Archivio mensile:luglio 2019

2484.- Governo tedesco: la libertà di navigazione dovrebbe essere protetta … La nostra domanda è, protetta da chi.

“La partecipazione alla strategia americana” sull’Iran “Fuori discussione”, afferma la Germania 

Gli Stati Uniti hanno chiesto alla Germania di unirsi alla missione di sicurezza dello Stretto di Hormuz, ma i socialdemocratici avvertono del “rischio di essere coinvolti in una guerra contro l’Iran” The Associated Press and Reuters 30 lug 2019

File photo: U.S. Marine Corps during a Strait of Hormuz transit, July 18, 2019.
 File foto: U.S. Marine Corps durante un passaggio dello stretto di Hormuz, 18 luglio 2019.U.S. Navy Handout / REUTERS

La Germania afferma che gli Stati Uniti hanno fornito dettagli agli alleati sul loro concetto di protezione del traffico marittimo nella regione del Golfo Persico e hanno chiesto supporto.

Martedì il ministero degli Esteri ha affermato che la Germania non ha promesso alcun contributo ma è “in stretta consultazione con Francia e Gran Bretagna”.

Il mese scorso gli Stati Uniti avevano promesso maggiori dettagli dopo aver chiesto agli alleati della NATO di proteggere le principali vie navigabili commerciali. La richiesta era arrivata quando le tensioni sono aumentate tra gli Stati Uniti e l’Iran, che di recente hanno preso una nave cisterna battente bandiera britannica.

Il ministero degli Esteri tedesco non ha fornito dettagli sul piano degli Stati Uniti, ma ha affermato che “deve essere data priorità alla riduzione delle tensioni e degli sforzi diplomatici”.

Dice “la partecipazione alla strategia americana di massima pressione è fuori discussione per noi”, riferendosi all’approccio degli Stati Uniti all’Iran.

Un portavoce dell’ambasciata americana a Berlino ha dichiarato in precedenza martedì “Abbiamo formalmente chiesto alla Germania di unirsi alla Francia e al Regno Unito per aiutare a proteggere lo stretto di Hormuz e combattere l’aggressione iraniana. I membri del governo tedesco hanno chiarito che la libertà di navigazione dovrebbe essere protetto … La nostra domanda è, protetta da chi.

Questi commenti, inizialmente riportati dall’agenzia di stampa tedesca DPA, sono stati confermati da un portavoce dell’ambasciata.

I legami tra Iran e Stati Uniti si sono deteriorati da quando Washington ha ritirato un accordo nucleare internazionale con l’Iran l’anno scorso e reintrodotto sanzioni contro Teheran. I recenti attacchi alle petroliere nello stretto di Hormuz hanno ulteriormente acuito i rapporti.

Vi è una forte opposizione tra i socialdemocratici tedeschi (SPD), i partner minori della coalizione al potere del cancelliere conservatore Angela Merkel, a essere coinvolti in una missione guidata dagli Stati Uniti.

“Il governo tedesco ha già respinto la partecipazione alla missione militare degli Stati Uniti, Operazione Sentinel, per proteggere le spedizioni nello Stretto di Hormuz”, ha dichiarato Nils Schmid, portavoce degli affari esteri del partito parlamentare SPD.

“Dovrebbe rimanere così. Altrimenti, c’è il rischio di essere trascinati in una guerra contro l’Iran dalla parte degli Stati Uniti”, ha aggiunto in un’intervista allo Stuttgarter Zeitung.


Germania: Missione navale europea nel Golfo degna di considerazione, scettica per un’adesione a quella degli Stati Uniti

Il governo tedesco non ha offerto alcun contributo a una missione navale statunitense nello Stretto di Hormuz, ma pensa che valga la pena di considerare una missione europea.

U.S. President Donald Trump, second left, watches French President Emmanuel Macron putting his hand on German Chancellor Angela Merkel's knee during ceremonies at the Arc de Triomphe Sunday, Nov. 11, 2018 in Paris
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, seconda a sinistra, guarda il presidente francese Emmanuel Macron mettere una mano sul ginocchio del cancelliere tedesco Angela Merkel durante le cerimonie all’Arco di Trionfo, 11 novembre 2018AP Photo / Francois Mori, Pool

Il governo tedesco non ha offerto alcun contributo a una missione navale statunitense nello Stretto di Hormuz, ma pensa che valga la pena “considerare” una missione europea ed è in contatto con i suoi partner su questo, ha detto un portavoce mercoledì.

“Il governo è reticente sulla concreta proposta degli Stati Uniti e quindi non ha fatto un’offerta”, ha detto la portavoce in una conferenza stampa.

“Per noi, è importante perseguire la strada della diplomazia … e cercare colloqui con l’Iran per ottenere una riduzione della crescita”, ha aggiunto la portavoce.

Gli Stati Uniti avevano chiesto formalmente alla Germania di unirsi a Francia e Gran Bretagna in una missione per proteggere lo stretto e “combattere l’aggressione iraniana”, ha detto martedì l’ambasciata americana a Berlino.

“Sono molto scettico al riguardo, e penso che sia uno scetticismo che molti altri condividono”, ha detto Scholz alla televisione ZDF.

Scholz ha affermato che è importante evitare un’escalation militare nella regione e che tale missione comporta il rischio di essere trascinata in un conflitto ancora più grande.

“Ecco perché penso che questa non sia una buona idea”, ha detto Scholz, che dovrebbe presiedere la riunione di gabinetto di mercoledì mentre il cancelliere Angela Merkel è in vacanza.

Vi è una forte opposizione tra i socialdemocratici di Scholz (SPD), partner minori della coalizione al potere della Merkel, a essere coinvolti in una missione guidata dagli Stati Uniti.

I legami tra Iran e Stati Uniti si sono deteriorati da quando Washington ha ritirato un accordo nucleare internazionale con l’Iran l’anno scorso e reintrodotto sanzioni contro Teheran. Germania, Francia e Gran Bretagna hanno cercato di mantenere vivo l’accordo.

Scholz ha affermato che Berlino considera ancora l’accordo nucleare internazionale con l’Iran come la migliore opzione per impedirgli di sviluppare una bomba nucleare.

Alla domanda se i partiti della coalizione condividessero la stessa opinione sulla richiesta degli Stati Uniti, Scholz disse: “Sì, questa è la mia impressione”.

I membri del governo tedesco hanno chiarito che la libertà di navigazione dovrebbe essere protetta … La nostra domanda è, protetta da chi.Members of the German government have been clear that freedom of navigation should be protected… Our question is, protected by whom.

Norbert Roettgen, alleata della Merkel e membro del suo blocco conservatore, ha affermato di ritenere che la Germania non dovrebbe unirsi alla missione guidata dagli Stati Uniti.

“Questa situazione richiede una risposta europea”, ha detto all’emittente ZDF Roettgen, presidente del comitato per le relazioni estere del Bundestag.

“L’alternativa al rifiuto di una missione con gli americani non è quella di non fare nulla – vedo che (vista) tra molte persone, purtroppo anche nel DOCUP – ma piuttosto l’alternativa è una missione europea, se necessario senza gli inglesi, se decidono per gli Stati Uniti “, ha detto.

L’ex cancelliere Gerhard Schroeder, un socialdemocratico, ha accolto con favore l’opposizione SPD all’adesione a una missione guidata dagli Stati Uniti.

“Accolgo con grande favore le osservazioni critiche del DOCUP. Una solida operazione guidata dagli Stati Uniti potrebbe rapidamente intensificarsi”, ha detto al quotidiano Rheinische Post Schroeder, che si è opposto all’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003.

La scorsa settimana il nuovo ministro della difesa Annegret Kramp-Karrenbauer ha dichiarato in un discorso che la Germania è un “alleato affidabile” per i suoi partner NATO.

Ma ha aggiunto: “Dobbiamo sempre esaminare scrupolosamente le richieste di supporto da parte dei nostri partner. Non dobbiamo affermare in fretta, né emettere rigetti istintivi”. Kramp-Karrenbauer incontrerà mercoledì il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg.

2483.- Mentre la soluzione dei due stati perde terreno, il progetto di uno stato guadagna popolarità.

How Israel Systematically Hides Evidence of 1948 Expulsion of Arabs. International forces overseeing the evacuation of Iraq al-Manshiyya, near today’s Kiryat Gat, in March, 1949.

Queste note, seguite alla dichiarazione di Trump a favore di Gerusalemme capitale, sono tuttavia ottimistiche, a favore del progetto di uno stato unico. Non lo vedremo mai. Quello favorito da Friedman per i palestinesi non sarà un stato costituzionale, ma l’opportunità di insediare stabilmente le forze armate USA in Palestina e, per Israele, di non fare sconti sulla sua sicurezza, oggi e domani.

Le riflessioni di David M. Halfbinger per il The New York Times, 5 gennaio 2018.

L’insediamento israeliano di Ariel in Cisgiordania. Incoraggiata dalla dichiarazione del presidente Trump su Gerusalemme, la destra israeliana sta apertamente perseguendo il suo scopo di un solo stato dal Giordano al Mediterraneo. Credit Dan Balilty per il New York Times.

La destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, non è l’unica corrente politica a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

Anche l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha cominciato a chiedersi se questa possa non essere una idea così cattiva, sebbene abbia una visione radicalmente diversa di come dovrebbe essere questo stato.

Mentre la soluzione dei due stati perde slancio, entrambe le parti stanno riprendendo in considerazione l’idea dello stato unico. Ma questa soluzione è da tempo problematica per entrambe le parti.

Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico. Anche i Palestinesi, che non vogliono vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, vedevano la soluzione dei due stati come la loro migliore speranza.

Ora, per la prima volta da quando, nel 1988, dichiarò il suo appoggio ad uno stato palestinese accanto ad Israele, l’OLP sta seriamente discutendo se abbracciare soluzioni di ripiego, inclusa la realizzazione dell’unico stato.

“Questo sta dominando la discussione”, ha dichiarato Mustafa Barghouti, un medico membro del comitato centrale dell’OLP, che deve farsi carico di possibili mutamenti nella strategia del movimento nazionale nel corso di questo mese.

L’insediamento israeliano di Oranit. La destra israeliana sta facendo pressioni per annettere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata. Credit Dan Balilty per il New York Times.

I sostenitori dei Palestinesi immaginano uno stato con eguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. I Palestinesi avrebbero potere politico in proporzione al loro numero e, considerando i trend demografici, sarebbero entro breve tempo la maggioranza, determinando la fine del progetto sionista.

