto, sulla storia dei Rom e dei Sinti, e Miliardi… granelli di sabbia, saggio sull’economia dei nostri giorni, rivelano uno scrittore alla ricerca della giustizia. Formato: epub (912 Kb). Pagine: 86.

INOLTRE.

BIBLIOGRAFIA, RELATIVAMENTE RECENTE, DEGLI AUTORI ATTUALI PIU’ AFFIDABILI:

VALENTINO ROMANO-Nacquero contadini, morirono briganti. Storie del Sud dopo l’Unità dimenticate negli archivi

Valentino Romano edito da Capone Editore-Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del sud (1860-1870) Valentino Romano edito da Controcorrente

Brigantaggio e rivolta di classe. Le radici sociali di una guerra contadina Enzo Di Brango , Valentino Romano edito da Nova Delphi Libri-

Briganti e galantuomini, soldati e contadini. (Storie minime della nuova Italia)Valentino Romano edito da Laruffa

Le industrie del Regno di Napoli Autore Gennaro De CrescenzoEditore Grimaldi & C.

Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle. Perché non sempre la storia è come ce la raccontano- Autore Gennaro De Crescenzo Editore Addictions-Magenes

Editoriale. L’ altro 1799: i fatti Autore Gennaro De Crescenzo Editore Tempo Lungo GIGI DI FIORE Controstoria dell’Unità d’Italia.

Fatti e misfatti del Risorgimento Autore Gigi Di FioreEditoreBUR Biblioteca Univ. Rizzoli

I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di NapoliAutoreGigi Di FioreEditoreUTET

Briganti! Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi. Con e-bookAutore Gigi Di FioreEditore UTET

La nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità «suddista». Con e-bookAutore Gigi Di FioreEditore UTET

Gli ultimi giorni di Gaeta. L’assedio che condannò l’Italia all’Unità. Autore Gigi Di FioreEditore BUR Biblioteca Univ. Rizzoli

Gli ultimi fuochi di Gaeta 1860-61 Autore Gigi Di FioreEditore Grimaldi & C.1861. Pontelandolfo e Casalduni. Un massacro dimenticato Autore Gigi Di FiorePINO APRILETerroni.

Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali», Autore Pino Aprile Editore Piemme

Carnefici, Autore Pino AprileEditore Piemme

Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia, Autore Pino AprileEditore Piemme

Terroni ‘ndernescional e fecero terra bruciata, Autore Pino AprileEditore Piemme

Mai più terroni. La fine della questione meridionale, Autore Pino AprileEditore Piemme

Il Sud puzza. Storia di vergogna e d’orgoglio, Autore Pino AprileEditore Piemme

L’ invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria. Autore Nicola Zitara Editore Jaca Book

Memorie di quand’ero italiano, Autore Nicola Zitara

L’ unità d’Italia. Nascita di una colonia. Autore Nicola Zitara Editore Jaca Book

Luca Marcolivio, nel suo pregevole libro intitolato:“CONTRO GARIBALDI” (edizione Vallecchi 2011)

Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256

Rocco Chinnici magistrato italiano 1925 – 1983, Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia. [… ] La mafia [… ] nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia.“

5156.- L’alternanza è condizione di democrazia, ma…

Da Veneto Unico, di Mario Donnini. Aggiornato 4 giugno 2022.

La leader di Fratelli d’Italia si dice pronta a governare e dichiara altrettanto per il suo partito, ma, riguardo alla competizione all’interno della sua coalizione, torna a chiamare in causa gli elettori.