Questo risultato è inaccettabile per la destra israeliana, che sta premendo per annettere i territori della Cisgiordania occupata su cui i coloni israeliani hanno costruito colonie, relegando i Palestinesi nelle aree dove ora vivono.

Gli Israeliani che propongono lo stato unico riconoscono apertamente che le aree palestinesi sarebbero assai meno che uno stato, almeno all’inizio: il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha addirittura chiamato uno “stato minore”. In futuro, dicono, i Palestinesi potrebbero ottenere una statualità in una confederazione con la Giordania o l’Egitto, come parte di Israele, o forse addirittura in modo indipendente, ma non a breve.

Entrambe le parti hanno ufficialmente sostenuto a lungo l’idea dei due stati come soluzione al conflitto, contemporaneamente accusando l’altra parte di covare piani sull’intero territorio. Ma la dichiarazione di Trump su Gerusalemme del mese scorso ha cambiato le carte in tavola.

L’amministrazione Trump non ha sostenuto la soluzione dell’unico stato, e sta lavorando a un suo progetto di pace, insistendo che ogni accordo definitivo, confini inclusi, deve essere negoziato dalle due parti. Ma la decisione presa dal presidente il mese scorso di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, in spregio alla ultradecennale politica statunitense ed al consenso internazionale e senza alcuna menzione delle rivendicazioni palestinesi sulla città, è stata letta come un deliberato spostamento dell’ago della bilancia dalla parte di Israele.

Saeb Erekat, veterano negoziatore palestinese, ha detto che la dichiarazione di Trump ha suonato la campana a morto per la soluzione dei due stati e che i Palestinesi dovrebbero spostare la loro attenzione su “uno stato con uguali diritti”. Da allora la sua posizione ha guadagnato popolarità tra i leader palestinesi.

I Palestinesi si sono scontrati il mese scorso con le forze israeliane in Cisgiordania, durante le proteste contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Trump. Alcuni leader palestinesi hanno letto l’annuncio come la fine della soluzione dei due stati. Credit Dan Balilty per il New York Times

In questa prospettiva, il movimento palestinese dovrebbe passare ad una battaglia per l’eguaglianza dei diritti civili, incluse le libertà di movimento, assemblea, manifestazione del pensiero, e il diritto di voto alle elezioni politiche. “Il che significa che un Palestinese potrebbe essere primo ministro”, ha detto Barghouti.

Per i suoi sostenitori palestinesi, l’idea dell’unico stato è un’amara consolazione dopo decenni di battaglie per uno stato sulla base degli accordi di pace di Oslo, che molti ritengono abbiano portato a poco se non a dare copertura, e tempo, all’espansione degli insediamenti israeliani.

“Se sostieni la soluzione dei due stati, sostieni Netanyahu”, ha dichiarato As’as Ghanem, docente di scienze politiche all’Università di Haifa che da tempo lavora con un gruppo di Israeliani e Palestinesi a una strategia basata su un unico stato. “È ora che noi Palestinesi proponiamo un’alternativa”.

Vari sforzi sono in corso. Un gruppo che esiste da una decina d’anni, chiamato Movimento Popolare per uno Stato Unico e Democratico, guidato da Radi Jarai, un ex-leader di Fatah che ha passato 12 anni in un carcere israeliano dopo aver partecipato alla guida dell’Intifada del 1987, sta pianificando una campagna sui media per spiegare l’idea agli abitanti della Cisgiordania.

“Pensano che ciò significhi che i Palestinesi avranno la carta d’identità israeliana e vivranno sotto un regime di apartheid”, ha detto. “Ma la nostra idea è di avere uno stato democratico, con nessun privilegio per gli Ebrei o per alcun altro gruppo etnico o religioso”.

Altri stanno parlando di delineare un prototipo di costituzione per un unico stato o di fondare un partito politico che lo sostenga in Israele e nella Cisgiordania.

La polizia di confine israeliana monta la guardia nel quartiere musulmano della città vecchia di Gerusalemme. I sostenitori palestinesi della soluzione di un unico stato immaginano uno stato con uguali diritti per Palestinesi ed Ebrei. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

“Almeno il 30% dei Palestinesi sostiene l’idea dell’unico stato sebbene nessuno ne parli”, ha detto Hamada Jaber, organizzatore di un gruppo chiamato Fondazione per un Unico Stato, “se ci sarà almeno un partito politico da ciascuna parte che ne parla e ne adotta la strategia, il sostegno crescerà”.

L’idea ha un sostegno più ampio tra i giovani, ha detto il sondaggista palestinese Khalid Shikaki, in particolare tra gli studenti e i professionisti che reclamano un mutamento di strategia fin dalla primavera araba del 2011.

“Ho 24 anni”, afferma Mariam Barghouti, scrittrice e attivista coinvolta negli sforzi verso un unico stato, e parente alla lontana di [Mustafa] Barghouti, “Tutto ciò che ho conosciuto è Oslo e il processo di negoziazione per i due stati. Sono stata testimone di come le cose siano solo peggiorate per me e la mia generazione”.

Per la destra israeliana, abbandonare l’obiettivo dei due stati è una cosa buona, una minaccia evitata. Molti infatti guardano a ciò che è successo a Gaza, da cui Israele si è unilateralmente ritirata nel 2005, e immaginano una Cisgiordania controllata allo stesso modo dai militanti di Hamas, con la conseguenza di razzi che piovono sull’aeroporto Ben-Gurion da est, anziché sulle fattorie e sulle scuole da sud.

Ma la destra israeliana non ha pienamente chiarito come il suo unico stato supererebbe il dilemma demografico. Assorbire i quasi tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significherebbe la fine dello stato ebraico, oppure distruggerebbe la democrazia israeliana se ai Palestinesi venissero negati uguali diritti. Anche una risicata maggioranza ebraica non sarebbe politicamente in grado di negare ai Palestinesi piena cittadinanza e pari diritti in un singolo stato sovrano.

“Non darei mai la cittadinanza alle masse della popolazione araba in Giudea e Samaria”, ha dichiarato Yoam Kisch, parlamentare del partito di Netanyahu che sta portando avanti un piano per l’autonomia, usando i nomi biblici per la Cisgiordania.

Lo scorso mese le bandiere israeliana e americana sono state proiettate sulle mura della città vecchia di Gerusalemme, subito prima che Trump riconoscesse Gerusalemme come la capitale di Israele. Credit Uriel Sinai per il New York Times.

In futuro, ha detto, ciò che rimane delle aree palestinesi potrebbe diventare parte della Giordania o dell’Egitto, o diventare una qualche forma di “stato minore” con sovranità limitata. Nel frattempo, Kisch ha dichiarato di voler dare la piena cittadinanza israeliana soltanto a circa 30.000 Palestinesi della Cisgiordania che vivono in aree su cui vuole che Israele affermi la sua sovranità.

Una mossa del genere sarebbe inaccettabile per i Palestinesi.

Ciò che queste due visioni completamente diverse dello stato unico condividono è la convinzione che la soluzione dei due stati sia irraggiungibile.

Certamente l’OLP non sta completamente rinunciando all’idea dei due stati. Sta ancora percorrendo altre vie diplomatiche. Venerdì, per esempio, Erekat ha fatto appello agli stati membri della Lega Araba perché diano corso agli impegni presi in passato di interrompere ogni legame con i paesi che riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.

“Sappiamo che dobbiamo stare attenti che il mondo non ci fraintenda”, ha dichiarato Barghouti in un’intervista. “Se la soluzione dei due stati muore, sarà responsabilità di Israele, non dei Palestinesi. Ma se gli Israeliani la uccidono, che è ciò che stanno facendo ora, purtroppo con l’aiuto dell’amministrazione Trump, allora l’unica opzione per noi sarà quella di combattere il regime di apartheid e farlo crollare, il che significa un unico stato con uguali diritti per tutti”.

Sia i Palestinesi che gli Israeliani sono scettici riguardo alla possibilità che leader palestinesi come Erekat e Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, possano mai veramente abbandonare il processo di Oslo, al quale hanno consacrato le loro carriere e al quale devono il loro sostentamento.

Se e quando in Israele verrà eletto un governo più liberale, potrebbe anche resuscitare il processo di pace basato sui due stati.

Ma i costi e la difficoltà politica di ritirare gli Israeliani dalla Cisgiordania crescono con ogni famiglia di coloni che vi si trasferisce.

Daniel C. Kurtzer, un professore di Princeton che è stato ambasciatore in Egitto con l’amministrazione Clinton e in Israele sotto George W. Bush, ha fatto notare che circa 120.000 lavoratori palestinesi fanno i pendolari in Israele, i servizi di sicurezza palestinesi forniscono aiuto ad Israele nella protezione della sua popolazione e l’Autorità Palestinese solleva Israele dall’obbligo che grava sulla potenza occupante di prendersi cura dei rifugiati.

“Tutti noi diciamo ‘non accadrà mai, torneranno in sé’”, ha detto Kurtzer. “Ma quanto si può andare avanti con lo status quo? Ci sveglieremo un giorno e sarà di fatto un solo stato. È come in ‘Thelma e Louise’. Corri lungo l’autostrada e la vita è fantastica. Ma c’è un precipizio”.

David M. Halfbinger

Rami Nazzal ha contribuito con notizie da Ramallah, Cisgiordania, e Myra Noveck ha fornito ricerche da Gerusalemme.

2482.- L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”

Tramonta il progetto dell’ONU dei due Stati, portato avanti, fra gli altri, da Federica Mogherini.  Una breve scansione:

Il nome “Palestina” fu usato da Erodoto nel V° secolo a.c.. Ufficialmente, fu adottato per la prima volta dall’impero romano, per la provincia di Palestina, appartenuta, poi, all’impero bizantino e, ancora, al califfato arabo omayyade e abbaside. Dopo l’Impero Ottomano, il 16 maggio 1916, con la firma dell’Accordo Sykes-Picot, Francia e Gran Bretagna decidono che il territorio della Palestina ottomana venga assegnato alla fine della guerra al Regno Unito, con mandato di tipo A, sotto controllo della Società delle Nazioni. Il 9 dicembre 1917, le truppe britanniche occupano gerusalemme e l’intera Palestina. Il mandato comincia formalmente nel 1920 e terminerà nel 1947, caratterizzato da varie rivolte da parte dei palestinesi contro la politica britannica nei confronti dell’autorizzazione del Regno Unito all’immigrazione ebraica e delle vendite di terreni ai migranti da parte dei latifondisti arabi. Il 29 novembre 1947, l’Assemblea Generale dell’ONU approva il Piano di partizione della Palestina. Agli arabi viene lasciata la minoranza del territorio dell’ex mandato britannico della Palestina e nel rimanente viene costituito lo Stato di Israele. Il diritto di esistenza di uno Stato di Palestina è riconosciuto da 136 paesi, anche se a vario titolo, dalle Nazioni Unite (secondo la risoluzione del 1948) e dall’Unesco, non dall’Italia.

Ci sono differenti progetti riguardanti un possibile stato palestinese

Il progetto “Sicurezza dei due Stati” (Two State Security), che colonizzerebbe la Palestina sotto il dominio di Israele, nonostante essa vi venga definita un territorio “sovrano”, e sotto l’occupazione USA permanente che sorvegli il fiume Giordano. A Gaza richiederebbe per prima cosa una riaffermazione del governo e del controllo della sicurezza di Gaza da parte dell’Autorità Palestinese, vista come una forza alleata che applichi misure di sicurezza interna in Cisgiordania e Gaza per conto di Israele.

La forma dei “due stati per due popoli”, pura e semplice, come premessa di una pace futura, prevede una obbligatoria “separazione dai palestinesi”, ma è, invece e in realtà, un luogo comune, che presuppone una rinuncia solenne e definitiva di entrambi, israeliani e arabi, a tutte le rivendicazioni sul territorio assegnato a ciascun altro dei due. Nelle trattative Israele ha sempre offerto e chiesto questa clausola “finale” fra le condizioni irrinunciabili e ha sempre ricevuto netti rifiuti. Per Israele questa “pace” sarebbe solo un armistizio svantaggioso. 

Qualcuno, nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la destra israeliana, incoraggiata dal fatto che Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, comincia a sostenere la soluzione di un unico stato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Oggi, chiamando in causa problemi per la sicurezza, l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Friedman afferma che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele e per la Giordania”. In pratica, resuscita il progetto “Sicurezza dei due Stati”, cioè, la sicurezza prima di tutto – per Israele

La soluzione porta con se dei problemi di integrazione, che dovrebbero far riflettere quanti, anche tradendo il proprio mandato, sostengono che l’Europa e, sopratutto, l’Italia debbano assorbire milioni di africani, assolutamente privi di qualunque educazione civica e senza valori da poter offrire in contraccambio a quelli ricevuti. Per gli Israeliani, assorbire tre milioni di Palestinesi della Cisgiordania significa, infatti, o rinunciare alla democrazia o accettare la fine dello stato ebraico e della sua identità. Anche per i Palestinesi, significherebbe vivere in condizioni di sostanziale apartheid o di occupazione militare, perciò essi, vedevano con favore la soluzione dei due stati. Comunque, data la situazione di stallo, l’OLP si sta orientando a discutere se abbracciare soluzioni di ripiego, come anche la realizzazione dell’unico stato, rinunciando ad appoggiare uno stato palestinese accanto ad Israele, per la prima volta dal 1988.

Questo progetto è stato elaborato dal Forum sulle Politiche di Israele (IPF), un gruppo di pressione con sede a New York fondato nel 1993 su iniziativa del Primo Ministro Yitzhak Rabin al fine di promuovere il processo di pace di Oslo. Poco dopo l’inizio del suo mandato nel 2009, il Presidente Obama adottò la “Roadmap” per il Medio Oriente dell’IPF. Lo abbiamo definito la definitiva colonizzazione della Palestina, perché, tra le raccomandazioni del piano, leggiamo la completa smilitarizzazione della Palestina nonostante essa venga definita un territorio “sovrano”, un’infrastruttura per la sorveglianza delle frontiere ed una presenza militare statunitense permanente che sorvegli il fiume Giordano, non molto distante dall’Iran, molto simile alla presenza USA fra i Curdi.

Friedman rifiuta di approvare lo stato palestinese e dichiara di sostenere “un’autonomia estesa”.

David Friedman
David FriedmanJIM WATSON / AFP

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha dichiarato in un’intervista della CNN che gli Stati Uniti “non sono pronti a parlare dello stato palestinese” poiché costituirebbero una minaccia alla sicurezza esistenziale per Israele e Giordania.
Alla domanda della giornalista Christiane Amanpour se gli Stati Uniti sono impegnati in una soluzione a due stati, Friedman ha dichiarato: “Crediamo nell’autonomia palestinese, crediamo nell’autogoverno palestinese. Crediamo che l’autonomia dovrebbe essere estesa fino al punto in cui interferisce con la sicurezza israeliana “.
Citando preoccupazioni per la sicurezza, Friedman ha affermato che uno stato palestinese in questa fase “è una minaccia esistenziale per Israele, per la Giordania”, sostenendo che sarebbe diventato un hub per i gruppi terroristici.

Trump non darà a Netanyahu la West Bank come regalo di rielezione. A causa dell’Iran

Friedman ha detto: “L’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno stato palestinese fallito. In questo momento il governo palestinese è estremamente debole “, ha aggiunto, che l’amministrazione degli Stati Uniti vuole che i palestinesi abbiano un’economia e si governino da soli.

Friedman ha anche respinto una soluzione a stato unico composto da una unica cittadinanza e con pari diritti per tutti i residenti di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza. “Non credo che qualcuno responsabile in Israele stia spingendo per una soluzione a uno stato unico… Non penso che ci sia un serio movimento politico in Israele per una soluzione a uno stato, e non credo che nessuno degli atti che Israele ha compiuto o che abbiamo deciso negli ultimi due anni ci sta portando a un tal punto “, ha detto.

 A giugno, l’inviato per il Medio Oriente di Friedman e del presidente Donald Trump Jason Greenblatt ha aperto un tunnel che corre sotto un villaggio palestinese a Gerusalemme est durante una cerimonia che inaugura un progetto archeologico di coloni. 

Sempre a giugno, Friedman ha dichiarato al New York Times che Israele ha il diritto (se lo dice lui! net) di annettere parti della Cisgiordania. Il commento segue la promessa elettorale del primo ministro Benjamin Netanyahu di annettere il territorio, su cui Israele ha mantenuto il controllo da quando è stato conquistato alla Giordania nella guerra del 1967.

2481.- “Gli Incendi in Alaska e Siberia sono solo l’inizio: i mutamenti dell’Artico cambieranno il mondo”

Uno sguardo sul nuovo mondo, anzi nuovissimo, che, ancora una volta, vede la Cina partire in vantaggio. Non è solo questione di nuove rotte commerciali marittime, di gas e petrolio. Anche se nell’Artide si stima sia conservato un quarto delle riserve di petrolio e gas naturale del mondo, sono ben altri gli interessi di Pechino. L’Artico è una miniera di materie rare, l’oro del futuro. la Cina, con il finanziamento dei progetti della regione sta costruendo una leadership mondiale, anche in casa nostra. Solo gli Usa si confrontano con le mire espansionistiche della Cina. Un’ennesima dimostrazione dell’insufficienza politica dell’Unione europea.

Mike Pompeo alla viglia dell’ultimo vertice che ha riunito in Finlandia il Consiglio Artico, ha detto: “Vogliamo che l’Oceano Artico diventi un altro Mar cinese meridionale?”. Il Consiglio Artico è il forum intergovernativo che promuove il coordinamento e l’interazione tra gli Stati che si affacciano sul Polo Nord. Sebbene disti 1.450 chilometridall’Artide, la Repubblica popolare è membro osservatore del Consiglio Artico dal 2013 oltre ad essere uno dei Paesi più attivi nella regione con quasi 90 miliardi di dollari investiti tra il 2012 e il 2017. Comparando le acque che bagnano la regione artica al tratto di mare scosso da rivendicazioni territoriali tra Pechino e Paesi vicini, il segretario di Stato americano ha dirottato l’attenzione sulla “competizione tra potenze globali” che minaccia la stabilità del quadrante. Per Pompeo, l’aggressività di Cina e Russia impone un maggiore presenzialismo americano nell’area in qualità di “gendarme”. Tanto più che le pretesi cinesi si baserebbero sull’erronea rivendicazione di un ruolo all’interno di una comunità che prevede unicamente “stati artici e stati non artici”. L’alleanza fra Cina e Russia fa paura, ma è la politica della finanza sionista-americana a spingere la Russia fuori dall’Occidente. Poco potrebbe fare una Europa veramente unita politicamente. Sarà la fine delle rotte mediterranee e di Suez. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.


La  Northern Sea Route, è decisamente più breve: 14.000 chilometri (8.700 miglia) in 35 giorni di navigazione, in media, diciamo pure artica, contro 20.000 chilometri (12.400 miglia), in 48 giorni, della rotta tradizionale via canale di Suez, . Sono cifre che non lasciano dubbi e che motivano la blindatura della rotta polare da parte della Russia. Mosca, rievocando coerenti toni da Guerra Fredda, ha infatti ha deciso di tenere pesantemente sotto controllo le regioni artiche, dove da anni ormai sta rinforzando le sue strutture civili e militari, introducendo nuove regole per controllare l’accesso alla Northern Sea Route, ovvero quel passaggio a nord-est che la Russia vede sempre di più come il suo asso nella manica da giocarsi nel poker geopolitico delle rotte commerciali.



“Gli Incendi in Alaska e Siberia sono solo l’inizio: i mutamenti dell’Artico cambieranno il mondo”

Incendi «senza precedenti» in Siberia e Alaska, a nord del circolo polare artico 
Alcuni roghi sono così estesi da coprire una superficie pari a quella di 100mila campi da calcio. Secondo una stima prudente, la quantità di anidride carbonica che hanno immesso nell’atmosfera è pari a quella prodotta dalla Svezia in un anno
In questo 2019, più caldo di sempre, i fumi prodotti dagli incendi artici possono essere visti addirittura dallo spazio. Scrivono Andrea Semenzato e Bruno Di Marcello, su Blasting News: “I danni subiti in Groenlandia, Siberia ed Alaska
L’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), il servizio di monitoraggio meteorologico e climatico delle Nazioni Unite, ha definito questi gravi incendi artici “senza precedenti”. I più grandi di questi incendi, che si ritiene siano stati causati da fulmini, si sono verificati a Irkutsk, Krasnoyarsk e in Buriazia e i venti che trasportano fumo hanno fatto anche precipitare la qualità dell’aria a Novosibirsk, la più grande città della Siberia. La fiammata di Sisimiut in Groenlandia, durata più giorni, rilevata per la prima volta il 10 luglio, è avvenuta in un tratto insolitamente caldo e secco in cui la fusione della vasta calotta glaciale della Groenlandia è iniziata un mese prima del solito. In Alaska, invece, sono stati segnalati fino a 400 incendi.
Il climatologo Rick Thomas ha stimato la superficie totale bruciata dell’Alaska a 2,06 milioni di acri e Mark Parrington, scienziato senior del Climate Change Service e Atmosphere Monitoring Service per il programma europeo di osservazione della Terra Copernicus, ha descritto l’estensione del fumo generato da questi incendi artici come “impressionante” e ha pubblicato l’immagine di un anello di fuoco e fumo che vedete, in gran parte della regione. 