In realtà, l’elettorato italiano di centro-destra, quando e come non si può sapere, si ritroverà di fronte alla scelta di sempre: “il meno peggio”, “purché non sia comunista” e “il meno peggio” non è sinonimo di garanzia del buon governo. C’è, però, la necessità di dare un cambio ai vertici della politica, malgrado i limiti che impone lo straboccare di una Presidenza della Repubblica, espressione del partito Democratico, che, da Napolitano a Mattarella, a conti fatti, potrebbe imporre i suoi governi per 23 anni: di più, cioè, di quanto governò Benito Mussolini, ma soggetto al sovrano! Quattro mandati di fila allo stesso partito hanno fatto del Quirinale e della sua funzione super partes, di tutela della Costituzione e della democrazia, una istituzione di parte e questo si è tradotto, in primis, nella politicizzazione della Magistratura, quindi, nella perdita della divisione fra i Poteri Legislativo, Esecutivo e Funzione Giurisdizionale. Già così, una eversione. In secundis, nella perdita dell’Autonomia e della Indipendenza della Magistratura: Altra eversione, anche se un noto costituzionalista, celebrando gli 800 anni dell’ateneo patavino, ha sostenuto che potere Legislativo e Potere Esecutivo sono una sola cosa. Né poteva essere diversamente, visto come i costituzionalisti hanno fatto da scudo ai principi della Carta. Solo per stizza: Nel Potere Legislativo partecipano e dialogano la maggioranza, le minoranze e l’opposizione; nel potere Esecutivo il Potere Esecutivo, il Governo è solo. Se si voleva giustificare la messa in secondo piano del Parlamento da parte dell’attuale Governo, diremmo , alla veneta, che “el tacon l’se stà peso del buso.”

Com’era logico attendersi, quattro mandati a uomini del Partito Democratico hanno dato alla Nazione un’impronta non democratica assolutamente e questo fatto è innegabile quando si consideri che l’ultimo Governo, espressione del voto popolare, ha rassegnato le dimissioni il 16 novembre 2011. Da allora, soltanto governi del Presidente e con i risultati che, purtroppo, subiamo. Questo, accomuna gran parte dell’elettorato nell’aspettativa di dare la parola alle urne. Impossibile, non considerare come in questi 17 anni di presidenza del PD, le cosiddette cessioni di sovranità all’Unione europea hanno sovvertito i fondamentali principi della Costituzione della Repubblica fondata sul Lavoro: come il Padre costituente Aldo Moro volle che fosse scolpito nell’Articolo 1. Solo per inciso, notiamo che identico principio era enunciato nell’Art. 9 della Costituzione approvata da Mussolini per la Repubblica Sociale Italiana e, questo, perché siamo e saremo sempre un popolo di lavoratori. Abbiamo richiamato le “cosiddette cessioni di sovranità all’Unione europea”, significando che questa sorta di associazione, rectius, di anomalia istituzionale non è una istituzione sovrana, talché non di cessione si deve parlare, ma di rinuncia e sappiamo a quale teoria del controllo dell’umanità e dei popoli può essere riferita. L’aspettativa deve, perciò, fare i conti con quel potere straniero, mondiale, che, di fatto, governa l’Italia attraverso suoi adepti (traditori di impegni solennemente assunti, senza alcun dubbio) e ci siamo chiesti: perché? e a quale fine?

Ci sono alcune considerazioni di varia natura intorno alla politica italiana: alcune riguardano l’indipendenza e rappresentano il retaggio della storia dell’unità, altre, si fanno risalire alla Resistenza e, forse, prima ancora e riguardano la presenza di una forte componente, ieri, comunista e, oggi, populista. È certo che la scelta del Savoia di aprire la strada del governo al Partito Nazionale Fascista sia stata dettata, in parte, dalla necessità di affidare ad un governo forte la riconversione a scopi civili dell’apparato industriale bellico, in una economia non più essenzialmente agricola; in parte, dal timore di un avvento del Comunismo facinoroso. Ma lasciamo da parte il Comunismo, già ampiamente fallito per ragioni che discendono dalla natura stessa dell’Uomo; in ogni caso, si tratta sempre di movimenti politici che si contrappongono alla razionalità e allo Stato, incapaci di costruire una società democratica e di governarla, se non con metodi dittatoriali.

L’annessione al  Regno di Sardegna del Regno delle Due Sicilie, di cui il Borbone fu il primo sovrano col nome di Ferdinando I, fu il risultato di una conquista manu militari, cui seguirono una lotta partigiana etichettata come lotta al brigantaggio e la spoliazione di un nascente apparato industriale, di tutto rispetto (la prima nave a vapore britannica scese in mare tre anni dopo la prima nave a vapore napoletana). L’Italia e gli italiani hanno preso coscienza di sé nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Non per nulla, è ai reduci del Piave, del Grappa, che il regno fascista dovette la spinta rinnovativa che caratterizzò l’Italia fino agli anni trenta.