Era quasi la Luna, l’Artico. Un altro pianeta rispetto alla grande storia dell’umanità. Invece ora si trova al centro di trasformazioni epocali. Dallo spazio appare sempre meno bianco e sempre più blu; un nuovo mare sta emergendo come un’Atlantide d’acqua, perché il riscaldamento nel Grande Nord è doppio rispetto al resto della Terra. Ma lo scioglimento dei ghiacci perenni ha scatenato la contesa per la conquista dell’unica area del mondo ancora non sfruttata e che nasconde risorse pari al valore dell’intera economia Usa. Si aprono strategiche rotte mercantili, ampie e pescose regioni marittime, ciclopiche infrastrutture per le estrazioni. Una spietata corsa neocoloniale ai danni degli inuit.
Marzio G. Mian è uno dei pochi giornalisti internazionali ad aver esplorato sul campo il Nuovo Artico.
Dalla Groenlandia all’Alaska, dal Mare di Barents allo Stretto di Bering, questo viaggio-inchiesta racconta in presa diretta la battaglia per la conquista dell’ultima delle ultime frontiere. La Cina punta con ogni mezzo a espandere nel Grande Nord le sue ambizioni globali; gli Stati Uniti, ma anche la Norvegia, fronteggiano il pericoloso disegno neo imperiale di Vladimir Putin che considera l’Artico il mare nostrum della Russia e dispiega spie, basi e testate nucleari: un conflitto appare qui oggi più realistico che ai tempi della Guerra fredda, scrive Mian. Nel Grande Gioco del Ventunesimo secolo incombe su tutte una domanda: di chi è il Polo Nord?
Lo trovate su Amaszon.

Parla Marzio Mian, esperto della regione artica, tra nuove tratte, ecosistemi in pericolo e shock geopolitici: “Tutta la regione è soggetta a una trasformazione travolgente. Quello che fa più impressione è lo scioglimento del permafrost, che potrebbe far saltare davvero qualsiasi immaginario”

La strada si accorcia, purtroppo, però, non per tutti. Il surriscaldamento globale scioglie i ghiacci dell’Artico dando vita a un nuovo mare, nuove rotte e inediti scenari. È partita la “gara polare”, la “febbre bianca” o come in molti lo definiscono il secondo allunaggio. Tra loro c’è anche Marzio Mian, giornalista, fondatore della società no profit The Arctic Times Project e autore del libro, edito in Germania, Spagna, Sud America e Italia, Artico. La battaglia per il Grande Nord (Neri Pozza, 2017) “Dal punto di vista politico ed economico è chiaro che quando tu hai un nuovo mondo, come fu l’America ai tempi di Colombo, con un nuovo mare e nuovi spazi, l’interesse è enorme. Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto)”.

Russia e Cina su tutti, poi Usa e infine Europa, utero in affitto di questo embrione bellico. Le grandi potenze si muovono sulle ombre della colonizzazione, attratte dalle risorse petrolifere, l’apertura di nuove vie commerciali, flussi di pesca sconosciuti e tanta spazio climaticamente vivibile da occupare. Senza pensar troppo all’ambiente. “Tutta la regione artica nel suo insieme è soggetta a una trasformazione travolgente da ogni punto di vista. Sapevamo che il riscaldamento dell’oceano Artico è doppio rispetto al resto del pianeta, però è chiaro che quella che viene definitiva una spirale irreversibile ha assunto un’accelerazione che gli scienziati stessi non riescono a seguire e a interpretare”.

Mike Pompeo alla viglia dell’ultimo vertice del Consiglio Artico, il forum che promuove il coordinamento tra gli Stati che si affacciano sul Polo Nord, critico nei confronti di Pechino. Il governo cinese ha investito quasi 90 miliardi di dollari nella regione in 5 anni. Non è solo questione di idrocarburi: lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo un passaggio marittimo potenzialmente più breve del 40% rispetto al percorso attraverso il Canale di Suez

Temperature mai viste e incendi devastanti stanno distruggendo Alaska e Siberia. Cosa sta realmente succedendo?
Non solo in Alaska e in Siberia, tutta la regione artica nel suo insieme è soggetta a una trasformazione travolgente da ogni punto di vista. Sapevamo che il riscaldamento dell’Oceano Artico è doppio rispetto al resto del pianeta, però è chiaro che quella che viene definitiva una spirale irreversibile ha assunto un’accelerazione che gli scienziati stessi non riescono a seguire e a interpretare rispetto ai propri canoni di studio, in quanto sovvertiti. Mi occupo di artico sul campo da 10-12 anni ormai, e ho assistito a vari fasi nelle quali, comunque, è sempre stato difficile fare previsioni.

Quindi è solo l’inizio?
Assolutamente. Quello che fa più impressione è lo scioglimento del permafrost di cui la regione artica è composta in gran parte. Questo potrebbe far saltare davvero qualsiasi immaginario, creando migrazioni climatiche e deportazioni di intere popolazioni.

Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto). Soprattutto a fronte di una gestione di questi territori quasi da far west, in quanto, in primis, mappati solo per il 15 per centoMarzio Mian

Il cambiamento di questo ecosistema come si traduce per il resto del mondo?
È chiaro che l’Artico è l’aria condizionata del pianeta. Nel momento in cui viene a mancare, saltano dinamiche millenarie e si alterano i sistemi metereologici, per cui abbiamo queste ondate di calore, queste precipitazioni mai viste, questa tropicalizzazione dei territori. Tutto ciò, per i prossimi anni, si presta a una lettura facile: nel momento in cui il pianeta sarà sovrappopolato, con sempre più necessita di risorse, come il combustibile fossile, il Grande Nord del mondo, poco popolato, che detiene il 40% delle riserve fossili del pianeta, progressivamente sempre più abitabile dal punto di vista climatico, sarà di conseguenza il nostro destino. Già avviene questo, senza usare il futuro: la progettazione di nuovi aeroporti, nuove città, nuovi porti e le previsioni delle grandi banche e dei grandi fondi in vista di una secondo “allunaggio”.

Andiamo incontro alla scoperta di un nuovo pianeta?
Dal punto di vista politico ed economico è chiaro che quando tu hai un nuovo mondo, come fu l’America ai tempi di Colombo, con un nuovo mare e nuovi spazi, l’interesse è enorme. Rispetto alla colonizzazione di queste aree, non è difficile immaginare delle crisi e dei conflitti, delle contese (che già esisto). Soprattutto a fronte di una gestione di questi territori quasi da far west, in quanto, in primis, mappati solo per il 15 per cento.

In termini politici, l’apertura di queste nuove tratte rischia di offuscare il crocevia Europa?
Assolutamente sì. L’Europa, che già ha un ruolo infinitamente marginale rispetto a quello della Cina, che non è un Paese artico ma lo è di fatto sotto molti punti di vista, mercantile, economico, diplomatico – per Pechino l’Artico è una priorità -, nonostante l’affaccio con la Scandinavia e in particolare con la Groenlandia, attraverso al Danimarca, sotto un punto di vista di studio scientifico e di progetti, è esclusa dal gioco. Per fare un esempio, la connessione tra Kirkenes e l’Europa è già in mano alla Cina: la ferrovia che verrà costruita a breve tra la città norvegese e quella finlandese di Rovaniemi, per il traporto merci e di container dall’artico verso il Centro Europa, è finanziata dalla Cina. Il tunnel tra la Finlandia e l’Estonia, era un progetto europeo adesso di Pechino. In altre parole, l’Europa sarà tagliata fuori dal commercio nella sua stessa pancia: praticamente le merci partiranno da Shanghai e arriveranno nel Vecchio Continente senza che questo tocchi palla.

L’attore più attivo, nonostante ciò, è la Cina. Questa sta adottando delle manovre che neanche in Africa: quello delle materie prime in cambio di infrastrutture è una manovra quasi passataMarzio Mian

Siamo di fronte a un’egemonia cinese…
Come se non bastasse, l’Europa non ha voce in capitolo su una regione fondamentale nello scacchiere, ovvero la Groenlandia. I legami tra il governo inuit e quello cinese allarmano l’Europa: ma quest’ultima è completamente in ritardo, non avendo avviato alcuna trattativa simile. Gli unici che si stanno dando da fare sotto l’aspetto geopolitico sono gli Stati Uniti.

Nel risiko planetario, quale potenza è in vantaggio?
La potenza geografica storica è la Russia. Pian piano ha spostato negli anni il suo baricentro geopolitico sempre più a nord, collocando risorse militari che adesso formano arsenali pazzeschi. La Russia, tuttavia, potrebbe cercare un’alleanza (anche se al momento è più prigioniera) con la Cina, in quanto costretta a rivolgersi a Pechino per un prestito a fronte delle salate sanzioni Ue. Gli Stati Uniti non sono mai stati una potenza artica, non ci hanno mai creduto nonostante l’Alaska: con Trump e Pompeo, però, c’è stato un risveglio muscolare, con minacce e accuse rivolte alla Cina e promesse di azioni perentorie. L’attore più attivo, nonostante ciò, è la Cina. Questa sta adottando delle manovre che neanche in Africa: quello delle materie prime in cambio di infrastrutture è una manovra quasi passata. In Groenlandia, nonostante l’Europa per un giuoco di forze non abbia mai interferito con gli affari di Pechino, su un territorio che per il 90% è ancora del Regno di Danimarca la Cina si muove liberamente, senza trovare ostacoli e portando a termine i suoi interessi. Lanciando perfino provocazioni, con l’invito al governo inuit di stabilire sul territorio cinese un’ambasciata permanente. Se provocazione si può chiamare: in quanto l’Europa è ferma e gli Stati Uniti non riescono a decidersi.