La conquista della Roma papalina e il trasferimento della capitale il 3 febbraio 1871, fecero di Roma la capitale di due stati, con reciproche interferenze nella politica, sopratutto, da parte dello Stato della Città del Vaticano, la cui autonomia dipende molto dalla possibilità di condizionare lo Stato italiano. La Chiesa fa politica. Quando proclama i diritti umani, si pone a tutela dell’etica naturale; quando esprime la sua dottrina sociale non fa soltanto opera di cristianizzazione. Gli interventi del Pontefice devono essere accettati e non possono considerarsi come interferenze esterne, del Vaticano, perché sono rivolti “a tutti gli uomini di buona volontà”. Questa fede condiziona la politica, ma, a un tempo stesso, la divide, rappresentando, per certi versi, una forza. Per altri versi, la divisività endemica degli italiani rappresenta un elemento di debolezza rispetto alle altre nazioni europee.

Questa divisività endemica degli italiani poggia ancora sul conflitto sociale e non ha trovato nemmeno nella democrazia il suo sistema ideale di governo perché le classi lavoratrici e i detentori della ricchezza non sono chiamati dalla politica ad unire le forze per il progresso di tutti. È utile citare i quasi 248 miliardi di euro, entro il 2032, del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), beninteso, se vengono rispettati tempi, investimenti e riforme. Abbiamo, più o meno 4.300 miliardi di risparmio privato depositati nelle banche che fruttano, anzi, non fruttano interessi di nemmeno l’1%€. Non si è voluto, perché qualcuno non vuole, offrire ai risparmiatori un incentivo a investire il loro capitale con le garanzie che uno Stato può dare e la norma europea concederebbe il 2%.

La politica è prona agli interessi stranieri. Quanti si impegnano in politica, tendono a nascondere i veri interessi multiformi e i loro fini personali. La prova provata l’ha data il movimento di quelli che parlavano di voler “aggiustare il sistema”, e cercare di farlo funzionare in un modo decente; ma era una truffa e la vera gara, fin da subito, era per essere anche loro stritolati nelle pieghe (chiamiamole piaghe) del potere.

“La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre finora sperimentate” disse Churchill, ma è l’unica che consente a tutti di essere un qualcuno e non solo un numero (purché sia esercitata correttamente, però). È difficile accettare che gli italiani, forti di secoli di storia e della dottrina sociale della Chiesa, non siano in grado di stare alla pari con le altre nazioni europee. Tirando le somme, in Italia hanno fallito la monarchia costituzionale, la dittatura e la democrazia. Oggi, siamo in vendita e il capitalismo fa affari in casa nostra, sulle nostre spalle, prima di tutto su quelle del popolo lavoratore. Da un autore, ci sovviene una famosa citazione di Keynes:

Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.

I leader dei partiti di destra chiedono il giudizio delle urne. La Costituzione lo imporrebbe dal momento che nel Parlamento vediamo persone di cui pochi ricordano il nome e il partito con cui furono eletti; ma il popolo italiano, chiunque esca eletto dalle urne, non è più in grado di decidere per sè stesso e, al momento, non abbiamo alternative migliori.

A Sinistra, il nulla. A Destra? C’era una volta il Centro e ci sarebbe, ma deve guardare al domani.

Evidentemente, la Costituzione è ricca di sacri principi, ma non di norme che li tutelino e ne garantiscano l’attuazione. Peggio, molto peggio, i trattati europei, che antepongono la competitività sui mercati mondiali ai diritti dei lavoratori. Quid iuris? Auspicherei una riduzione del potere pubblico, una Costituzione nazionale con pochi principi, ma solidi e tutelati, una Costituzione per l’Europa federata, fondata sulla radice cristiana.

5049.- Cicerone e la legittima difesa.

Chi sta attentando alla nostra economia, profittando di ogni occasione, mira a distruggere la nostra tradizione morale e culturale per fare di questo popolo un utile servo. Le migliori tradizioni etrusche, greche e romane, insieme alla dottrina di Cristo, hanno dato forma a questa società. Questo sguardo al padre del diritto romano vuole ricordarci chi siamo e da dove veniamo, sperando serva a trattenerci vicini alle nostre radici.