Non voglio fare la Cassandra, ma da tutto questo, in un mare che non ha mai conosciuto la guerra, potrebbero sortire uno scenario con dei conflittiMarzio Mian

Questa febbre “bianca”, in particolare per quella che saranno le nuove prospettive di pesca, avrà bisogno di leggi e regolamenti. A che punto siamo? 
Sono stato recentemente con la Guardia costiera norvegese e parlando con il comandante il quadro che è emerso è a dir poco spaventoso. Quello della pesca è per loro il secondo petrolio. Il merluzzo per esempio si sta spostando verso acque ignote: non si conosce la sua destinazione e se vada incontro a un suicidio. Nondimeno, loro stessi hanno notificato come perfino il pesce sia origine di conflitti: esso si sposta determinando impoverimento o arricchimenti.
L’altra cosa è il turismo. C’è questo boom delle navi da crociera a latitudini incredibile: il comandante ha ricordato quando in un giorno, attorno alle isole Svalbard, c’erano ben 19 navi, una con a bordo 9mila passeggeri. Alcune situazioni sono anche per loro nuove: i fondali spesso sulle carte sono segnalati di 50 o 100 metri, quando in realtà sono profondi 20. Cosa potrebbero fare in caso di incidente? Assolutamente nulla, tra tempi di percorrenza e temperature letali delle acque. A fronte di una corsa inarrestabile, il legislatore fatica a stare al passo e, pertanto, è una situazione da far west. Tutti gli accordi sono diventati anacronistici, la stessa legge del mare è superata, non tenendo conto delle nuove acque.

Come cambieranno le fattezze mondiali a margine di una battaglia per il Grande Nord?
L’uomo è uguale a se stesso: coglie le opportunità che gli si presentano, a volte forzando le situazioni. L’homo sapiens non ha fatto altro che occupare nuovi territori, e con un’occasione del genere, unica nella storia dell’umanità, con una fetta di mondo tutta da occupare, l’umanità non si farà scappare l’affare. La tecnologia sta investendo in questo nuovo mondo, le assicurazioni della navi spacca ghiaccio investono nel futuro: in quanto unica regione al mondo dove i verbi si declinano al futuro. Non capita da nessuna altra parte. Non voglio fare la Cassandra, ma da tutto questo, in un mare che non ha mai conosciuto la guerra, potrebbero sortire uno scenario con dei conflitti.

2480.- LINK CAMPUS, Anno Accademico 2018-2019

Giurisprudenza, Corso di Laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza,

Docente: Castaldo Maria Elena

Tipo di incarico: Ricercatore Titolo: Diritto Penale II

Dottore di ricerca in Diritto Internazionale e Diritto Interno in materia internazionale, dal 2006 è Ricercatore confermato di diritto penale presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Salerno e da novembre 2016 è incardinata quale Ricercatore di Diritto Penale presso la Scuola di Ateneo di Link Campus University con l’incarico di insegnamento in Diritto Penale Avanzato per il Corso di Laurea in Giurisprudenza.
Docente presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali e il Corso di dottorato di ricerca PESPECO dell’Ateneo salernitano, è oggi docente per i Corsi di Master di specializzazione e per i Corsi MBA della Link Campus University.
È stata responsabile scientifico di progetti di ricerca finanziati dal MIUR presso l’Università di Salerno e ha partecipato in qualità di relatore a numerosi convegni e seminari nazionali e internazionali. È autore di pubblicazioni scientifiche su riviste sia nazionali sia internazionali e in raccolte collettanee.


MARIA ELENA CASTALDO

Programma

Introduzione;
Delitti contro la personalità dello Stato (sezione I e II);
Delitti contro la Pubblica Amministrazione (nozioni generali; sezione I – par. 1,2,3,4,5,7,10); Delitti control’amministrazione della giustizia (par.1,3,4,5,8,11,15);
Delitti contro l’ordine pubblico (premessa; sezione II);
Delitti contro l’incolumità pubblica (premessa; struttura incriminazione; sezione I – par.1,2,3,9,10; sezione II); Delitti contro la fede pubblica (par. 1,2,3; sezione III);
Delitti contro l’economia pubblica, l’industria ed il commercio (premessa; sezione III).
Agli studenti lavoratori è data la possibilità di concordare con il docente programmi alternativi calibrati su specifiche esigenze dagli stessi segnalate.

Alternative programs for part-time students can be agreed upon specific requirements.

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA DIFESA E DELLA SICUREZZA

Classe L/DS – Scienze della difesa e della sicurezza

Programme leader del Corso di laurea: Francesco Paolo Tronca

Coordinatore: Manuela Minozzi

Il Corso di laurea in Scienze della difesa e della sicurezza si propone di formare un esperto capace di esercitare funzioni operative, di coordinamento, direzione e controllo in ambito domestico e internazionale.

Il corso, con un taglio interdisciplinare, intende rispondere alle molteplici e articolate necessità di intervento che gli attuali, complessi problemi della sicurezza interna e della difesa dei territori, impongono sia ai players pubblici che a quelli privati.

Pur trattandosi di un corso capace di attrarre l’interesse dei giovani neo-diplomati, l’offerta formativa proposta nel progetto del corso di Scienze della difesa e della sicurezza, si rivolge in maniera preminente ai professionisti, che desiderano approfondire la propria formazione nei settori della tutela degli interessi strategici della Repubblica italiana, dell’Unione Europea e della sicurezza privata; quindi, il corso risponde alla crescente richiesta di figure professionali specializzate nel campo della difesa e della sicurezza, in un ambito formativo poco esplorato dal sistema universitario, vista l’esigua offerta di Corsi di studio analoghi, spesso a numero chiuso.

Declinando il concetto di sicurezza nelle sue diverse connotazioni e nei conseguenti ambiti operativi, il corso integra nel progetto formativo discipline appartenenti all’area socio-politologica-economica-giuridica con discipline dell’area tecnico-scientifica, la forte connotazione interdisciplinare si accompagna alla vocazione internazionale della Link Campus University, che all’interno del corso si declina in percorsi di master class, project work e laboratori in collaborazione con enti/istituzioni e figure di spicco nell’ambito nazionale ed internazionale.

Sbocchi professionali

Nell’ambito pubblico, i laureati del corso potranno accedere, previo superamento del relativo concorso pubblico, ove previsto, alle forze armate, alle forze di polizia e a tutte le carriere attinenti alla difesa degli interessi nazionali ed europei,
Nell’ambito privato i laureati del corso potranno lavorare, con ruoli di comando o coordinamento, nel campo della vigilanza privata e delle organizzazioni non governative dedite alle attività umanitarie, settori occupazionali in costante crescita poiché sempre di più vengono richieste figure professionali con competenze sulla sicurezza.

Metodologia didattica e piano di studi
Piano di studi a.a. 2019/2020 – 

Sicurezza economico – finanziaria

PRIMO ANNO

Insegnamento SSDCFU

I SEMESTRE

Fondamenti di InformaticaINF/016Fisica sperimentale (Balistica) FIS/016Economia AziendaleSECS-P/076

II SEMESTRE

Diritto della UE: Normative Europee su privacy e sicurezzaIUS/149Storia ContemporaneaM-STO/049GeopoliticsM-GGR/026

SECONDO ANNO

InsegnamentoSSDCFU

I SEMESTREDiritto PenaleUS/17 9Storia delle Istituzioni PoliticheSPS/039

II SEMESTREEconomia e Gestione delle ImpreseSECS-P/089Sistemi di elaborazione delle informazioni – Metodologie e Tecniche per l’Intelligence e la Sicurezza delle InfrastruttureING-INF/056Psicologia GeneraleM-PSI/019

TERZO ANNO

Insegnamento

I SEMESTREDiritto PrivatoIUS/016Diritto CommercialeIUS/046Lingua IngleseL-LIN/126Gruppo opzionale:
Gruppo Sicurezza Economico – Finanziaria

II SEMESTRETirocinio60Prova Finale6Gruppo opzionale:
Gruppo Sicurezza Economico – FinanziariaPolitica EconomicaSECS-P/0212Statistica EconomicaSECS-S/0312Diritto Tributario InternazionaleIUS/126Economia PoliticaSECS-P/0112Diritto AmministrativoIUS/106Diritto TributarioIUS/126Lingua FranceseL-LIN/046

Metodologia didattica e piano di studi
Piano di studi a.a. 2019/2020 -Piano di studi a.a. 2019/2020 – 

Sicurezza interna ed esterna

PRIMO ANNO
InsegnamentoSSDCFU
I SEMESTRE
Fondamenti di InformaticaINF/016
Fisica sperimentale (Balistica)FIS/016
Economia PoliticaSECS-P/016
II SEMESTRE
Diritto PubblicoIUS/096
Diritto AmministrativoIUS/106
GeopoliticsM-GGR/026
SECONDO ANNO
InsegnamentoSSDCFU
I SEMESTRE
Diritto PenaleIUS/179
Storia ContemporaneaM-STO/049
Fondamenti di Intelligence ed Analisi StrategicaSPS/049
II SEMESTRE
Organizzazione AziendaleSECS-P/106
Sistemi di elaborazione delle informazioni – Metodologie e Tecniche per l’Intelligence e la Sicurezza delle InfrastruttureING-INF/056
Psicologia
Psicologia Generale
Psicologia Sociale – Terrorismo: analisi del fenomeno e aspetti psicologici

M-PSI/01 
M-PSI/05
0
6
3
TERZO ANNO
Insegnamento
I SEMESTRE
Diritto PrivatoIUS/016
Diritto TributarioIUS/126
Lingua IngleseL-LIN/126
Gruppo opzionale:
Gruppo Scienza Interna ed Esterna
II SEMESTRE
Tirocinio60
Prova Finale6
Gruppo opzionale: Gruppo Scienza Interna ed Esterna
Diritto della UE: normative europee su privacy e sicurezzaIUS/146
Scienze cognitive per la sicurezza e l’intelligenceM-PSI/026
Sociologia giuridica, della devianza e del mutamento socialeSPS/126
Psicologia della devianza e della violenzaM-PSI/056
Cooperazione civile, militare, internazionale e politiche per la paceSPS/136
Antropologia culturaleM-DEA/016
Lingua Francese

2479.- Da Mifsud alla Trenta, passando per Renzi-Gentiloni – di Maurizio Blondet

Da Mifsud alla Trenta passando per Renzi-Gentilonidi Maurizio Blondet

Chi è  Joseph Mifsud e perché è così importante? E’ stato un docente maltese della Link Campus,   una strana università  privata di Roma   con ampi agganci nazionali (l’ha fondata Vincenzo Scotti, ex ministro degli interni) e internazionali (ci lavorano agenti britannici);  ed  anche uno dei direttori dell’oscuro London Centre of International Law Practice LCILP):  dove lavorava come consulente  sui temi  energetici  George  Papadopulos, l’attivista pro-Trump e uno dei suoi   assistenti  arruolati nella campagna elettorale  di Trump, preso di mira come strumento inconsapevole del Russiagate.

George  Papadopulos
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump rinunciò a George Papadopoulos come attivista della sua campagna elettorale.