Nel “Pro Milone“, l’importante discorso giudiziario in difesa di Tito Annio Milone, Cicerone esprime un profondo elogio della legittima difesa conforme alla sua concezione del diritto naturale.

Vi proponiamo un assaggio della riflessione sul rapporto tra natura e legge del padre fondatore di tutta la teoria del diritto e prototipo dell’avvocato moderno: Cicerone.

di Giovanni Ogliaro, Le massime del passato.

Cicerone e la legittima difesa

Marcus Tullius Cicero,  Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.), avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano. Esponente di un’agiata famiglia dell’ordine equestre, fu una delle figure più rilevanti di tutta l’antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica e il prototipo dell’avvocato moderno.


«Questa della legittima difesa è una legge non scritta, ma innata nell’uomo, da noi non appresa sui banchi di scuola, né ereditata dai nostri padri, bensì attinta e ricavata dalla natura stessa. Una legge alla quale non siamo giunti per via dell’insegnamento, ma alla quale siamo intimamente predisposti per istinto. Se la nostra vita è in pericolo per qualche insidia o si imbatte in violenza di ladroni o nemici, ogni ragionevole tentativo per noi di salvezza è praticabile».

[«Est haec non scripta, sed nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa arripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non docti, sed facti; non instituti, sed imbuti sumus; ut si vita nostra in aliquas insidias, si in vim et tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis».]

Cicerone, Pro Milone 10

Il Pro Milone, l’importante discorso giudiziario che avrebbe dovuto essere pronunciato da Cicerone in difesa di Tito Annio Milone, esprime un profondo elogio della legittima difesa conforme alla concezione del diritto naturale.

Il concetto della legittima difesa è quello per cui la violenza, la forza, la passione erompente è conforme all’esigenza della natura; e per questa conformità alla natura la ragione costringe a darvi riconoscimento e consacrazione giuridica-legale. Legittima difesa significa difesa senza autorizzazione legale esplicita, né implicita (prima della formulazione nel Codice penale del concetto in discussione), ma tale che si deve ritenere non difforme dalla volontà del Legislatore, tale anzi che il Legislatore la contemplerebbe e la formulerebbe subito, appena il fatto, non ancora sperimentato, gliene rivelasse la necessità, imponendosi comunque alla sua riflessione (ex facto oritur ius).

Le circostanze sono tali infatti che, dovendo provvedere alla “propria salvezza” messa in pericolo da altri, l’unica ratio di difendere la propria vita resta quella di usare la violenza; che, genericamente viene proibita dalla legge, nel caso concreto invece è tacitamente consentita. È il caso questo in cui la natura sembra affaticarsi e fremere come per convertirsi in razionalità e in legalità: la natura è l’esigenza della vita di chi si deve a ogni costo salvare, ma è anche la passionalità immediata, irrompente. La legge viene a custodire questa volontà, questo interesse dell’individuo, conforme a rerum natura, ma esplodente, come una forza della natura, senza disciplina, senza norma.

È il caso in cui passione e legge si toccano, senza saper l’una dell’altra, e coincidono; in cui la natura rerum (razionalità implicita) provoca ipso facto la legge a difenderla e a coprirla. La natura (impulsività) rimane coperta ipso jure nascente dalla volontà della legge. La difesa è, nel risultato, offesa; la sua legittimità non è tale perché sia consacrata da uno stato di cose precedente, alla quale si voglia adeguare il soggetto che si difende, come per esempio chi fa testamento o celebra un matrimonio: atti ai quali la legge prescrive le debite forme. Ciò che rende legittima la violenta difesa di sé, che riesce in offesa altrui, è il pericolo che incombe sul soggetto. Il principio semplicissimo, intuitivo, della necessità di conservare la vita, valorizzato dalla sanità dell’istinto di chi offende per difendersi, di chi intuisce la necessità di tal impulso come unica ratio per il suo salvamento fisico, fa sì che quell’istinto appaia l’attuazione palpitante, fremente, inconsapevole di quel principio, scolpito nella coscienza umana.

Principio che è a un tempo utilitario, etico e giuridico, perché va alle radici della vita, perché sprigionarsi ex formula naturae. La natura è buona, dunque la norma da essa dettata non può essere sbagliata; non è sbagliato l’istinto di chi offende per difendersi. La razionalità e giustizia della legge tutelante la difesa violenta di sé è repetenda ab naturae formula. La formula naturaeè qui la stessa natura juris: le due nature si identificano nella natura hominis; l’uomo appartenente a quell’ordine fisico, istintivo e impulsivo, che la legge ha il compito di disciplinare; l’uomo da cui promana la forza disciplinatrice del diritto e la concezione stessa del diritto: del diritto la mente ha bisogno di formulare, esprimere, concepire la vita: profilarla, sancirla, rilevarla (teoria e prassi inscindibile del diritto), vederla, viverla: una vera e propria forma veggente.

La legge per dimostrare la sua necessità obiettiva, per togliere apparenza di arbitrio, sembra aver bisogno di adeguarsi alla vergine natura, a cui Cicerone la riconduce. Non scrittura, non apprendimento, non accoglimento o recezione accidentale e contingente, non dottrina, non istruzione; ma dalla natura stessa abbiamo colto, assorbito, scolpito in noi la necessità e il pronto intuito della difesa, alla quale siamo fatti, chiamati, portati dalla stessa forza della natura, che ne consacra la liceità, anzi l’articolazione giuridica.

La natura è qui dunque il diritto naturale, il quale vuole informare di sé e conformare a sé la legge e trasferirsi e convertirsi in legge, perché non è un’esigenza deontologica riflessa, frutto di coscienza addottrinata e raffinata, ma è la stessa natura umana, prima della storia, anzi ciò da cui ha origine la storia, col fatto stesso di imporre il riconoscimento della sua necessaria difesa (ossia conservazione della vita) alla legge disciplinante la vita, costituente la civile convivenza. Quella necessità costituisce “l’onestà della difesa”, che è perciò legittima. L’honestum, la ratio honesta è qui l’esigenza della natura fattasi idea morale semplicissima, presupposta dalla lex e dal jus. Esiste dunque diritto in natura, per il semplice fatto della spontanea difesa violenta di sé in chi è onesto (come esiste diritto in natura, senza contraddizione reale, per il fatto che l’uomo tende ad associarsi con altri uomini).

Tra l’iniusta poena luenda della violenza dei latrones o degli inimici e l’impossibilità di repetere a lege la iusta poena, che sarebbe iusta, a rigore, quando la legge invitata a intervenire per far valere la sua autorità e il suo volere, la sua sentenza (nutus et verbum), desse il suo responso e la sua facoltà prima che il soggetto si muova comunque, sta il pericolo che è incolore, neutro


Ma l’esigenza, che il soggetto porta con sé sovrana, della sua conservazione, converte la natura (nell’indiscriminato valore di impulso passionale e di esigenza retta) in volontà implicita della legge; la quale si fa custode della vita e alla vita che più vale (dell’uomo onesto) consente tutti i mezzi che sono a sua portata, per salvarsi e difendersi. È questo un esempio del come giurisprudenza e filosofia coincidono, al di sopra delle relative categorie preconcepite, nell’esigenza della giustizia e della verità, ridotte al loro così semplice principio da toccare la natura, anzi da derivare da essa ed esserne informate. Ma arrivare alla natura e al suo concetto non è facile, come non è facile, ma è faticoso, al poeta severo giungere alla sua espressione.

Sembra che qui Cicerone sia giunto alla nettezza concettuale nella mirabile felicità ed efficacia espressiva corrispondente. Al concetto si oppone la consuetudine filosofica, giuridica, sociale, espressiva: la fitta boscaglia di idoli, di abitudini, di pregiudizi, che occorre tergere, radere, divellere. È questo l’officio, la prerogativa eminente dei classici:

I vetusti divini, a cui natura parlò senza svelarsi, onde i riposi Magnanimi allegràr d’Atene e Roma.

come Leopardi (Ad Angelo Mai, 53-55) li chiamò, proprio a proposito di Cicerone.