In questo centro di pratica legale internazionale, ricorda ora Papadoupolos, non avveniva nessuna pratica legale di nessun genere.  Ricorda anche che quando annunciò che avrebbe lavorato per la campagna di The Donald, uno dei direttori del  London Centre  lo rimproverò:  “Fai male a lavorare con Trump. È una minaccia per la società. È un razzista. È anti-musulmano”.

Il tono di ostilità però muta completamente quando un altro direttore dello LCILP gli annuncia che si unirà a lui per la conferenza di tre giorni che si terrà al Link Campus University di Roma. E’  lì che gli viene presentato “un accademico maltese sulla cinquantina,  elegantemente vestito, Joseph Mifsud”.

E’ il 14  marzo 2016. Nell’università “dello spionaggio” di Scotti e dove ha insegnato la Trenta,  sono presenti all’evento “ anche il renziano e clintoniano Gianni Pittella, il senatore del Copasir Giuseppe Esposito  (alfaniano) e il direttore della Polizia Postale (la cyber intelligence italiana) Roberto Di Legami. La stessa compagnia (Mifsud, Pittella, Di Legami, Esposito) di una precedente conferenza sulla sicurezza organizzata dalla Link al Senato l’11 settembre 2015″.

Gianni Pitella (al centro) con Mario Mauro e il presidente della Repubblia Giorgio Napolitano nel 2010
 Dal 2011, Link Campus University ha cessato l’attività come filiazione della University of Malta e si è organizzata in un singolo dipartimento. Propone corsi afferenti alle seguenti macro aree: Economia, Giurisprudenza, Comunicazione, Studi internazionali e ha attivato quattro centri di ricerca di area, quattordici centri di ricerca tematici e un centro di studio e ricerca internazionali.

Quello che Mifsud fa balenare  all’ingenuo  Papadopoulos è   di poterlo aiutare nella campagna di Trump, perché ha contatti con ambienti russi.  Alla fine di aprile infatti Mifsud lo invita in un ristorante di Londra e gli comunica: “Sono appena tornato dalla Russia. Dicono di avere materiale per sporcare  Hillary Clinton! Email di Clinton! Hanno migliaia di e-mail imbarazzanti”.

Sembra che Mifsud si atteggi ad agente  informale  di  Mosca. Mette  in contatto Papadopoulos con figure nell’orbita di Vladimir Putin come Ivan Timofeev, esponente del Russian International Affairs Council, un think tank fondato dal Cremlino.

“Gli presenta pure la nipote di Putin, che poi si rivelerà essere solo una stagista della Link senza alcun rapporto con la Russia”.

Il giovane consulente si monta la testa e,  nel  marzo 2016, in una riunione dei membri della campagna per Trump, nello International Hotel di Washington (proprietà di Trump(  si vanta di poter arrangiare un incontro fra Trump e Putin – evidentemente imbeccato da Mifsur e dai “russi” che gli ha presentato.

Ovviamente è quello che l’FBI di Mueller voleva sentire: parte l’inchiesta per dimostrare che Donald è  manovrato da Putin.

Da quel momento, Papadopoulos diventa oggetto di  incontri importanti  e curiosi. Un diplomatico australiano  di nome Alexander Downer che gli parla del materiale che gli danno i russi  fra un gin and tonic e  l’altro. Fatto singolare,  il diplomatico australiano dirige,  a tempo perso, una società d’intelligence privata a Londra, la Haklyut &  Co., che ha tra i collaboratori sir Richard Dearlove,  ex direttore dell’MI6.

Altri incontri  di Papadopoulos: un funzionario del ministero degli steri britannico non meglio identificato, lo porta al bar e gli pala della Russia. Infine “Stephan Halper, un vecchio agente della CIA divenuto professor a Cambridge (anche lui collaboratore della Hakliut & Co) , lo contatta di punto in bianco egli fa domande  sulla Russia”  cercando di fargli dire che lui lavora per i moscoviti. Non basta.

Di colpo compare un “uomo d’affari bielorusso, Sergei Millian” (J) che   gli offre – udite udite –  un contratto di consulenza a 30 mila dollari al mese,  in segreto,   alla sola condizione: che continui a lavorare per Trump.  Papadpoulos rifiuta. Si saprà dopo che questo Millian “era una delle fonti del dossier Steele,   il falso rapporto che era stato compilato dall’ex agente dell’intelligence britannico Christopher Steele e conteneva accuse salaci sui legami di Trump con Mosca”.

Non basta ancora. Ecco apparire un nuovo amico, l’uomo d’affari israeliano Charles Tawil, rumoroso, soverchiante,  vociante,  che  diventa amicone di Papadopoulos in illinois, lo rivede a Mikonos durante una vacanza, lo porta con sé  in Israele e, in un albergaccio di Tel Aviv, gli dà  10 mila dollari in contanti, come anticipo di una non precisata futura consulenza. Denaro che Papadopoulos accetta perché, dice, si sente  minacciato; ha avuto l’impressione che TAwil avrebbe potuto ucciderlo: lo ritiene, dice, un “agente di un servizio d’intelligence estero, non russo”.

Papadopoulos con l’agente israeliano Tawil. “Si  è vatato di aver  aiutato a intercettare  Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano. “Avremmo potuto ucciderlo in qualsiasi momento”, diceva. 
https://www.timesofisrael.com/israeli-named-by-trump-russia-probe-convict-dismisses-absurd-spy-allegations/

E’ il  luglio 2017.    Papadopoulos torna in Usa da Atene e mentre attende la coincidenza aerea, agenti dell’FBI  lo fermano.  Perquisiscono il suo bagaglio. “Allora mi viene in mente! Charles Tawil! Stanno cercando i 10 mila dollari in contanti non dichiarati! “

Torchiato da Mueller,  Papadopoulos è  minacciato di 25 anni per ostruzione alla giustizia e per essere “un lobbista non registrato a favore di Israele”:  ha fatto  delle conferenze (su temi petroliferi) allo Hudson Institute, un think tank  con sede a Washington  – dove ritroviamo   i famigerati falchi neocon che, dopo l’11 Settembre, spinsero alla guerra in Irak:  da Richard Perle a Douglas Feith (uno dei tre viceministri   ebrei al Pentagono quei giorni: gli altri sono Wolfowitz e Dov Zakheim), Meyrav  Wurmser , fondatore dell’organo di propaganda israeliano  MEMRI  –  per ciascuno di questi personaggi ci sarebbe da scrivere un libro-.

Mifsud (al centro) alla Link durante la summer school in collaborazione con l’Università di Mosca. È proprio a Roma, alla Link Campus, che il 14 marzo 2016 Mifsud e Papadopoulos si incontrano per la prima volta. E quando l’anno dopo, il 31 ottobre 2017, le carte dell’inchiesta diventano di dominio pubblico Mifsud era proprio alla Link – dove coordinava attività e rapporti con l’Università Lomonosov di Mosca – ma dal giorno successivo sparisce. Non risponde al telefono, non risponde alle mail. E insieme a lui scompare il suo nome dai siti delle organizzazioni e degli enti a cui era affiliato. In questo periodo di assenza lo cercano gli americani, i russi, anche la Corte dei conti italiana che l’ha condannato in contumacia per un danno erariale, ma nessuno sa dove sia. O meglio, qualcuno sa dove potrebbe essere, ma non lo dice. E si tratta proprio della Link Campus. 

Ma dobbiamo tornare a Papadopoulos.  Frastornato,   incapace a tutta prima di capire che cosa gli sta succedendo e  di essere stato incastrato, da chi,  di fronte a precisa domanda di Mueller nega di conoscere Mifsud: per questo viene condannato da Mueller a 14 giorni di carcere e  10 mila dollari di multa  –   esattamente la cifra che aveva ricevuto dall’israeliano e che il Deep State, si può dire, si riprende.

Ma il Mueller che incrimina e sbatte in galera con tanta facilità, invece non ha incriminato Mifsud, anche quando è appurato che si tratta del personaggio-chiave iniziatore della falsa trappola contro Trump? .  Glielo hanno chiesto durante l’audizione al Senato  in cui il procuratore speciale –  anche lui fallito nel suo scopo di incastrare Trump,  ha dato  risposte tipo: “Non posso entrare in merito a questo”.

Perché?  Anzitutto perché Mifsud  – è un cognome ebraico maltese –  è  un ebreo (Mifsud è un nome arabo. Negli ultimi tre o quattro secoli, sembra essere diventato più importante nella nazione insulare di Malta).

e sicuramente lavora non solo per lì intelligence britannica e i “Five Eyes”,  e  la fabbrica del fango  anti-Trump  dei democratici, ma anche per Israele.

Poi perché, evidentemente, Mueller  continua a credere a Mifsud, lo considera un prezioso informatore suo e del suo giro anti-Trump, e si sente in dovere di proteggerlo.

Infatti Mifsud “scompare” per mesi  – mesi in cui abiterà a  Roma, come ha scoperto Il Foglio (non l’FBI  né la polizia italiana), in un appartamento affittato dalla Link Campus di Scotti & C.  –  la quale sostiene di non aver avuto più apporti col “Professore” dal 2008…

L’introvabile Mifsud? Era nascosto a Roma.
Il Professore , elemento centrale del Russiagate, dopo la sparizione è stato per sette mesi in una palazzina romana. L’affitto? Lo pagava l’università preferita dal M5s, la Link Campus. E non manca anche una società in comune: la “Link International srl”. Qui, Mifsud (primo a sinistra) all’inaugurazione dell’anno accademico 2017 della Link, pochi giorni prima di sparire. A fianco il rettore Roveda, il presidente Scotti, l’allora sottosegretario Migliore.

Adesso  – sempre a piede libero e a distanza, in teleconferenze  –   l’ebreo maltese ha “accettato” di collaborare con i nuovi procuratori (Durham ed Horowitz) del ministero della Giustizia Usa  che indagano non più sulla collusione di Trump con Putin, bensì sulla  scandalosa e ramificata operazione dei servizi “occidentali” per far passare Trump per un burattino di Putin,  utilizzando materiale che sapevano falso come il rapporto Steele o “la nipote di Putin” che Mifsud presentò a Papadopoulos a Roma.  Insomma dirà quello che vuole e terrà per sé quello che vuole.
Ora bisogna chiedersi come mai in quella Link Campus, Mifsud ha tenuto lezioni ad altissimi elementi del controspionaggio italiano insieme ad una sua collega ed agente britannica come Claire Smith.

Link Campus è l’università dove il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio lo scorso anno ha presentato il programma di politica estera del M5s e dove ha pescato la sua classe dirigente: dalla Link Campus provengono il ministro della Difesa Elisabetta Trenta e la viceministro degli Esteri Emanuela Del Re.