5041.- Quanti milioni di morti ha causato il Fascismo?

Qualche migliaio di morti tenuto conto di tutto.

Foto profilo per Carlo De' Coppolati

Carlo De’ Coppolati, Laurea Economia e gestione delle imprese (1998)

Domanda credo abbastanza ipocrita scritta in questo modo, ma proviamo a fare due conti lo stesso.

Il fascismo italiano propriamente detto?

Qualche migliaio di morti tenuto conto di tutto.

Vittime nel biennio rosso 1919–1920

Circa 500 morti nel periodo degli scontri fra squadre fasciste e le “guardie rosse” comuniste nel cosiddetto biennio rosso 1919–1921. Considerando i caduti di ambedue le parti in lotta.

Una squadra fascista nel 1919, come si vede praticamente tutti reduci della prima guerra mondiale e ancora con le divise degli “Arditi”:

Una squadra rossa dello stesso periodo:

Squadristi fascisti e comunisti si sono scannati per due anni con alterne vicende lasciando sul campo in due anni centinia di morti da ambedue le parti. Gli scontri violenti termineranno progressivamente dal 1921 in poi, con rigurgiti ancora nel 1923 e 1924.

Vittime del tribunale speciale fascista:

31 condanne capitali nel periodo dal 1926 fino al 1943 comminate dal tribunale speciale, delle quali molte per crimini non solo politici ma anche per reati comuni, in genere omicidio. Il fascismo reprimeva l’opposizione politica, ma non impiccava gli oppositori. Li costringeva all’esilio o al confino ma non li ammazzava.

Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926-1943) – WikipediaIl Tribunale speciale per la difesa dello Stato fu un organo speciale del regime fascista italiano, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Durante il regime fascista, il Tribunale speciale ebbe il potere di diffidare, ammonire e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l’ ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso. Con la stessa legge di costituzione del tribunale venne reintrodotta la pena di morte per alcuni reati a carattere politico . Il Tribunale speciale operava secondo le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Le sue sentenze non erano suscettibili di ricorso né di alcun mezzo di impugnazione , salva la revisione . Il Tribunale operava in modo sommario senza alcuna garanzia per gli imputati [1] . Fu istituito con la legge 25 novembre 1926, n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato), una delle cosiddette leggi fascistissime , e attuato con i regi decreti 12 dicembre 1926, n. 2062 e 13 marzo 1927 n. 313. La sua prima sessione ebbe luogo il 1º febbraio 1927 alle ore 10 presso la sesta sezione del Tribunale penale di Roma [2] . Secondo lo storico Alberto Aquarone : «Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato fu indubbiamente uno degli strumenti più odiosi ed efficaci della dittatura e la sua attività, ampiamente pubblicizzata, contribuì non poco, con la sua ombra minacciosa, a distogliere molti oppositori del regime da un’azione concreta contro di esso. [3] » Il Tribunale speciale venne soppresso dal regio decreto-legge 29 luglio 1943 , n. 668, adottato in seguito alla prima riunione del governo Badoglio I [4] . Il 3 dicembre 1943 nella Repubblica Sociale Italiana venne ricostituito un tribunale omonimo con decreto legislativo del duce n. 794, con sede a Mantova e poi a Padova , quindi a Bergamo , rimanendo operativo fino alla Liberazione [5] . Lapide a ricordo di condannati dal Tribunale speciale. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato era costituito da: un presidente , scelto tra gli ufficiali generali del Regio Esercito , della Regia Marina , della Regia Aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale , in servizio attivo permanente, in congedo o fuori quadro; cinque giudici , scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale , aventi grado di console, in servizio attivo permanente, in congedo o fuori quadro; un relatore , senza diritto di voto, scelto tra il personale della giustizia militare. La costituzione del tribunale era ordinata dal Ministro per la guerra, che ne determinava la composizione, la sede e il comando presso cui era stabilito. Dopo la denuncia da parte dell’ OVRA il caso veniva affidato alla sezione istruttoria del Tribunale. I reati più lievi venivano esaminati da un unico giudice, quelli più gravi dalla Commissione istruttoria (composta da 4 membri). L’istruttoria poteva concludersi con l’assoluzione dell’imputato, con il rinvio al Tribunale speciale o,https://it.wikipedia.org/wiki/Tribunale_speciale_per_la_difesa_dello_Stato_(1926-1943)

Delitti politi ascrivibili al Fascismo

Don Minzoni, Giacomo Matteotti, I fratelli Rosselli sono i 3 episodi di omicidi politici piu’ famosi del periodo fascista.