Come mai il Movimento Cinque Stelle, al momento di accaparrarsi il ministero della Difesa, ci mette la signora Elisabetta  Trenta che è una insegnante della Link Campus e se ne vanta  (“Fino al 2018[2] è stata vicedirettore del Master in Intelligence and Security presso il Link Campus di Roma[1], scrive su Wikipedia)  e pure la viceministro degli esteri grillina, la Del Re, anche lei della Link Campus. Insomma si vorrebbe sapere quanti agenti coscienti o incoscienti dei “servizi britannici” e genericamente “Occidentali” stiamo, come contribuenti, pagando di tasca nostra.  Le prove del coinvolgimento del gruppo Renzi-Gentiloni -Mifsud nel fabbricare  il  Russiagate anti-Donald stanno arrivando:

Link Campus University: Tempesta in arrivo dagli USA sull’Italia di Renzi

A quando la scoperta di quanti nostri altissimi  dirigenti dello spionaggio o del ministero siano “asset” , magari alla Regeni, inconsapevoli  di Londra o  Herzlya? Anche perché  la nostra gloriosa e patriottica Marina militare ci sta riempiendo di nuovi “immigrati” che hanno pagato il biglietto agli scafisti per farsi “naufragare” e “salvare” dai nostri teneri ammiragli.   I quali proclamano di agire in spregio e sfida aperta al governo italiano vigente:   perché obbedisce a Bergoglio e all’umanità, certo.

Ma con tutti questi Regeni preparati dalla Link Campus di Mifsud,   si vorrebbe esser sicuri.

2478.- Referendum 2005 sul progetto di Trattato di Costituzione europea: per i francesi, il compleanno dei non amati

Référendum du traité de Constitution européenne : l’anniversaire du mal-aimé.


Adélaïde Barba
, Etudiante en histoire et sciences politiques


Il 30 maggio, spegne le sue quattordici candele, senza dubbio con dolore e malinconia, ma non ha preso una ruga. Infatti, sebbene ormai passato, viene trascinato come una palla ad ogni elezione e rimane un capro espiatorio per gli Europhiles. Questo referendum, pochi lo hanno voluto, eppure … tutti parlano (ri). Nel periodo post-elettorale, l’anniversario del referendum francese sul trattato che istituisce una Costituzione europea (TCE) è tempestivo e non può essere più attuale in questo panorama politico dominato dalla scissione euroscettica / europea.
A questa domanda bisognava semplicemente rispondere: “Approvi il disegno di legge che autorizza la ratifica del trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa? E presentarsi ai seggi elettorali. Stranamente, il tasso di astensione era relativamente basso, raggiungendo il 30,26%. I francesi si sono precipitati alle urne per rispondere “No” al 54,87%. Jacques Chirac, allora presidente della Repubblica, reagì in modo sobrio e amaro. Disse: “Il voto crea un contesto difficile per i nostri interessi in Europa. “
Cosa ha suggerito questo famoso trattato, citato da Marine Le Pen e Nicolas Dupont-Aignan? Gli obiettivi erano chiari: istituire un presidente per l’Europa e un ministro degli affari esteri dell’Unione, rafforzare il Parlamento europeo con il controllo della Commissione e, soprattutto, riorganizzare le istituzioni europee per l’allargamento dell’Unione europea. I sostenitori, l’UMP, il PS, l’UDF, il PRG e i Verdi, sono usciti … verdi di questo referendum. Gli oppositori, la FN, la MPF, la RPF o la LO, avevano denunciato gli eccessi di questo trattato, vale a dire la perdita della sovranità nazionale a favore di un’Europa federale e la registrazione di orientamenti politici ed economici sovranazionali. Soprattutto, queste parti hanno considerato l’iniziativa dei cittadini – proposta dal TCE – come un cattivo presagio, che secondo loro sarebbe stata una finzione e non sarebbe stata presa in considerazione dalla Commissione Europea.

I cittadini contrari al trattato, secondo un sondaggio Ipsos, hanno visto un deterioramento delle condizioni di vita e hanno criticato il liberalismo esacerbato proposto da questo progetto europeo (stesso rimprovero nel 2019!). Al contrario, i sostenitori hanno elogiato una svolta che avrebbe permesso all’Unione europea di dominare la Cina e gli Stati Uniti e di adattarsi meglio al proprio allargamento.
Se questo referendum ha una cattiva reputazione, sia a sinistra che a destra, è perché è stato negato dalle politiche di firma del Trattato di Lisbona che è, sotto molti aspetti, un TCE mascherato. Mentre nel 2005 i cittadini non volevano “più Europa”, dal 2007 hanno imposto un trattato che trasforma l’architettura istituzionale dell’Unione Europea e che, di fatto, compensa la non ratifica dell’ECT.
Infine, dato l’eterno dibattito sulla questione europea, l’anniversario del referendum del 2005 dovrebbe essere celebrato ogni giorno! Macron, Merkel: colpo

2477.- L’Europe, un faux géant qui pèse si peu face à l’hégémonie américaine !

L’Europa, un gigante falso che pesa così poco di fronte all’egemonia americana!

è il titolo di oggi di Henri Gizardin, su Boulevard Voltaire, che abbiamo tradotto liberamente per <associazioneeuropalibera.wordpress.com> . L’autore tocca un tasto dolente e punta il dito sulla debolezza politica dell’Europa, Unione europea, evidenziata dalle politiche estere dei suoi membri nucleari di diritto: Gran Bretagna, Francia e aspiranti tali: Germania. La partecipazione di unità navali alla questione iraniana e il sequestro della nave “Grace 1” a Gibilterra hanno confermato questo dato, anche se, poi, si è auspicata una guida europea di quelle unità. Ma, sopratutto, conta il seguito concesso supinamente da Londra, non solo alla politica, ma alle istruzioni di Washington per la Royal Navy, nella consapevolezza, certamente certa, ma non palese, che questa politica, giusta o sbagliata non importa, viene scritta a Tel Aviv. Ancora, Gizardin, nel presupposto che per non adeguarsi supinamente alle decisioni americane o, precisiamo, sion-americane sia necessario mobilitarsi al più presto per giungere a rafforzare la politica estera europea, conclude con l’auspicio di vedere presto affermata questa autonomia attraverso quello che, naturalmente, è il braccio armato della politica estera, in questo caso, l’esercito europeo e, malignamente cita la NATO. L’autore testimonia lo stato di salute dell’Unione e lo stato del pensiero in corso a Bruxelles, al Foreign Office e al Quai d ‘Orsay, ma Gizardin non può ignorare il fatto che una politica estera comune presuppone una Costituzione europea, che non esiste e che deve essere espressione di un’unione inter pares. Ciò giustamente mette in discussione proprio la NATO, che unisce eserciti europei da mezzo secolo, ma anche qui i suoi membri non sono certamente uguali. E, poi, chiediamoci perché non stiamo iniziando a gettare le basi di un progetto dell’Unione Atlantica e in modo pragmatico, non stiamo iniziando a concepire un nuovo ordine europeo, comprensivo della Russia post-sovietica, basato sulla cooperazione e sulla cooperazione. inclusione? Si noti che questa non è un’opzione, ma una scelta, prima o poi, necessaria sopratutto per non lasciare l’intero Occidente in balia della perdita di potere evidente del dollaro. La logica di questi passi in avanti vuole, però, un Occidente con una leadership politica e non finanziaria che sia unito, dall’Alaska all’Alaska, e prima ciò sarà fatto, meglio sarà per gli Stati Uniti, per l’Europa e, non ultimo, per il Medio Oriente.

Commenter Gizardin:

Il commento a Gizardin, “Europa, un gigante falso che pesa così poco contro l’egemonia americana!” Abbastanza vero, ma … lo pubblichiamo in italiano su associazioneeuropalibera.wordpress.com perché testimonia lo stato di salute dell’Unione e lo stato del pensiero in corso a Bruxelles, al Foreign Office e al Quai d ‘Orsay, ma Gizardin non può ignorare il fatto che una politica estera comune presuppone una Costituzione europea, che non esiste e deve essere espressione di un’unione interi pares. Ciò giustamente mette in discussione la NATO, che unisce eserciti europei da mezzo secolo, ma anche qui i suoi membri non sono certamente uguali. E poi, poiché non stiamo iniziando a gettare le basi di un progetto dell’Unione Atlantica e in modo pragmatico, non stiamo iniziando a concepire un nuovo ordine europeo della Russia post-sovietica, basato sulla cooperazione e sulla cooperazione. inclusione? Si noti che questa non è un’opzione, ma una scelta necessaria sopratutto per non lasciare l’intero Occidente in balia della perdita di potere del dollaro. La logica vuole un Occidente con una leadership politica e non finanziaria che sia unito, dall’Alaska all’Alaska, e prima sarà fatto, meglio sarà per gli Stati Uniti, per l’Europa e per il Medio Oriente.

Quando le stelle avranno tutte lo stesso colore, potremo parafrasare il detto greco: “Italiani, Greci una faccia, una razza”.

Non sono un economista e proprio per questo motivo, ho spesso e ingenuamente posto la questione della dittatura economica degli Stati Uniti attraverso il dollaro, nel commercio internazionale.

Esempi recenti di ingiunzioni statunitensi, immediatamente seguite da azioni, per evitare sanzioni contro gli stati o le società che commerciano con l’Iran, in particolare la Francia, non mi lasciano meravigliare!

Ho solo pensato che un sistema di baratto tra due paesi che commerciavano bilateralmente potesse aggirare i dettami di un presidente yankee che denuncia spudoratamente gli accordi presi dal suo predecessore! E che, meglio ancora, l’Unione Europea, una grande potenza economica, e il suo euro potrebbero opporsi all’arbitrato internazionale auto-disegnato di Washington …(Se è solo di Washington.ndr)

Nonostante i suoi 514 milioni di abitanti – 448 milioni dopo la Brexit – l’Europa pesa poco rispetto ai 330 milioni di americani. Perché, nonostante il suo acronimo ufficiale, UE, l’unione non è la sua forza perché è fattiva e casuale, sebbene designata come “un’associazione politico-economica” (Nemmeno è concepibile una Unione di Stati che si presenti come una anomalia politica, per giunta, guidata da una Banca Centrale Europea PRIVATA! ndt).

Un’analisi eccellente dei suoi punti deboli è stata data precisamente in Le Figaro da un gruppo di esperti che rispondono alle mie domande ingenue.

La politica comune, in particolare il potere militare straniero e in particolare la moneta rafforzata e quindi internazionalizzata, sono i modi in cui l’Unione deve integrarsi per pesare alla pari con lo zio Sam che non si astiene dall’ “ingannarci” per il suo profitto puro e unico !