Giacomo Matteotti fu ucciso da una squadra di 5 persone capeggiata da Amerigo Dumini. Detto personaggio, esecutore materiale dell’omicidio, perpetrato in macchina con una coltellata durante una colluttazione, fu imputato a condannato a 6 anni per omicidio preterintenzionale, ne fece solo 2 poi usufrui’ dell’amnistia generale del 1926, fu rincarcerato nello stesso anno per porto d’armi e oltraggio a Mussolini per altri 14 mesi, riscarcerato fu condannato per altri reati a 5 annni di confino. Nel 1933 era di nuovo in galera. Venne giudicato dopo la guerra da un tribunale repubblicano, condannato a 30 anni, ne sconto’ altri 6 anni e fu amnistiato da Togliatti (amnistia Togliatti) nel 1953. In nessun processo, nemmeno nell’ultimo di era repubblicana, fu mai provato il diretto coinvolgimento di Mussolini.

Giovanni Minzoni fu un prete cattolico ucciso da due attivisti fascisti Ferraresi, tali Giorgio Molinari e Vittore Casoni nel 1923. Uccisero il prete con un colpo di bastone mal dato. Con ogni probabilita’ non volevano ucciderlo. Volevano bastonarlo quale oppositore politico. Pratica diffusa sia fra i fascisti che fra i comunisti dell’epoca. Furono giudicati da un tribunale fascista, e, tra chiusure e riaperture varie dell’inchiesta, furono alla fine condannati per omicidio preterintenzionale, fecero poca galera e uscirono anche loro con l’amnistia del 1926. Furono giudicati di nuovo dopo la guerra, nel 1946, con medesimo esito, omicidio preterintenzionale, condannati a qualche anno di prigione ma amnistiati da Togliatti.

I fratelli Rossetti furono due oppositori del regime fascista uccisi in Francia dagli attivisti della “Cagoule”, un’organizzazione eversiva filo-fascista francese. Alcuni dei killers furono giudicati e condannati dopo la guerra ma sull’omicidio non si e’ mai alzata la cortina di mistero e di intrigo internazionale. Sembra certo, ma mai provato, il coinvolgimento dei servizi segreti italiani, ma il fatto che fra i membri dell’organizzazione che si rese artefice e organizzatrice dell’omicidio ci sia stato Francois Mitterand, futuro presidente della Francia, ha portato lo Stato Francese a secretare tutti gli atti relativi a questa organizzazione. Una vicenda a esser prudenti, contorta, e ancora a tutt’oggi non definitivamente chiarita.Fratelli Rosselli, un omicidio fascista per annichilire la speranza di giustizia e libertà | LeftCarlo in particolare aveva ben chiara l’importanza di assestare colpi all’immagine del regime fascista. Per questo probabilmente Mussolini dette l’ordine di ucciderlohttps://left.it/2017/06/09/fratelli-rosselli-un-omicidio-fascista-per-annichilire-la-speranza-di-giustizia-e-liberta/

Vittime per le deportazioni degli ebrei in Italia.

Da mettere in conto anche le vittime nei campi di concentramento tedeschi dovute alle deportazioni. Circa 7.500 persone dicono i dati, la quasi totalita’ dei quali in seguito ai rastrellamenti tedeschi dopo il 1943. L’Italia a questo proposito non e’ stata ne’ come la Germania ne’ come la Polonia. Gli ebrei in gran parte sono stati salvati, accolti e protetti dagli italiani e degli oltre 58.000 ebrei italiani circa l’87% la scamparono grazie all’aiuto della chiesa cattolica, di tantissimi privati cittadini e addirittura di molti fascisti. Vedi l’esempio del dirigente della milizia fascista di Roma Ferdinando Natoni nel 1943, premiato dagli ebrei nel 1994 con la “medaglia dei giusti”.