Mantengo la conclusione degli autori che invitano il nuovo Parlamento europeo: “Se non ci svegliamo, se il Parlamento non esercita pressioni sugli Stati per una maggiore sovranità e più euro, rischiamo e a lungo, di prendere decisioni americane prodotte in modo unilaterale. “

E per concludere in modo molto corretto: “Non è forse tempo che l’Europa si mobiliti finalmente per definire e attuare la propria politica estera? “

E tutti sanno che una politica estera risoluta può essere impegnata e affermata solo attraverso il suo braccio armato. E, in questo caso (cerca l’errore), è ancora la NATO!

2476.- La politica USA segue quella di Israele e l’arma migliore di Trump è Netanyahu, un razzista, mentre l’arma di Netanyahu è proprio Trump.


Benjamin Netanyahu ha fatto sottoscrivere a Trump 38 miliardi di dollari di finanziamenti per spese militari, da suddividersi in dieci anni. È evidente che la politica estera di Washington risulti vincolata.
  • La politica USA segue quella di Israele. Lo sostengono in molti e, qui, lo dice Bernie Sanders, candidato democratico alla Casa Bianca. Bernie, se per miracolo diventasse presidente degli Stati Uniti, non cambierebbe fondamentalmente l’alleanza strategica USA-Israele né sarebbe in grado di negoziare un accordo di pace finale nel Medio Oriente. Quelli di Sanders sono gli argomenti dei critici delle alleanze filo-israeliana e filo-saudita, utilizzati a scopi elettorali, ma tant’è che se ne parla. Il problema è che ci sono così tanti paesi che sono anti-Israele, anti-Israele, anti-Israele e molti altri, che, se vai a scavare, sono anti-Israele. Alla fine, la soluzione per l’americano saggio è chiudere un po ‘gli occhi. Ma l’americano più saggio rimane Forrest Gump, il personaggio di Zemeckis, seduto sulla panchina alla fermata dell’autobus di Savannah. Solo la mamma lo accetta per quello che è, e solo la piccola Jenny Curran lo fa sedere accanto a sé sull’autobus della scuola e lei lo inciterà a fuggire da tre compagnetti violenti e a correre, liberando le sue gambe dalla protesi. Fra Benjamin Netanyahu e Mohammad bin Salman Al Sa’ud, che posizione avrebbe preso Forrest? Come ha sostenuto Trump contro il Congresso che non vorrebbe vendere armamenti ad al Salman, i Sauditi finanziano con i loro acquisti l’industria americana degli armamenti, consentendole di stare al passo con lo sviluppo tecnologico impresso da Putin. Anche Israele è, sì, un ottimo cliente, ma tiene al guinzaglio la Casa Bianca, quindi, l’Occidente. Alla fine, che il presidente sia Donald Trump o sia Bernie Sanders, gli Stati Uniti sono costretti dall’alleato (padrone?) a provocare l’Iran, sostenere i Curdi, ostacolando il ritorno della pace in Siria, in tutto il Medio Oriente e lasciando molte palle goal a Recep Tayyip Erdoğan. Sopratutto, per chi crede nella necessità assoluta per l’Occidente di avviare un processo di distensione e di integrazione con la Russia, si rimanda sine die questa scelta, a tutto vantaggio delle potenze asiatiche. Lo ha dimostrato lo stop, impresso recentemente da Russia, Cina e India alle decisioni bellicose di Trump contro l’Iran, su Hormuz. Per quanto attiene alla politica estera, la propaganda dei democratici per le presidenziali è più incentrata sulla competizione economica che non sul ruolo di gendarme del mondo – peraltro, sempre più difficile da sostenere – e chiede di tagliare il bilancio della difesa nazionale in modo significativo. Bernie Sanders afferma che essere il primo presidente ebreo sarebbe “un’altra barriera abbattuta”. In che senso, bisognerà vederlo. Vedremo.
Mohammad bin Salman Al Sa’ud, 100 miliardi l’anno di spese militari. Tra gli obiettivi di Vision 2030, infatti, vi è anche l’aumento della spesa pubblica per le forze armate e per gli armamenti. Il progetto Saudi Vision 2030, annunciato nel 2016 dalla Casa saudita come principale piano per ridurre la dipendenza dal petrolio dell’Arabia Saudita e diversificare la sua economia entro il 2030, si pone anche l’obiettivo di divenire fornitore militare degli alleati della regione, migliorando le relazioni con alcuni partner che condividono la minaccia iraniana.

Bernie Sanders sostiene che avrebbe sfruttato il peso degli aiuti statunitensi contro il governo “razzista” di Netanyahu . da Haaretz.

Parlando su un podcast popolare, Bernie Sanders ha affermato che la politica degli Stati Uniti non può essere “al 100% pro-Israele” e ha paragonato Israele con l’Arabia Saudita

Bernie Sanders speaks at a Town Hall event in Los Angeles, California, July 25, 2019.
Bernie Sanders parla a un evento del municipio a Los Angeles, in California, il 25 luglio 2019. AFP
  • How Trump and Netanyahu became each other’s most effective political weapon
  • Trump vetoes congressional effort to block Saudi arms sales

La propaganda per la presidenza democratica e il senatore Bernie Sanders hanno detto giovedì di voler utilizzare gli aiuti statunitensi come strumento di pressione sul governo israeliano e che gli Stati Uniti non possono essere “pro-Israele, pro-Israele, pro-Israele”.

Parlando sul podcast popolare “Pod Save America”, Sanders è stato interrogato in merito alle critiche che va esprimendo verso il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e se avrebbe preso in considerazione l’utilizzo degli aiuti statunitensi a Israele come leva per far agire il governo israeliano in modo diverso. “Assolutamente”, ha risposto Sanders.

“Negli ultimi anni, sotto Netanyahu, avete avuto un governo di estrema destra con molte tendenze razziste”, ha detto (skip – Bernie Sanders su Pod Save America Bernie Sanders su Pod Save America).

Watch ■ How Netanyahu set up Trump’s ‘but I love Israel’ defense for racism – and anti-Semitism | Opinoin

Sanders, che menziona raramente la sua provenienza ebraica o la sua vita personale, ha parlato della sua connessione con Israele. “Ho vissuto in Israele … sono ebreo. Non sono anti-Israele”, ha affermato il senatore. “Credo che il popolo di Israele abbia assolutamente il diritto di vivere in pace, indipendenza e sicurezza”, ha aggiunto.

“La speranza per le presidenzialie del 2020 ha messo a confronto le relazioni degli Stati Uniti con Israele con quelle degli Stati Uniti con l’Arabia Saudita. “L’Arabia Saudita è una brutale e brutta dittatura … eppure sono stati un meraviglioso alleato”, ha detto Sanders (riferendosi alla guerra del Golfo, nel2003. ndr). “Quindi ciò che dobbiamo fare non è dire che siamo al 100% pro-Israele o al 100% in favore dell’Arabia Saudita.”

Il senatore ha spiegato che la politica degli Stati Uniti dovrebbe tenere in considerazione il bene dell’intera regione e “trattare il popolo palestinese con il rispetto e la dignità che merita”. Sanders ha riconosciuto la complessità del problema, citando i falliti tentativi dei precedenti presidenti degli Stati Uniti di raggiungere la pace in Medio Oriente.

Sanders, la cui campagna elettorale è più associata alla questione economica della politica estera, favorisce meno interventi statunitensi nel mondo e ha chiesto tagli drastici al bilancio della difesa nazionale.

La nostra politica non può essere solo pro-Israele, pro-Israele, pro-Israele. Deve essere la pro-regione che lavora con tutti i popoli, con tutti i paesi in quell’area”, ha detto. Sanders ha aggiunto che il ruolo degli Stati Uniti non è quello di contrassegnare interi gruppi di popoli come nemici, ma di riunire quei popoli.

“Con una mossa felice, Sanders ha elogiato il presidente Trump per i suoi sforzi di negoziazione con Kim Jong Un, leader della Corea del Nord, affermando che era “la cosa giusta da fare” – anche se sappiamo che Trump ha voluto semplicemente rompere l’accerchiamento degli USA in Asia, ndr -.

“E io, come presidente degli Stati Uniti”, ha detto, “mi siederò in una stanza con la leadership dell’Arabia Saudita, con la leadership dell’Iran, con la leadership dei palestinesi, con la leadership di Israele per martellare su alcuni dannati accordi che dovranno tentare di porre fine ai conflitti che esistono laggiù “.

The Associated Press contributed to this report

2475.- LA GUERRA CHE L’EUROPA FA ALL’ITALIA

Hans-Georg Maassen è stato rimosso un anno fa dalla guida dei «servizi segreti» tedeschi, l’Ufficio federale per la Protezione della Costituzione, dalla Merkel, dopo un suo intervento in cui contraddiceva la stessa cancelliera su un episodio di «caccia al migrante» a Chemnitz, avvenuto dopo l’ennesimo omicidio da parte di un richiedente asilo.

Ora l’ex «capo delle spie» ha dichiarato guerra al politicamente corretto che in Germania è particolarmente asfissiante. Lui si definisce «un sobrio realista che ha forti preoccupazioni per il futuro dell’Europa».

Secondo Maassen, che ovviamente ha ancora ‘amici’ all’interno della struttura dei servizi segreti tedeschi, la vicenda della Sea Watch e di Carola Rackete è stata una sceneggiata messa in piedi dalla tv pubblica Ard: quindi dal governo Merkel.

Maassen ha condiviso un articolo del sito tedesco Journalistenwatch, in cui si parlava della presenza a bordo della Sea Watch di una troupe della televisione pubblica tedesca, e in cui si avanzava l’ipotesi che tutto fosse stato preparato: si doveva forzare l’apertura dei porti italiani e causare un incidente che mettesse in difficoltà Salvini.

Ed è questa ipotesi che l’ex capo dei servizi segreti tedeschi approva. Probabilmente lui sa che dietro le ong tedesche e quelli francesi ci sono apparati dei due Stati. E che quella contro l’Italia è una guerra asimmetrica.

Non casualmente, dopo questa rivelazione, il sito è stato punito dal governo tedesco con il ritiro della classificazione di ente no profit per il suo editore. 

LA GUERRA CHE L’EUROPA FA ALL’ITALIA

Maurizio Blondet  27 Luglio 2019  

L’ex capo dei Servizi tedeschi accusa la SeaWatch3: “Sulla nave c’era la Tv tedesca. È stato un attacco preparato contro l’Italia”.  Secondo Hans-Georg Maassen (foto), è stata una sceneggiata messa su dalla tv pubblica Ard: cioè dal governo Merkel per mettere in difficoltà Salvini