Articolo dall’Huffington Post, non certo una pubblicazione dell’estrema destra:La storia del fascista che salvò tutti gli ebrei che poteva. Solo perché era giustoLa storia del fascista che salvò tutti gli ebrei che poteva. Solo perché era giustohttps://www.huffingtonpost.it/vittorio-pavoncello/storia-del-fascista-che-salvo-tutti-gli-ebrei_b_8280104.html

Fino al 1943 non vi e’ stato nessun morto ebreo in Italia.

In definitiva il regime fascista e’ stato si violento, ma non cosi’ sanguinario come si crede, una dittatura “all’italiana” se vogliamo. Gli eventi veramente sanguinosi si sono avuti dopo l’armistio del 1943, e con l’occupazione nazista. Senza per questo voler discolpare i tanti fascisti che nel periodo del RSI si resero colpevoli di atti crudeli, ma si era in guerra, e questa non e’ gentile mai con nessuno.

Sarebbe interessante fare un calcolo di quanti sono morti per responsabilita’ del comunismo in Italia nello stesso periodo.

5035.- L’Italia è divisa e i perché non sono tanti.

C‘è poca fiducia nella politica e si cerca di salvare il salvabile. ci hanno calato veramente nella tempesta perfetta. Tempesta studiata per anni e il cui obiettivo è il controllo di Europa e Russia. La fiducia manca perché non siamo più una democrazia rappresentativa, instaurata troppo facilmente. Siamo sudditi di un potere delegato a marionette di poco valore. La sola uscita dal tunnel in cui siamo entrati è in un’Europa veramente unita, federale, con una democrazia semi diretta, modello svizzero, difficile da realizzare, ridotti come siamo a terreno di conquista di Gruppi americani, cinesi, arabi e indiani. Proviamo a pensare come saremmo potuti essere in una Italia confederata, nella tripartizione di Miglio.

Carlo De’ Coppolati, da Mosca, si è posto il quesito e non è il solo. Certamente, lo Stato della Chiesa, capitale Roma e il potere marittimo del Regno Unito hanno determinato molto della politica italiana. In Italia sicuramente Ferdinando II di Borbone. Se non fosse morto prematuramente ad appena 49 anni (forse fatto morire prematuramente) la storia d’Italia avrebbe avuto ben altro corso. E forse persino quella d’Europa.

Addendum:

Dati i tantissimi commenti e richieste di spiegazioni mi permetto di disegnare un’ipotesi per meglio chiarire la mia affermazione:

Con Ferdinando II vivo, l’impresa dei mille di Garibaldi non avrebbe avuto luogo. Nessuno si sarebbe arrischiato e se lo avesse fatto Ferdinando, gran conoscitore delle vicende internazionali ed eccellente stratega, avrebbe fatto a pezzi Garibaldi ancora prima che avesse messo piede in Sicilia.

L’unità italiana si sarebbe avuta probabilmente lo stesso, ma non nel modo in cui si ebbe. Le ipotesi di un’Italia confederale o federale erano all’ordine del giorno nel periodo. Un pò come si fece in Germania nello stesso identico periodo.

La Questione Romana si sarebbe risolta molto prima senza aspettare Mussolini nel 1929.

Con ogni probabilità la mafia sarebbe rimasta poco più che folklore.

Il baricentro degli interessi italiani si sarebbe spostato di più verso il Mediterraneo. Probabilmente l’Italia sarebbe diventata una potenza regionale con un ruolo di supremazia sul mare. Vera vocazione d’Italia.

Sogno sia di Francesco II che di Mussolini.

Ambedue i disegni mandati all’aria dall’Inghilterra che a nessuno voleva cedere la supremazia sulle rotte mediterranee provenienti da Suez e che i porti italiani li voleva, ma gratis.

Probabilmente anche il primo conflitto mondiale avrebbe avuto una storia diversa o forse non sarebbe affatto avvenuto cambiando i rapporti di forza in Europa.

E senza quello non sarebbe avvenuto nemmeno il secondo, diretta conseguenza del primo.

Fantasia? Si certamente.

Ma se ci si ragiona su non poi così improbabile.